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Tanto per stare sui programmi: Sinistra italiana/Verdi

Sinistra italiana e Verdi hanno presentato il proprio programma. Sì allo Ius-soli, stop alla Bossi-Fini, tassazione progressiva e investimenti green tra le proposte. Nicola Fratoianni annuncia una «patrimoniale sulle mafie attraverso la liberalizzazione della cannabis». E sul fisco, aggiunge: «Bisogna chiedere a chi ha molto di più di pagare un po’ di più». «Proponiamo di intervenire sul fisco per ristabilire un meccanismo di progressività che in questi anni è stato compresso e cancellato, e una crescita progressiva e continua dell’aliquota al crescere del reddito», spiega. E ancora: «Noi proponiamo di eliminare le patrimoniali esistenti, come l’Imu sulla seconda casa, a favore di un’unica tassazione sul patrimonio che sia progressiva».

Il programma (lo trovate qui) punta a «combattere la disuguaglianza che dilaga – dice il segretario nazionale di Sinistra italiana Nicola Fratoianni – e a dare a tutti e tutte pieni diritti di cittadinanza e di libertà». Si articola in 110 punti raggruppati per tematiche, dall’energia alla lotta alle mafie.

Primo capitolo, “Italia rinnovabile e green”: stop esportazione del gas italiano; abolizione dei sussidi fossili; spinta alle rinnovabili e no al nucleare; una legge per il clima entro i primi 100 giorni; trasformare Cdp, Sace e Invitalia in Banche per il clima; portare gli obiettivi 2030 del pacchetto Fit for 55 ad almeno il 50% di penetrazione di rinnovabili e al 45% di risparmio attraverso l’efficienza energetica; difesa e attuazione della Costituzione repubblicana e antifascista; rifiuto di ogni forma di presidenzialismo; piano di investimenti contro la dispersione idrica e un piano che acceleri la realizzazione dei sistemi di depurazione; sostegno all’agricoltura biologica e a km zero; lotta a erosione e dissesto idrogeologico, tutela delle foreste.

“Mobilità sostenibile”: rimodulare il fondo complementare del Pnrr (30 miliardi di euro) per destinarlo a investimenti sul trasporto pubblico; favorire lo smart working; dieci mesi di trasporto pubblico locale gratuito, tpl e treni regionali gratuiti per gli under 30.

“L’Italia che ama”: legge contro l’omolesbobitransfobia e l’abilismo; nuova legge sulla cittadinanza, che parta dallo ius soli e dallo ius scholae; legge sul fine vita; legalizzazione della coltivazione della cannabis per uso personale; legge che preveda all’interno delle scuole progetti e programmi che parlino di educazione all’affettività, alle differenze e al rispetto.

“L’Italia è donna”: legge sull’uguaglianza e la pari dignità familiare; estensione dei diritti e dei doveri delle coppie eterosessuali anche alle coppie dello stesso sesso; stop ai trattamenti di conversione, dette terapie riparative, che attraverso pratiche di qualsiasi natura hanno come obiettivo quello di modificare l’orientamento sessuale o l’identità di genere di una persona; divieto di interventi chirurgici e procedure non necessarie dal punto di vista medico sui bambini e le bambine intersex e piena ricezione della Risoluzione del Parlamento europeo del 14 febbraio 2019 sui diritti delle persone intersex; un piano straordinario per l’occupazione femminile e politiche e misure efficaci per le imprese femminili.

E ancora: interventi contro la disparità economica e nell’accesso alle risorse e alle opportunità; strutturare la sicurezza sul lavoro in considerazione delle specifiche differenze tra occupazione femminile e maschile; applicazione della Convenzione Ilo 190 “contrasto alle molestie, molestie sessuali e violenze sul posto di lavoro”; indennità di caregiver; congedo di maternità obbligatorio retribuito al 100% per almeno due mesi prima + sei dalla data del parto, nonché uno del padre che non sia alternativo a quello della madre e per una maggiore durata rispetto ad oggi; allontanamento del maltrattante in caso di violenza maschile contro le donne; modifica dell’articolo 1 della legge 54/2006 (sull’affido dei figli in caso di separazione, ndr); porre al centro della azione legislativa la serenità della figlia/figlio minorenne.

“L’Italia a rifiuti zero”: più raccolta differenziata, riciclo e economia circolare; piano nazionale rifiuti che consideri la termovalorizzazione solo come soluzione di ultima istanza; politiche per favorire la riduzione dei rifiuti a partire da una progettazione sostenibile.

“Lavoro”: riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; salario minimo di 10 euro all’ora; intervenire sul Codice degli appalti per impedire che la competizione fra imprese avvenga a scapito di salari e diritti dei lavoratori; protezione del potere d’acquisto e ripristino della protezione contro i licenziamenti ingiustificati; un Piano nazionale per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e una campagna di assunzioni nelle apposite funzioni delle Asl per arrivare entro la legislatura a triplicare il numero delle attuali ispezioni; pensione a 62 anni o con 41 anni di contributi, riconoscendo i periodi di disoccupazione involontaria, il lavoro di cura non retribuito, la maternità e pensione minima non inferiore a 1.000 euro.

“L’Italia giusta”: abolizione dell’Imu e dell’imposta di bollo sugli investimenti; lotta all’evasione fiscale; tassazione degli extraprofitti dei colossi energetici.

“L’Italia della bellezza”: no alla privatizzazione della città e dei beni comuni; bloccare l’articolo 6 del decreto Concorrenza e revisione delle cartolarizzazioni che mettono in vendita i beni demaniali; stop al consumo di suolo.

“L’Italia della biodiversità e dell’amore per gli animali”: obiettivo 30% di aree protette, delle quali il 10% a stretta protezione; adottare al più presto la proposta di norma sui pagamenti per i servizi ecosistemici e l’attuazione integrale delle norme di gestione dei siti della Rete natura 2000; abolizione della caccia; animali domestici e selvatici esseri senzienti come indicato nell’art. 9 della Costituzione; migliorare le capacità gestionali di parchi e riserve nazionali e regionali; rafforzare l’attuazione, il ruolo e la cultura della Rete natura 2000 in Italia; ridiscutere la soppressione della Forestale, istituendo un nuovo Servizio ambientale e forestale (Saf).

“L’Italia sociale”: valorizzare le periferie dotandole dei servizi necessari allo svolgimento della vita quotidiana, teatro, biblioteche, musei, parchi; destinare a verde e boschi urbani le superfici ancora non edificate nelle città; piani decentrati per l’autonomia energetica da fonti rinnovabili.

“Per un’Europa di pace e accoglienza”: istituzione del dipartimento della Difesa civile non armata e non violenta; mozione per l’adesione dell’Italia al Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw), come Stato osservatore; istituzione dei Corpi civili di pace; rendere stabile, operativo e aperto a tutti il Servizio civile universale; possibilità di obiezione alle spese militari; trasformare l’ecocidio nel quinto reato internazionale soggetto al Tribunale dell’Aia; abolizione della legge Bossi-Fini; diritto di asilo che comprenda anche la protezione dei rifugiati climatici e ambientali; rivedere gli accordi Italia-Libia ed eliminare i finanziamenti alla Guardia costiera libica; piano europeo per le migrazioni che preveda il superamento del sistema di Dublino.

Cancellare i centri di permanenza per i rimpatri; iscrizione dei migranti ai centri per l’impiego con formula “stp” (straniero temporaneamente presente); riforma della legge anagrafica nella sezione relativa ai residenti stranieri per facilitare l’iscrizione anagrafica e il mantenimento della residenza; istituzione di albi regionali e comunali per le figure professionali di settore (interprete, mediatore culturale/interculturale, operatore dell’accoglienza); costituzione della consulta delle cittadine e dei cittadini stranieri non comunitari e apolidi e dei consiglieri comunali aggiunti a carattere elettivo; tutela famiglie transnazionali; riformare la rappresentanza parlamentare e consultiva degli italiani all’estero; incentivi per chi vuole rientrare in Italia.

“Italia della scuola”: massimo di 15 alunni per classe e recupero di spazi pubblici per nuove aule; estensione del tempo scuola e obbligo scolastico a 18 anni; gratuità dell’istruzione, dal nido all’università; creazione di Zone di educazione prioritaria e solidale nelle aree di maggiore difficoltà sociale e culturale; superamento del precariato e sulla formazione dei docenti; sostegno psicologico permanente nelle scuole; modifica del sistema di valutazione; educazione sessuale e affettiva dall’ultimo anno della scuola primaria, poi con cadenza biennale dal primo anno della scuola secondaria inferiore.

“Università e ricerca”: rilanciare l’investimento in ricerca, formazione, cultura; gratuità dell’iscrizione universitaria; governo democratico della ricerca pubblica che valuti atenei e ricerca in maniera equa; università e ricerca devono partecipare nel delineamento del Pnrr.

“Welfare e comunità”: inserimento dell’obiettivo “salute” in tutte le politiche; piano di rafforzamento strutturale del personale dipendente, con l’assunzione di complessivi 40mila operatori in tre anni; piano straordinario di investimenti pubblici per l’ammodernamento strutturale e tecnologico della sanità pubblica; promozione dei farmaci equivalenti; abolizione dei vantaggi fiscali connessi alla sottoscrizione di polizze assicurative sanitarie e alla partecipazione a fondi sanitari integrativi; sanità di prossimità e rete dei medici Sentinella per l’ambiente; creazione di un fondo per l’acquisizione degli immobili posti a garanzia di crediti deteriorati nel sistema bancario.

Limitare il fenomeno degli affitti brevi per contrastare l’emergenza abitativa; rafforzare il reddito di cittadinanza; promozione dello sport adattato e l’accesso alla pratica sportiva delle persone con disabilità; assunzione straordinaria di psicologi e specialisti della salute mentale nei sistemi sanitari pubblici territoriali, convenzionati; potenziare il servizio di psicologia scolastica e un portale per la prevenzione dell’istigazione al suicidio e all’autolesionismo; stabilità e certezza normativa in materia fiscale per il terzo settore; semplificazione delle procedure per il mantenimento dell’iscrizione al Runts (il Registro unico nazionale del terzo settore, ndr); ridurre il sovraffollamento e migliorare la qualità della vita delle persone detenute; miglioramento della qualità di preparazione del personale penitenziario; nuovo regolamento penitenziario che preveda più possibilità di contatti telefonici e visivi.

“Lotta alla criminalità organizzata e alle ecomafie”: introduzione nel Codice penale dei delitti contro gli animali; inserire i delitti ambientali previsti dal titolo VI-bis del Codice penale e il delitto di incendio boschivo tra quelli per cui non scatta l’improcedibilità; potenziare il personale di Noe (Il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri, ndr) e Guardie forestali; potenziare le Agenzie per l’ambiente; Patti di integrità relativi alle procedure di gara finalizzate alla stipula di contratti pubblici.

Buon giovedì.

Viaggio tra i palestinesi di Sheikh Jarrah, vittime dell’apartheid israeliano

Questo reportage del 22 agosto 2022 dal quartiere di Gerusalemme Est fa luce sulla condizione in cui vivono gli abitanti, tra le tensioni esplose per gli sfratti che li minacciano.

«Da grande voglio fare l’architetto. Voglio ristrutturare questa casa e costruirne un’altra». Ali Qanibi ha 14 anni e parla seduto sul letto di una camera di pochi metri quadri che per sette mesi è stata la prigione dove ha scontato gli arresti domiciliari. Ali abita con i suoi genitori e quattro fratelli, di cui uno disabile, a Sheikh Jarrah, quartiere palestinese di Gerusalemme Est. 
Visto da lontano questo quartiere è una distesa di case fatiscenti, eppure sulla proprietà di questi metri quadri si gioca da anni una partita che va ben oltre una banale disputa immobiliare. Da un lato, famiglie palestinesi che abitano quelle case da 50 anni, e dall’altro lato, Nahalat Shimon, un’organizzazione radicale religiosa di coloni israeliani che le vuole sfrattare sostenendo che la proprietà sia di famiglie ebree che erano lì prima del 1948.

Il quartiere è militarizzato dal giorno in cui, lo scorso febbraio, Itamar Ben Gvir, parlamentare di estrema destra sionista, ha allestito un suo ufficio improvvisato sotto una tenda con la bandiera di Israele, nel giardino di una delle 25 famiglie sotto sfratto. Ben Gvir ha accusato la polizia di non aver reagito a presunti attacchi incendiari in una casa di coloni a Sheikh Jarrah, a seguito dei quali gruppi di coloni hanno sparato e lanciato sassi contro le case palestinesi.

Ali Qanibi, 14 anni, abitante del quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, a lungo tenuto agli arresti domiciliari dalle autorità israeliane

«Non sono stato io a bruciare la sua macchina!» dice Ali guardando fuori dalla finestra che è stata la sua unica apertura sul mondo per molti mesi. «Il colono mi fotografava mentre guardavo fuori, mi arrabbiavo ma non potevo fare niente, alla fine chiudevo la finestra e rientravo. Mi mancava l’aria». L’unico sollievo per Ali, durante il periodo dei domiciliari, erano i suoi quattro amici, residenti nel quartiere. Oggi sono tutti in carcere denunciati dallo stesso colono, vicino di casa. «A Sheik Jarrah le famiglie sono sottoposte a una grande pressione psicologica», aggiunge Rateeb, abitante palestinese del quartiere, «e i nostri figli crescono sotto la costante minaccia dello sfratto».

Una realtà che produce tensione, contro la quale provano a opporsi anche alcuni attivisti ebrei, che manifestano a fianco dei residenti palestinesi ogni venerdì mattina. Shula Treves è una giovane studentessa ebrea e ci guida la mattina successiva in manifestazione. «È ovvio che è una questione politica», spiega. «Non si parla veramente di chi fosse proprietario della casa ottant’anni fa, ma si sta decidendo cosa ci sarà a Gerusalemme nei prossimi anni: se i quartieri palestinesi potranno a rimanere tali o se ci vivranno sempre più ebrei per impedire che Gerusalemme venga rivendicata come capitale anche dai palestinesi». La tensione durante le manifestazioni è aumentata la scorsa primavera, dopo che la Corte suprema israeliana ha congelato gli espropri di alcune famiglie, in attesa di una ulteriore verifica sulla validità dei certificati di proprietà.

Un momento di una manifestazione per i diritti del popolo palestinese

Da lati opposti di una strada sventolano bandiere palestinesi e israeliane. Da una parte, gli attivisti palestinesi ed ebrei, dall’altra, i coloni e i simpatizzanti di estrema destra che urlano ai manifestanti ebrei: «Terroristi! Voi state con i terroristi!». In mezzo a una distesa di bandiere israeliane, si legge un cartello: «Corte suprema, cancro di Israele».

Jeff Halper partecipa a manifestazioni come questa da tutta la vita. Ebreo israeliano di origini americane è un attivista politico co-fondatore del Comitato israeliano contro le demolizioni delle case palestinesi. Nel 2006, venne nominato al Nobel per la Pace, insieme a Ghassan Andoni, intellettuale palestinese. «Vogliamo che i palestinesi sappiano che ci sono ebrei che vogliono la coesistenza», spiega Halper. «Da quando è iniziata l’occupazione nel 1967 – aggiunge – gli israeliani non possono andare nelle città palestinesi e viceversa, quindi qualsiasi giovane palestinese sotto i 50 anni non conosce gli ebrei. Gli unici ebrei che hanno mai visto sono o i coloni, che li attaccano, o i soldati, che pure li aggrediscono in modo violento».

Jeff Halper, attivista politico co-fondatore del Comitato israeliano contro le demolizioni delle case palestinesi

Mentre procede la manifestazione ci dicono che Alì è stato nuovamente arrestato. La madre sulla soglia di casa è disperata: «La polizia è venuta a prenderlo nella notte, lo hanno bendato, ammanettato e lo hanno portato via. Ho chiesto “dove lo portate?” e mi hanno risposto “nella Camera numero 4 per l’interrogatorio!”, ma non hanno voluto dirmi perché».
Ali mostra i lividi sui polsi, legati da delle fascette di plastica, un bozzo sulla testa e un livido in faccia. «Mi hanno tenuto nella stanza degli interrogatori e ogni tanto qualcuno veniva a picchiarmi. Avevo la faccia contro il muro e mi hanno dato un calcio nel fianco. Ho chiesto perché ero stato arrestato e mi hanno detto “per il caso della macchina”. Il giudice in tribunale ha riconosciuto che il caso era lo stesso (per cui già era stato arrestato, ndr) e non c’erano prove nuove e mi ha lasciato andare, con altri tre giorni di domiciliari».

Le modalità di arresto di Alì non sono un caso isolato. Secondo l’associazione Defence for children international, tre minori palestinesi su quattro vengono picchiati dalle forze armate durante la detenzione. Questa associazione palestinese per i diritti dei minori è una delle sei ong dichiarate “organizzazioni terroriste” dal governo israeliano ad ottobre 2021, quando sedici difensori dei diritti umani sono stati incarcerati. Contro questa decisione, a fine febbraio scorso, si è pronunciato l’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite (Ohchr) che esprime preoccupazione per «gli sforzi intrapresi per mettere a tacere i difensori dei diritti umani dei palestinesi nei Territori Occupati», chiedendo al governo di Tel Aviv di archiviare le accuse contro le ong per assenza di prove concrete.

Sempre le Nazioni Unite denunciano che da gennaio a giugno 2022, esercito e polizia israeliani hanno ucciso oltre 60 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, il 46% in più rispetto alla prima metà dello scorso anno. Tra questi i responsabili degli attentati compiuti in Israele tra marzo e maggio che hanno causato 18 morti.

«I giovani ebrei e palestinesi crescono senza conoscersi, ma nell’educazione alla violenza, cosa lasciamo dietro di noi?» si chiede Avner Gvaryahu, ex sergente di una squadra di cecchini, membro di Breaking the silence, una ong di soldati israeliani che hanno servito nell’esercito nei Territori occupati, partecipando ad azioni militari che li hanno segnati profondamente. «Ci lasciamo dietro più odio e più rabbia», dice Avner. «Dopo molti anni di servizio posso dire che l’occupazione non riguarda la sicurezza di Israele, ma il controllo dell’intera popolazione civile palestinese. Non vuol dire che non ci siano minacce per i cittadini israeliani, ma è una menzogna pensare che il nostro modo di agire serva a migliorare la sicurezza in Israele. È il contrario. Mantenere un controllo militare indiscriminato su tutta una popolazione civile e l’espansione delle colonie, sono attualmente le più grandi minacce allo stato di Israele».

«Molte organizzazioni umanitarie e il Relatore speciale delle Nazione unite lo definiscono un regime di apartheid», spiega Jeff Halper. «Lo hanno dichiarato lo scorso anno la ong israeliana B’Tselem e Human rights watch e quest’anno anche il report di Amnesty international, che estende l’accusa di apartheid a tutto il territorio di Israele. L’apartheid è necessario per mantenere uno Stato ebraico in un territorio in cui la maggioranza della popolazione è palestinese», conclude. Le reazioni governative al report di Amnesty sono state molto dure, accusato di antisemitismo e di aver dato voce ad associazioni terroriste. Contro gli attacchi subiti da Amnesty, quindici ong israeliane hanno firmato una lettera di solidarietà e preoccupazione per i continui attacchi governativi alle associazioni per i diritti umani.


Il 22 agosto alle ore 23.15 è andato in onda su Rai Tre il reportage “Terra promessa” di Chiara Avesani e Matteo Delbò
, l’ultima puntata del programma “Il fattore umano”, una serie di racconti giornalistici dedicati alle violazioni dei diritti umani nel mondo. “Terra Promessa” racconta la difficile convivenza tra palestinesi e coloni israeliani in alcune zone come Hebron o Gerusalemme e mostra le due facce di questa che è una “Terra promessa” per tutti, sia per gli arabi che per gli ebrei. Da un lato gli israeliani colpiti a marzo scorso da una nuova ondata di attentati che hanno determinato il rafforzamento delle misure antiterrorismo, dall’altro i palestinesi i cui diritti troppo spesso non vengono rispettati proprio in nome della sicurezza del Paese.

* In alto e nell’articolo, alcune foto di Matteo Delbò

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I partigiani di Sheikh Jarrah di Federica Stagni, Left 12 aprile 2022

Quei diritti sotto sfratto a Sheikh Jarrah di Flavia Cappellini, Left, 21 maggio 2021

Il diritto alla felicità

«Questo è un programma diverso da quello degli altri partiti che si presentano alle elezioni del 25 settembre. È l’unico programma pacifista e contro le guerre, per la fratellanza universale, la giustizia sociale, economica ed ambientale, contro corruzioni e mafie. È un programma che considera prioritaria l’attuazione della Costituzione italiana, e non più solo la sua difesa. È un programma che non parla a chi ha grandi ricchezze, potere e privilegi, ma al Paese reale. Un programma che si occupa dei bisogni essenziali di chi lavora ogni giorno (spesso troppe ore per troppi pochi soldi), di chi vorrebbe lavorare ma il lavoro non l’ha più, di chi è preoccupato per i prezzi delle bollette che aumentano. È un programma scritto per chi aspetta troppo tempo per essere curato, intrappolato nelle code infinite della nostra sanità maltrattata. Per chi dopo quest’estate rovente è seriamente preoccupato per la salute del pianeta e per il futuro dei propri figli. Per chi è contrario alla guerra, e vuole un impegno serio per una soluzione diplomatica. Per chi pensa che le enormi disuguaglianze sociali del mondo di oggi siano tanto ingiuste quanto inefficienti per l’economia. Per chi è rimasto senza lavoro a causa della chiusura o delocalizzazione di un’impresa. Questo programma è per la maggioranza sociale del nostro paese, per costruire insieme l’Italia di cui abbiamo urgentemente bisogno e ricominciare a guardare con fiducia al futuro. È stato scritto dalla società civile insieme al contributo di tanti esperti, e si compone di 120 proposte organizzate in 12 capitoli:

1. Ricompensare e rispettare il lavoro

2. Lottare per la sicurezza economica e contro la povertà

3. Perseguire la pace e la democrazia in Europa e nel mondo

4. Migliorare la sanità e la pubblica amministrazione

5. Ridare dignità all’istruzione e investire nella ricerca e nella cultura

6. Fermare l’autonomia differenziata e salvaguardare i beni comuni e i servizi locali

7. Trasformare il sistema energetico e dei trasporti per attuare una vera riconversione ecologica

8. Proteggere l’ambiente e sostenere l’agricoltura

9. Ricostruire la nostra industria favorendo un nuovo modello di sviluppo

10. Tassare di meno chi ha poco e di più chi ha tantissimo

11. Combattere contro le mafie e garantire una giustizia equa

12. Far crescere i diritti e le libertà Sono proposte ambiziose, ma necessarie per affrontare i problemi di lungo corso del nostro paese e le nuove emergenze degli ultimi anni. È un programma visionario ed allo stesso tempo concreto, che considera prioritario il diritto alla felicità».

Sono le righe iniziali del programma di Unione popolare (lo trovate qui) l’altro polo di cui pochi parlano perché torna comodo a molti raccontarlo come l’ennesimo “partitino” che corre senza troppe possibilità alle elezioni, mentre altri partiti inesistenti (il partito di Tabacci, ad esempio, scommetto che nessuno sa come si chiami) vengono trattati con i guanti di velluto perché portano acqua ai fratelli maggiori.

Tra le cose che mi hanno colpito – io lavoro con le parole – è il “diritto alla felicità” che sovverte quel “dovere della fatica” che certi presunti liberali nostrani – che sono solo liberisti – usano come mantra per dirci che “non c’è alternativa”, ispirandosi a Margaret Thatcher che solo da noi può essere usata come modello di futuro senza provare un po’ di vergogna.

Non è il diritto alla felicità il punto di programma di ogni partito che voglia essere di sinistra? Un dignità felice che garantisca a chiunque la realizzazione – attraverso ciò che fa e ciò che può fare – è quel professionismo pensato dai padri costituenti: professare i propri valori nel proprio mestiere e ricevere un salario adeguato alla persona, oltre che al reddito.

Poiché questa campagna elettorale fatica a decollare sui programmi, inchiodata com’è sulle maschere politiche, cominciare a parlare di programmi porta una ventata di democrazia sana, di confronto utile, di campagna elettorale da Paese che tiene a sé stesso. Comunque la si pensi.

Buon mercoledì.

 

* In foto, la presentazione del simbolo di Unione popolare davanti a Montecitorio, alla presenza dei dirigenti di Rifondazione comuniste, Potere al popolo e Dema e delle parlamentari di Manifesta. Immagine tratta dalla pagina Facebook di Unione popolare

Nadia e il sogno di un Afghanistan libero e democratico

Può un romanzo riportare al centro dell’attenzione una questione dolorosa e colpevolmente sottaciuta come quella dell’Afghanistan, a un anno dalla caduta di Kabul, il 15 agosto 2021, ad opera dei talebani? Sì, ed è quello che è riuscito a fare Maurizio Maggi con il suo nuovo libro, Il caso Karmàl, pubblicato di recente da Bollati Boringhieri.

La storia raccontata da Maggi prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, l’assassinio di Nadia Anjuman, «morta a venticinque anni per una poesia», cui il romanzo è dedicato, e si presenta quasi come un libro giallo, nel quale compare come protagonista un poliziotto Alì Zayd, capace ma moralmente traviato, seguito come un’ombra dal suo assistente Umar, che indaga sulla morte, apparentemente banale, di una donna addetta alle cucine di una base militare italiana, Nadia Karmàl, rivela Maggi a proposito del suo libro.

L’indagine porterà Alì a scoprire un volto nascosto e scomodo del suo Paese, di come era e di come potrebbe ancora essere, di un Afghanistan democratico che la sua generazione ha rimosso, ma che continua a esistere e a resistere, nonostante la ferocia del regime talebano, grazie all’attività clandestina di Ong come l’Associazione rivoluzionaria delle donne afgane (Rawa) sostenute dal Coordinamento italiano sostegno donne afgane (Cisda), che da tempo si batte per la libertà e i diritti delle donne dell’Afghanistan, con cui Maurizio Maggi collabora.

E, in fondo, Maggi con il suo romanzo, raccontando attraverso i suoi protagonisti le vicende di un Paese dolorosamente dilaniato, intende proprio assumere un impegno militante che squarci una inaccettabile coltre di silenzio e inviti tutti a riflettere su cosa sia possibile fare per sostenere un popolo che da troppi anni vive senza pace e diritti: “Morire senza una storia è il modo meno dignitoso di lasciare questo mondo” è l’amara riflessione di Alì. Se ogni libro ha una domanda, questo si chiede: come può ognuno di noi lasciare un segno a chi verrà?

Ecco, di seguito, un breve estratto dal primo capitolo del libro Il caso Kàrmal di Maurizio Maggi.

La prima volta che mi parlarono delle ragazze scomparse fu in un cupo pomeriggio ad Herat: la tempesta di sabbia in arrivo dal deserto persiano dava al cielo il colore del sangue rappreso. La mente corse subito a quel posto in Messico. Ciudad Juàrez dove c’erano state più di quattromila vittime, e solo di una su dieci si era trovato il cadavere. Ma quelle donne lavoravano fuori casa e rientravano la sera, da sole e con il buio: erano facili prede. In Afghanistan era un’altra faccenda. Cento persone non spariscono da un momento all’altro senza testimoni o senza lasciare traccia. In una zona rurale oltretutto, dove le donne quasi non escono di casa se non per andare al pozzo a prendere acqua. E sempre in gruppo, anche perché è l’unico momento in cui possono stare fra loro fuori dalla famiglia: era difficile crederci, non avevo mai sentito nulla del genere. Ma ciò che chiamiamo sorprese spesso sono solo la conseguenza della nostra distrazione. Come la tempesta in arrivo: era prevista, eppure ci aveva colti alla periferia nord della città, lontani da casa, come una comitiva di sprovveduti turisti occidentali…

 

* In alto: “Footprints of war”, un artwork dell’artista afghana Shamsia Hassani, da lei pubblicato sul proprio canale Twitter

Pd, liste e terzopopulisti: trambusto di Ferragosto

Il Partito democratico approva le sue liste. Bastano pochi minuti, una rapida osservazione, per capire innanzitutto che oltre a questa pessima legge elettorale (di cui tutti si lamentano e che quasi tutti hanno votato) anche la riduzione dei parlamentari è stata un duro colpo. Ricordate quando dicevano che la riduzione del numero dei parlamentari avrebbe garantito «un innalzamento della qualità degli eletti»? Ai tempi da queste parti ci siamo permessi di scrivere che si trattasse di un’idea senza nessun fondamento. Era facile prevedere che meno parlamentari eletti significasse premiare ancora di più la fedeltà al proprio capo di partito rispetto alla qualità. È andata così.

Gli stessi parlamentari che hanno tentato di rivenderci come digeribile il Rosatellum e che hanno esultato per il taglio del Parlamento oggi sono in radio e in televisione per spiegarci quanto sia difficile. Per un risparmio ridicolo (e per appoggiare un populismo bipartisan) hanno spinto una riforma di cui oggi si lamentano. Ma fate davvero?

Ieri il Partito democratico ha varato le sue liste e il cosiddetto terzo polo (che poi sarà il quarto nella migliore delle ipotesi) ha sfidato il senso del ridicolo passando tutto il giorno a contestare le scelte di Letta, ovviamente aiutato dalla propaganda social della bestiolina di Renzi & co. (solo apparentemente più urbana di quella di Salvini) che ha passato tutto il giorno a buttare merda nel ventilatore (eh sì, il “polo della serietà”). I terzopopulisti hanno una strategia elettorale invidiabile: vogliono prendere voti di mostrando che sarebbero bravissimi a dirigere un partito che però non è il loro. E così hanno passato tutto il giorno (e ci aggiungeranno anche la giornata odierna) a spendere lacrime e indignazione per i loro ex amici che non hanno trovato posto in lista. La reazione più facile sarebbe dirgli “cari Renzi e Calenda candidateli voi, no?” ma poi gli toccherebbe fare i conti con le proporzioni, ci si accorgerebbe che stiamo trattando una pozzanghera centrista come se fosse un partito vero e crollerebbe tutta la narrazione.

Ma cosa ha scatenato l’isteria nel Pd? Semplice: la corrente dei renziani indefessi che non si fidano di Renzi e quindi non l’hanno seguito in Italia viva è stata sensibilmente ridimensionata da Enrico Letta. I cosiddetti “riformisti del Pd” in realtà sono gli appartenenti alla corrente “Base riformista” che Luca Lotti e Lorenzo Guerini hanno eretto come monumento equestre in onore del loro capo Matteo quando il Partito democratico aveva una classe dirigente che proveniva da un raggio di 10 chilometri e una manciata di oratori. Ora Lotti sembra che sia stato fatto fuori (ma il Paese, il Parlamento e il Pd hanno davvero bisogno di Luca Lotti? Per quale recondito motivo?) e Lorenzo Guerini ha perso il suo abituale aplomb per aprire finalmente bocca – lui che aveva perso la parola per rispondere alle critiche sul vergognoso innalzamento delle spese militari – per difendere il suo compagno di catechismo.

Poi ci sono le liste e qui si potrebbe aprire un capitolo a parte: la ricandidatura di Pier Ferdinando Casini può bastare da sola per smontare la retorica del rinnovamento – fa il paio con quella di Fassino – e i “nomi forti” che dovrebbero essere Crisanti e Cottarelli lasciano più di qualche dubbio. Abbiamo (giustamente) passato giorni a criticare la sovraesposizione dei virologi attratti dal miele della politica in riferimento a Bassetti e intanto Crisanti aveva già firmato le carte.

La campagna è ancora lunga. Buon lunedì.

«Ora semplicemente non viviamo più». Voci dall’Afghanistan, un anno dopo

«Come possiamo non amare l’Afghanistan?» È già buio a Kabul, mentre Jamilah (nome di fantasia per proteggere l’intervistata) descrive con dolcezza il paesaggio afgano. «Non c’è niente di più speciale dell’aria pulita delle nostre montagne». Cerca le parole giuste, con cura. Poi sospira, lasciando un attimo di silenzio. Vuole farmi respirare quella freschezza insieme a lei, ma a Roma è ancora giorno e il caldo afoso rende difficile ogni tentativo di immaginazione. La connessione è intermittente, le parole di Jamilah arrivano spezzate. Cerco degli odori, dei sapori, delle tracce che mi permettano di capire un po’ dell’Afghanistan che racconta. E che vuole lasciare: «Le mie giornate passano con un unico pensiero costante. Andarmene via da qui con la mia famiglia».

La cucina di Reha e Anush profuma di kabuli palau. Carote, carne e uvetta ricoprono un vassoio di riso in mezzo al tavolo. Ogni chicco del piatto tipico afgano fa da aggettivo alle parole di Reha. Sta imparando l’italiano, ma preferisce parlare in pashto. È originaria della provincia di Paktika; la sua famiglia è per lo più pashtun. «Non capita spesso che pashto e persone che parlano dari si sposino», dice e guarda Anush mentre tiene in braccio il figlio di pochi mesi, nato in Italia. Lasciando Paktika si è presto spostata a Kabul dove ha studiato sociologia. È lì che ha conosciuto Anush, che insieme a lei fa parte di Hambastagi, il partito afghano della solidarietà, una forza politica laica, interetnica e democratica.

E poi di nuovo verso nord, da Kabul a Takhar, provincia di cui è originario Anush. Lì hanno vissuto per anni, prima della loro fuga verso Kabul nell’agosto 2021. «Pensavamo di essere sicuri almeno nella capitale, non ci aspettavamo che i talebani arrivassero così velocemente. Io ho lavorato a lungo per la difesa dei diritti umani, collaborando anche con associazioni straniere. Quindi non abbiamo più avuto scelta. Accettare il rischio o andarsene. Dopo la presa di Kabul del 15 agosto, molte persone sono state uccise, torturate o costrette a vivere in clandestinità. Ed è tutt’ora così». È da un anno che Reha è arrivata con la sua famiglia in Italia: è da un anno che la Repubblica islamica dell’Afghanistan di Ashraf Ghani è stata sostituita dall’Emirato islamico dei talebani.

Dopo il ritiro definitivo delle forze statunitensi e Nato dall’Afghanistan, il 7 settembre scorso è stato annunciato dai talebani un governo ad interim, monoetnico pashtun e interamente composto da uomini. Governo non riconosciuto dalla comunità internazionale. «La situazione è cambiata completamente. Come il cielo e la terra» ci spiega Jamilah. «Prima non sapevamo se saremmo tornati vivi o no a casa. Ora semplicemente non viviamo più. Non possiamo permetterci niente, tutto costa troppo. Le ragazze e le donne non escono e se escono devono indossare l’hijab. I mendicanti sono sempre di più, chiedono anche solo un pezzo di pane».

Jamilah ha 47 anni, ha sei figli, ma solo tre vivono ancora con lei e il marito. Mariam e Maliah (anche questi nomi di fantasia) sono sedute nel salone mentre ascoltano la chiamata in vivavoce e a volte sussurrano qualcosa alla madre. Mariam ha 18 anni, la mattina si alza, fa colazione, pulisce casa, scherza o litiga con la madre a seconda dell’umore. Non va a scuola da un anno. Jamilah parla dei figli con apprensione: «I miei figli qua non hanno futuro, voglio portarli fuori da questo Paese. Le mie figlie…vogliono un futuro». La voce in sottofondo di Mariam interrompe la madre: «Mariam vuole diventare dottoressa». Allora anche Maliah, la più piccola della famiglia, sussurra che vuole fare l’insegnante. L’educazione è preclusa alle ragazze dopo i sei gradi della scuola primaria (ossia dopo i 12 anni, ndr), ad eccezione di poche province. Più volte nel corso dell’anno sono state organizzate proteste per la riapertura delle scuole secondarie femminili. Lo scorso mese è stata lanciata una campagna sui social media, mentre a Herat alcune ragazze hanno allestito una mostra di pittura per rivendicare il diritto all’istruzione. Alle critiche che arrivano dagli afgani e dalla comunità internazionale, il governo talebano adduce giustificazioni legate a “questioni religiose”, asserendo la necessità di adattare il curriculum formativo ai valori islamici, assumere insegnanti donne e creare ambienti “sicuri” e separati tra i sessi.

Maliah non sa se potrà continuare a studiare: «Ho dodici anni, quindi è l’ultimo anno in cui posso andare a scuola. Ma spero tanto che le cose vadano meglio e di poter diventare una professoressa. Così i miei studenti diventeranno brave persone». Nel frattempo in videochiamata Ishan (ancora un nome di fantasia), il fratello maggiore, traduce le parole della sorella. Ha 22 anni ed è da quattro anni che ha lasciato l’Afghanistan. È richiedente asilo in Europa dopo un lungo viaggio di confine in confine. «No tu non vuoi essere un’insegnante, ma dieci insegnanti», dice Ishan a Maliah e tutti scoppiano a ridere. Non capisco subito la battuta, ma la risata della famiglia è contagiosa. Poi Jamilah si ricompone e poco dopo Ishan esprime a voce alta i suoi dubbi; difficile dire se scherzi o no: «Forse non dovremmo ridere in un’intervista sull’Afghanistan» ed esorta la madre a continuare. Non è preoccupata solo per le figlie, ma anche per il figlio sedicenne, l’unico figlio maschio ancora a Kabul. «È giovane, le idee dei talebani potrebbero influenzarlo e non voglio che succeda». Secondo Jamilah sono tanti i ragazzini che tra i 14 e i 16 anni si uniscono ai talebani. Non importa che governo ci sia, lavorare con il governo garantisce una minima entrata, sostiene.

La crisi economica che sta vivendo l’Afghanistan ha conseguenze disastrose sulla popolazione, che stava affrontando una crisi umanitaria già da prima dell’agosto scorso. Le sanzioni internazionali hanno isolato il Paese, messo in ginocchio da quarant’anni di guerra e dipendente dagli aiuti umanitari esterni. Il congelamento delle riserve afgane all’estero e il blocco dei trasferimenti economici ha portato alla crisi finanziaria, e quindi alla crisi di liquidità e all’aumento dell’inflazione. «Ho un unico pensiero appena mi sveglio. Cosa mangiamo oggi? Quanti soldi abbiamo? E poi cerchiamo di comprare quello che possiamo, prima che aumenti ulteriormente il costo. Se non avessimo Ishan che ci aiuta non so come faremmo a sopravvivere» racconta Jamilah. Ishan si incupisce mentre traduce. E si spiega poco dopo: «La speranza delle nostre famiglie è riposta completamente su di noi, in Europa». Ma non tutti hanno qualcuno che li supporti fuori dall’Afghanistan.

«Molte famiglie mandano i propri figli a lavorare per sfamarsi. Anche lontano da casa». Le parole di Jamilah confermano quel che riporta Save the children nel report pubblicato lo scorso 8 agosto, intitolato Punto di rottura: la vita per i bambini a un anno dalla presa di controllo dei talebani. Il 25 per cento dei bambini afgani lavora per apportare qualche entrata in casa, un bambino su dieci si allontana dal nucleo familiare per cercare una qualche forma di impiego, mentre a più del 5% delle bambine viene chiesto di sposarsi per supportare la famiglia.

L’insicurezza alimentare diffusa nel Paese non è conseguente solo ai recenti cambiamenti politici e all’instaurazione del nuovo regime. La comunità internazionale è pienamente responsabile della fame della popolazione afghana. Oltre a quarant’anni di guerra a cui direttamente o indirettamente hanno preso parte i governi occidentali e la Nato, a colpire l’Afghanistan sono anche gli effetti dello sviluppo non sostenibile alla base del sistema economico capitalista. Secondo quanto riporta Afghanistan analysts network, tra i dieci Paesi più vulnerabili alla crisi climatica e ambientale, vi è l’Afghanistan. Nell’ultimo mese molte province sono state colpite da alluvioni che hanno distrutto case, provocando morti e sfollati. Ettari di terreno agricolo e infrastrutture quali ponti, ospedali e scuole sono stati spazzati via da ingenti precipitazioni e piogge. Lo scioglimento dei ghiacci e delle nevi hanno influenzato il flusso dei fiumi, alternando periodi di piena a lunghi periodi di bassa portata e quindi di siccità.

«Quando parliamo con gli amici, nessuno di noi spera più di vedere un Afghanistan felice. Forse solo i figli dei figli dei nostri figli vivranno un Afghanistan con meno problemi e senza conflitti. Forse». Jamilah risponde alle parole di Ishan, ancora più sconfortata: «Ho vissuto quarant’anni di guerra. C’erano, ci sono e ci saranno sempre problemi. Non ho più speranza». Ishan sorride, sorpreso di aver ricoperto il ruolo dell’ottimista tra i due. Improvvisamente la connessione cade. Con Ishan rimaniamo d’accordo di provare a richiamare la famiglia più tardi, ma sarà impossibile riuscire a ricontattarli fino a due giorni dopo. Nel frattempo fonti locali avvertono dell’assenza di internet a seguito di attentati nei quartieri ovest di Kabul.

«La situazione è ottima ora, possiamo uscire di casa senza avere paura». Emran (nome anche questo di fantasia) ha 24 anni. Gira la videocamera e mostra il suo gatto e il suo cane nel giardino di Kabul. Fa caldo e riposano all’ombra. Le sue parole stonano con le notizie della settimana. Sono i giorni precedenti all’Ashura, importante cerimonia per la comunità sciita. Nel fine settimana del 6 e 7 agosto, sono 120 i morti e feriti a seguito delle esplosioni rivendicate dall’Isis Khorasan (Isis-K), branca locale dello Stato islamico, come riporta la missione di assistenza delle Nazioni unite in Afghanistan Unama. Già a giugno, la missione aveva pubblicato un report secondo il quale sarebbero 2.106 le vittime civili (700 morti e 1406 feriti) tra il 15 agosto 2021 e il 15 giugno 2022 causate da ordigni inesplosi (tra le vittime di questo tipo di armi, il 71% sono bambini) o a seguito di attacchi rivendicati o attribuiti a Isis-K. «In molti casi i target principali sono le minoranze etniche e religiose, ovvero gli Hazara sciiti, gli sciiti in generale e musulmani sufi» si legge nel report.

Mentre parla in videochiamata Emran si avvia verso l’alimentari sotto casa: «Da quando ci sono i talebani, la sicurezza è garantita. Ora chiunque può fare una passeggiata senza preoccuparsi troppo». Eppure non è un caso che il titolo del nuovo report di Amnesty international sia Death in slow motion. Women and girls under taliban rule (in italiano “morte a rallentatore. Donne e ragazze sotto il regime talebano”).

«Se c’è la guerra o no mi importa poco. Non posso vedere i miei amici, le mie giornate trascorrono dentro casa», dice Mariam e poi passa di nuovo il telefono alla madre Jamilah. Sono trascorsi due giorni prima di riuscire a stabilire un contatto. «Possiamo andare fuori solo in caso di necessità. Con l’hijab, in modo tale che appaiano solo gli occhi e il volto sia coperto. Non possiamo andare sole oltre 78 km e quindi nemmeno fuori dall’Afghanistan; non possiamo salire su macchine o taxi senza essere accompagnate da un guardiano, mahram», spiega Jamilah.

L’esclusione delle donne e ragazze dalla vita pubblica è iniziata fin dall’instaurazione del governo ad interim completamente maschile e seguita da numerosi decreti che hanno limitato l’accesso delle donne all’istruzione, al mondo del lavoro e più in generale alla vita quotidiana. Sono rari i casi in cui le donne afghane sono riuscite a mantenere il proprio impiego. «Non ho più una routine, il tempo passa e basta» dice Mariam. Anche nelle televisioni e nei media le donne appaiono sempre meno. Dall’agosto 2021, il 76,19% delle giornaliste ha perso il proprio impiego, secondo quanto denunciato in un dossier di Reporters without borders. Attività sportive e ricreative sono proibite per la popolazione femminile, che si trova a passare intere giornate in casa. Aumentano così le probabilità di violenza domestica, ma la dissoluzione di strutture atte alla difesa dei diritti delle donne, e quindi alla loro salute, ha reso impossibile denunciare la violenza subita per timore e per assenza di rifugi sicuri e di tutela.

Con il nuovo decreto del 7 maggio scorso, il ministro della Prevenzione del vizio e la promozione della virtù ha reso l’hijab obbligatoria negli spazi pubblici, sancendo definitivamente l’invisibilità della popolazione femminile, a cui era già stata proibita l’apparizione in film e altre attività artistiche. «Anche gli uomini più aperti sono confusi su come comportarsi rispetto al nuovo ordinamento sul’hijab» commenta Silvia Ricchieri del Cospe, associazione di cooperazione internazionale a lungo attiva in Afghanistan. Infatti, secondo il decreto verranno puniti gli uomini “responsabili” delle donne che non adempiranno alle regole relative all’abbigliamento. Mariti, padri e fratelli vengono messi contro le donne della propria famiglia. La distanza tra uomini e donne aumenta, e quindi la comprensione reciproca.

«Se usciamo per fare una passeggiata con tutta la famiglia, non sappiamo dove andare. Molti luoghi pubblici, come i parchi, sono frequentabili solo in maniera alternata: alcuni giorni sono per le donne e altri per gli uomini», racconta Jamilah. Quando va al parco vede impiegati talebani che controllano l’area. «Non ho capito, loro non sono uomini? Solo i nostri mariti e figli sono uomini?» chiede, alzando la voce. Jamilah ha parlato solo una volta con un giovane talebano, quando è andata a ritirare l’attestato scolastico del figlio. Per il resto rimangono figure piuttosto oscure, poco comprese e di cui ha paura. È la seconda volta che Jamilah vive sotto il regime talebano. Le figlie ne hanno sentito parlare fin da appena nate. «Sapevo che erano molto pericolosi. Ero spaventata, ma ora che li vedo tutti i giorni è diventato normale per me» dice Maliah. Le diverte molto truccarsi, fin da quando è piccola. Le dispiace che, ora che diventerà più grande, non potrà truccarsi in pubblico. Ripensa un po’ alla sua vita prima del regime, poi continua: «Finché senti parlare delle cose, ne hai tanta paura, ma una volta che le vivi quotidianamente, diventa tutto normale». Maliah ha impiegato poco tempo a normalizzare la situazione di paura e repressione in cui vive.

Ma, nonostante la violenza selettiva del governo talebano scoraggi ogni tentativo di cambiamento, qualcuno resiste alla normalizzazione. A pochi giorni dall’anniversario della presa di Kabul, il 13 agosto, alcune donne sono scese in piazza a manifestare nella capitale rivendicando il diritto all’istruzione e alla partecipazione sociale e politica. Pane, lavoro e libertà. Mentre urlano il loro slogan, le manifestanti vengono disperse con spari in aria da parte dei talebani. Poche ore dopo la protesta, arrivano già notizie di arresti da fonti locali, tra cui anche giornalisti e giornaliste.

Le misure volte alla repressione, alla censura e alla limitazione del dibattito interno rendono estremamente pericolosa ogni forma di reazione da parte della popolazione afghana. Nel report di Unama vengono denunciate esecuzioni extragiudiziali, torture, detenzioni e arresti arbitrari non solo a danno dei membri del forze armate del precedente governo, ma anche di giornalisti e attivisti. I dati dell’analisi di Reporters without borders parlano con chiarezza. Dei 547 organi di informazione presenti un anno fa nel Paese, 219 hanno cessato le proprie attività nel corso degli scorsi mesi. Ad oggi si contano 4.759 giornalisti rispetto ai 11.857 censiti prima dell’arrivo del regime talebano.

«Ora in Afghanistan l’accesso alle informazioni è controllato dai talebani, quindi al momento abbiamo solo le nostre fonti locali, anch’esse limitate» spiega Abdul Ghafoor Rafiey. È stato evacuato in Germania dopo l’arrivo del nuovo regime ed è direttore di Amaso (Organizzazione di consulenza e sostegno ai migranti dell’Afghanistan), fondata nel 2014 a seguito delle numerose deportazioni di afghani dai Paesi occidentali. «Non tutti sono riusciti a scappare, per cui abbiamo ancora del personale in Afghanistan. Stiamo cercando di lavorare a distanza, ma c’è molta paura e non possiamo mettere in pericolo la vita di chi lavora con Amaso. I talebani potrebbero incolparli di aver agito contro il regime e detenerli», conclude.

Tra la popolazione civile alcuni nuclei di resistenza cercano nuovi modi per agire e reagire, al sicuro dagli occhi del regime. Tra queste le donne di Rawa (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane), organizzazione politica e indipendente che dal 1977 lotta per la pace, la democrazia e i diritti delle donne. «La loro volontà è di rimanere all’interno del Paese e come hanno fatto sempre di lottare a partire dai settori popolari più poveri. È una scelta politica molto chiara: hanno sempre sostenuto che non è possibile alcuna democrazia se si mantiene un tasso di analfabetismo così alto, soprattutto tra le donne», spiega Antonella Garofalo di Cisda, Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane, che fin dalla sua nascita sostiene il lavoro politico e sociale di Rawa. E continua: «Questa è sempre stata la loro prima attività e ancora adesso stanno facendo questo lavoro, clandestinamente, nelle case, attraverso le reti familiari».

Tuttavia non per tutti rimanere è stata una scelta. «Una delle mie colleghe era incinta, come me. Dal cancello principale era impossibile entrare nell’aeroporto di Kabul, così abbiamo trovato un’altra via, ma dovevamo attraversare un fiume. E lei non ce l’ha fatta: ora si nasconde e come lei tante altre attiviste e attivisti», Reha ricorda così la sua fuga da Kabul lo scorso agosto. Ha lavorato per due anni nei progetti di Cospe, associazione di cooperazione internazionale. «Avevamo centri antiviolenza in Afghanistan, ora chiusi. Facevamo corsi di alfabetizzazione e partecipavamo a una rete di promozione dei diritti umani. E tanti altri progetti. Poi dall’anno scorso cerchiamo modi di evacuare le persone a rischio con cui siamo in contatto» spiega Silvia Ricchieri del Cospe.

Reha si siede accanto ad Anush, quando le loro due bambine si affacciano dalla porta. Ascoltano la madre, mentre racconta con amore e dolore l’Afghanistan degli ultimi anni. «Ho lavorato per 14 anni a Kabul con Saajs (Social association of afghan justice seekers). raccoglievamo prove dei crimini di guerra degli ultimi due decenni per denunciare i responsabili rimasti impuniti», prende le melanzane che ha preparato e le serve nei piatti, poi continua. «Quando ci siamo sposati, io e Anush ci siamo trasferiti a Takhar, dove sono diventata focal point di Cospe in progetti legati ai diritti umani», deglutisce un sorso di tè chai, e dice: «Sono stata minacciata più volte con lettere e chiamate. Già da prima dell’arrivo dei talebani. Le milizie locali erano spesso lasciate allo sbando dal governo, spesso torturavano persone qualsiasi. E sono loro che più volte mi hanno esortato a smettere di lavorare con Cospe in quanto stranieri e non musulmani». Indica un piatto pieno di carne macinata, simile a delle polpette schiacciate. Chapli kebab, saporito e molto piccante. Il fratello di Reha, seduto al tavolo ride, spiegando che chapli significa “sandali”. Assaporo il boccone, mi dà un senso di ordine tra la marea di informazioni, immagini e immaginari sull’Afghanistan arrivati in modo intermittente negli scorsi anni.

Anush si aggiunge alle parole di Reha, commentando: «La Nato ha continuato a dire che stava combattendo contro il terrorismo. Bugie. Gli Usa hanno supportato gruppi religiosi fondamentalisti per anni. Hanno distrutto l’Afghanistan, pensando solo ai propri interessi e non alle persone. Ora la comunità internazionale non deve riconoscere i talebani». Reha annuisce, taglia un pezzo di chapli kebab, per poi continuare: «Quando i talebani hanno cominciato ad acquisire potere abbiamo chiesto aiuto al Cospe per aiutarci a scappare. E così siamo arrivati in Italia».

Tra le mille varianti di kabuli palau, ricerco una linea comune. Torno con la memoria in Serbia, tra gli insediamenti informali di migranti vicino al confine con la Croazia, lungo la cosiddetta “rotta balcanica”. È il 2019 e Ahmad cucina il piatto tipico, ma senza uvetta. Insieme a lui vivono in una fabbrica abbandonata molti giovani afghani che l’Unione europea non lascia entrare. Non ci sono vie legali per accedere. Respinti quasi ogni notte dalle violenze continue della polizia croata, non viene garantito loro il diritto d’asilo. Cerco di mettere insieme i pochi pezzi che ho del puzzle per avere un’idea vagamente complessiva di un Paese tanto rilevante nella politica internazionale delle ultime decadi, quanto ignorato. Tanto conosciuto, quanto sconosciuto. Mentre Ahmad cucina Amin ride quando gli viene chiesto da dove viene. «Da Kab..uuum». Rimango sconvolta dal suo modo di scherzare, colmo del trauma che si porta dietro. Stona con il volto mesto di Sadiq, che mostra le immagini dei recenti attentati nell’Afghanistan di Ghani, rivendicati dai talebani. E mentre cerco di capire di più, di farmi raccontare la storia dell’Afghanistan, Ahmad se ne va innervosito quasi gridando che Afghanistan non significa solo talebani. Che c’è molto di più.

«Ci manca così tanto l’Afghanistan» dicono all’unisono Reha e Anush. «Le nostre case, i nostri paesaggi, i nostri amici, il nostro lavoro..», sospirano. Un assaggio di kabuli palau. Mordo un pezzo di carne di manzo; è questo l’Afghanistan che conosco meglio, l’Afghanistan dell’esilio. L’Afghanistan di chi in questi anni se n’è dovuto andare o ha scelto di andarsene, per un motivo o per l’altro.

È il primo gennaio 2021 e nell’accampamento informale vicino alla frontiera croata, tra una tenda e l’altra, alcuni giovani afghani preparano kabuli palau per festeggiare il nuovo anno del calendario gregoriano (diverso dal calendario seguito in Afghanistan). Scattata la mezzanotte non vola una mosca. Ma non appena il riso è pronto iniziano musica e festeggiamenti. Sulle rotaie del treno siede Aziz. Mi chiede se ho un cane. Poi ride e mi dice che il suo cane è «finish, finito». Morto, poco prima che partisse, a seguito di un’esplosione. Ha 16 anni ed è scappato già da qualche anno, dopo che i talebani hanno ucciso il fratello maggiore. Comincia a elencare tutte le volte in cui è stato respinto illegalmente ai confini europei.

Tra le 1.558 testimonianze di pushbacks (respingimenti illegali) raccolte da Border violence monitoring network, in 603 sono coinvolte persone di origine afghana. La Turchia è uno dei Paesi nel quale vengono spesso respinte le persone migranti. Secondo quanto riporta Amaso (Organizzazione di consulenza e sostegno ai migranti dell’Afghanistan), almeno 32.416 rifugiati afghani sono stati rimpatriati dalla Turchia nel corso del 2022, di cui ben 12.222 a giugno. «I Paesi europei non intervengono in merito alle deportazioni (formali e informali) messe in atto da Turchia, Iran e Pakistan verso l’Afghanistan. Ma sono coinvolti. Agiscono in modo sincronizzato» commenta Abdul Ghafoor Rafiey, direttore di Amaso, in merito alle responsabilità europee. E continua: «In seguito all’accordo del 18 marzo 2016 la Turchia è pagata dall’Unione europea per bloccare i flussi. Oltre al fatto che quotidianamente i rifugiati vengono respinti illegalmente dalla Grecia verso la Turchia».

È dal 2014 che Abdul Ghafoor Rafiey si occupa di dare un supporto alle persone rimpatriate e che denuncia alle autorità europee che l’Afghanistan non è un luogo sicuro. «Per i talebani chi vive o ha vissuto in Europa è tendenzialmente considerato infedele. Nelle zone rurali afghane ci sono da anni gruppi estremisti, oltre a malintenzionati e alle milizie locali del precedente governo, che abusavano del proprio potere». Racconta di numerosi suicidi a causa dello stigma sociale. E anche di uccisioni, torture e sparizioni a danno delle persone deportate. Ma le autorità europee sono rimaste sorde agli allarmi. Fino ad arrivare al colmo: «Per quanto possiamo verificare, la Germania ha deportato persone in Afghanistan fino a luglio 2021. Una deportazione prevista per agosto 2021 è stata cancellata. Sappiamo anche di casi in cui persone precedentemente riportate sono state evacuate» afferma Theresa Breuer di Kabul Luftbrücke, organizzazione no profit tedesca che dal 15 agosto scorso ha evacuato 2.500 persone e aiutato altre 1.000 a partire in sicurezza. E commenta: «Ci siamo resi conto che molte persone minacciate sono state abbandonate dalla Germania e dai loro partner occidentali».

Abdul Ghafoor è preoccupato; teme che presto i Paesi europei cerchino scuse per considerare nuovamente l’Afghanistan un Paese sicuro. «La comunità europea non deve dimenticare che il governo dei talebani è un regime terrorista e fondamentalista. Le persone deportate in Afghanistan se non vengono punite o torturate dai taliban, saranno punite dalle circostanze e dalla crisi umanitaria».


* In foto, uno scorcio di Kabul, 7 agosto 2022

Di Maio in peggio

Passerà Ferragosto e si avrà il quadro completo delle candidature. Forse, speriamo bene, si smetterà di parlare di alleanze praticate o fallite (anche se Calenda e Renzi sembrano avere come unico punto del loro programma elettorale l’esegesi delle scelte degli altri) e potremo capire quale siano i buoni motivi per cui le cose dovrebbero andare diversamente da come andranno, con Giorgia Meloni preoccupata solo di non compiere errori e con Matteo Salvini che si “accontenta” di andare al Viminale. Tanto per avere l’idea di come stiamo messi.

L’antico adagio “dimmi con chi vai, ti dirò chi sei” è sempre attuale. Su Renzi e Calenda tanto s’è letto e tanto s’è scritto, non serve aggiungere altro. Che certa presunta sinistra (da Rizzo a Ingroia) abbia finito per ritrovarsi in corsa con un pezzo di destra è un classico degli ultimi anni. Dalle parti di Unione popolare (che qualcuno vorrebbe archiviare come esperienza residuale, con il solito trucco) c’è una connessione di esperienze, testimonianze e competenze che forse meriterebbe ben altro spazio. Nel frattempo loro potrebbero trovare in fretta un modo di comunicare la loro elaborazione collettiva (che c’è stata in Rifondazione e Potere al popolo, serrata, anche fuori dal Parlamento) senza svilirla in avventate dichiarazioni personali che offrono una sponda a chi si impegna a sminuirli.

Nel Movimento 5 stelle i candidati “scelti” da Giuseppe Conte saranno fondamentali: sarà la sua ultima occasione di circondarsi di persone capaci (capaci anche di invertire la sensazione di un partito zeppo di pericolosi incompetenti) e fedeli ai principi del partito e al suo capo politico. Se sbaglierà questa non avrà un’altra occasione.

Nel Pd, come al solito, si assiste al balletto per ricandidare esponenti moderati (Casini ne è un fulgido esempio) con alle spalle quintali di legislature senza esattamente capire quale dovrebbe essere il guadagno in termini di voti e di credibilità. Soprattutto con poco rispetto per i territori e i loro attivisti.

La domanda delle domande però è una: perché questo senso di imbarazzante gratitudine del Pd nei confronti di Di Maio? Questo sarebbe utile saperlo (lo vorrebbero sapere anche in molti nel partito) poiché è una questione squisitamente politica. Non facciamo fatica a immaginare che Tabacci abbia trovato in Di Maio il salvagente per provare a recuperare voti che non ha mai avuto nella sua carriera (siamo pieni di gente senza voti ma con ottime conoscenze che colleziona carriere incredibili) ma che un partito strutturato come quello di Letta abbia nei confronti di Di Maio quasi soggezione nasconde un pezzo della storia recente che non ci è stata raccontata. Verrebbe il dubbio, lo appoggiamo come innocente ipotesi, che la scissione del ministro ex grillino da Conte dovesse essere una stampella (nella migliore delle ipotesi) per spostare l’asse politico con numeri rassicuranti in Parlamento. Qualcuno potrebbe obiettare che non sia andata così. È vero. Non cambia la natura del discorso. Se non è finita come avrebbe dovuto forse è merito anche dell’altro ministro (Pd) così vicino a Di Maio da trovare il tempo, tra un ordine di un missile e l’altro, di assicurargli già da tempo (ben prima della crisi) un posto per il prossimo giro: del resto il nostro ministro della guerra è considerato un grande stratega fin dai tempi di Renzi ma è solo un abile galleggiatore secondo i peggiori canoni democristiani. Ovvio che sarebbe stata una strategia politicamente insulsa e fallimentare.

Eppure questa domanda a Letta non la pone nessuno: quale patto c’è da rispettare con Di Maio? Chi l’ha siglato? Quando? Perché?

Buon Ferragosto.

La rivoluzione gentile di Luca Serianni

Alla notizia del terribile incidente capitato al professor Luca Serianni, un’anomala onda affettiva si è sollevata dalla tempesta di sentimenti di quanti l’hanno conosciuto, direttamente o indirettamente, attraverso i suoi scritti o i suoi discorsi pubblici. In particolare, è emersa distintamente una forte connessione sentimentale tra diverse generazioni di suoi ex studenti, che hanno riconosciuto emozioni simili alle proprie nelle parole di chi, ricordando il professore, aveva frequentato, in tempi diversi, le sue lezioni o aveva avuto la fortuna di frequentarlo oltre gli incontri accademici.

Che cosa ha ingenerato questa solida congiunzione affettiva, per di più in un tempo dominato dalla disillusione? Probabilmente la percezione netta di aver incontrato sulla propria strada un Maestro, per il suo sterminato sapere, certo, ma soprattutto per la rara facilità con cui riusciva a comunicarlo adeguando il discorso ai suoi interlocutori.

Una delle grandi lezioni che ci ha lasciato il professor Serianni è proprio il profondo rispetto verso i destinatari delle nostre comunicazioni, che, di conseguenza, devono risultare chiare e trasparenti. Basta sfogliare qualche manuale universitario di discipline umanistiche della fine degli anni Settanta e perdersi in quella sintassi labirintica e in quel lessico astutamente ambiguo per immaginare la felice sorpresa che rappresentarono, per me e per molti altri studenti, le nitide spiegazioni del professore, che hanno trovato poi una coerente versione nei suoi scritti. Contemporaneamente, durante quelle lezioni di grammatica storica di quarant’anni fa, si modificava in me un’inveterata idea di discorso sulla letteratura e perfino di letteratura.

Il professore si serviva dei versi della Commedia per spiegare l’evoluzione della lingua e in quelle lezioni, in cui sembrava che non usasse una parola di più né una di meno rispetto al necessario, una vecchia immagine di discorso letterario, impressionistico e sfuggente, così come una logora idea di letteratura, astratta ed estranea, finiva per perdere ogni scoria retorica e fittizia, per entrare con pieno diritto nel vivo della storia degli esseri umani.

Ancora soprattutto da lui ho appreso che l’autorevolezza di un professore dipende dal suo amore per la disciplina studiata e insegnata, dalla sua attenzione per gli allievi e dal modo in cui si combinano questi due aspetti. Nel prof. Serianni si realizzava una combinazione prodigiosa. Gli ho detto in diverse occasioni che nessuno aveva la sua capacità di mescolare rigore scientifico e leggerezza. Lui sorrideva timidamente. A me piaceva soprattutto questo del prof. Serianni, che la sua straordinaria cultura fosse al servizio della sua umanità. Ricordo che quando andammo alla fiera del libro di Torino a presentare il nostro volume sulla scrittura a scuola (Scritti sui banchi, Carocci, 2015 ndr), a uno degli autorevoli relatori capitò di perdere il filo del discorso un paio di volte. Il prof. Serianni, che parlò subito dopo, in un punto s’interruppe, come se non sapesse quale direzione prendere, del tutto naturalmente in quell’invisibile artificio retorico.

Della sua prassi didattica vorrei ricordare in particolare la consuetudine di usare una penna di inchiostro verde per segnalare le parti da valorizzare nelle prove scritte degli studenti. Secondo me era una pratica rivoluzionaria rispetto all’abitudine censoria delle “correzioni”, a cui alla fin fine si limitano quasi tutti gli interventi dei docenti nelle verifiche. Anche su questo provava a smorzare i miei entusiasmi con un sorriso umile. Però insisto: Luca Serianni, con i tratti di penna verde e i suoi garbati rifiuti di ciò che non andava, ci ha trasmesso la responsabilità e il piacere del lavoro curato nel dettaglio, la pretesa della qualità. Quasi tutti quelli che in questi giorni l’hanno ricordato non hanno potuto fare a meno di menzionare il riferimento costituzionale della sua ultima lezione, quando, coerentemente con il suo magistero, ha reso esplicito il senso del suo impegno di studioso e di docente. Difatti ai suoi allievi di quell’ultimo anno, ma idealmente a tutti i suoi studenti, disse che per lui loro rappresentavano, anzi erano lo Stato. Attraverso quel piccolo racconto della sua ultima lezione emergeva la dimensione civile e sociale della sua opera di studioso e della sua attività di docente impegnato a trasmettere felicemente quel sapere che amava condividere con gli altri.

Nella foto: il professor Luca Serianni durante l’ultima lezione alla Sapienza Università di Roma, 14 giugno 2017, Aula 1 Facoltà di Lettere e filosofia, foto di Stefania Sepulcri (settore ufficio stampa e comunicazione)

Per approfondimenti vedi anche l’intervista a Luca Serianni di Pierluigi Barberio pubblicata su Left del 10 settembre 2021

Senza sbarre. L’esperienza di carcere aperto realizzata da Cosima Buccoliero

Quando penso al direttore di un carcere, l’immagine che mi viene in mente è quella di Samuel Norton nel film Le ali della libertà, un individuo che impone la sua legge sui detenuti con violenza e prevaricazione. Niente di più lontano dalla verità nel caso di Cosima Buccoliero, già vicedirettrice del carcere di Opera, direttrice del carcere di Bollate e dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano, nonché autrice, insieme a Serena Uccello, del libro Senza sbarre. Storia di un carcere aperto, edito da Einaudi.

Una donna pratica ma sensibile, che ha saputo portare l’umanità tra le mura del carcere, che non crede che ci siano solo il bianco o il nero: «C’è anche il grigio, ed il bianco può diventare nero e viceversa». Una professionista che ha voluto esserci, condividendo i problemi di coloro che sono detestati o, peggio ancora, dimenticati da tutti: i detenuti, convinta che la persona non sia il suo reato e che tutti abbiano diritto a una seconda possibilità.

«Il carcere può diventare un luogo profondamente ingiusto, che spoglia l’individuo della propria identità», ci dice l’autrice che ci spiega che se il carcere è coartazione e violenza, questa violenza si ribalterà nella società, rendendola a sua volta violenta e insicura. In questo libro viene descritto il modello di carcere a cui ha lavorato Buccoliero con i suoi collaboratori: un luogo che non vuole essere di segregazione, dove anzi le porte sono aperte per fare entrare “energia”, dove i diritti e la dignità dell’uomo devono essere garantiti in linea con quanto previsto dalla Costituzione.

Quanto è stato realizzato a Bollate deve essere raccontato perché dove manca la conoscenza, sono i pregiudizi e i cliché a tenere banco.

Bollate offre ai detenuti un trattamento penitenziario particolare, con stanze di detenzione aperte di giorno, celle singole (riservate soprattutto ai detenuti condannati all’ergastolo, così da rendere più umana la prospettiva del “fine pena mai”), celle da due o da quattro posti, con la possibilità graduale di ottenere libertà di movimento all’interno dell’istituto, aderire a offerte lavorative, formative e culturali.

Un modello di carcere in cui non si pensa solo ai bisogni primari ma dove si punta a sfruttare bene il tempo della detenzione, lavorando perché la persona possa uscirne migliorata e pronta ad essere reinserita nella società.

Nel libro si spiega chiaramente che il modello della detenzione dura non porta alcun beneficio ma molti svantaggi per tutta la collettività. Il detenuto che si trova a vivere una condizione di totale afflizione si sentirà vittima del sistema, non compirà nessun passo in avanti (ma verosimilmente moltissimi passi indietro) e una volta uscito tornerà a delinquere.

Un carcere diverso determina risultati decisamente più positivi per tutti: detenuti, operatori e anche per la collettività poiché la recidiva di chi esce da un carcere come Bollate è del 20% contro l’80% della media nazionale. Inoltre, un detenuto che vede riconosciuti i propri diritti e la propria dignità sarà più propenso a compiere un’opera di rielaborazione e riflessione su quanto accaduto, su cosa lo ha portato a commettere il reato, sul danno provocato alla persona offesa e ai suoi familiari.

Discorsi sensatissimi che però non riescono a squarciare la cortina di silenzio e pregiudizio che avvolge da sempre l’argomento carcere. La mancanza di conoscenza su cosa sia realmente il carcere è un grande problema, ci dice Cosima Buccoliero. I media non si interessano di quello che accade dentro quelle mura, ne parlano solo quando succede qualche fatto negativo e, allo stesso tempo, i politici, anche a livello locale, preferiscono non occuparsene.  Un’altra difficoltà che porta il carcere ad essere un argomento impopolare è la difficoltà di coniugare i diritti dei detenuti con quelli delle vittime dei loro reati.

Perché pensare ai diritti dei carcerati quando questi non hanno di certo rispettato quelli delle loro vittime? La Buccoliero risponde con un pensiero semplice e carico di sensibilità: forse non si è obbligati a sanare questa contraddizione, basta sapere che esiste e tener conto di una prospettiva e dell’altra. Ma lo Stato deve comportarsi come stabilito dalla Carta Costituzionale, rispettando il detenuto in quanto persona che dovrà essere reinserita nella società e, in effetti, il modello Bollate va proprio in questo senso.

Viene da domandarsi cosa si può fare perché questa tipologia di carcere diventi l’unica possibile e l’autrice ci indica una strada da seguire: ripartire dalle nuove generazioni.

Per arrivare a un cambiamento culturale bisogna coinvolgere le scuole, i luoghi i cui si formeranno gli adulti di domani.

L’autrice ci racconta dei risultati positivi prodotti negli ultimi dieci anni dagli accordi col Ministero dell’Istruzione, dei progetti che sono stati realizzati e che hanno visto coinvolti moltissimi ragazzi. Gli studenti sono stati accolti nelle carceri, si sono confrontati con i detenuti, con la polizia penitenziaria e con gli operatori. Altre volte, sono stati i detenuti, i poliziotti e i dirigenti delle carceri ad andare nelle classi e le esperienze sono state importanti e formative.

La scuola è un luogo di educazione ma anche di formazione delle nuove personalità e, ancora una volta, è chiaro come sia importante investire su di essa perché si possa costruire una società migliore, una cultura più sana, in cui il carcere possa essere visto come l’extrema ratio e possa essere percepito con una diversa sensibilità.

Per approfondire, da leggere su Left:

Luigi Manconi: vi racconto perché il carcere è inutile

Gherardo Colombo: salvare la scuola per salvare l’Italia

Gianrico Carofiglio: se è disumana non è giustizia

La guerra di Piero contro le fake news

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 21 Settembre 2021 Roma (Italia) Cronaca: G20 l’Italia per lo Spazio organizzato della Fondazione Leonardo Nella Foto : Piero Angela Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse September 21, 2021 Rome (Italy) News : G20 , Italy for Space In the Pic : Piero Angela

«Le fake news sono un virus che può compromettere un Paese intero. Quelle sulla medicina e sulla salute sono le più gravi e pericolose. Possono fare molto male alle persone». Da decano dei divulgatori scientifici italiani, Piero Angela, mette subito in chiaro cosa pensa dei propagatori di bufale. Avendo passato tutta la vita a smascherare ciò che non è vero e a distinguerlo da ciò che invece è reale «con metodo e buon senso». Gli rivolgiamo alcune domande mentre si prepara per il Cicap fest di Padova organizzato dal Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze, il cui tema quest’anno è “Scienza, verità e bugie della vita quotidiana”.

Piero Angela, come ci si difende dalle fake news?
Parliamo di quelle sulla medicina. L’informazione scientifica in generale è molto carente nel nostro Paese. Le notizie di scienza e tecnologia non hanno molto appeal presso il grande pubblico. Sono più vincenti articoli e messaggi di natura complottista, che alimentano ciò che io chiamo il pensiero “magico”, cioè non realistico, come può essere quello di avere una cura attraverso metodi alternativi, non scientifici. La via più ragionevole per depotenziare queste notizie non consiste nel ribattere colpo su colpo, perché è inutile. Ed è quello che stanno seguendo il ministero della Salute, l’Istituto superiore di sanità e l’ordine dei medici creando dei portali istituzionali dove la gente può trovare le informazioni corrette nel campo della salute. E non mi riferisco solo ai vaccini.

C’è chi non sembra in grado di distinguere le fonti autorevoli da quelle inaffidabili.
Anche nel nostro lavoro di giornalisti è fondamentale avere buone fonti, affidabili e verificate. I giornali hanno un direttore responsabile che risponde anche in tribunale delle cose che pubblica. Ma oggi le notizie viaggiano soprattutto attraverso canali diversi dove non ci sono più questi strumenti che vincolano alla responsabilità. Il pubblico va quindi abituato. Deve sapere che ha il diritto di essere informato da fonti credibili e che sono responsabili di ciò che dicono. Naturalmente in una scuola questo è un messaggio da diffondere in continuazione. Lo dovrebbero fare anche i giornali: citare le fonti per informare il pubblico su dove poter trovare le notizie attendibili, serie, fondate. Poi è chiaro che ci sono alcune persone che non sentono alcuna ragione, che sono convinte di quello che credono. Dico questo avendo una lunga esperienza di inchieste nel mondo del “paranormale”. 

Abbiamo assistito a dei talk show in cui a discutere di vaccini sono stati messi a confronto un microbiologo e un critico musicale.
In scienza, uno non vale uno. La scienza non è democratica. Se per parlare di salute pubblica a un medico specializzato e con i titoli a posto viene opposto un cantante non si dovrebbero aver dubbi su chi ascoltare. Il problema è per chi crede al cantante, ma queste sono persone perdute. Vorrà dire che prenderanno medicine sbagliate. Pagheranno le conseguenze.

Lei più volte ha auspicato la emanazione di leggi molto severe per reprimere questo fenomeno e condannare chi minaccia il buon utilizzo di internet.
Ci vogliono certamente delle regole. Le racconto il mio caso. Ho fatto in Tv un servizio molto critico sull’omeopatia e sono stato denunciato dai medici omeopati. Ho avuto una serie di processi dai quali sono uscito sempre completamente assolto. Perché il tribunale ha riconosciuto non solo che quello che ho detto è ciò che sostiene la comunità scientifica ma anche, cosa importante, ha riconosciuto il mio diritto a non far parlare una controparte. 

Cioè, gli omeopati invocavano la par condicio?
Sì, mi hanno denunciato anche per questo. Io ho spiegato al giudice che in un programma scientifico non si può ospitare una persona che dice cose non provate. Nella scienza c’è un metodo in base al quale se uno afferma una cosa la deve sempre provare. Se non ci riesce, non ha diritto di accesso nell’ambito del dibattito scientifico. Qualcosa del genere dovrebbe esistere anche nel web. Non c’è più la responsabilità dell’informazione. Si dà una notizia, che se non è vera, addirittura può indurre qualcuno a prendere medicine che fanno male, e non succede niente. Per ciò che viene scritto su internet nessuno sbaglia e nessuno paga. 

Lei da fondatore e presidente del Cicap sa bene che c’è una fake news che resiste da secoli: la sindone. Perché secondo lei, c’è gente che crede a storie come questa palesemente false?
Per tante ragioni. Alcuni non si fidano della scienza per ragioni proprie. Per altri indubbiamente le soluzioni facili e indolori – come è l’acqua e zucchero dell’omeopatia per es. – sono molto attraenti. Sarebbe fantastico curarsi con la pranoterapia, con i fluidi magnetici, piacerebbe anche a me se funzionassero. Io credo che ci sia qualcosa nell’educazione, nelle esperienze, nelle amicizie che hanno influenzato al punto questo modo di pensare che poi è molto difficile farlo cambiare. 

C’è chi punta il dito contro l’analfabetismo funzionale, purtroppo molto diffuso in Italia, lei è d’accordo? È colpa solo dell’ignoranza o c’è dell’altro?
Non è solo questione di istruzione. Ci sono persone istruite che credono ai fenomeni paranormali o all’esistenza di medicine “magiche”. Certamente ci sono delle storie personali dietro, ma manca anche una informazione corretta. Io dico sempre che a scuola si insegnano le scienze ma non si insegna la scienza. Cioè non si insegna il metodo scientifico che è la base per capire gli eventi. E non si insegna neanche l’etica della scienza. Neppure all’università. Se non si interiorizza questo metodo molto semplice, le cose non cambieranno: quando tu affermi qualcosa la devi provare. E poi c’è la questione del controllo.

Vale a dire?
L’osservazione sotto controllo di un fenomeno dà sempre esiti negativi. Il Cicap ha ideato un gadget molto efficace. Una specie di lancetta montata su un cartoncino tondo che indica da zero a cento. In sostanza dice che quando il controllo, cioè la verifica, è inesistente il numero dei fenomeni “validi” tende a cento. Quando il controllo è 100, i risultati scientifici tendono allo zero. Questo vale soprattutto per fenomeni come telepatia, chiaroveggenza, psicocinesi. Ma il controllo vale per tutto, anche per i farmaci. Se non c’è l’evidenza, cioè non si ottiene un risultato efficace ripetuto e controllato, questo non ha valore. O per lo meno non è accettato dalla comunità scientifica. E questa accettazione almeno fino a oggi per le medicine miracolose non c’è mai stata.

 

L’intervista di Federico Tulli a Piero Angela è stata pubblicata su Left del 14 settembre 2018


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