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Quell’inaccettabile silenzio mediatico sulla sorte del popolo curdo, tradito dall’Ue in nome della Nato

NATO Secretary General Jens Stoltenberg, right, welcomes Turkish President Recep Tayyip Erdogan at the official arrivals for the NATO summit in Madrid, Spain, on Wednesday, June 29, 2022. North Atlantic Treaty Organization heads of state will meet for a NATO summit in Madrid from Tuesday through Thursday. (AP Photo/Bernat Armangue)

Da alcune settimane il sistema politico e gli organi di stampa fingono di dimenticare l’esistenza stessa delle curde e dei curdi. Noi di Left, che abbiamo sempre dato voce alla loro aspirazione di liberazione e autodeterminazione, non a caso ne parliamo, continueremo a seguirne le complesse vicende. Soprattutto ora, perché è a rischio la straordinaria esperienza di lotta e governo del Rojava, perché la rete del confederalismo democratico rischia di essere spazzata via, dopo l’infame memorandum tra Erdoğan, Nato, Svezia, Finlandia. In questi giorni, nel Medio Oriente, in quanto incide profondamente sugli assetti di potere e militari, il tema è centrale. Mentre in Europa è rimosso, anche per vergognosa ipocrisia.

Della situazione ha parlato, qualche giorno fa, Hisyar Ozsoy, vice copresidente e importante portavoce di Hdp, il partito turco di opposizione, represso brutalmente da Erdoğan, rappresentante di centinaia di comuni turchi, con altissime percentuali di voti in alcune zone. Il pensiero di Ozsoy è che Erdoğan sta cercando di «militarizzare ulteriormente la questione curda, facendone, ipocritamente, una questione Nato» (cioè anche europea e italiana). Ora anche Svezia e Finlandia hanno il loro “problema curdo”, dopo aver firmato il Memorandum trilaterale con la Turchia al vertice Nato, a Madrid il 28 giugno. Non sottovalutiamo un tema fondamentale: l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato sarà ancora un lungo processo. Tutti gli Stati membri della Nato, infatti, dovranno votare nei propri Parlamenti per approvare l’ammissione. Noi di Left saremo, ovviamente, in prima fila, con la nostra informazione e formazione, per favorire, nel Parlamento italiano, l’aggregazione di una opposizione al Memorandum/ricatto di Erdogan e Stoltenberg, che sacrifica il popolo curdo per motivi di potenza, di accumulazione finanziaria, per interessi geopolitici.

È fondamentale, in questo quadro, continuare la lotta, anche giuridica, presso la Corte del Lussemburgo, affinchè il Pkk sia cancellato dall’elenco delle organizzazioni terroristiche. Così come è decisivo continuare a sostenere la resistenza delle Ypg e del Pyd, eroici e, soprattutto, eroiche combattenti che stanno contrastando la conquista, da parte dell’esercito turco, di intere regioni dell’Iraq e della Siria. Il portavoce dell’Hdp assegna un ruolo fondamentale alla solidarietà internazionale: «Dovrà continuare a fornire supporto attraverso strutture civili, organizzazioni umanitarie, appoggi, anche materiali e finanziari, all’Amministrazione autonoma eroica del Rojava e alle forze democratiche siriane (Sdf)». Insomma, tenta di farci capire Ozsoy, la situazione è complessa, ma occorre impegnarsi da subito perché non tutto è perduto.

«La Turchia, come sappiamo, non ha una separazione dei poteri; ma la Svezia sì. Il governo svedese non può semplicemente dire ad un tribunale di estradare questa o quella persona. I tribunali non possono lavorare per ordine del governo. Ad esempio, se due membri del governo svedese tentassero di estradare Ragip Zarakolu, il governo cadrebbe. Con gravi ripercussioni. Non è così semplice». Ozsoy sottolinea anche che diverse persone per le quali la Turchia chiede l’estradizione hanno completato le procedure di asilo ed ora sono cittadini svedesi completamente naturalizzati. La loro estradizione non è più possibile. «La Svezia ha una piccola ma vivace comunità curda di circa centomila persone, molte delle quali sono da Erdoğan politicamente perseguitate. Ma diversi cittadini svedesi di origine curda sono attivi in politica a vari livelli». Richiama noi europei, noi italiani all’impegno ed al controllo democratico.

“L’agenda Draghi” è fuffa

Ci si accorge che è iniziata la campagna elettorale perché con molta scioltezza si possono pronunciare mastodontiche sciocchezze riuscendo a restare seri e ambendo a essere riconosciuti come i più seri del gruppo. Dalle parti del centrosinistra qualche astuto stratega deve avere pensato che visto il tempo ridotto di campagna elettorale da qui al 25 settembre convenga impostare come leitmotiv di queste settimane il lutto per la caduta di Draghi e il suo logo come mantello di credibilità. Così già nella giornata di ieri abbiamo potuto ascoltare “l’agenda Draghi” come bussola dell’agire politico, questa è la promessa buttata come amo agli elettori ancora storditi dagli ultimi eventi.

Di “agenda Draghi” parla da sempre Carlo Calenda – che con il suo partito Azione ha già spiattellato una ventina di punti programmatici riassumibili in uno solo: smantellamento dello Stato sociale – e “agenda Draghi” ripete pappagallescamente Luigi Di Maio, abituato a pochi concetti da ripetere con furore nella speranza che prima o poi arrivino. Inutile dire che “l’agenda Draghi” sia la bussola anche di Gelmini e Brunetta – incoronati nuovi leader per la profondissima teoria “del nemico del mio nemico che quindi diventa mio amico” – e, sarà un caso, di tutti quelli che hanno avuto un ruolo di governo all’ultimo giro.

Ieri sera ospite a La7 il segretario del Partito democratico Enrico Letta ha ripetuto con forza il concetto: «Ci proporremo agli italiani per proseguire il lavoro politico del governo Draghi irresponsabilmente fatto cadere da forze populiste contro il volere degli italiani». La frase è interessante per diversi motivi. C’è dentro, ad esempio, il consapevole svilimento del Parlamento con la solita formula del “gli italiani sono con noi” – la stessa che giustamente abbiamo contestato a Salvini e Berlusconi per anni – che punta su una legittimazione che non passi dalle urne (questo Parlamento, nonostante sia orribile, è l’unica espressione degli italiani, secondo la Costituzione) e che risulta sempre pericolosa, soprattutto in mano agli altri. C’è dentro soprattutto “l’agenda Draghi” come se fosse un progetto politico.

Qui sorge il dubbio. Ma come? Ma non si era detto che il governo Draghi fosse un governo “tecnico” di “unità nazionale”? Come può essere faro politico un governo che – giustamente – non prendeva mai nessuna posizione sui diritti perché non era compito suo? Se Draghi era stato chiamato per mettere a terra i conti del Pnrr e uscire dalla pandemia – compiti importantissimi ma non politici – significa che questo è il timone per i prossimi 5 anni? L’aspirazione politica è quella di mettere in piedi un governo che sappia far di conto?

Ma il cortocircuito più evidente è che un pezzo del centrosinistra ripetendo allo stremo questa favola (che è fuffa) dell’agenda Draghi sta confessando che per i prossimi 5 anni ha come slancio politico l’amministrazione da banchiere centrale dello Stato. Sicuri che funzioni? Oppure l’agenda Draghi non è un modo ma è un luogo e allora diventa tutto più chiaro. Dire “agenda Draghi” è la scorciatoia per non essere troppo impudichi e parlare di “area Draghi” ovvero mettere insieme tutti i partiti che hanno sostenuto quel governo tranne – come ripetono Letta e Di Maio – quelli che l’hanno fatto cadere. Allora diventa facilissimo interpretare le contorte dichiarazioni: un governo con dentro il Pd, con Calenda, con Renzi, con Fratoianni e Bersani (ma davvero?), con Di Maio e immancabilmente con Brunetta, Gelmini e berlusconiani e leghisti pentiti e contriti.

Vedete, basta mettere in fila i nomi per immaginare il sapore che avrebbe. Sicuri di voler apparecchiare una roba del genere?

Buon venerdì.

Giù le mani dall’acqua pubblica del “modello Napoli”

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 26-03-2011 Roma Interni Manifestazione per l'acqua pubblica, contro la guerra e contro il nucleare Nella foto Un momento della manifestazione Photo Roberto Monaldo / LaPresse 26-03-2011 Rome Demonstration for the public water, against the war and the nuclear In the photo A moment of demonstration

Da mesi procede “la guerra dell’acqua”: un tentativo mal celato di eliminare definitivamente l’anomalia meridionale della gestione pubblica dell’acqua a cominciare da Napoli, che grazie all’azione incisiva dell’ex sindaco de Magistris ha dato forza all’Azienda speciale Abc (Acqua bene comune), facendo così di Napoli l’unica metropoli italiana a rispettare ed applicare il risultato del referendum popolare del 2011 e funzionando anche come stimolo ed esempio per tanti piccoli Comuni che ancora oggi gestiscono “in house” le loro reti idriche nell’interesse dei loro cittadini.
Non a caso la mappa del tipo di gestione di questo preziosissimo bene comune, si riflette in una ben precisa distribuzione territoriale. Infatti, per ora, la cessione delle fonti pubbliche alle multiutility nazionali e internazionali non è riuscita a attecchire con forza oltre il Sud pontino.

La guerra dell’acqua però resta in corso e in Campania da 7 anni i sostenitori principali delle privatizzazioni sono il presidente della Regione De Luca e il suo alter ego Bonavitacola.
La scelta sull’acqua fra pubblico o privato, è quindi diventata un vero e proprio valore qualificante tra chi ha una visione della società volta alla valorizzazione e difesa dei beni comuni e chi invece vuole tornare indietro, con sistemi di privatizzazione che sono ormai riconosciuti come dannosi in mezza Europa.

Ora dietro le quinte la pressione politica e istituzionale a favore delle privatizzazioni sta diventando sempre più insistente. Il sopravvenuto rischio siccità in Pianura padana, con lo svuotamento del letto del Po ha spinto verso un’accelerazione nel picconamento del “sistema Napoli”. Dato che l’acqua è vista come un nodo strategico anche dell’infrastruttura energetica nazionale interconnessa e la sua privatizzazione o meno diventa simbolo di uno scontro tra visioni contrapposte dell’Italia di domani.
Smantellata l’Abc che serve una quota significativa della popolazione meridionale, la prossima privatizzazione di tutte le reti idriche locali al Sud avverrebbe con un veloce effetto domino. Nel momento in cui player come Acea, Hera, Gori, A2A, Veolia, Suez ecc. riuscissero ad avere il totale controllo della rete, da Nord a Sud, nessuna istituzione pubblica avrebbe più alcun potere contrattuale e forza per calmierare il mercato per gli anni a venire.

L’approccio diventa ancor più inaccettabile laddove nelle classi dirigenti si sta facendo strada una soluzione strumentale, ancora una volta ai danni del Sud.
Se la crisi siccità al Nord dovesse protrarsi, la soluzione verrebbe individuata nel travaso dalle falde acquifere meridionali, che almeno per ora non risentono del problema dell’inaridimento dei corsi fluviali e della salinizzazione delle acque dolci, come purtroppo sta avvenendo in forme drammatiche sul delta del Po e anche in altri fiumi del Nord.
L’unica soluzione per tamponare questo fenomeno ormai inarrestabile sarebbe progettare degli impianti di desalinizzazione, per trasformare l’acqua marina in acqua dolce. Una prospettiva non più rinviabile, necessaria per la sopravvivenza dell’industria primaria e secondaria. Tuttavia, come sempre, l’Italia sul tema si è fatta trovare impreparata, dato che per costruire un impianto adatto e collegarlo alla rete idrica servono tra i 3 e i 5 anni, un tempo d’attesa che con la situazione attuale non abbiamo.

Sfruttare le sorgenti meridionali per approvvigionare le regioni settentrionali è un’operazione tecnicamente possibile e anzi, altamente remunerativa per un gestore privato chiamato in soccorso di territori in stato d’emergenza.
Ovviamente in condizioni di emergenza nessuno potrebbe negare una mano tesa ai territori settentrionali in difficoltà, nel rispetto del principio di solidarietà costituzionale.
Tuttavia c’è un “però” grande come una casa.

L’acqua prima che un bene comune è anche una fonte di energia. È possibile approfittare di risorse strategiche per i singoli territori continuando volutamente a dimenticare di definire i Lep (Livelli essenziali di prestazione), che sono ormai l’unica seppur parziale misura di equilibrio e pari opportunità tra regioni? Se prescindiamo dall’aspetto dell’accesso all’acqua, diritto inalienabile di qualsiasi essere umano che non dovrebbe in alcun modo essere subalterno al libero mercato e alle speculazioni, e ci focalizziamo sull’acqua come risorsa energetica e quindi economica, per un Paese e per un territorio, senza i Lep in vigore e con l’Autonomia differenziata in dirittura d’arrivo, qualsiasi forma di solidarietà si trasformerebbe immediatamente in un saccheggio dissimulato. In una nuova forma di colonialismo con condizioni predatorie come sempre unidirezionali.

I Lep nel disegno federalista che ormai i leghisti e la lobby del Nord hanno imposto al Paese grazie all’azione del governo Draghi e in modo del tutto trasversale alle forze parlamentari (non si spiegherebbe diversamente come il progetto Autonomia differenziata sia sopravvissuto indenne a ben 7 governi diversi ), sono la bussola su cui saranno misurate tutte le forme di finanziamento dello Stato centrale e guarda caso sono stati “messi in soffitta” da anni, non essendo nemmeno mai stati definiti, e ancora per anni vorrebbero tenerli in soffitta. Ragionare di crisi climatica ed energetica in un Paese profondamente diviso e diseguale come l’Italia non può più essere fatto se prima non sono chiare le regole del gioco.

Lo strumento per gestire queste ed altre future crisi e calamità naturali imposte dal cambiamento climatico esiste: è il Piano energetico nazionale (Pen), che l’Italia avrebbe dovuto redigere subito dopo i referendum contro il nucleare. Un Pen sostenuto dal basso da 21 Piani energetici regionali (Per), per le peculiarità territoriali.
È stato creato addirittura un ministero della Transizione ecologica, ma colui che lo gestisce ha iniziato a negare l’urgenza del l’innalzamento delle temperature, fa la guerra agli ambientalisti e ha proposto soluzioni vecchie di 40 anni, come il ritorno al nucleare e al fossile, mentre tutto tace subdolamente sulla “questione acqua”.
Il cambiamento climatico ci impone un cambio di paradigma, organizzativo, politico ed economico. Bisogna unirsi e lottare perché al più presto vengano abbandonate le tentazioni suprematiste regionali. Per il Mezzogiorno è quindi urgente avere una rappresentanza politica a schiena dritta. Solo così possiamo allontanarci dalla vocazione colonialista e predatoria tipica di una certa classe dirigente nord centrica.
Se non evolviamo presto verso una riscrittura delle priorità, i prenditori privati hanno individuato un nuovo bene da saccheggiare a danno delle classi più deboli del Sud come del Nord: l’acqua.

Nella foto: manifestazione per l’acqua pubblica, Roma, 26 marzo 2011

No, ora non arriverà il diluvio

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 20-07-2022 Roma (Italia) Politica Senato - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Mario Draghi Nella foto Mario Draghi lascia l’aula prima della chiama 20-07-2022 Rome (Italy) - Government crisis - Senate - Communications from the Prime Minister Mario Draghi In the pic Mario Draghi

La peggiore legislatura di sempre ci regala un’altra giornata di schianti e di schiantati, preparando il terreno – per fortuna – per rinnovare un Parlamento che in cinque anni raramente si è dimostrato all’altezza del proprio compito, fuori e dentro dall’Aula.

Ma non arriverà il diluvio, no. Questo Paese, nonostante molti ce l’abbiano messa tutta per convincerci, non si salva per una persona sola e non dipende in tutto e per tutto dal “salvatore della patria” eletto davanti al caminetto di questa o quella corporazione. Rendere Draghi il testimonial dell’autorevolezza italiana è stato il primo errore dei presunti “amici” di Draghi che hanno contribuito non poco al suo declino. Il trucco di fare passare per “tecnico” un uomo in un apicale ruolo politico ha contribuito ancora di più allo scollamento tra il presidente del Consiglio e il Parlamento. Questa distanza è un difetto, non una virtù. I vari Calenda e Renzi, solo per citarne alcuni, che nei giorni scorsi invitavano Draghi a presentarsi in Senato per prendere a sberle il Parlamento devono capirne poco di come funziona la politica: «o così o ciccia!», sbraitava Calenda. Quelli hanno scelto Ciccia. Del resto un presidente del Consiglio rimane in carica perché ha la fiducia del Parlamento, perché siamo una repubblica parlamentare e perché i partiti reggono il gioco.

Ma il disastro di ieri ha molti padri e molte madri. Da oggi partirà il gioco di scaricare il barile sul partito avversario, additandosi come l’un l’altro per provare a uscire più puliti. C’è la responsabilità di chi ha creduto che questo centrodestra fosse un centrodestra potabile solo perché gli serve per fare pressione sul centrosinistra. Non c’era bisogno del voto di ieri per conoscere la natura della Lega e di Forza Italia. Se stanno insieme ci sarà un perché, recitava quella famosa canzone, e abboccare agli Zaia o ai Giorgetti per ammantare di serietà la Lega è una stolta strategia che è arrivata al capolinea. A proposito, complimenti anche a quelli che hanno riabilitato Silvio Berlusconi.

Come fa notare Nicola Carella su twitter «stando ai sondaggi elettorali, comunque, a ottobre, esattamente 100 anni dopo la marcia su Roma gli eredi politici del partito fascista potrebbero essere il primo partito italiano (peraltro con una percentuale più alta di quella che prese l’anno prima lo stesso Mussolini)…». Si badi bene: qualche mese in più di governo Draghi non avrebbe cambiato le cose. Mentre la politica appariva “sospesa” con questo governo e mentre il centrosinistra si preoccupava di “dover proteggere Draghi” (cit. Enrico Letta) le istanze del Paese sono diventate terribilmente più urgenti. Sentire che “con la caduta di Draghi sfuma l’agenda sociale” significa non avere nessuna contezza della realtà qui fuori. Non è un caso che le prime reazioni siano scomposte e sfortunate: Letta dice che il Parlamento “ha votato contro gli italiani” (frase molto pericolosa), Calenda se la prende con i populisti e poi da consumato populista dice che vanno “cancellati”, e via così, in una catena di insulti che solleticano solo gli amichetti su Twitter.

No, non arriverà il diluvio. Com’è sempre accaduto in questa martoriata Repubblica si voterà ancora – le elezioni non sono mai una cattiva notizia – e ancora una volta, l’ennesima, i numeri delle elezioni mostreranno chiaramente che l’apnea di questa legislatura ci ha fatto scambiare per statisti degli inetti, ha nascosto bisogni reali del Paese e ha escluso una fetta di gente che, ahiloro, vota come tutti gli altri.

Adesso aspettiamoci il solito peggio: il voto utile, l’arrivo delle destre (con cui questi hanno governato e che hanno leccato), l’autorevolezza (con cui non si pagano le bollette) e tutta la solita retorica. Preparandosi ancora a dover scegliere tra una destra che ha intrattenuto relazioni con formazioni neofasciste e una destra liberista che vorrebbe fingere di essere centrosinistra.

Buon giovedì.

Libertà, eguaglianza, fraternità e trasformazione

Care lettrici e cari lettori,

questo è l’ultimo numero di Left in formato settimanale. Torniamo prossimamente con un progetto editoriale più ricco e innovativo, con un mensile cartaceo, i libri di Left, le newsletter, e un nuovo piano digital first.

Questa trasformazione è stata ideata dall’editore Matteo Fago per costruire una collettività sempre più estesa di persone che leggono Left «come strumento per trovare nuovi spunti di ricerca e di pensiero», per comprendere il senso profondo della realtà e «riuscire a costruire nessi che permettano di avere una visione del mondo nuova e diversa». In questo modo Left sarà ancor di più il luogo di incontro delle idee innovative per una ricostruzione della sinistra.

Grazie per averci sostenuto e accompagnato in questi primi, meravigliosi, 16 anni di storia del giornale. Siamo certi che vorrete continuare a farlo seguendoci in questa importante scelta di rinnovamento e rilancio.

“Libertà, eguaglianza, fraternità e trasformazione” saranno le nostre parole guida.

Viva Left!

L’articolo è tratto da Left del 22-28 luglio 2022 

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La crisi sociale e il Paese reale

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 20-07-2022 Roma (Italia) Politica Senato - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Mario Draghi Nella foto Mario Draghi 20-07-2022 Rome (Italy) - Government crisis - Senate - Communications from the Prime Minister Mario Draghi In the pic Mario Draghi

Attraversiamo una fase straordinaria che riserva eventi che trasformano il quadro economico politico e sociale. Una crisi pandemica che va avanti ormai da oltre due anni, il conflitto in Ucraina che prosegue e sul quale non si intravede nessuna vera e forte iniziativa per raggiungere l’obiettivo della pace, la crisi climatica che sta accelerando i suoi effetti, come dimostra la siccità che sta mettendo a dura prova il nostro Paese. Una fase cioè dove, citando Bauman, l’unica certezza è l’incertezza. In questo quadro c’è invece qualcosa, purtroppo, di certo ed evidente ed è la crisi sociale, che certamente si aggraverà nei prossimi mesi, e le profonde disuguaglianze che attraversano il nostro Paese. E la cosiddetta questione sociale è evocata un po’ da tutti (partiti, media, opinionisti vari) soprattutto nelle ore di instabilità politica e istituzionale, quasi come vi fosse una improvvisa assunzione di consapevolezza collettiva della necessità e dell’urgenza di intervenire. Poiché da tempo la Cgil e il sindacato confederale tutto sottolineano la gravità della situazione verrebbe da dire… Benvenuti nella realtà! O meglio… Dove eravate?

La crisi sociale e l’aumento delle disuguaglianze infatti non sono eventi improvvisi. Si sono stratificati, aggravati dalla pandemia e oggi dagli effetti del conflitto. Frutto di scelte sbagliate, a partire dal lavoro, che sono la radice profonda dell’impoverimento dei salari, prima fra tutti la precarizzazione del lavoro, la sua mercificazione e la riduzione di diritti e tutele. Ma per contestualizzare meglio, vorrei fare alcuni esempi che mi inducono a dubitare della reale comprensione della drammaticità della situazione e soprattutto della reale volontà di affrontarla, almeno di una parte di coloro che strumentalmente la stanno usando nel dibattito pubblico e nel dibattito politico.

I dati ci indicano inesorabilmente mese dopo mese il disastro sul versante occupazionale: precarietà e lavoro povero che rompono tutti i record in particolare tra i giovani e le donne, un quadro ormai strutturato. Eppure nonostante tutte le evidenze, non si muove niente per cambiare le leggi sul lavoro che hanno favorito la precarietà nel nostro Paese (se ci fosse bisogno di qualche idea, ricordo che è depositata in Parlamento la Carta dei diritti, la legge di iniziativa popolare sulla quale la Cgil ha raccolto milioni di firme) o per mettere in campo un piano straordinario per l’occupazione, avendo come orizzonte la piena e buona occupazione. Anzi, al contrario, assistiamo a un dibattito sociologico sui giovani che non accettano lavori sottopagati e sfruttati (pay them more, verrebbe da dire), o alternativamente alla soluzione che i partiti di destra propongono a manetta negli ultimi mesi in qualunque provvedimento normativo passi dalle Camere, cioè il ritorno dei voucher, mercificazione ulteriore del lavoro, rispondendo così alla precarietà con la ultra precarietà. Manca a questa breve rassegna, la contrapposizione strumentale del reddito di cittadinanza al lavoro. Nel momento in cui tocchiamo anche il record di poveri assoluti, quasi il 10% della popolazione, c’è chi – una forza politica – decide di raccogliere le firme per cancellare il reddito di cittadinanza, quasi che la povertà sia una colpa, invece di correggerne le distorsioni e migliorarlo.    

Il secondo esempio riguarda l’impoverimento dei salari e delle pensioni. L’aumento dell’inflazione, a causa dei prezzi dei beni energetici schizzati per il conflitto in Ucraina, tocca l’8% a giugno e picchia duramente sui redditi bassi e medio bassi. Anche in questo caso dobbiamo ricordare che non è tema nuovo: sul versante salariale il quadro di progressivo impoverimento trova le sue cause da un lato nella precarietà e nella competizione svalutativa sul lavoro – determinata nel nostro Paese dalle leggi che l’hanno favorita- e dall’altro nella disuguaglianza fiscale e nella assenza di politiche fiscali di redistribuzione della ricchezza. Anche in questo caso i fatti vanno in direzione diversa rispetto alle intenzioni. Cgil e Uil a dicembre scorso hanno proclamato uno sciopero generale per rivendicare una riforma fiscale progressiva e per contrastare l’intervento fiscale previsto in legge di bilancio che, paradossalmente in una fase in cui l’inflazione stava già crescendo, dava di più a chi aveva redditi più alti. Ma se ciò non fosse sufficiente, la Camera, solo poche settimane fa ha licenziato la legge delega fiscale che congela e aggrava tutte le disuguaglianze in essere impedendo qualunque intervento progressivo e redistributivo.

Adesso in un quadro peggiorato dall’inflazione diventa necessario ed urgente rivedere questi interventi e accompagnarli con uno strumento che fin da subito sostenga e difenda sul versante fiscale il potere di acquisto di lavoratori e pensionati come chiesto dalla Cgil e aprire concretamente la discussione sul salario minimo e sulla legge sulla rappresentanza per mettere fuori gioco i contratti pirata. Infine più che di una rimozione, parlerei di negazione per quello che riguarda la riconversione verde e le politiche industriali che la devono accompagnare. Stiamo parlando di migliaia di posti di lavoro da difendere, da riconvertire e da creare. Questo tema non è proprio pervenuto nelle scelte economiche messe in campo dal governo ed è particolarmente grave in un quinquennio dove grazie alle risorse del Pnrr dovremmo trasformare la specializzazione produttiva del Paese. Anche in questo caso la guerra ha amplificato il problema sul versante energetico e oggi ci troviamo ad affrontare questa fase con alle spalle mesi di balbettii, ambiguità e inerzie dei due ministri che avrebbero avuto la responsabilità al contrario di gestirla con decisione. Questi temi non esaustivi ma prioritari nel perimetro della questione sociale – da aggiungere sicuramente la difesa e il potenziamento dell’istruzione e della sanità pubblica, la riforma delle pensioni, la vertenza sulla salute e sulla sicurezza sul lavoro – sono le richieste e le proposte che abbiamo fatto durante questi ultimi mesi.

Bisogna agire con urgenza, non solo evocare le questioni. Non sappiamo mentre scriviamo cosa accadrà in merito alle dimissioni del presidente del Consiglio e alla discussione parlamentare che seguirà. Possiamo invece affermare con certezza che non dare risposte concrete ai bisogni e alle esigenze e aspettative delle persone, non mettere al centro dell’agenda politica – qualunque sia la sua ampiezza temporale, pochi mesi o una legislatura – il lavoro e la questione sociale non può che allargare la distanza con le istituzioni, oltre che con le forze politiche di una parte consistente dei cittadini e delle cittadine. La nostra organizzazione non intende arretrare su questo merito, evocando pomposi quanto vacui contenitori. È la sostanza delle scelte che ci interessa. Quello che serve è assumere concretamente questi temi come strategici sia per l’emergenza delle condizioni materiali di lavoratori e pensionati, ma anche per la costruzione di un orizzonte diverso, un nuovo modello di sviluppo basato sul lavoro di qualità, sulla cura delle persone e dell’ambiente. Questo ci chiedono le persone che rappresentiamo. E la Cgil sta sempre dalla stessa parte: dalla parte dei lavoratori delle lavoratrici, dei giovani, le donne e i pensionati e le pensionate di questo Paese.

 

* L’autrice: Gianna Fracassi è vice segretaria generale della Cgil

L’articolo è tratto da Left del 22-28 luglio 2022 

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“Io sono Giorgia”, la nemica del popolo

Dapprima fu hit: «Io sono Giorgia: sono una donna, sono una madre, sono cristiana». Era il 19 ottobre 2019 quando la leader di Fratelli d’Italia pronunciò queste parole dal palco della manifestazione del centrodestra a Roma. Di lì a qualche giorno sarebbero state remixate, caricate sulle principali piattaforme social, con milioni e milioni di visualizzazioni. E Giorgia Meloni sarebbe diventata fenomeno pop. Tale fu il successo che la stessa Giorgia Meloni quel Io sono Giorgia l’ha scelto come titolo del libro autobiografico edito nel 2020 da Rizzoli.

Poi arrivò Marbella, Spagna. È il giugno 2022 e Meloni interviene a una manifestazione elettorale di Macarena Olona, candidata alla presidenza dell’Andalusia per Vox, partito dell’ultradestra spagnola. Anche qui urla: «No alla lobby Lgbt! No violenza islamista! No all’immigrazione! No alla grande finanza internazionale! Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt, sì alla identità sessuale, no alla ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no a quella della morte, sì ai valori universali cristiani!». Il video delle sue parole fa il giro dei social. Arriva sui media mainstream. Diventa parodia. Stavolta le critiche sono numerose. Meloni oscurantista, complottista, reazionaria. Ma il fatto chiave è la centralità mediatica e politica guadagnata dalla leader di Fratelli d’Italia..

E chi la sfida lo fa scendendo sul terreno scelto dall’ex ministra della Gioventù (2008-2011) del governo Berlusconi. Che è quello della identity politics, la politica delle identità. Il terreno su cui la destra, italiana e internazionale, si sente forte, attacca e poi passa all’incasso dei dividendi. Per farlo si spaccia per depositaria del senso comune, si vanta di una connessione sentimentale col popolo, a differenza della sinistra da Ztl, votata ormai solo dalla buona borghesia, dagli intellettuali e dai radical chic. Le stesse critiche piovute su Meloni dopo il discorso di Marbella non ne contestano la cornice discorsiva e politica, ma – anzi – la rafforzano. Prendiamo ad esempio le parole di Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Pd: «Parole d’ordine fasciste e un passato che non è mai passato», così ha definito il comizio di Marbella. Attaccare Meloni perché “fascista” semplicemente non funziona: rafforza opinioni pregresse, non smuove nulla. C’è una parte di popolazione cui Meloni piace proprio per il richiamo più o meno implicito al fascismo e, un’altra, probabilmente oggi pezzo maggioritario del consenso a FdI, cui la questione del fascismo interessa zero. Additare Meloni come “fascista” serve solo a rafforzare la narrazione che ti vuole come forza antifascista. E qui siamo a un “frame” narrativo che il Partito democratico pone come aut-aut: o il fascismo di Meloni o l’argine antifascista del Pd.

Siamo tutti antifascisti ma rimanere sul terreno scelto dall’avversario è una strategia perdente. Bisogna muoversi su un altro campo. Come quello che ci offre l’intervista rilasciata il 12 luglio da Giorgia Meloni al Sole24ore. È lì, sul giornale degli industriali, che Meloni snocciola in poche frasi buona parte del programma economico del suo partito. Già l’apertura è cristallina: «Confindustria ha proposto un taglio del cuneo fiscale di 16 miliardi di cui due terzi ai lavoratori e un terzo alle imprese; è anche la nostra proposta».

Nel dibattito sui salari da fame, cioè sulla condizione di gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici del nostro Paese, Meloni non fa nemmeno lo sforzo di elaborare un punto di vista autonomo. Copia direttamente il principale punto programmatico di Viale dell’Astronomia.

Ancora una volta la ricetta è quella dello sconto alle imprese, che risparmierebbero cifre notevoli con sommo gaudio di Carlo Bonomi & Co. Muta, invece, Meloni sul fronte dell’introduzione di un salario minimo e su quello di politiche che permettano di abbattere la precarietà. Una piaga che per Fratelli d’Italia non esiste, visto che non ne parlano mai. Eppure, sotto il governo Draghi, i lavoratori precari hanno raggiunto il record assoluto della storia repubblicana: oggi sono ben 3.175.000, numeri mai visti prima.

E come finanzierebbe Giorgia Meloni questa riduzione del cuneo fiscale? «Dall’inizio dell’emergenza Covid abbiamo speso 200 miliardi in deficit, crede davvero che non si potevano trovare 16 miliardi per il cuneo?». La soluzione è dunque un altro po’ di deficit, altro debito. Perché di politiche redistributive nel programma di Fratelli d’Italia e nei comizi di Meloni non c’è nemmeno l’ombra. Per loro anche i megaprofitti che stanno incamerando le aziende di settori in ottima salute – farmaceutica, energia, logistica, ecc. – sono sacri e inviolabili. Quel principio, previsto finanche dalla Costituzione repubblicana del 1948, secondo cui chi più ha più deve pagare per provare a rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza sostanziale dei cittadini e delle cittadine, non è nel Dna dei fratelli tricolore.

E, in effetti, già dalla convention di Milano di qualche mese fa, Daniela Santanché sostenne la necessità di una flat tax, alla faccia della progressività della tassazione, e Meloni propose la detassazione delle «risorse che i nonni danno ai nipoti per sostenerli». Come se in Italia le eredità non fossero già state sostanzialmente detassate dai governi Berlusconi. Se Meloni fosse “amica del popolo” dovrebbe preoccuparsi meno di chi eredita patrimoni milionari e più di chi eredita poco o nulla. Siamo un Paese in cui la mobilità sociale è bloccata. In cui il sogno del figlio dell’operaio che diventa dottore va riposto nel cassetto, perché è sempre più una chimera. Invece propone una misura che mantiene i privilegi dei suoi veri riferimenti sociali: la minoranza di ricchi.

Nella stessa intervista al Sole24ore, Meloni non si lascia scappare l’occasione di un affondo contro il reddito di cittadinanza. Si sa, prendersela con una delle poche misure a sostegno delle fasce più povere è una moda che non conosce stagioni: «Si continuano a gettare miliardi su una misura fallimentare come il reddito di cittadinanza oltretutto fonte di abusi». Fratelli d’Italia assume così, ancora una volta, il punto di vista dell’imprenditoria italiana, sempre pronta a puntare il dito contro il reddito di cittadinanza come causa di ogni male del sistema produttivo. Ma Meloni & Co. vanno oltre: propongono di continuo di dare i fondi oggi usati per il Rdc direttamente alle imprese, ad esempio, per «dare una riduzione del carico fiscale a chi assume» – proposta del “prof. Antitasse” (Il Foglio dixit) Maurizio Leo, avanzata alla convention di FdI di fine aprile: in sintesi, alla nostra gente la “fame”; agli imprenditori ancora regali.

Da FdI mai una parola è invece arrivata per porre in dubbio l’effettiva utilità dei 22 diversi incentivi all’assunzione di lavoratori, costati ben 20 miliardi di euro nel solo 2021 e che hanno prodotto per lo più lavoro precario, part-time, pagato una fame. Quando i soldi vanno agli imprenditori non si discute; quando arrivano alle fasce popolari urlano e sbraitano. Così si comportano i cani da guardia dell’imprenditoria italiana.

FdI, alla pari dell’estrema destra in tutta Europa, è espressione degli interessi della minoranza ricca e privilegiata nelle nostre società. Farsi ingaggiare nella cosiddetta identity politics fa esattamente il loro gioco. Permette loro di occultare il carattere anti-popolare del loro progetto e gli permette di atteggiarsi a forze espressione della pancia dei nostri popoli. Dobbiamo fare tutto al contrario rispetto a come certa sinistra ha fatto finora. Inchiodarli. Ma evitando di giocare solo di rimessa. Costruendo al contrario campagne politiche realmente innervate nei bisogni ed esigenze popolari. A cominciare da quel salario minimo di almeno 10 euro l’ora che non è solo esigenza materiale, ma volontà di riconoscimento del proprio ruolo, del proprio valore e della propria dignità. Oltre che misura di speranza: quella di non dover essere costretti a emigrare; quella di poter cambiare il presente per pensare finalmente a un futuro di riscatto. Individuale e collettivo.

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* L’autore: Giuliano Granato è portavoce nazionale di Potere al popolo

L’articolo prosegue su Left del 22-28 luglio 2022 

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SOMMARIO

 

Anche quest’anno abbiamo già bruciato tutte le risorse ecologiche che la Terra è in grado di generare in 12 mesi

Planet earth toy balloon deflated isolated on white background. Earth overshoot day, unsustainable resources consumption concept

I “potenti” della Terra, chi governa le principali nazioni, sono responsabili della conservazione dei capitali naturali e ambientali che permettono la vita sul pianeta. Sono le stesse persone che si incontrano, annualmente, nelle Cop (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). A novembre 2021 in Scozia (Cop26), tra pochi mesi in Egitto (Cop27). Le Cop fissano obiettivi climatici, puntualmente poi disattesi nella pratica. Con le drammatiche conseguenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Ci si aspetterebbe quindi che questi “potenti” stiano lavorando alacremente e indefessamente per proteggere, conservare e implementare i nostri capitali, naturali e ambientali, e assicurare il mantenimento dell’equilibrio degli ecosistemi. Ma non è così.

L’azione dei “potenti” della Terra sta andando nella direzione opposta: consumare il capitale naturale e il capitale ambientale per trasformarlo in capitale finanziario nelle mani di pochi super ricchi. Nel 2022 l’Earth overshoot day cade il 28 luglio 2022. È il giorno in cui l’umanità avrà consumato tutte le risorse ecologiche che la terra è in grado di rigenerare nell’anno. Dal 28 luglio 2022 fino al 31 dicembre 2022 (circa il 43% del tempo) l’umanità consumerà il capitale naturale e ambientale delle future generazioni e quello delle altre forme di vita presenti sulla Terra. Altrimenti per 156 giorni dovremmo smettere di fare qualsiasi cosa, anche smettere di respirare, bere e mangiare.

Capitale naturale e capitale ambientale
Le “risorse ambientali”, così come le “risorse naturali”, rappresentano i nostri “capitali”. Il capitale naturale è lo stock mondiale di risorse naturali, che comprende geologia, suolo, aria, acqua, vegetazione e tutti gli organismi viventi. Il capitale naturale fornisce alle persone beni e servizi essenziali per la vita stessa (servizi ecosistemici). Senza il capitale naturale la specie umana non potrebbe nemmeno esistere.
Il capitale ambientale è un sistema complesso di fattori fisici, chimici e biologici, di elementi viventi e non viventi e di relazioni in cui sono immersi tutti gli organismi che abitano il pianeta; quindi, oltre al capitale naturale, comprende anche tutto ciò che permette di preservare e conservare la natura e le “relazioni ambientali”, quel complesso sistema di “cause-effetti” che determina l’equilibrio degli ecosistemi. Il capitale ambientale, come il capitale naturale, quindi è un bene comune a tutte le forme di vita, animali e vegetali, presenti sul nostro pianeta che vivono in ecosistemi il cui equilibrio non dovrebbe essere stravolto dall’azione dell’uomo (antropica).

Stiamo migliorando o peggiorando la nostra situazione?
Prendiamo due date paradigmatiche: la prima è quella del protocollo di Kyoto, 1997. È un accordo internazionale per contrastare il riscaldamento climatico. Il primo di una certa rilevanza. All’epoca l’Earth overshoot day cadeva l’1 ottobre. Nel 2022 cade, come abbiamo detto, il 28 luglio. Il peggior dato di sempre. Abbiamo perso 65 giorni, più di 2 mesi! Siamo passati da un deficit di 3 mesi a uno di oltre 5 mesi.
La seconda data è quella della conferenza di Parigi, 2015, che ha fissato l’obiettivo di contenere il riscaldamento climatico al di sotto di 1,5 gradi di aumento rispetto all’era pre-industriale. Nel 2015 l’Earth overshoot day cadeva il 5 agosto. In 7 anni abbiamo perso altri 8 giorni, nonostante la pandemia Covid-19 abbia portato a una riduzione temporanea delle emissioni climalteranti (nel 2020, per effetto dei lockdown, la data era arrivata al 20 agosto).

Perché parliamo di Earth overshoot day in relazione al riscaldamento climatico?
Perché la correlazione è evidente. Il riscaldamento climatico deriva essenzialmente dai gas serra immessi in atmosfera. Se noi riuscissimo a riassorbire, tramite vegetazione, i nostri gas serra avremmo fatto un bel passo verso la rigenerazione. Se calcolate il vostro Overshoot day o “impronta ecologica” (qui il calcolatore: https://www.footprintcalculator.org/home/it) vedrete che quello che peggiora di più il risultato è l’uso di auto a benzina e aerei, l’uso di energia non rinnovabile e la dieta a base di carne. Cioè i tre aspetti che ormai sappiamo essere i quelli che più contribuiscono all’emissione di gas climalteranti.
Ma in realtà la cosa è ancora più grave. Gli Stati Uniti e il Canada già il 13 marzo hanno terminato le loro risorse rigenerabili. Cioè solo nel 2022 camperanno sulle spalle delle altre forme di vita e sulle spalle delle future generazioni per 293 giorni su 365 (oltre l’80% del tempo, americani e canadesi dovrebbero bere e mangiare solo un giorno ogni 5). Solo il Lussemburgo (14.2.22) e il Qatar (10.2.22) fanno peggio. Vi aspettereste che gli Stati Uniti siano i leader mondiali per gli interventi per tutelare l’ambiente, combattere il riscaldamento climatico e salvare le risorse naturali. Invece no, sono quelli che usano la fratturazione idraulica per estrarre gas e petrolio, la pratica più devastante per l’ambiente. Vabbè direte, sicuramente gli Stati Uniti staranno facendo di tutto per eliminare dalla loro economia il gas e il petrolio, principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti e del riscaldamento climatico. Invece no, le timide azioni dell’agenzia Usa per la protezione ambientale sul taglio delle emissioni climalteranti sono state annullate dalla sentenza dei giudici della Corte suprema del 30 giugno 2022! Sei persone che decidono sulla sorte di miliardi di esseri umani e migliaia di miliardi di altre forme di vita, animali e vegetali. E il gas statunitense estratto con la fratturazione idraulica lo trasportano per tutti gli oceani mantenendolo a -161 gradi per settimane per poi rigassificarlo. Con quali costi ambientali lo potete immaginare.

Cosa può fare l’Italia?
In seguito della recente tragedia della Marmolada, qualcosa di più di un campanello di allarme, i media ci stanno dicendo che dobbiamo risparmiare acqua, ridurre i consumi energetici, magari usare meno l’automobile… tutte cose sacrosante. Ma nessuno sta facendo la battaglia più importante: quella di pretendere dai nostri governanti azioni veramente utili a contrastare il riscaldamento climatico con azioni di vera mitigazione e ad aiutare la popolazione. Utilizzando bene le risorse che ci sono invece di usarle, seguendo il demone del profitto, per aumentare i profitti di qualcuno a danno della maggioranza. Qualche esempio?
Da poco, dal decreto “bollette”, è stata eliminata la tassa del 25% che si poteva mettere sugli extra-profitti, 1 miliardo al mese, di Eni dovuti ai prezzi impazziti del gas e del petrolio. La politica avrebbe dovuto destinare questi extra-profitti a investimenti in energie rinnovabili e/o a contenere il disagio sociale. Oppure si potevano investire per riparare gli acquedotti che perdono il 40% di acqua. E qui si dovrebbe aprire un tema sulle risorse comuni: possibile che i privati che gestiscono l’acqua (nonostante i referendum del 2011) distribuiscano profitti ai loro azionisti e non li investano per riparare le perdite degli acquedotti che gestiscono? Usano un bene comune per fare profitti privati.
Ogni anno oltre 35 miliardi pubblici, stima Legambiente, vengono usati per finanziare fonti fossili in modo diretto o indiretto. Sono soldi che devono essere immediatamente tolti alle fonti fossili e investiti in energia rinnovabile. L’avessimo fatto 10 anni fa ora staremmo parlando di un mondo diverso. Più pulito, più verde, meno caldo e più bello.

Oltre 33 miliardi sono stati investiti per il bonus 110%. Sono serviti essenzialmente per lavori destinati a villette… se si fossero investiti per risanare e ottimizzare i consumi energetici degli edifici pubblici (partendo dalle case popolari ma volendo anche scuole ed uffici) si sarebbe ottenuto maggior vantaggio ambientale, maggiore giustizia sociale (aiuto alle famiglie più povere) e aumento del valore dei beni pubblici (e non dei beni privati). Magari si sarebbero anche realizzate Comunità energetiche rinnovabili e solidali che contribuiscono a contenere la povertà energetica e non emettono gas climalteranti per produrre energia. I 30 centesimi al litro di benzina di “sconto” sulle accise costano circa 800 milioni di euro al mese. Dieci miliardi in un anno. Trasferiti dalle risorse pubbliche. Non era meglio investire in politiche di risparmio energetico? Ad esempio per incentivare l’uso del trasporto pubblico? La riduzione dell’Iva sulle bollette gas e luce? Certo, è giusto calmierare i costi delle bollette… ma forse invece di trasferire anche in questo caso risorse pubbliche (l’Iva) si sarebbe potuto intervenire sulla definizione del Pun (Prezzo unico nazionale) dell’energia elettrica ora basato su un meccanismo che premia in modo assurdo le imprese che producono energia. Intanto, ciliegina sulla torta, aumentiamo le spese militari portandole al 2% del Pil. Scordando che le spese militari e le guerre hanno drammatiche e inaccettabili conseguenze sociali e ambientali.
Rammentiamo tutti questi problemi al ministro Cingolani, che ricordiamo viene da Leonardo-Finmeccanica la principale industria militare italiana. Ha fatto esattamente l’opposto di quello che era giusto fare. Ne tragga le conseguenze.

Conclusioni
Potremmo proseguire. Ma crediamo che gli esempi sono più che sufficienti per esprimere quello che volevamo dire. E ribadire che i media, la televisione in particolare, deve iniziare a dare un’informazione completa ed esaustiva, esplicitando le responsabilità di chi ci governa e le azioni che sarebbe giusto mettesse in campo il governo, e non solo lanciare appelli ai comportamenti individuali.
Le conclusioni che traiamo sono semplici. È ora di definire una politica ambientale e sociale che sposti completamente il focus dalle fonti fossili a quelle rinnovabili e dal demone del profitto alla riduzione delle diseguaglianze e alla giustizia sociale.
I nostri giovani di Fridays for future e di altri movimenti ambientali ci dicono che “non c’è giustizia sociale senza giustizia ambientale”. Ebbene non è solo uno slogan. È un obiettivo concreto che va perseguito.

Come si uscirà (male) da questa “crisi” di governo

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 27-03-2022 Roma, Italia Cronaca RAI - trasmissione 'Mezz’ora in più’ Nella foto: Giuseppe Conte M5S Photo Mauro Scrobogna /LaPresse March 27, 2022 Rome, Italy Politics RAI - 'Mezz’ora in più ' broadcast In the photo: Giuseppe Conte M5S

Vediamo un po’. Oggi finalmente si decide e sarà un bene per tutti, al di là di quello che potrebbe accadere. Con Mario Draghi al Senato i partiti dovranno smettere di giocare di rimessa lasciando in giro dichiarazioni a televisioni e ai giornali. Ora tocca decidere e essere costretti a scegliere: per questa masnada di partiti che ha come obiettivo principale quello della propria preservazione è sempre un bene.

Potrebbe accadere che la maggioranza continui così. Se fosse così qualcuno dovrebbe spiegarci quindi cos’è stata questa crisi che non è una crisi. Mario Draghi dovrebbe giustificare queste dimissioni isteriche – sempre sulla linea del “Draghi che mette il Parlamento con le spalle al muro” che piace tanto ai liberisti di casa nostra – e Giuseppe Conte dovrebbe spiegare perché le promesse di una settimana fa non erano abbastanza convincenti e ora sì. Come sempre accade in questo Paese sarà soprattutto un esercizio dialettico, temo.

Se il governo andrà avanti con il M5s qualcuno dovrà comunque dare delle spiegazioni: se prima era impensabile cambiare le coordinate del governo, se era “impossibile proseguire senza il Movimento 5 stelle” perché ora invece sì? C’è da leggere con attenzione la risposta. Il punto più interessante della giornata politica è leggere le parole delle giustificazioni, molto più di quello che accadrà nelle geometrie parlamentari.

Se alla fine Mario Draghi deciderà di andarsene (appare difficile) allora conviene leggere Cassese: «La circostanza che si sia operata una scissione in una delle forze politiche che appoggiano il governo non costituisce un grave motivo. Troppi altri governi avrebbero dovuto cadere, nella storia repubblicana».

Oppure potrebbe accadere l’ennesimo episodio di cosmesi politica. Non so se avete notato che Luigi Di Maio da giorni non chiama Movimento 5 stelle il Movimento 5 stelle. «Il partito di Conte», dice il ministro. Il gioco è semplice: si rivende la scissione di Di Maio invertendola. Si insiste nella narrazione che sia Conte ad essersi scisso da Di Maio. Così sarà facile dire che sostanzialmente il governo continua come prima (ci sono esimi giornalisti che da giorni usano questo trucco) e così tutti amici come prima. E così, c’è da ammetterlo, farebbe abbastanza schifo. Rimarrebbe anche un dubbio: davvero Di Maio avrebbe potuto escogitare una roba del genere?

Poi ci sarebbe la politica. In questa crisi Conte ha presentato un documento di richieste. Il centro e il centrodestra hanno come massimo obiettivo politico l’abolizione del Reddito di cittadinanza, poi la pace fiscale (altro cosmetico retorico: è un condono). Gli altri chiedono sostanzialmente di “continuare così” anche se non si capisce “così” come. Gli ambientalisti, al solito, sono inascoltati.

Non benissimo.

Buon mercoledì.

La scelta (dannosa) degli eco-furbetti

Il gas e il nucleare sono fonti energetiche verdi su cui investire denaro pubblico. Non è la pubblicità di questa o quella multinazionale fossile o nucleare, ma la solenne e pessima decisione del Parlamento europeo. La pacifica protesta per le ordinate strade di Strasburgo è arrivata fino al palazzo-fortezza, sede del Parlamento, ma non ha convinto 328 parlamentari che hanno così votato a favore della proposta della commissione europea sulla tassonomia, in 278 si sono espressi contro e 33 sono state le astensioni.

“No gas! No nuke!” hanno gridato migliaia di giovani, allegri e pieni di colori, ma anche molto arrabbiati perché sentivano che quel voto sottraeva loro il futuro. La loro protesta però non è stata sufficiente a convincere la maggioranza dei parlamentari europei che gas e nucleare sono invece energie da cui bisogna liberarsi il prima possibile, viste le indiscutibili e frequenti manifestazioni del cambiamento climatico. Il gas perché incendia la terra e la sua scarsità provoca guerre, il nucleare perché pericoloso e troppi sono gli esempi della sua ingovernabilità per dar retta a chi lo ripropone vendendo fumo su una nuova generazione di reattori che invece non esiste. Una volta per tutte va detto che l’atomo civile serve solo per abbattere i costi di quello militare.

La storia di questa incredibile operazione eco-furba, lungamente perseguita dalle lobby di gas e nucleare e accettata dalla Commissione europea, l’abbiamo…

L’articolo è tratto da Left del 15-21 luglio 2022 

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