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Il dovere di spiegare “come”

FILE --- A Uniper energy company coal-fired power plant and a BP refinery are seen beside a wind generator in Gelsenkirchen, Germany, Jan. 16, 2020. A senior German official predicted Tuesday that the war in Ukraine and its impact on fossil fuel prices worldwide will provide a “massive boost” for the means and measures needed to curb climate change. Patrick Graichen, Germany's deputy energy and climate minister, said rising global prices for oil, gas and coal will accelerate the uptake of low-emission technology that simultaneously reduce countries' reliance on imports from Russia. (AP Photo/Martin Meissner, file)

Nel Regno Unito l’Alta Corte ha “condannato” il governo a spiegare per filo e per segno come le sue politiche ambientali permetteranno di raggiungere gli obiettivi che si sono posti sulle emissioni.

La causa è stata intentata da alcuni gruppi ambientalisti (Friends of the Earth, ClientEarth e il Good Law Project) che hanno contestato la strategia del governo sui cambiamenti climatici sostenendo che non includesse le politiche che sarebbero servite per raggiungere l’obiettivo.

In una sentenza emessa lunedì sera, il giudice Holgate ha affermato che la strategia del governo manca di qualsiasi spiegazione o quantificazione di come i piani del governo avrebbero raggiunto l’obiettivo di emissioni e come tale non ha rispettato i suoi obblighi ai sensi del Climate change act (Cca) 2008. Il giudice ha anche scoperto che Greg Hands, il ministro dell’energia, ha firmato la strategia “net zero” nonostante non avesse le informazioni legalmente richieste su come sarebbero state abbattute le emissioni di combustibili fossili.

La sentenza è rivoluzionaria. Dice – al Regno Unito ma anche al resto del mondo – che la politica ha il dovere di spiegare “come” riuscirà a ottenere ciò che promette. Sancisce, finalmente, l’obbligo non solo morale di conoscere ciò di cui sta parlando ma anche l’obbligo legale di promettere solo dopo avere individuato una strategia fattibile e supportata dai numeri e dai fatti.

Sam Hunter Jones, avvocato di ClientEarth, ha dichiarato: «Questa decisione è un momento rivoluzionario nella lotta contro il ritardo climatico e l’inazione. Costringe il governo a mettere in atto piani climatici che affronteranno effettivamente la crisi».

Pensate, senza ricorrere ai tribunali, se anche i nostri politici (che con l’avvicinarsi delle elezioni sono prodighi come non mai di promesse) fossero incalzati su questo. Che poi, a ben vedere, la stampa dovrebbe fare anche questo. Dovrebbe.

Buon martedì.

Nella fucina viva delle riviste

Sono nato nel mondo della carta stampata e delle riviste, giovanissimo diffusore di Umanità nova, lettore assiduo di Re Nudo ma anche di Ciao 2001, Mucchio selvaggio, Frigidaire di Andrea Pazienza e Tanino Liberatore. Poi sedicenne ne ho fondata una ciclostilata, La scoglionatura, provinciale e underground, che scimmiottava quelle beat americane, di cui credo uscirono solo tre numeri. Ero direttore, redattore capo, tipografo e anche diffusore. La stampavo dopo aver battuto a macchina frenetico sulle matrici, grappettata a dovere, poi la vendevo brevi manu per strada, all’entrata degli istituti scolastici o durante le manifestazioni politiche. Era un modo per esprimersi senza censure, chiunque poteva pubblicare dentro quelle poche pagine poesie, pensieri, articoli sulla legalizzazione delle droghe leggere, sulla repressione politica in Germania e la storia del gruppo della Raf Baader-Meinhof, o su un cantante, oppure su un gruppo musicale nei confronti del quale provava ammirazione.

Erano gli anni Settanta e i nostri preferiti allora erano i Led Zeppelin, Deep Purple, ma più tardi anche John Lurie e i Lounge Lizards, i Tuxedomoon. Quello era il clima che avevamo intorno, molto ricco; non era ancora arrivato il piombo a insanguinare le piazze italiane. Le riviste erano specchio della militanza, ma anche del nostro mondo interiore, lo strumento auto-prodotto più politico e immediato in assoluto, ancora novecentesco. Io amavo più quelle libertarie come la bolognese A/Traverso, nata nel cuore di Radio Alice e del movimento, rispetto alle dottrinarie Critica marxista, Aut Aut o più tardi Metropoli, la rivista dell’Autonomia operaia, che comunque mi sforzavo di leggere, Ombre rosse, che si occupava di cinema, Lambda, che lottava per i diritti degli omosessuali, e non perdevo un numero de Il male, il settimanale satirico, di cui ricordo un numero indimenticabile con una foto di Ugo Tognazzi con le manette ai polsi trascinato da un gruppo di carabinieri, apostrofato falsamente come il grande vecchio delle Brigate Rosse, ovviamente una divertente messinscena, che però con la prima pagina appesa e in bella mostra fuori dalle edicole attirava parecchio l’attenzione.

Più tardi, cominciando a scrivere con una certa assiduità e convinzione, diventai lettore di Linea d’ombra, una delle tante riviste fondate da Goffredo Fofi, l’intellettuale che più di tutti ha creduto a questa forma espressiva, prima con i Quaderni piacentini e successivamente con Lo straniero e Gli asini, con le quali intercettava nuovi talenti e tendenze. Fondai insieme ad alcuni intellettuali di Fermo una rivista indipendente di scrittura, Alias, che prima ancora di diventare il nome dell’inserto culturale del Manifesto, fu il nostro piccolo laboratorio di resistenza culturale in una terra allora ancora molto periferica. L’idea ci venne dal sinonimo in altre parole, ma soprattutto perché era il nomignolo di Bob Dylan, attore non protagonista di quel capolavoro del cinema che è Pat Garret & Billy the Kid di Sam Peckinpah. Di tutti quanti i redattori ero il più giovane e meno attrezzato, forse l’unico veramente irregolare, con studi interrotti e poi ripresi dopo diverse bocciature in Chimica industriale, esperienze lavorative come operaio, venditore di cemento e poi di macchine per scrivere Olivetti, stagionale allo zuccherificio, ma lettore onnivoro e appassionato, e insieme al poeta Adelelmo Ruggieri forse anche l’unico che ha intrapreso più tardi una vera e propria carriera letteraria. La nostra era una rivista elitaria, piena di colti e anche un po’ sterili intellettualismi, di cui condividevo poco, quando chiuse per me fu una liberazione, ma nonostante questo resta comunque una esperienza importante per la mia formazione.

Per quelli della mia generazione le riviste erano i luoghi dell’apprendistato e dell’incontro, di confronto e di elaborazione intellettuale, pagine dove esporsi con le prime opere, ma anche fare gruppo ed elaborare collettivamente un’idea di letteratura e, insieme, un’idea del mondo, spesso marginale, spazi dove alcune minoranze potevano dare forma al loro pensiero. Perché il risultato di quei numeri trimestrali stampati in poche copie, 500, 1000 al massimo, era anche la sintesi di un dibattito che avveniva dentro una piccola comunità, il condensato di un ragionamento a più voci, di scelte estetiche sofferte, scontri anche vivaci su poetiche, proposte di traduzione, recupero di autori rimossi dall’editoria ufficiale, ci prendevamo talmente sul serio che una volta un vecchio professore disse che la nostra sembrava una rivista nata nella vecchia Mitteleuropa. Le Marche costituirono in quegli anni una esperienza anche molto studiata e prolifica, con riviste letterarie di assoluto livello come Lengua, diretta da Gianni D’Elia, Hortus da Enrico De Signoribus, ogni scrittore ne aveva una e intorno alla sua poetica aveva costruito una serie di relazioni complesse con altri scrittori, critici letterari, studiosi. Ne ricordo altre importanti come le romane Prato pagano e Braci, più tardi Scarto minimo, dove si formarono alcuni dei poeti e degli scrittori della generazione che ha preceduto la mia, Lodoli, Albinati, tra gli altri. Altre che mi vengono in mente la fiorentina Salvo imprevisti, quella dei poeti operai Abiti Lavoro dove pubblicava con regolarità Luigi Di Ruscio. Queste riviste erano assolutamente indipendenti e autofinanziate, non avevano quasi mai una regolare distribuzione, molte le trovavi nel circuito delle librerie Feltrinelli, che prima di diventare una catena di vendita commerciale senz’anima dedicavano un angolo ai periodici, oppure venivano vendute durante i reading in giro per l’Italia o spedite per posta agli abbonati.

Allora quelle più autorevoli erano Alfabeta, legata al Gruppo ’63, ancora molto influente nell’editoria italiana, e “Nuovi Argomenti”, romanocentrica e mondadoriana, con la quale più tardi ho collaborato a lungo quando era caporedattore Lorenzo Pavolini, ma queste erano riviste più istituzionali, anche un territorio dove si affermavano nuovi scrittori, che poi da quegli apprendistati arrivavano al libro d’esordio e successivamente iniziavano una vera e propria carriera letteraria.

Ho sempre visto nelle riviste un prezioso spazio di libertà, uno strumento dal basso indispensabile, minoritario ma proprio in virtù di questo portatore di un particolare e unico punto di vista, anche geografico, e tutte le volte che ho potuto ho collaborato con alcune di loro spesso a titolo gratuito, un’altra caratteristica fondamentale di quelle degli anni 70, la gratuità generosa della militanza. Negli anni ho continuato a scrivere parecchio su Diario, E, L’Indice, adesso Millennium del Fatto quotidiano, e quando le riviste si sono spostate sul web sono stato tra i primi promotori de Le parole e le cose, ho scritto saltuariamente su Nazione indiana, seguo minima et moralia e Doppiozero, spesso alcuni dei miei libri nascono da pezzi pensati per le riviste, dai racconti dal vero, come l’ultimo sul fine vita che ho affidato a Sotto il vulcano, la nuova rivista diretta da Marino Sinibaldi edita da Feltrinelli, un numero sui Confini curato da Andrea Bajani, o un pezzo per lo speciale Pasolini uscito su Achab. Forse dopo anni di rete, la carta sta tornando davvero.

L’articolo è tratto da Left del 15-21 luglio 2022 

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Lampedusa per tirare la volata a Salvini e Meloni

One group of migrants is transferred from the Lampedusa dock to a larger ship for transport to Sicily. Nearly 400 migrants of many nationalities were gathered on a Lampedusa dock on August 28, 2021 and then transferred by ship to mainland Sicily; the dayÕs arrivals of nearly 1,000 migrants overwhelmed the total capacity of LampedusaÕs ÒhotspotÓ of 250 persons. (Photo by John Rudoff/Sipa USA) Sipa Usa/LaPresse Only Italy 34751792

La situazione nell’hotspot di Lampedusa va oltre ogni immaginazione. In una struttura inadeguata e in condizioni igieniche inaccettabili sono state ammassate per giorni circa 2mila persone. Tra loro bambini e donne incinte. L’emergenza non sta negli sbarchi, diminuiti rispetto al 2021, ma nella mancanza di soccorso in mare e nella lentezza dei trasferimenti. Sembra la Libia ma è l’Italia, aveva commentato l’ex sindaca Giusi Nicolini (anche lei sventolata come vessillo dei diritti e poi dimenticata dal suo partito).

A chi serve Lampedusa? Yasmine Accardo, referente di LasciateCIEntrare a Melting Pot Europa spiega: «Ci sono anche casi di persone tornate in Italia per la seconda volta (oggetto quindi per la nostra normativa di reato di reingresso). La prima volta erano stati espulsi senza aver accesso nemmeno ad una informativa, molti speravano con la seconda di riuscire a riconquistare un diritto. Ma nulla cambia. Nemmeno stavolta ci sono riusciti».

«Le persone – prosegue l’attivista – sono trattenute nell’hotspot di Lampedusa senza accesso a legali di fiducia. Sanno che un giudice li giudicherà altrove, senza che possano essere presenti e soprattutto senza un difensore che ne conosca la storia, ricevendo così una veloce sentenza di condanna ed espulsione. Questa è la prassi oramai consolidata. Reato di reingresso che in realtà dovrebbe essere guardato come ricerca di giustizia negata ancora e ancora».

A chi serve Lampedusa? Il giornalista Riccardo Bottazzo abbozza un’ipotesi: «È incredibile che ogni estate a Lampedusa si ripeta lo stesso copione. La possibilità di organizzare dei veloci trasferimenti verso le altre regioni italiane e il sistema di accoglienza sarebbe nelle facoltà di uno Stato che ad oggi è riuscito ad accogliere oltre 145mila profughi ucraini. Ma lo stato di emergenza permanente serve a legittimare la politica del governo con le sue prassi d’urgenza e gli accordi bilaterali dalla dubbia legittimità, a stringere patti con dittatori costantemente riabilitati in quanto “necessari” fino a rifinanziare le milizie libiche, con l’ovvia conseguenza di riportarci ad un livello di dibattito pubblico sempre al punto di partenza e reso ancor più infimo dai facili slogan ed isterie della destra», scrive.

Non è un caso che con la crisi di governo in corso Salvini e Meloni si ributtano sugli slogan (falsi) contro l’immigrazione. Come se non esistesse la povertà, come se non esistesse la crisi, come se non esistessero gli italiani che non riusciranno a pagare le bollette, come se il pianeta non stesse soffrendo per la crisi climatica. Niente di niente. Si buttano sugli immigrati per racimolare qualche voto. Sono sovranisti ma l’unica loro Patria sono loro stessi, le loro tasche, i voti.

Buon lunedì.

Per approfondire, vedi Left del 15-21 luglio 2022

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Lo sguardo lungo di Anna Politkovskaja

USPECIFIED, RUSSIA - UNDATED: (FILE PHOTO) In this undated file photo, Independent Russian journalist Anna Politkovskaya, a highly respected and tireless investigative reporter and author is pictured at work. Politkovskaya, who was murdered in an execution-style slaying October 7, 2006, devoted much of her career to shining a light on human rights abuses and other atrocities of the war in Chechnya as well as the plight of Chechen refugees. (Photo by Novaya Gazeta/Epsilon/Getty Images)

Non è stata né la prima giornalista né l’ultima uccisa in nome di verità e libertà, eppure oggi si ricorda soprattutto lei come simbolo dei tanti (troppi) colleghi morti sul campo.
Non era bella, ma tutti abbiamo in mente il suo aspetto: i capelli grigi, gli occhialini in metallo, lo sguardo mobile.
Chi l’ha conosciuta non la ricorda come una presenza carismatica, ma nonostante ciò, quando parlava dei temi che le stavano a cuore, incarnava una passione difficile da dimenticare. In patria la chiamavano “la pazza di Mosca”, mentre all’estero era ricoperta di onori, premi, offerte di lavoro.
Nei suoi articoli pubblicati dal periodico Novaja gazeta raccontava gli orrori, i soprusi e gli eccidi di una guerra terribile ma, a cambiare “Cecenia” con “Ucraina”, la sostanza resta, dolorosamente, la stessa.

Nel 2001, Anna Politkovskaja viene arrestata e sfiora la morte. Nel 2004 tentano di avvelenarla. «Ogni volta che esce un articolo, vengo convocata in procura in mezzo ai delinquenti. Loro sono lì per rapine e stupri, io per… giornalismo!». Ogni settimana le arrivano 10-15 minacce di morte. Da un certo punto in poi, tutti iniziano a profetizzare: «Ti uccideranno». E lei a rispondere: «Lo so». Anna potrebbe andarsene e rifarsi una vita all’estero. E invece resta. Guarda in faccia il suo nemico. Affronta il suo destino.
Sono tanti i motivi per cui, a quasi 16 anni dal suo omicidio, Anna Politkovskaja è più attuale che mai.

La guerra (ehm, operazione speciale…) scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina ha riportato di attualità le sue parole che, rilette oggi, appaiono drammaticamente profetiche. A marzo, Adelphi ha ripubblicato La Russia di Putin, subito diventato un bestseller. «Perché ce l’ho con Putin?» si (e ci) chiede Anna. «Per una faciloneria che è peggio del latrocinio. Per il cinismo. Per il razzismo. Per una guerra che non ha fine. Per i cadaveri dei morti innocenti».
Più di recente, sono tornati in libreria sempre per Adelphi Diario russo e Per questo, altre raccolte degli articoli di Anna. Va detto che i suoi libri sono usciti solo all’estero, dove le sono valsi premi e plausi, ma mai in patria. Anche in questo caso, le sue parole ci appaiono illuminanti: «Mi dicono spesso che sono pessimista, che non credo nella forza della gente, che ce l’ho con Putin e non vedo altro. Vedo tutto, io. È questo il mio problema».
Mi sono avvicinata a lei nel 2016, nel decennale della sua uccisione. L’ho raccontata ai lettori più giovani nel romanzo Il sogno di Anna (Feltrinelli), esplorando soprattutto la…

L’intervista prosegue su Left del 15-21 luglio 2022 

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Zoja Svetova: Essere giornalisti nell’impero di Putin

«Il giornalismo indipendente è un concetto proibito in Russia». Non mostra tentennamenti né reticenze la giornalista russa di Novaja gazeta Zoja Svetova, figlia di dissidenti e prigionieri politici ai tempi dell’Unione Sovietica, nell’affrontare le problematiche nodali che investono la sua professione nell’odierna Russia.

Svetova, c’è ancora qualche minimo spazio per fare informazione in Russia?
Il potere russo ha ucciso definitivamente il giornalismo indipendente nel 2022. La propaganda di Stato è presente nei media ufficiali, in televisione e sulla stampa. Più di cento giornalisti sono stati etichettati come “agenti stranieri”, il che rende praticamente impossibile il loro lavoro in territorio russo. Ogni volta, non solo nelle pubblicazioni ma anche nei social network, i giornalisti riconosciuti come agenti stranieri devono precisare di essere considerati tali. Inoltre, devono occuparsi della contabilità speciale. Se non applicano la legge, rischiano sanzioni che possono arrivare fino alla condanna penale.

Il vostro giornale, la Novaja gazeta, ha dovuto sospendere le pubblicazioni. Che strategie avete messo in campo per continuare la vostra attività?
Il 28 marzo il nostro giornale ha sospeso le pubblicazioni, ma si continua a lavorare per il futuro. Prepariamo ampi fascicoli, inchieste che dovrebbero essere pronte quando la testata riprenderà a uscire. Da parte mia, lavoro a un podcast in cui racconto le storie dei russi che hanno lasciato il Paese, paventando repressioni e arresti: storie di giovani che temevano di essere costretti a partecipare alla cosiddetta «operazione militare speciale», ossia il modo in cui la legge russa ci impone di definire ciò che accade in Ucraina.

Il giornalista e Premio Nobel Dmitry Muratov, direttore di Novaja gazeta, è stato attaccato da uno sconosciuto a bordo di un treno tra Mosca e Samara. Altri giornalisti hanno subito indimidazioni e minacce. È preoccupata?
So bene come in tutto il mondo, e soprattutto nei Paesi autoritari o totalitari, la professione di giornalista sia rischiosa, ma io continuo a lavorare e a dedicare il mio tempo libero a scrivere libri, dove vorrei provare a sviluppare alcuni argomenti che…

L’intervista prosegue su Left del 15-21 luglio 2022 

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Quasi arrivati

TOPSHOT - In this aerial view Haitian migrants queue to receive food at a shelter in Ciudad Acuna, Coahuila State, Mexico, on September 23, 2021. - At least 50 police vehicles carrying more than a hundred agents are blocking the border crossing at the river that separates the Mexican city of Ciudad Acuña from the United States, AFP reported. (Photo by PEDRO PARDO / AFP) (Photo by PEDRO PARDO/AFP via Getty Images)

«Ho camminato per tre giorni senza sapere dove andare, poi ho finalmente raggiunto Roma». Masi è solo, è notte e non ha idea di dove si trovi quando scende dal camion dove si è nascosto. Sa solo di essere arrivato in Italia dopo quasi venti ore di viaggio nella stiva di un traghetto partito da Patrasso, in Grecia. Masi ha 19 anni e sono ormai tre anni che ha lasciato la sua città d’origine, Kabul. «Appena arrivato in Italia, ero felice. Però, quando sono uscito dal camion ho dovuto ricominciare a viaggiare. Mi sentivo morire, solo e infreddolito». È sporco di fuliggine, rischia di attirare l’attenzione. Ma Masi ha la famiglia in Inghilterra e vuole lasciare l’Italia il più velocemente possibile. Inosservato. E da invisibile arriva fino a Londra nel novembre 2021 ma sembra ancora affaticato mentre oggi, a distanza di oltre 8 mesi, rievoca le notti passate in strada in Italia. Mentre parliamo su Skype mi dice di avere i brividi nonostante la temperatura estiva, gli stessi brividi provati – ma quella volta per il freddo – quando arrivò a Roma in autunno inoltrato. «Diluviava – dice – e passai la mia prima notte sotto la pioggia».

Sono tantissimi gli invisibili che arrivano in Italia per dirigersi subito verso il confine francese o svizzero. Secondo le principali organizzazioni il nostro Paese è una meta temporanea per almeno il 70% delle persone migranti. In pratica è una delle ultime tappe prima dell’arrivo definitivo. Eppure, negli insediamenti informali lungo la Rotta balcanica l’Italia risuona come una parola mitologica nei discorsi dei migranti di diverse nazionalità. «Ora che è estate qui a Trieste arrivano attraverso la Rotta balcanica, passando per Serbia e Bosnia, almeno 20/30 persone al giorno» dice Nicola Franchini dell’associazione Linea d’ombra. Italia: la meta sognata anche da chi, da Patrasso o Igoumenitsa, si nasconde nei traghetti per Bari, Ancona o Venezia. Italia, il luogo sicuro dopo giorni di viaggio su un gommone dalla Turchia.

«Non arriverò mai in Italia. Pensavo a questo e piangevo tra le onde che entravano nel gommone e la paura». E invece, dopo cinque notti in mezzo al…

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Il lager (italiano) del tempo sospeso

Migrants who crossed the Mediterranean Sea by boat line up behind a fence in Lampedusa, Italy, Friday, Oct. 1, 2021, as they wait to board a ferry to Sicily. Despite the risks, many migrants and refugees say they'd rather die trying to cross to Europe than be returned to Libya where, upon disembarkation, they are placed in detention centers and often subjected to relentless abuse. (AP Photo/Renata Brito)

«I Cpr sono lager, luoghi disumani in cui esseri umani tengono segregati, in modo indegno, altri propri simili, senza colpa. Spesso sono giovani di vent’anni, in salute, venuti fin qui con la speranza di una vita migliore, di trovare un Paese capace di dar loro un futuro, perché la loro terra è distrutta dallo sfruttamento, dalla guerra, dalla siccità. Qui trovano invece confusione, segregazione, violenza psicologica, se non fisica, e si ammalano, si disperano fino a cercare la morte. E a volte muoiono». Paola Nugnes, senatrice di ManifestA, è entrata per la prima volta in un Centro permamente per i rimpatri, insieme alla collega deputata Doriana Sarli, della stessa componente parlamentare. In luoghi come questo vengono costrette in stato di reclusione persone extracomunitarie considerate da espellere dall’Italia, in quanto trovate prive di regolari documenti di soggiorno. Paola Nugnes non nasconde l’indignazione, anche quasi dopo un mese dall’esperienza vissuta nel Cpr. Il 17 giugno, senza clamore, le due parlamentari hanno raggiunto il Cpr di Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia, per una lunga, attenta e doverosa ispezione, accompagnate da un legale, Martina Stefanile, e un mediatore culturale, Nagi Cheikh Ahmed.

Anche Doriana Sarli è provata da quanto ha visto: «Un luogo senza tempo – racconta – dove lo Stato di diritto scompare. Alcuni lo definiscono “luogo dal tempo sospeso”, perché privo di…

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Fabrizio Pregliasco: La variante eccezionale

BERLIN, GERMANY - MARCH 30: Graffiti of a woman wearing a protective face mask next to an image of the coronavirus is seen on March 30 in Berlin, Germany. The coronavirus and the disease it causes, COVID-19, are having a fundamental impact on society, government and the economy in Germany. Public life has been restricted to the essentials in an effort to slow the spread of infection. Hospitals are scrambling to increase their testing and care capacity. A recession seems likely as economic activity is slowed and many businesses are temporarily closed. Schools, daycare centers and universities remain shuttered. Both federal and state government seek to mobilize resources and find adequate policies to confront the virus and mitigate its impact. (Photo by Adam Berry/Getty Images)

La terza estate di convivenza con la pandemia è stata caratterizzata, con sorpresa di quasi tutti, da una drastica impennata dei contagi da Covid-19 la cui “responsabilità” è da imputarsi principalmente alla nuova variante chiamata Omicron 5. Secondo gli ultimi dati dell’Istituto superiore di Sanità, “ufficialmente” in Italia oggi i positivi sono quasi un milione, ma è ormai assodato che in molti non si dichiarino alle Asl o ai medici di base pertanto la stima parla di un numero superiore di tre volte. Per cercare di capire cosa dovremmo aspettarci nel prossimo futuro dal virus Sars-cov-2 abbiamo rivolto alcune domande al professor Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano.

Pensavamo che il peggio fosse passato, mentre adesso ci stiamo confrontando, in un periodo imprevisto come l’estate, con la Omicron 5. Cosa sta accadendo?
Stiamo vivendo una fase di riacutizzazione dei contagi per due motivi ben precisi. Il primo è l’allentamento fisiologico delle restrizioni e il maggior numero di occasioni sociali che l’estate porta con sé. Concerti, città turistiche affollate e locali pieni, aumentano il rischio di contrarre il virus. Il secondo è dovuto alla natura altamente infettiva della variante Omicron 5. Questa mutazione è molto più contagiosa del morbillo e della varicella che fino ad oggi erano i virus più infettivi conosciuti. Inoltre sembra avere la capacità di schivare, in una certa qual misura, la protezione data dai vaccini e dagli anticorpi acquisiti guarendo dall’infezione.

Secondo le stime, attualmente almeno il 10%  dei contagi sono casi di reinfezione…
È così. Per fare un esempio, se la versione originale del coronavirus, quella di Wuhan per intenderci, aveva un indice R0 – cioè il numero medio di persone che ogni malato può contagiare – di 2, la…

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I nemici del benessere collettivo

Come si studia in ogni corso di economia, il teorema fondamentale dello scambio dimostra che ciascun Paese, come anche ciascuna unità economica, dovrebbe produrre solo le merci per le quali è relativamente più efficiente. Per fare un esempio, anche se un Paese avanzato è più efficiente sia nell’agricoltura sia nell’industria rispetto ad un Paese povero, è bene per entrambi che il primo si dedichi all’industria, lasciando l’agricoltura a quello più povero. Lo stesso principio vale anche per la divisione del lavoro: un artigiano che fosse più bravo sia nel lavorare il legno sia i tessuti, si deve concentrare nella lavorazione dove è particolarmente efficiente, ad esempio del legno, lasciando i tessuti a chi è relativamente meno inefficiente.

Sebbene il principio illustri effettivamente i vantaggi della specializzazione produttiva, è dubbio che il mondo funzioni così. Il rischio, ad esempio, è che l’economia dei Paesi poveri possa rimanere legata a produzioni di minor valore, senza riuscir mai a colmare il divario con quelli più avanzati. Inoltre, minore è la diversificazione produttiva, maggiore è la dipendenza del Paese dai mercati internazionali, con la conseguente perdita di sovranità. Infine l’estrema specializzazione delle mansioni condanna il lavoratore a mansioni…

L’inchiesta prosegue su Left del 15-21 luglio 2022 

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«Così mi sono salvato da una setta religiosa»

«Sono nato nel 1958, ho fatto parte del Movimento dei Focolarini dal 1976 al 1996 prima come Gen (l’espressione giovanile del movimento) e poi come volontario (branca laica del movimento). Quando avevo 13 anni è venuto a mancare mio padre e quella perdita mi ha lasciato solo e alla ricerca. Cercavo una comunità, sicurezza, appartenenza, accoglienza ed a 17 anni (erano gli anni 70) ho conosciuto i Gen ed i focolarini. La mia famiglia era tradizionalmente cattolica, ma non approvava il mio coinvolgimento nel Movimento ed il suo messaggio. La loro percezione era che mi avevano perso. All’interno dei focolarini tali reazioni e perdite non erano un problema: un percorso del genere era più o meno implicitamente previsto. Ero pronto a lavorare sodo per il movimento, sentivo di fare qualcosa di importante, mi faceva sentire più vicino a Dio, ero ambizioso. In quel periodo ho perso non solo la mia famiglia ma anche i miei vecchi amici. Non avevo più tempo per loro, gli impegni per il movimento dovevano prevalere… Per vent’anni sono stato attivo nel movimento ma quando avevo 38 anni ho preso le distanze. Una notevole mancanza di trasparenza in materia finanziaria, un mancato riconoscimento all’interno del gruppo dei volontari e problemi nel mio matrimonio sono stati i motivi decisivi che mi hanno spinto ad allontanarmi».

William P. è un uomo irlandese e queste parole introducono il racconto di come entrò a far parte dei Focolarini, di come ha vissuto all’interno del movimento, di come ne è faticosamente uscito e di quali ferite gli ha lasciato quella esperienza. Lui è stato uno dei circa due milioni di focolarini sparsi per il mondo in 180 Paesi diversi, compresi i 7.160 che vivono in piccole comunità di laici, i cosiddetti focolari. Questi, come si legge sul sito ufficiale del movimento sono il «cuore di tutte le realtà di cui il movimento si compone; si impegnano a mantenere vivo il “fuoco” da cui deriva il nome focolare».

La fuga di William dai focolarini non è affatto un episodio isolato e la sua testimonianza inedita è arrivata al nostro Database sui casi di violenza all’interno della Chiesa cattolica attraverso l’Oref, una organizzazione internazionale di ex focolarini nata nell’aprile scorso con lo scopo di «combattere gli abusi di potere nel Movimento» fondato da Chiara Lubich nel 1943 a Trento. Avvalendosi della collaborazione di avvocati, teologi ed esperti di diritto canonico, i fondatori di Oref, oltre a raccogliere testimonianze come quella di William, forniscono a chi lo richiede tutto il supporto necessario per sostenere il trauma della separazione dal Movimento.

«Le richieste di aiuto – ci raccontano due di loro che chiedono l’anonimato – si sono moltiplicate in seguito alla recente pubblicazione del libro di Ferruccio Pinotti, La setta divina (Piemme), e ormai arrivano anche da “dentro”. In tanti vorrebbero seguire la strada di William ma si troverebbero da un giorno all’altro senza un lavoro e senza alcun sostegno economico». Questa serie di richieste di aiuto ha permesso all’Oref di “catalogare” il genere di abusi che avverrebbero all’interno della comunità dei focolarini. «Questi abusi – raccontano i due ex focolarini – vanno dalla manipolazione affettiva (compresi i matrimoni combinati, come è accaduto a William, e le separazioni combinate) all’uso di metodi settari di proselitismo (come la rivelazione progressiva dell’insegnamento interno, allo scopo di non spaventare i nuovi proseliti), l’obbligo di reprimere ogni manifestazione di sofferenza (forzando il volto al sorriso e trattenendo ogni lacrima), la patologizzazione di orientamenti sessuali ed espressioni di genere non conformi al modello eteropatriarcale, l’impiego non retribuito in lavori sfiancanti che a distanza di tempo ha lasciato alcuni di noi senza risparmi né copertura pensionistica. Infine – aggiungono i fondatori di Oref – tutti noi abbiamo visto in prima persona l’acuirsi di gravi disturbi mentali in molti membri a seguito della pressione, fisica e mentale, imposta dal Movimento; in alcuni casi, questi abusi psicologici hanno portato sull’orlo del suicidio».

William è uno di questi. «Guardando indietro – scrive – devo dire che lo sviluppo della mia persona si è fermato a 18 anni. Mi piaceva essere Gen, all’epoca ero felice, ma a un certo punto sono caduto in depressione e ho avuto sintomi fisici tangibili. Non sapevo chi ero e cosa volevo. Avevo 38 anni e mi sentivo come se non avessi personalità o identità. Il concetto di lasciare il passato era diventato distruttivo. Preghiere ripetute come “Dio, tu sei tutto, io sono niente” erano diventate come una “programmazione neurolinguistica”. Non potevo essere una personalità indipendente e infatti non lo ero più. Nel 1996 – prosegue William – mi ammalai di depressione e lasciai il Movimento dei Focolarini. Questa malattia è durata diversi anni. La causa era la mia mancanza di identità, non ero stato in grado di sviluppare una personalità indipendente e di avere una visione della vita matura e adulta. Per 20 anni ho dovuto “tagliare la testa”: non potevo pensare da solo, ma seguire le regole e le direttive del responsabile dei Gen, come un soldato dell’esercito. Ho tenuto segreta la mia malattia; solo il mio psicoterapeuta e la mia moglie attuale lo sapevano. La terapia è durata due anni e mi ha permesso di iniziare una nuova vita. Tuttavia, le esperienze di quel periodo mi perseguitano ancora oggi e rappresentano un peso. Oggi sono sposato per la seconda volta e sono felice con mia moglie… Il fatto che per me non ci sia stata la possibilità di uno sviluppo indipendente lo vivo ancora come un abuso psicologico».

«Noi crediamo – osservano i due fondatori di Oref – che tutti i comportamenti descritti fin qui si configurino anche come illeciti civili e penali e vorremmo presentare alle istituzioni civili e alla Chiesa un’analisi giuridica per evidenziare come gli abusi di coscienza limitino il diritto di autodeterminazione delle persone fino ad arrivare a crisi psicologiche o al suicidio». Pesa inoltre moltissimo l’impossibilità di gestire liberamente le proprie risorse, poiché gli stipendi e i beni devono essere donati al Movimento, senza possibilità di decisione autonoma e soprattutto senza possibilità di determinazione democratica della destinazione delle risorse raccolte. «Non viene retribuito il lavoro svolto per il Movimento, né garantita assistenza o previdenza sociale soprattutto se poi si esce dal cammino. Alcuni di noi si sono infatti trovati in stato di indigenza ed è stata negata la pensione perché nessuno aveva pagato i contributi. Crediamo – concludono – che il sistema del Movimento dei Focolarini, e di altri movimenti ecclesiali, presenti delle derive settarie che sono contrarie al bene delle persone, nonostante le dichiarazioni diffuse nelle loro comunicazioni ufficiali e all’opinione pubblica».

In Francia, nei mesi scorsi, un Report di Gcps consulting ha evidenziato la fondatezza delle denunce degli abusi sessuali da parte di un dirigente del Movimento in Francia, ma anche di altri tipi di abusi molto simili a quelli denunciati da Oref, che sono stati raccolti per l’indagine. E in Italia? Quali sono gli strumenti che gli ex focolarini hanno a disposizione per far valere i propri diritti e tutelare la propria salute? Lo abbiamo chiesto al magistrato della Procura di Roma Francesco Dall’Olio e allo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini.

«Quello che penso avendo letto queste testimonianze e altre fonti aperte molto ben documentate, come il libro di Pinotti – osserva Dall’Olio – è che in certi casi si potrebbero configurare due tipi di reato: la truffa o la circonvenzione di incapace. Il confine è molto labile. Nella circonvenzione di incapace va dimostrata la fragilità del soggetto che viene danneggiato ad esempio “convincendolo” a lavorare per anni devolvendo lo stipendio al movimento. La truffa si configura per es. laddove mi hai fatto credere di essere mandato da Dio approfittando della mia fede più o meno cieca e questo lo hai fatto per poterti impossessare dei miei beni etc. In entrambi i casi – prosegue Dall’Olio – siamo in presenza di un abuso psicologico». Vale a dire? «Attraverso l’abuso psicologico si induce una persona a fare una cosa che è contro i suoi interessi e a favore dei propri. Si approfitta di una situazione di inferiorità psicologica di un’altra persona per ottenere un vantaggio personale. Per es. nel caso della truffa in gergo si dice che prima di farla ci vuole il soggetto. Prima di escogitare il meccanismo si va a cercare la persona che può “credere” a quello che gli viene raccontato. E questo è ciò che sembra essere il concetto fondante del Movimento dei Focolari».

C’è chi la definisce una setta. «Nella differenza tra movimento e setta c’è ovviamente il discrimine tra lecito e illecito» dice Dall’Olio. «Un “movimento” è un gruppo che si rivolge all’esterno, pensiamo alle Sardine o agli stessi 5Stelle. In una setta, questo scambio non c’è e non c’è dialogo interno, non c’è dibattito, c’è un annientamento dell’individuo all’interno del gruppo e c’è un’organizzazione estremamente verticistica che detta le regole agli altri che stanno “sotto” e le eseguono. Il Movimento dei focolarini sembra tendere più verso questa direzione, anche perché ho il sospetto che oltre all’aspetto economico, che pure non deve essere del tutto indifferente, c’è quello della prassi di soggiogare, di mettere in soggezione chi vi aderisce».

E qui entriamo ancor più nello specifico delle dinamiche di carattere psicologico descritte nelle testimonianze. «Ricordo – dice lo psichiatra Masini – che il presidente Napolitano quando nel 2008 morì Chiara Lubich inviò un messaggio di cordoglio a tutto il Movimento dei focolarini, a testimonianza del livello di rispettabilità che questo pubblicamente si è ritagliato. Ma tutto ciò nasconde una realtà che è molto diversa. E questo “gioco” di sembrare un movimento e invece essere una setta fa molto pensare». Una setta. Come altro definire un “movimento” che ai suoi aderenti fa compilare dei questionari – da consegnare ai loro referenti – nei quali devono essere elencate pedissequamente tutte le attività, non solo spirituali, quotidiane? “Con chi sei uscito, come ti sei vestita, qual è il tuo stato di salute etc” sono alcune delle domande imposte agli adepti; si tratta di palesi violazioni della privacy perpetrate impunemente per anni e decenni. Stiamo parlando dei famigerati “schemetti” ideati da Chiara Lubich, che nel 2020 persino il Vaticano ha dichiarato “illegali” (ma solo perché si sovrappongono al sacramento della confessione, il che peraltro rende ancor più l’idea del livello di violazione dell’intimità altrui).

«Quello che colpisce delle testimonianze degli adepti, compresa quella di William – prosegue Masini – è il racconto preciso di un periodo di smarrimento personale, che è stato colto, intercettato, da quella comunità religiosa. Il movimento li ha “accolti” facendoli sentire parte di un gruppo, dando loro un’identità, un ruolo. C’è però da dire che si tratta di una finta identità. Un’identità falsa che non corrispondeva e non corrisponde nemmeno alla realtà di quello che professa la comunità. Io penso – aggiunge lo psichiatra – che in questo abbia sempre avuto buon gioco e che si tratti di una violenza psicologica potentissima».

Come ci si può “difendere”? «La psicoterapia è la strada maestra. Però va considerato anche che intorno alla vittima c’è il vuoto. Non ha più amici, né soldi. Di suo non c’è più nulla, si è spogliato di tutto. È tutto dentro il mondo da cui si vuole separare». Anche la casa in cui vive è dentro la comunità ed è della comunità. «Esattamente. Qui emerge il “progetto” feroce della religione, e di questo tipo di religione in particolare, tutto basato sul sottrarre alla persona, all’individuo, le sue capacità di vivere e di leggere il mondo. Quindi per “liberarsi” si tratta di riconquistare questa sicurezza. Dentro ciascun essere umano – conclude Masini – c’è tutto quello che serve per vivere bene nel mondo e non c’è bisogno di qualcosa che dall’alto ti sostenga o ti valorizzi o ti dia un’identità. Questo vale per tutte le religioni ma in casi come quelli riportati dalle testimonianze di ex focolarini assume dei connotati particolarmente violenti, ci tengo a ribadirlo. C’è il palese tentativo di dimostrare e far credere all’essere umano che senza una forza superiore, una guida dall’alto, non ce la può fare».

L’inchiesta è tratta da Left del 15-21 luglio 2022 

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