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Che pena, quasi tutti

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 12-07-2022 Roma, Italia Politica Chigi Governo - Conferenza stampa del Presidente del Consiglio Draghi con i ministri Orlando e Giorgetti Nella foto: Il Presidente del Consiglio Mario Draghi Photo Mauro Scrobogna/LaPresse July 12, 2022 Rome Italy Politics Chigi Government - Press conference by Prime Minister Draghi with Ministers Orlando and Giorgetti In the photo: The Prime Minister Mario Draghi

Ieri sera, dopo una giornata convulsa a seguire le tragicomiche acrobazie di un governo “autorevole sul piano internazionale” (è lo slogan vincente di queste ore) ma caduco qui a casa nostra, ero con un amico davanti a un bicchiere di vino. «E ora?», mi ha chiesto, contaminato dall’isteria collettiva di chi ha bisogno di un allarme al giorno per sentirsi partecipe alla realtà. Ho spiegato, con calma, che si tratta solo dell’ennesima crisi di governo di questa legislatura che ricorderemo come sempre gravida di leader che non hanno rinunciato al loro partitino di cittadinanza. Una legislatura, sembra che in molti se ne siano dimenticati, che arriva a fine corsa con schieramenti geneticamente modificati mai passati dalle urne, simboli e sigle che esistono sulla carta intestata del Parlamento con truppe di deputati e senatori che non potranno mai avere passando da una normale elezione politica.

Ricordavamo, aiutati dalla tranquillità del tavolino di un bar dove ci si presenta solitamente di persona, senza l’aiuto di infervorate truppe cammellate come avviene su Twitter, che l’ultima crisi di governo avvenne con centinaia di morti al giorno e una pandemia che ai tempi appariva insormontabile. Cadde il governo per il Mes. Sembra incredibile, vero? Fu “il Mes” la roncola usata in quell’occasione, roba perfino più triste del candelabro del maggiordomo. Ci spiegarono dopo che il Mes fu solo la leva per togliere di torno Conte da Palazzo Chigi. Fu definito un capolavoro. L’arrivo di Draghi rese ancora più fieri i fans del guastatore. Ci sta, la politica è un gioco – spesso sporco – che prevede anche l’azzoppamento dei nemici.  In quell’occasione qualcuno vide nel “conticidio” una manovra oscura di poteri esterni e piani alti. Trovai la teoria piuttosto bislacca: avevano semplicemente vinto coloro che volevano fare fuori Conte. A posto così.

Parimenti bislacca è la teoria che debbano esistere poteri forti (diametralmente opposti) in questo caso in cui Draghi ha perso la fiducia – politica – di un partito. È la ripetizione speculare di ciò che accadde solo che in questo caso, non si capisce bene il perché, il “capolavoro politico” che fu ora dovrebbe essere un “tradimento”. Anzi, per dirla meglio: conticidio, tradimento e tutte queste altre panzane buone per aumentare il coinvolgimento social sono furberie retoriche e emozionali che attengono al tifo. Non c’entrano nulla con la politica… Hanno a che fare piuttosto con bestie e bestioline – rondoliniane o morisiane, sono tutte della stessa pasta – che vivono la politica come una partita di calcio. Tifosi, semplicemente.

«Ma ora arriva la destra», mi ha detto quel mio amico seduto stanco, introiettando un altro tic che ciclicamente viene usato da chi aspira al massimo al meno peggio. Gli ho spiegato, spero di essere stato abbastanza convincente, che la “destra” sta già al governo, bella pasciuta, avendo piazzato un filotto di ministri che non avrebbero mai potuto sperare in una loro resurrezione politica senza il “capolavoro” dell’ultima crisi di governo. Salvini, per dirne uno, quel Salvini che si era ribaltato da solo in un parcheggio nell’estate del Papeete, oggi sta al governo. Brunetta, che sgomma con la sua auto da ministro, prima del governo Draghi era nascosto in un’ala polverosa del Parlamento. Giorgetti, che gioca a fare il Gianni Letta in queste ore, è stato riabilitato per un gioco di crisi e di rovesciamenti. Volendo vedere la stessa Giorgia Meloni è stata messa nella comoda posizione di poter cannoneggiare nella conveniente posizione dell’unica opposizione grazie alla crisi precedente a questa.

Se vincerà la destra, trainata da Giorgia Meloni, vorrà dire che questo “governo dei migliori” là fuori non ha voti. Di più: significherà che c’è un bacino elettorale ampio, ampissimo, che non si trova d’accordo con le politiche di Draghi. Mi pare lecito, in democrazia. O forse il tema vero è che questi leader di partito sono abilissimi guastatori delle politiche degli altri ma hanno una paura fottuta di sottoporre le proprie politiche ai loro elettori. Funziona così, la politica e la democrazia.

Buon venerdì.

Europa, Giano bifronte

Erdoğan è un «dittatore». Così l’aveva definito mesi fa il presidente del Consiglio Mario Draghi. Dopodiché, stringendogli la mano, parlando del soccorso e dell’accoglienza ai migranti che cercano di arrivare in Italia per entrare in Europa, il premier in vista ufficiale a Ankara ha detto che «siamo giunti al limite». Ma quale è questo limite?

Davvero le cose stanno così come ha affermato il Premier colloquiando amabilmente con il presidente turco? Non dimentichiamo che quest’ultimo, dopo aver ricevuto diversi miliardi di euro dalla Ue per impedire ai migranti di raggiungere il continente europeo, ne fa carne da macello lavorando di concerto con la sedicente Guardia costiera libica e con Frontex, l’agenzia Ue accusata di respingimenti illegali. Insieme, queste realtà concorrono allo stesso obiettivo: rispedire i migranti e i richiedenti asilo che fuggono da guerre e povertà nei lager (non solo quelli libici) dai quali potranno uscire solo o da morti o pagando un pizzo per tornare a rischiare la vita in una disperata traversata su un gommone. La domanda resta sempre la stessa: davvero l’Italia e l’Europa possono dirsi culla di diritti e al contempo pianificare questa disumana politica di esternalizzazione dei confini nel Nord Africa e in Turchia? Davvero possiamo chiudere uno o due occhi verso gli «utili dittatori» come Erdoğan, che mercanteggia sull’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato chiedendo in cambio di avere mano libera contro i curdi? Svezia e Finlandia si genuflettono al suo cospetto.

Lo fanno due donne premier che sono state e sono un punto di rifermento dei socialdemocratici. Per fortuna, sul piano concreto Erdoğan non ha ancora ottenuto nulla come ci informa puntualmente Mariano Giustino su Radio radicale. Ma la questione di una eventuale estradizione di rifugiati curdi non doveva neppure essere messa sul tavolo, per questioni umanitarie e di rispetto del diritto internazionale. Peraltro sappiamo bene che fine farebbero se fossero rimandati in Turchia dove in carcere viene praticata la tortura e avvengono costanti violazioni dei diritti umani. Lo scorso 11 luglio la Corte europea dei diritti umani ha condannato Ankara per non aver dato seguito alla richiesta del 2019, da parte della stessa Corte, di scarcerare immediatamente il prigioniero di coscienza Osman Kavala che Erdoğan ora ha fatto condannare all’ergastolo.

Qual è il vero volto della nostra amata Europa? Quello della Corte dei diritti dell’uomo o quello di Frontex? Quello della risoluzione 55 del 2001 che, finalmente applicata, ha permesso di accogliere immediatamente e giustamente milioni di profughi ucraini o quello della Fortezza Europa che alza muri altissimi e che sbarra la strada a chi fugge da conflitti, disastri e carestie che avvengono ad altre latitudini? L’Europa che amiamo, in cui crediamo, che vorremmo contribuire a costruire è quella democratica, attenta ai diritti umani, allo Stato di diritto, non questo Giano bifronte.

Lo stesso discorso vale per l’Italia che generosamente e giustamente ha accolto 150mila rifugiati ucraini ma nelle parole del capo del governo Draghi evoca spettri di invasione di fronte a un realtà di soli 31mila persone sbarcate in Italia da inizio anno. Per quanto riguarda migranti e richiedenti asilo africani, mediorientali, arabi, afgani – in altre parole dalla pelle scura e non cristiani – il “governo dei migliori” si muove sulla stessa scia del governo Gentiloni che stipulò i famigerati accordi con la Libia, sulla stessa linea del Codice Minniti, e dei feroci decreti Salvini che, per quanto siano stati modificati, restano in piedi nel loro impianto di fondo.

Il risultato sono porti chiusi, respingimenti illegali, violazioni di diritti umani. Lo denunciano su Left Ong, parlamentari di ManifestA che hanno visitato il Cpr di Gradisca d’Isonzo e soprattutto e in primis persone migranti che hanno accettato di raccontarci la loro storia.

L’editoriale è tratto da Left del 15-21 luglio 2022 

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I Migliori nel lasciar annegare

TOPSHOT - An aerial photo shows a boat carrying migrants stranded in the Strait of Gibraltar before being rescued by the Spanish Guardia Civil and the Salvamento Maritimo sea search and rescue agency that saw 157 migrants rescued on September 8, 2018. - While the overall number of migrants reaching Europe by sea is down from a peak in 2015, Spain has seen a steady increase in arrivals this year and has overtaken Italy as the preferred destination for people desperate to reach the continent. Over 33,000 migrants have arrived in Spain by sea and land so far this year, and 329 have died in the attempt, according to the International Organization for Migration. (Photo by Marcos Moreno / AFP) (Photo credit should read MARCOS MORENO/AFP via Getty Images)

Sopravvivere al deserto dell’Africa, ai ricatti dei trafficanti, alle estorsioni alla famiglia a cui spesso vengono chiesti altri soldi per proseguire il viaggio, agli stupri e alle violenze nei lager libici, alla roulette russa della traversata del Mediterraneo per arrivare in Italia e trovarsi in un centro sommerso dall’immondizia e dagli escrementi, dove ci si arrangia a dormire per terra, reclusi in quasi duemila in una struttura che potrebbe ospitare poco più di trecento persone. È stato questo il destino dei migranti sbarcati nelle scorse settimane a Lampedusa e “accolti” così nell’hotspot dell’isola. Una situazione inaccettabile, dovuta però non ad una particolare esplosione delle cifre dell’immigrazione, bensì all’assenza di una piano efficace per collocare chi arriva nel nostro Paese sommata alla recente dismissione delle navi quarantena. Da inizio anno, infatti, sono sbarcati in Italia circa 31mila migranti, 7mila in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Meno della metà della capienza dell’Olimpico di Roma.

Siamo lontani dalle cifre (più consistenti, certo, ma ugualmente gestibili se ci fosse stata la volontà politica) pre “Codice Minniti”, con cui l’allora ministro dell’Interno dem vietava alle navi Ong di entrare nelle acque territoriali libiche mentre stringeva accordi con gli interlocutori di Tripoli per bloccare il flusso di migranti in partenza. Ciò nonostante, come prevedibile, il duo Salvini-Meloni non ha perso l’occasione di speculare sulle immagini desolanti di Lampedusa, tornando ad agitare lo spauracchio dell’invasione incontrollata. «Dire no all’immigrazione illegale di massa significa anche dire no a tutto ciò», è il commento che la leader di Fratelli d’Italia…

L’inchiesta prosegue su Left del 15-21 luglio 2022 

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Le violenze sulle donne aumentano, anche se non se ne parla

Elisa Xolalpa shows the burn marks on her hands and arms caused by an acid attack while tied to a post by her ex-partner 20 years ago when she was 18, during an interview at her greenhouse where she grows plants to sell at a market in Mexico City, Saturday, June 12, 2021. The acid dissolved the ropes, but also her clothes and her body as she ran half-naked for help. (AP Photo/Ginnette Riquelme)

13 luglio 2022.  L’Associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza ha pubblicato il nuovo report sui dati riferiti al 2021. Da 15 anni, D.i.Re realizza la raccolta dati sulle attività delle organizzazioni socie, che consente di raggiungere tre obiettivi: illustrare le caratteristiche delle organizzazioni che ne fanno parte, dei servizi e delle risorse che offrono; raccogliere dati sulle donne accolte e sulle violenze subite; raccogliere informazioni sull’autore della violenza.

Attraverso questo lavoro di monitoraggio e analisi dei dati raccolti, è anche possibile mettere in evidenza le caratteristiche della violenza nelle sue diverse forme, anche decostruendo gli stereotipi che ancora caratterizzano l’idea di violenza di gran parte dell’opinione pubblica.

Nell’anno 2021 sono state accolte complessivamente 20.711 donne, con un incremento – rispetto al 2020 – del 3,5%. Le caratteristiche della donna che si rivolge a un Centro antiviolenza D.i.Re sono consolidate negli anni: per quanto riguarda l’età, anche nel 2021 quasi la metà (46%) delle donne accolte ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni.

I Centri della Rete accolgono prevalentemente donne italiane (solo il 26% hanno una diversa provenienza), un dato costante negli ultimi anni (26% nel 2020 e 26,5% nel 2019) e allineato con il dato nazionale Istat del 2020 (27,7%) e del 2019 (28%) (https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne)

L’autore della violenza è prevalentemente italiano (soltanto il 27% ha provenienza straniera) e questo dato, oramai consolidato negli anni (con scostamenti non significativi), mette in discussione lo stereotipo diffuso che vede il fenomeno della violenza maschile sulle donne ridotto a retaggio di universi culturali situati nell’“altrove” dei Paesi extraeuropei.

I Centri della Rete sono presenti in tutte le regioni italiane, tranne che nella Regione Molise, ma sono distribuiti non omogeneamente: nell’area del nord si trovano oltre la metà dei centri (58 pari al 55%) divisi non equamente tra Nord-Est e Nord-Ovest; in quella del centro 24 centri (pari al 23%) e tra sud (16) e isole (8) si arriva a 24 centri (pari al 23%).

Insieme al numero delle donne accolte, è aumentata anche la risposta che i Centri antiviolenza danno sul territorio. Le organizzazioni della Rete che hanno partecipato all’indagine (81 su 82), attraverso i loro 106 Centri antiviolenza, gestiscono 182 Sportelli antiviolenza con un incremento del 25% rispetto al 2020.

Oltre la metà dei Centri (58,5% dei casi) può contare su almeno una struttura di ospitalità (62 in totale), con un’offerta di 185 appartamenti e 1.023 posti letto

Le attività che i Centri garantiscono alle donne sono sempre varie: accoglienza e possibilità di consulenza legale nella quasi totalità dei casi, consulenza psicologica e percorsi di orientamento al lavoro in circa il 90% dei casi. Nella comparazione con il 2020 emerge un incremento per il servizio di orientamento al lavoro, che passa dall’88% al 94% dei Centri. Questo dato è particolarmente significativo se si pensa che una donna su tre (31,9% tra disoccupate, casalinghe e studentesse) è a reddito zero, in linea con il 2020 (32,9%) e il 2019 (33,8%). Solo il 37% (tra occupate e pensionate) può contare su un reddito sicuro.

Soltanto il 28% delle donne accolte decide di denunciare, percentuale che rimane sostanzialmente costante negli anni. Questo dato non stupisce: la vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni che entrano in contatto con le donne (servizi sociali, forze dell’ordine, tribunali ecc.) continua a frenare l’avvio di un rapporto di fiducia con le donne che intendono rivolgersi alla giustizia.

L’attività dei centri si sostiene per gran parte sul lavoro volontario delle attiviste, di cui solo il 33, 3% è retribuito, anche a causa della scarsità e non strutturalità dei fondi.

«20.711 donne nel 2021, il 3,5% di contatti in più rispetto al 2020, l’8,8% in più le donne che non avevano mai chiamato il Centro antiviolenza, sono numeri che confermano l’importanza dei centri della nostra Rete. Dietro ogni numero che leggete c’è una storia, la storia di ogni singola donna, che crede nella possibilità di uscire dalla violenza, dà fiducia ai nostri centri: l’aumento di donne che a noi si rivolgono lo leggiamo in questa luce» dichiara Antonella Veltri, Presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza. «Sono numeri che danno la misura del lavoro che le 2.793 attiviste, di cui solo poco più del 30% retribuite, svolgono per dare forza alle donne. Non basta approvare un Piano antiviolenza se mancano le linee guida attuative: siamo in attesa di questo, dell’impegno concreto del governo sul tema della violenza maschile alle donne, per il 2021-2023» continua Veltri. «La fotografia annuale che presentiamo ci conferma che i nostri presidi territoriali sono baluardi imprescindibili nella prevenzione e nel contrasto della violenza alle donne. Lavoriamo per le donne e con le donne. Continueremo a farlo perché crediamo nel valore e nel potere che abbiamo di trasformare il modello culturale patriarcale da cui prende origine ogni forma di violenza alle donne» conclude la presidente.

Tutto bene, insomma.

Buon giovedì.

Nella foto: le mani e le braccia di una donna segnate dall’acido gettato da un ex partner

Se il clima fosse una banca l’avrebbero già salvato

Closeup of an open bank vault door with golden light peeking from inside. 3D Render

Il titolo sembra una battuta ma non lo è. La situazione è grave ma non è seria, la crisi energetica e la crisi ambientale sono argomenti buoni per accigliarsi. Se pensate che si stia facendo tutto quello che si può fare allora si potrebbe fare un salto per l’ennesima volta in Spagna dove, dopo avere fatto una riforma del lavoro per tutelare i diritti dei lavoratori e per ridurre sensibilmente la precarietà (e la legge funziona, anche) hanno deciso di muoversi per aiutare famiglie e imprese strozzati dalla crisi.

La Spagna imporrà una tassa straordinaria sulle banche come strumento per contribuire agli sforzi del paese di fronte all’inflazione e gli impatti economici della guerra in Ucraina. La tassa rimarrà in vigore per due anni e mira a raccogliere 1,5 miliardi di euro all’anno. Lo ha spiegato ieri il primo ministro Pedro Sanchez. Sanchez ha spiegato anche che l’imposta sugli extra profitti delle compagnie energetiche garantirà introiti per 2 miliardi l’anno per 10 anni. Inoltre saranno totalmente detraibili le spese per i trasporti.

«So che sta diventando sempre più difficile arrivare alla fine del mese. Capisco l’angoscia, la frustrazione e anche la rabbia di tutti perché è anche la mia», ha detto Sanchez presentando le misure. «Dobbiamo adottare misure di risparmio energetico», ha aggiunto, citando il telelavoro, la limitazione nell’uso di riscaldamento e dei condizionatori. «Possiamo farlo e lo faremo», ha assicurato. «Chiediamo alle grandi aziende di garantire che tutti i benefici eccezionali ottenuti grazie alle circostanze attuali vengano ritrasmessi ai lavoratori».

«Non tollereremo che qualcuno approfitti della situazione», ha detto lanciando poi una una frecciata alle società elettriche: «Quelli che vengono chiamati profitti altissimi non cadono dal cielo: escono dalle tasche dei cittadini».

Tra le misure in favore delle famiglie anche 100 euro mensili per i giovani dai 16 anni in su che stanno già ricevendo borse di studio, nell’ambito di misure tese a diminuire l’abbandono scolastico per motivi economici, una delle misure più applaudite in Aula durante il discorso durato ben un’ora e 25 minuti.

Non è difficile fare cose di sinistra.

Buon mercoledì.

Sevinaz Evdike: «Combatto per il Rojava armata di videocamera»

Regista e produttrice del Rojava film Commune, un collettivo di cineasti fondato nel 2015, Sevinaz Evdike fa parte anche del Kongra star, la confederazione di organizzazioni di donne nel Rojava nata nell’ambito della rivoluzione del 2011 che ha costruito un esperimento di democrazia all’insegna del confederalismo democratico seguendo i principi del femminismo, dell’ecologismo e dell’eguaglianza di genere. Abbiamo incontrato Sevinaz Evdike a Roma, durante la seconda rassegna del cinema curdo Venti di Mesopotamia che ha presentato documentari, opere prime e cortometraggi e che rientra nel più ampio progetto “Rewend – Cinema errante”; un’iniziativa di respiro europeo realizzata con Rojava film Commune e sostenuta dal Fondo del festival di Göteborg.

Sevinaz Evdike, quando ha iniziato a coltivare la sua passione per il cinema?
Ho sempre amato il cinema, e ho sempre voluto lavorare in questo campo. In realtà, il mio percorso non è stato lineare. Quando mi sono diplomata, la mia famiglia si trovava in una situazione economica difficile e non potevo permettermi di pagare gli studi all’Accademia di cinema. Alla fine sono stata costretta ad iscrivermi a psicologia, ma proprio durante l’ultimo anno di università le condizioni materiali sono un po’ sono migliorate e allora ho deciso di iscrivermi finalmente all’Accademia.

Cosa ha rappresentato per lei la Rojava film Commune?
Nell’anno in cui ho concluso i miei studi è stata un sogno che si avverava. Avevo sempre pensato che lavorare nel cinema sarebbe stato difficile ma la rivoluzione del Rojava del 2011 e la nascita della Rojava film Commune mi hanno dato una spinta fortissima e ho capito che della mia passione avrei potuto fare il mio lavoro. Anche se ho imparato a scrivere le sceneggiature e a girare con la macchina da presa all’accademia, il vero luogo di apprendimento per me è stato il collettivo di cineasti. Qui il cinema è un progetto collettivo, uno spazio libero. Ho avuto l’opportunità di sperimentare.

Quale è stato il suo primo progetto cinematografico?
Per la mia tesi di laurea ho girato un cortometraggio, Birth, ma non è mai stato distribuito. Il primo film con la Rojava film Commune è stato Mal – casa – ambientato a Raqqa nel 2018, in seguito alla liberazione della città dall’Isis. Il film racconta la…

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 luglio 2022 

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Lo dice anche l’Inps: il problema sono i salari, altro che il reddito di cittadinanza

Foto LaPresse - Mourad Balti Touati 08/02/2018 Milano (Ita) - Via conservatorio 7 Cronaca Protesta di alcuni studenti in un aula della sezione scienze politiche dell'università statale di via conservatorio - durante la presentazione di un libro sul lavoro e sui salari minimi gli studenti interrompono la discussione mostrando uno striscione contro lo sfruttamento del lavoro Nella foto: lo striscione mostrato dagli studenti

Dopo l’Istat lo dice anche l’Inps: il 23% dei lavoratori italiani guadagna meno di quanto sarebbe loro assicurato dal Reddito di cittadinanza (780 euro al mese). La quota include lavoratori assunti con contratti part time: sono circa 5 milioni di lavoratori. La retribuzione media lorda pro capite nel 2021 risulta pari a 24.097 euro, compresi i contributi a carico del dipendente, un valore ancora inferiore a quello del 2019 (-0,2%). Per le donne la retribuzione è più bassa in media del 25% rispetto a quella degli uomini: 20.415 euro. Se si considerano solo le occupazioni a tempo pieno e indeterminato il salario lordo annuo è di 39.973 euro per i maschi e 35.477 euro per le donne.

Nei primi 36 mesi di applicazione del Reddito di cittadinanza (aprile 2019-aprile 2022) la misura ha raggiunto 2,2 milioni di nuclei familiari per 4,8 milioni di persone, per un’erogazione totale di quasi 23 miliardi di euro. L’Inps nel suo report annuale scrive che l’importo medio mensile di reddito di cittadinanza risulta per il mese di marzo 2022 pari a 548 euro per nucleo familiare. La scorsa settimana l’Istat aveva calcolato che grazie al sussidio siano state salvate dalla povertà un milione di persone.

«Se il quadro occupazionale appare promettente, segnali più preoccupanti vengono dalla dinamica retributiva», si legge nel rapporto che spiega anche come questa dipenda fortemente dalla attività e dalla copertura contrattuale. Se la retribuzione media giornaliera per i dipendenti a full-time è pari a 98 euro, in sei tra i principali Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) è inferiore a 70 euro mentre nell’industria chimica è pari a 123 euro. Sempre superiori a 100 euro giornalieri risultano anche i valori medi nei gruppi di Ccnl con meno dipendenti. Per i dipendenti a part-time la retribuzione media giornaliera è pari a 45 euro, ma risulta inferiore a 40 euro al giorno per i dipendenti di alcuni comparti artigiani (metalmeccanico, sistema moda, acconciatura/estetica). I lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora in Italia sono 3,3 milioni, il 23,3% del totale. È il calcolo dell’Inps che sottolinea anche come il reddito reale sia inferiore rispetto a due anni fa a causa dell’inflazione.

«La crisi – scrive l’Inps – ha lasciato strappi vistosi nella distribuzione dei redditi lavorativi. Se si considerano i valori soglia del primo e dell’ultimo decile nella distribuzione delle retribuzioni dei dipendenti a tempo pieno e pienamente occupati, per operai e impiegati (escludendo dirigenti, quadri e apprendisti), emerge che il 10% dei dipendenti a tempo pieno di tale insieme guadagna meno di 1.495 euro, il 50% meno di 2.058 euro e solo il 10% ha livelli retributivi superiori a 3.399 euro lordi. La retribuzione media delle donne nel 2021 risulta pari a 20.415 euro, sostanzialmente invariata rispetto agli anni precedenti e inferiore del 25% rispetto alla corrispondente media maschile».

Il problema non è il reddito di cittadinanza: sono i salari da fame. Ora notate chi punta il dito sui salari e chi invece continua a bastonare la povertà. Non è difficile.

Buon martedì.

Nella foto: protesta degli studenti e lavoratori contro lo sfruttamento, Università statale di Milano, 8 febbraio 2018

I forzati del lavoro povero

La crisi pandemica e la guerra di invasione della Russia nei confronti dell’Ucraina hanno fatto balzare in primo piano il tema del lavoro. Di recente, con la speculazione sulle materie prime e poi sulla loro carenza, si è innestata una spirale al rialzo. Un fenomeno che in queste dimensioni non conoscevamo più da moltissimi anni. Questa situazione colpisce in particolare il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti, ma anche di quelli autonomi e delle pensioni. Come intervenire?

Le politiche dei sostegni una tantum attraverso i bonus di carattere emergenziale non funzionano più perché corrono il rischio di distribuire risorse a pioggia senza ottenere effetti duraturi di redistribuzione della ricchezza a vantaggio dei più deboli. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ci ha messi in guardia al fine di evitare una rincorsa tra prezzi e salari. Se di questo si tratta e se non vogliamo abbandonare a loro stessi i soggetti – come lavoratori dipendenti, autonomi e pensionati – a più basso reddito, si renderà necessario mettere in cantiere una iniziativa che veda protagonisti governo e parti sociali, capace di incidere strutturalmente sulla distribuzione della ricchezza.

Occorre, dunque, operare alcune scelte che si muovano contemporaneamente su piani diversi: un primo punto con il quale dovremo fare i conti è il tema del salario minimo, reso più incalzante dalla recente decisione europea di emanare una direttiva su questa delicata materia. Noi riteniamo che adottare un criterio di salario minimo definito per legge, cosa che in Italia non esiste, possa rappresentare una scelta positiva. Da solo, però, questo strumento non può affrontare il tema dei bassi salari che caratterizza la situazione italiana, ma può intervenire al fine di superare la pratica largamente diffusa del dumping contrattuale e salariale, vale a dire dei cosiddetti “contratti pirata”.

A questo proposito condividiamo la proposta del ministro Andrea Orlando che consiste nella scelta di compiere un primo passo: assumere per legge le tabelle salariali dei minimi contrattuali, paga base più contingenza, definiti dai singoli contratti di categoria. Si tratta di individuare i contratti cosiddetti leader o meglio ancora, i migliori contratti esistenti all’interno di ciascun settore produttivo. Un salario minimo per i lavoratori del tessile, per i lavoratori metalmeccanici, chimici, e così via, che tenga conto delle diverse situazioni contrattuali e delle diverse dinamiche produttive. Se esaminiamo la situazione attualmente esistente possiamo affermare che, escludendo i contratti pirata stipulati da organizzazioni inesistenti, la contrattazione non in dumping oscilla, come minimi contrattuali orari, dai 7 ai 9 euro orari. Esistono anche situazioni, soprattutto nel settore dei servizi, per alcune specifiche categorie, ad esempio le…

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 luglio 2022 

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Una questione di vera giustizia

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 07-04-2022 Roma Politica Senato - Question time Nella foto Marta Cartabia Photo Roberto Monaldo / LaPresse 07-04-2022 Rome (Italy) Senate - Question time In the pic Marta Cartabia

Archiviata la sonora e prevedibile sconfitta di quella parte di ceto politico che pensava di regolare i conti con la magistratura per via referendaria, i seri problemi della giustizia nel nostro Paese restano tutti sul tavolo. Anzi, ogni giorno che passa la drammaticità di alcune situazioni (si pensi in particolare alle carceri strapiene) si acuisce vieppiù.
Molteplici sono i piani che necessiterebbero di un intervento legislativo; come Giuristi democratici, ci siamo sforzati di individuare soluzioni articolate su alcune materie, sulle quali a breve pubblicheremo una sorta di “libro bianco”, a cominciare dal lavoro, con un processo ormai ridotto ai minimi termini dalle nefaste riforme succedutesi nell’ultimo quindicennio.

Allo stesso tempo, con l’innalzamento repentino e continuato dei costi del contributo unificato, le cause civili sono diventate sempre più “roba per ricchi”, così spingendo i soggetti forti (banche ed assicurazioni in primis) a condotte spregiudicate.
Nondimeno, nello stesso arco temporale anche altrove sono stati fatti danni incalcolabili.
A cominciare dal diritto penale, dove quella che abbiamo denunciato come deriva panpenalistica ha condotto all’intasamento dei ruoli dei tribunali e degli uffici del giudice di pace. Il numero delle condotte illecite ritenute meritevoli di sanzione penale, e dunque di un processo, in questi anni è cresciuto a dismisura, andandosi a sommare ad altre antistoriche figure di reato – pensiamo ad esempio alla tutela penale del marchio -, sebbene le depenalizzazioni del 2016, l’introduzione dell’art. 131-bis al codice penale (ossia la non punibilità per la particolare tenuità del fatto) e la previsione della messa alla prova avessero lasciato presagire, se non una virtuosa inversione di tendenza, una presa d’atto della realtà.

Parallelamente, sempre meno incentivato è il ricorso ai riti alternativi, cioè quelli che consentono di ottenere lo sconto di un terzo della pena, con il concetto di premialità ormai vago ricordo.
E di riflesso, le carceri sono nuovamente al collasso, sempre più discarica sociale, come per primo disse Alessandro Margara, autore della riforma penitenziaria e della legge Gozzini. Con le connesse difficoltà di usufruire, per una larga fetta di detenuti, delle misure alternative; e con buona pace delle finalità rieducative e del reinserimento sociale previsti dalla Costituzione. D’altro canto, nessuna vera riforma è…

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Come tassare i gas-serra senza alimentare ingiustizia sociale

Uno degli elementi centrali delle politiche per la riduzione delle emissioni consiste nel far aumentare il costo dei combustibili fossili. Rendere progressivamente meno conveniente estrarre e bruciare queste fonti energetiche, infatti, è importante per spingere persone e imprese a consumarne di meno e a investire in fonti pulite e in tecnologie più efficienti, in modo da velocizzare il passaggio a pratiche alternative a minore impatto sul clima. Politiche di questo tipo comportano, però, una penalizzazione per i consumatori finali, e rischiano dunque di non ottenere il consenso necessario per essere portate avanti. La chiave sta dunque nel trovare strumenti che facciano seguire all’aumento del prezzo un qualche schema di redistribuzione che protegga la maggioranza meno abbiente della popolazione.

Il punto da cui occorre partire è che, in base agli obiettivi di Parigi del 2015, le emissioni annue nette a livello mondiale devono essere dimezzate entro il 2030 (rispetto al livello del 2010) e azzerate per il 2050. Il secondo dato da considerare è che la crisi climatica è in larga parte dovuta al fatto che i problemi provocati dall’emissione di gas serra – e dal connesso riscaldamento – non sono ancora tenuti sufficientemente in conto nei prezzi che paghiamo per i nostri consumi, spingendoci a consumarne più di quanto sarebbe sostenibile. Da qui l’urgenza di utilizzare anche lo strumento dei prezzi per segnalare la scarsità di una risorsa naturale: la capacità dell’atmosfera di assorbire carbonio.

Evidentemente, però, se i prezzi delle energie fossili salgono, a rimetterci sono le…

L’articolo prosegue su Left dell’8-14 luglio 2022 

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