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Cos’è la destra, cos’è la sinistra

Tra gli spunti più nauseabondi di questa campagna elettorale c’è la solita melma che vorrebbe confondere destra e sinistra truccando come al solito le parole e inventandosene di nuove per confondere le acque. Tra progressisti, riformisti (che sono gli autoproclamati della peggiore corrente all’interno del Partito democratico), i cosiddetti “liberali socialdemocratici” e altre simpatiche etichette pronte all’uso si assiste ai travestimenti continui di chi vorrebbe essere né di destra né di sinistra, che è il modo migliore per capire che qualcuno è di destra senza nemmeno avere l’onestà intellettuale di ammetterlo.

Così accade che i partiti che professano la laicità dello Stato si inginocchino di fronte al peggior ramo della religione che si fa impresa e corrano a baciare la pantofola di Comunione e Liberazione, con un’irrefrenabile voglia di piacere a tutti i costi a pezzi del Paese che nonostante si professino quasi santi sono deliberatamente di destra. Si tratta, vale la pena ricordarlo, di un movimento che si professa “di comunione” e ha prestato il fianco a una privatizzazione di scuole e sanità nel nome del loro dio. Si tratta, vale la pena ricordarlo, di un movimento di “spiritualità di etichetta” (parole di Papa Francesco, eh, mica di qualche pericoloso anticlericale) che vuole fare politica, espressamente.

Enrico Letta appare quasi naïf quando si dice stupito del trattamento ricevuto: questa smodata voglia di piacere a quelli che dovrebbero essere avversari è una sindrome che andrà studiata, prima o poi. Del resto non sarebbe stato difficile prevedere che Giorgia Meloni sarebbe stata la più applaudita: Cl ama il potere, solo il potere, e lo incensa per ottenere ciò che vuole (la proposta di parificare le scuole pubbliche e private nei programmi di centrodestra è la penitenza che si deve ai ciellini, del resto). Piuttosto sarebbe utile sapere perché partiti di presunta centrosinistra si ostinino a legittimare un meeting che invece andrebbe combattuto con forza. “Beh, ma siamo in campagna elettorale”, fa notare qualcuno. Quale momento migliore?

Buon mercoledì

Nella foto da Facebook Meloni, Salvini, Letta, Lupi al Meeting di Cl di Rimini

La gigantesca questione morale che, a sinistra, non si può più eludere

Un segnale di quanto sia profondo e stratificato, il distacco del ceto politico dal comune sentire dei cittadini è la sottovalutazione del loro sentimento morale, della considerazione che una vasta platea di essi conserva per la coerenza delle idee, dell’attaccamento ai principi, ai valori del comportamento umano. Vivendo in una vera e propria bolla, in una sorta di sopramondo in cui sembra che tutto sia lecito, i nostri uomini di partito, parlamentari, leader di varia taglia credono di superare indenni il giudizio dei cittadini se un giorno sostengono una tesi e un mese dopo il suo contrario, se militano in un partito e dopo un anno si trasferiscono in altro raggruppamento, se votano una legge considerata ingiusta e sbagliata per l’ambito di valore che orienta il campo elettorale che lo ha eletto. Immaginano che il loro cinismo travestito da Realpolitik sia lo stesso dei loro elettori.

Vero è che dopo decenni di devastazione dello spirito pubblico, dopo l’umiliazione storica del Parlamento italiano, che ha riconosciuto in una giovane in cerca di fortuna la nipote di Mubarak – per dirne una – il senso morale in Italia si è gravemente deteriorato. Tra politica ed etica pubblica si è aperto un evidente divorzio. La sensibilità per la dignità e l’onore che la Costituzione pretende dai parlamentari è stata in buona parte corrotta. E in tale opera di dissoluzione dei vincoli etici, che dovrebbero limitare la condotta pubblica degli uomini politici, una parte rilevante ha avuto anche la nostra stampa e soprattutto la televisione.

Io sono convinto che se non fosse stato per gli ostacoli frapposti dalla legge, per l’ergastolo e il 41 bis, i talk show della Tv pubblica e privata avrebbero fatto a gara per una intervista esclusiva a Totò Riina in prima serata. Non ignoro la potenza neoliberistica della competizione.
Resta da aggiungere per la verità che le varie leggi elettorali maggioritarie degli ultimi anni non hanno consentito ai cittadini elettori di scegliere i propri candidati, ancora oggi selezionati dalle segreterie dei partiti. Entrando nelle urne non hanno potuto premiare o sanzionare i loro rappresentanti in base alle scelte compiute. Nessuno può sapere, ad esempio, se gli elettori del Partito democratico avrebbero riconfermato Marco Minniti dopo che questi, con iniziativa di governo, ha affidato alla guardia costiera libica il compito di dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo.
E tuttavia è esattamente allo sdegno morale dei cittadini più sensibili, insieme alle reiterate delusioni, ai tradimenti delle speranze e delle aspettative, che bisogna guardare per spiegare la crescita vertiginosa del non voto, l’altra faccia della luna dell’astensione.

Esiste ancora, soprattutto nell’ambito degli elettori di sinistra, una moltitudine di cittadini che hanno letteralmente abbandonato l’interesse per la politica a causa di alcune scelte dei propri leader. Lo hanno fatto in seguito al varo di alcune leggi, per scelte di politica interna o estera: atti che talora hanno creato ferite non rimarginabili nell’animo delle persone.
Credo che migliaia di italiani abbiano sperimentato lo stesso sentimento di rabbia, delusione, incredulità che ho sperimentato io nel 2006, quando Romano Prodi autorizzò il governo Usa ad allargare la base militare di Vicenza

In quel caso un governo, capeggiato da G.W. Bush, che aveva appena condotto una guerra di invasione contro l’Iraq, uccidendo centinaia di migliaia di iracheni (vedi collateral murder di Wikileaks ndr), che già possedeva centinaia di basi in tutto il mondo, Italia compresa, chiedeva di espandere la propria presenza militare nel nostro territorio. E il governo di centro-sinistra disse sì. Da allora i miei convincimenti sono stati sconvolti e io ho cominciato a guardare a quell’ambito politico come a un potenziale avversario dei ceti popolari del nostro Paese. La storia ha confermato la mia lettura di allora. Attraverso scelte meno gravi sul piano simbolico, ma simili, o più dirompenti sul piano sociale, la sinistra si è allontanata dai suoi tradizionali insediamenti operai e popolari perdendo il suo elettorato storico.
L’ Italia, tuttavia, non dimentichiamolo, è un grande Paese. A dispetto degli arretramenti degli ultimi tempi e nonostante le vaste aree di corruzione e di malaffare che ne condizionano la vita, il cinismo di gran parte dei suoi gruppi dirigenti, possiede al suo interno formidabili anticorpi. Conserva presidi di democrazia e di senso morale nel mondo della cultura, dell’informazione, nella scuola, nel volontariato, in una vastissima area di cittadini comuni. Dunque, contrariamente a quanto immaginano gli stessi analisti che si occupano della politica italiana, il senso morale che ancora perdura in milioni di cittadini orienta anche il loro comportamento elettorale. Esiste una vasta area di consenso potenziale tra milioni di italiani nei confronto delle forze politiche eticamente intransigenti. Si fanno illusioni i dirigenti di Sinistra italiana se credono di uscire indenni, agli occhi dei loro militanti ed elettori, dalla prova poco onorevole che hanno fornito nei giorni di apertura della campagna elettorale.
Che si voglia credere o no, una condotta intransigente sotto il profilo della fedeltà ai programmi annunciati, della coerenza di comportamento dei dirigenti, può favorire la crescita nel tempo di un partito come Unione Popolare, capeggiato da un ex magistrato come Luigi de Magistris. Da qui potrebbe partire una inversione storica nel costume civile degli italiani: i partiti che tornano ad essere anche educatori, formatori di una consapevolezza di cittadinanza. Il ruolo che per alcuni decenni hanno svolto i partiti usciti dalla Resistenza, fondatori della Costituzione repubblicana.

La vera devianza è questa campagna elettorale

Giorgia Meloni è questa roba, gente che pasteggia sulla schiena di una stuprata per racimolare qualche voto ma soprattutto per aggiungere sale alla rabbia. Non è la prima volta che la rivittimizzazione di una donna avviene sotto gli occhi di tutti per altri scopi. Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi hanno passato anni a prendere dal cassonetto della cronaca nera minime storie personali che vengono sventolate davanti a tutti per suggerire un paradigma nazionale. Non è solo una questione politica, è una questione di etica.

Poi ci sono le devianze e stupisce che ci si stupisca. L’eugenetica è nella retorica della destra sovranista da anni in tutto il mondo e basta avere studiato un po’ di storia per sapere quali siano le sue radici. Ma la devianza più spaventosa è l’architettura di questa campagna elettorale dove si finge di scoprire solo ora cosa sia questa peggiore destra di sempre. È devianza in questa campagna elettorale avere permesso al cosiddetto terzo polo ù8che nella migliore delle ipotesi sarà il quarto) di attraversare trasmissioni e giornali per giudicare le candidature degli altri mentre hanno lo stomaco di presentare una lista elettorale con gente che è passata da Berlusconi al centrodestra all’odiatissimo Michele Emiliano prima di approdare nel “polo della serietà” (Massimo Cassano), con chi come Giuseppe Castiglione è diventato improvvisamente “serio e competente” dopo essere stato il braccio destro di Angelino Alfano e mentre è sotto processo per corruzione elettorale nella gestione del Cara di Mineo.

Renzi e Calenda candidano Giuseppina Occhionero, passata da Liberi e Uguali a Italia Viva, che accompagnava in carcere il radicale Antonio Nicosia, messaggero per i mafiosi. C’è l’ex sindaco di Siracusa Giancarlo Garozzo che indusse un pubblico ufficiale a presentare firme false a sostegno della sua lista. C’è Massimiliano Stellato che pensò bene di organizzare qui da noi una protesta dei “gilet gialli” (sempre a proposito di serietà e competenza) come i migliori populisti. In Abruzzo c’è Gianfranco Giuliante che dopo essere stato messo dalla Lega all’azienda regionale dei trasporti ha abbandonato Salvini spergiurando di non approdare in nessun altro partito e invece è finito nei “competenti”.

Nelle liste di Giorgia Meloni c’è quel Pecoraro che da prefetto di Roma si impegnò a negare la presenza delle mafie nella capitale. Nelle liste di Fratelli d’Italia c’è l’ex sindaco di Catania Salvo Pogliese condannato in primo grado per peculato: «Tra le spese contestate dall’accusa ci sono circa mille euro per lavori nello studio professionale del padre, uno dei più noti commercialisti della città etnea; il pagamento, anche ai familiari, di soggiorni in albergo a Palermo; regali per il Natale 2010; carburante e cene. In totale le contestazioni riguardavano l’uso improprio di 70mila euro. Secondo i giudici che lo hanno condannato, le motivazioni sono state depositate nel gennaio 2021, si tratta di spese non giustificate», scrive Nello Trocchia.

Premesso che nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, con liste così ci si sorprende che il centrosinistra (e la sinistra) continui a farsi dettare l’agenda della campagna elettorale da moralisti senza morale che usano uno stupro come spot elettorale e da presunti competenti che riciclano eterni ras dei voti.

Possiamo tornare a una campagna elettorale che non sia solo potenza di propaganda?

Buon martedì.

L’Angola al voto. Cresce la speranza di futuro, nonostante gli arresti, la fame e la siccità

Il conto alla rovescia è alle battute finali: il 24 agosto l’Angola torna al voto. In un contesto di arresti e mentre pesano siccità e fame (come scrive Riccardo Noury di Amnesty ndr) più di 14 milioni di angolani sono chiamati a eleggere il presidente della Repubblica e i deputati dell’Assemblea nazionale. Saranno le quarte elezioni generali dopo la fine della guerra e le quinte dopo le storiche elezioni del 1992, le prime elezioni libere dell’Angola ma che segnarono il tragico ritorno alla guerra civile terminata solo nel 2002 con la morte dell’allora leader dell’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita) Jonas Savimbi.

In un clima politico e sociale molto difficile sono otto i partiti politici che quest’anno concorrono alle elezioni ma solo due sono in grado realmente di gareggiare per la conquista del potere: il Movimento popolare di liberazione dell’Angola (Mpla) guidato dall’attuale presidente della Repubblica João Lourenço e l’Unita guidato da Adalberto Costa Junior. Le ultime elezioni del 2017 sono state vinte con una larga percentuale (oltre il 60%) dall’attuale presidente della Repubblica João Lorenço e dall’Mpla,partito politico al potere da più di 40 anni, dal giorno in cui l’Angola ha dichiarato l’indipendenza dal Portogallo.
Il nuovo presidente almeno all’inizio ha dato grande speranza di cambiamento alla maggior parte della popolazione ed effettivamente ha dato prova di grande discontinuità rispetto all’operato dell’antico presidente José Eduardo dos Santos, rimasto al potere per 38 anni di fila e recentemente scomparso. Negli ultimi cinque anni di mandato João Lourenço, ha dimostrato di poter affrontare i gruppi di potere che si sono creati in anni di mal gestione e di un sistema che ha garantito la pace ma basato su una diffusa corruzione a tutti livelli istituzionali, dove tutti sembravano guadagnarci tranne ovviamente le fasce più povere e deboli della società.

Il presidente dell’Angola João Lourenço

La lotta alla corruzione e alla dilapidazione delle risorse pubbliche, i cambiamenti nel sistema giudiziario hanno sortito i loro effetti e diversi esponenti pubblici e politici hanno perso i loro ruoli e molti sono stati investigati e arrestati. Il processo più eloquente è stato quello a José Filomeno dos Santos presidente del Fondo sovrano angolano e figlio dell’ex presidente della repubblica che insieme al ex governatore del Banco nazionale angolano Valter Filipe e all’ex vice governatore sono stati condannati per una trasferimento illecito di 500 milioni di dollari verso un conto bancario privato di una impresa con sede a Londra. In seguito all’arresto del figlio del ex presidente della Repubblica e di altri personaggi pubblici, una parte della famiglia dos Santos è fuggita all’estero. Tchizé dos Santos e Coreon Du, figli dell’ex presidente che gestivano i maggiori organi d’informazioni pubblici e privati in Angola hanno perso i loro contratti milionari con lo Stato, e sono scappati all’estero. Isabel dos Santos, altra figlia del ex presidente José Eduardo dos Santos, e donna più ricca di Africa (ha spolpato l’Angola, secondo il Corriere della Sera), è  fuggita anch’essa a Dubai. Nel frattempo lo Stato ha requisito le sue imprese in Angola, ed è tutt’ora investigata dalla giustizia angolana per peculato. Visto il suo grande potere economico, per gli interessi internazionali in campo e per il fatto di essere anche cittadina russa, non sarà facile per la giustizia angolana recuperarne i soldi sottratti e trasferiti all’estero né  tanto meno sarà facile processarla qui in Angola.
Non solo la famiglia dos Santos ma anche i militari sono stati travolti dall’azione di governo e sono stati costretti a dare allo Stato le loro fortune, in particolare il capo dello Stato maggiore Kopelipa e il generale Dino che hanno restituito alla Stato le loro aziende per un valore di più di mille milioni di dollari.

Alcuni relitti al largo delle coste angolane risalenti all’epoca della guerra civile

La legge per il rientro dei capitali e tutte queste azioni legali non sono bastate alla popolazione, per la maggior parte povera e che vive in situazioni materiali molto difficili, e l’insofferenza è cresciuta e la speranza iniziale per molti si è trasformata in rabbia specialmente durante la pandemia di Covid-19 dove la caduta del prezzo del petrolio ha creato i presupposti per la svalutazione drammatica della moneta e la successiva impennata dei prezzi che è stata troppo forte e repentina per essere compensata da qualsiasi misura. Le restrizioni sociali e i lockdown per limitare la diffusione del virus hanno, inevitabilmente, dato il colpo di grazia a una economia fragile e poco diversificata. In quel periodo moltissime persone hanno perso il lavoro e quelle che hanno continuato a lavorare hanno avuto pesanti difficoltà a mettere insieme un salario in grado di assicurare anche l’alimentazione basilare per la propria famiglia. Come se non bastasse le regioni del sud dell’Angola sono state colpite da una spaventosa siccità che ha fatto sì che migliaia di persone fuggissero nella vicina Namibia per l’avanzare della desertificazione e per la mancanza di acqua e di cibo. Negli ultimi mesi, l’uscita della pandemia, la ripresa dell’economia mondiale, l’aumento del prezzo del petrolio e l’eliminazione delle restrizioni hanno notevolmente migliorato la situazione economica ma la condizione di vita di milioni di angolani rimane comunque difficile. (E intanto, denuncia Amnesty, infuria la repressione ndr).
È in questo clima che si sta svolgendo la campagna elettorale, da una parte il presidente João Lourenço che rivendica il lavoro fatto negli ultimi cinque anni, dall’altra il candidato presidente Adalberto Costa Junior leader dell’Unita e maggior esponente dei partiti di opposizione che chiede con forza la democratizzazione delle istituzioni e che si è fatto portavoce del malcontento delle fasce più povere della popolazione e dei più giovani in particolare di quelli che vivono nei musseques di Luanda (Favelas).

Piattaforma petrolifera e pescherecci al largo delle coste angolane

Il maggior partito di opposizione è più forte rispetto alle precedenti elezioni, l’Unita infatti ha trovato in Adalberto Costa Junior un leader che ha saputo rivitalizzare e dare speranza di cambiamento a molti, che a gran voce chiedono alternanza politica e democratizzazione delle istituzioni. Adalberto Costa Jr non ha intercettato solo il sentimento di rivalsa e la rabbia di molti angolani ma è riuscito a calamitare su di se l’interesse anche di quelli che per lunghissimo tempo hanno approfittato di quel sistema basato sulla corruzione creato dall’Mpla e dall’antico presidente della Repubblica e che adesso si sentono tagliati fuori e non stanno più beneficiando di quei vantaggi che ricevevano in passato. Una parte cospicua della popolazione che lavora nelle istituzioni pubbliche, nei ministeri, negli ospedali, nella polizia e tutti quei facilitatori che per sbloccare la pesante e macchinosa burocrazia angolana in cambio di denaro fanno girare gli ingranaggi di una macchina malata. C’è infatti in una parte cospicua della società la convinzione che in passato si stesse meglio soprattutto per chi aveva imparato a convivere e a vivere in quel sistema.

Adalberto Costa Junior mescola istanze di rinnovamento e cedimenti che lo hanno portato a essere molto accondiscendente verso quei gruppi di potere che, allontanati da João Lourenço, vedono nel leader Unita la possibilità di tornare a esercitare il proprio potere. Infatti dall’estero ha incassato l’endorsement, ma c’è chi sospetta anche soldi per finanziare la campagna elettorale, di Isabel e Tchizé dos Santos promettendo in cambio una legge di amnistia per il rientro di capitali molto più blanda di quella fatta dall’attuale governo e la restituzione di parte delle imprese che gli sono state requisite.
La voglia di alternanza che soprattutto la fascia di popolazione più giovane sente  non registra il cambiamento di passo che in parte c’è stato negli ultimi anni e ripone una grande fiducia nel leader dell’Unita che purtroppo non sembra avere una visione, e un programma concreto per lo sviluppo del Paese dei prossimi anni ma pare più attento al funzionamento delle istituzioni e al miglioramento del processo democratico che seppur importanti non esauriscono il campo di azione di governo in un Paese in via di sviluppo dove l’obiettivo principale dovrebbe essere la lotta alla povertà e la creazione delle condizioni materiali minime per garantire la realizzazione della piena dignità umana della maggior parte della popolazione.

Una veduta aerea della capitale, Luanda

D’altro canto il presidente João Lourenço, che ha cercato di articolare e attuare una visione per un Paese così complesso, realizzando ospedali pubblici, infrastrutture e anche progetti come la Raffineria di Luanda (in collaborazione con Eni) nel tentativo di attrarre investimenti stranieri, non può sottrarsi alle critiche di essere a capo di un sistema che gli garantisce poteri e risorse quasi dittatoriali, che non permette il rispetto totale dei  diritti umani e che non riesce a garantire la trasparenza dello svolgimento democratico delle elezioni. Infatti lo spettro dei brogli elettorali denunciato a gran voce dall’opposizione lascia immaginare contestazioni e disordini violenti che in fondo nessuno vuole perché l’eco della terribile guerra civile ancora si fa sentire come un tamburo in sottofondo che speriamo invece, questa volta si trasformi in un ritmo di gioia, di speranza e di rinnovamento per tutti gli angolani e le angolane.

Cosa si poteva rispondere alla critica strumentale su Israele

La pozzanghera centrista, sempre disattenta sui rigurgiti di fascismo di quelli con cui si alleeranno (segnatevelo) ora se la prendono con un candidato del Pd (che il Pd ha proditoriamente silurato) perché ha osato porre dubbi su Israele. Che il Pd si faccia dare lezioni di antisemitismo da neofascisti e da parafascisti come sempre travestiti da liberali (anche questo lo insegna la storia) è piuttosto avvilente. Le risposte erano semplicissime:

«Siamo di fronte a qualcosa di mostruoso che suscita raccapriccio ed esecrazione. Questa furia omicida ricorda le nefandezze dei nazisti.
E sia chiaro: sono ostile all’antisemitismo come a qualsiasi altra forma di odio razziale, compreso quello di cui appaiono pervasi gli attuali governanti di Israele» (Enrico Berlinguer, settembre 1982, Festa de l’Unità di Tirrenia, a commento della distruzione dei campi di Sabra e Chatila)

«Lo Stato d’Israele avrebbe dovuto cambiare la storia del popolo ebraico, avrebbe dovuto essere un zattera di salvataggio, il santuario a cui sarebbero dovuti accorrere gli ebrei minacciati negli altri Paesi. L’idea dei padri fondatori era questa, ed era antecedente alla tragedia nazista: la tragedia nazista l’ha moltiplicata per mille. Non poteva più mancare quel Paese della salvezza. Che ci fossero gli arabi in quel Paese, non ci pensava nessuno. Ed era considerato un fatto trascurabile di fronte a questa gigantesca vis a tergo, che spingeva là gli ebrei da tutta Europa. Secondo me, Israele sta assumendo il carattere e il comportamento dei suoi vicini. Lo dico con dolore, con collera. Non c’è differenza tra Begin e Khomeini». (Primo Levi in Conversazione con Levi di Ferdinando Camon)

«La fine dell’occupazione dei territori da parte di Israele, nel pieno rispetto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, rimane cruciale per porre fine al persistente ciclo di violenze. Quella che è diventata una situazione di occupazione perpetua è stata citata sia dalle parti interessate palestinesi che israeliane come una delle radici delle tensioni ricorrenti, dell’instabilità e del conflitto prolungato sia nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme, sia in Israele». (Rapporto Onu, 7 giugno 2022)

«L’apartheid non è accettabile in nessuna parte del mondo. Quindi perché il mondo l’accetta contro le e i palestinesi? I diritti umani sono stati a lungo tenuti da parte dalla comunità internazionale quando ha affrontato la lotta e la sofferenza pluridecennale della popolazione palestinese. Di fronte alla brutalità della repressione israeliana, la popolazione palestinese chiede da oltre vent’anni che venga compreso che la politica israeliana è una politica di apartheid. Nel corso del tempo, a livello internazionale, il trattamento riservato da Israele ai palestinesi ha iniziato a essere considerato in maniera sempre più ampia come apartheid. Tuttavia, i governi con la responsabilità e il potere di fare qualcosa si sono rifiutati di intraprendere qualsiasi azione significativa per chiedere conto a Israele delle sue responsabilità. Al contrario, si sono nascosti dietro un processo di pace moribondo a scapito dei diritti umani e dell’accountability. Sfortunatamente, la situazione odierna non vede alcun progresso verso una soluzione, ma anzi il peggioramento dei diritti umani per le e i palestinesi». (Amnesty International, 2 febbraio 2022)

«I bombardamenti israeliani sono incredibilmente pesanti e più intensi rispetto al passato. Hanno distrutto molte case ed edifici intorno a noi. Le persone sono intrappolate, perché non è sicuro né uscire né restare all’interno delle proprie abitazioni. Gli operatori sanitari stanno correndo rischi incredibili, se pur necessari, per muoversi» (Hellen Ottens-Patterson Capomissione Medici senza frontiere nei Territori palestinesi, 14 maggio 2021)

Accusare di antisemitismo chi critica legittimamente le politiche di Israele è un trucco che può funzionare solo se si decide di rinunciar alla verità. Basterebbe un po’ di coraggio, un po’ di schiena dritta. Invece niente.

Buon lunedì.

 

 

Per i ragazzi che restano in città c’è il fascino dell’archeologia

«La datazione dei reperti sarà tanto più agevole quanto più i singoli oggetti siano intrinsecamente databili, sulla base di messaggi di diversa natura di cui si trovino ad essere essi stessi portatori. Nei casi più fortunati, gli stessi manufatti possono riportare addirittura una data, come si verifica in termini particolarmente evidenti nel caso delle monete … o nel caso delle iscrizioni». Per Daniele Manacorda, nella voce Ricerca archeologica. I metodi di datazione, in Il Mondo dell’archeologia, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2002, esistono una grande quantità di punti fermi, nonostante difficoltà e cautele.

Insomma, i materiali, sia da scavi che da ricognizioni di superficie, forniscono indicazioni importanti. Ma che risultano relative. Parziali. Come sostiene Bruno D’Agostino, nell’Introduzione, a P. Barker, Tecniche dello scavo archeologico, Milano 1981, secondo cui, «Se anche conoscessimo la data esatta di ogni manufatto non sapremmo nulla di più sulle vicende degli uomini del passato senza aver ricostruito, con i metodi dell’archeologia e della storia, questa catena di manifestazioni (che usiamo denominare “cultura”), cogliendone l’intimo significato». I materiali sono uno strumento non il fine, indubitabilmente.
Per i pochi ragazzi rimasti in città ho una sorpresa. Dopo aver avuto il permesso dai loro genitori, li porto a Velletri, in treno.

In viaggio gli parlo della grande città arcaica e poi di quella romana. Li preparo alla visita al Museo civico archeologico. A quel che troveremo esposto. A quanto i materiali possono aiutarci a ricostruire un contesto, oppure rimanere oggetti. Magari bellissimi, ma pur sempre oggetti. «Vi presento Atena. La Pallade di Velletri, colossale! È alta oltre 3 metri. Quella che vedete è una copia. L’originale si trova al Louvre, a Parigi. Si tratta di una replica della metà del II sec., di un originale bronzeo della metà del V sec. a. C. Una statua della quale sappiamo moltissimo. Il luogo e le circostanze del rinvenimento. A Troncavia esistono ancora delle strutture alle quali va riferita questa statua».

Un inizio migliore non ci sarebbe potuto essere. A sorprenderli sono le proporzioni di Atena, per ora. Per le considerazioni ci sarà tempo, in seguito.

Proseguiamo. «Ecco, il sarcofago delle fatiche di Ercole! Datato tra la fine del II e quella del III sec. Avvicinatevi, per rendervi conto dei particolari. Viene dalla Contrada Arcioni. Ma le notizie sulla scoperta non ci aiutano a capire altro. Non è neppure certo che il luogo del rinvenimento sia quello originario». Li lascio osservare. E pensare. Subito dopo gli indico una testa, marmorea. È quella dell’Afrodite, tipo Doidalsas, datata alla metà del II sec. «Ecco, in questo caso abbiamo diverse informazioni. Sappiamo che viene da un impianto residenziale, a Madonna degli Angeli. Appartenuto alla gens Octavia. Insomma alla famiglia paterna di Ottaviano Augusto, l’imperatore». Segue un breve silenzio, voluto. Poi li sollecito. «L’archeologo deve fare questo. Studiare i materiali, ma poi utilizzarli per una comprensione più ampia. Il fine ultimo deve essere quello di ricostruire fasi di vita. Di ricomporre storie, seppur parziali, servendosi di tutti gli strumenti disponibili. Quindi anche dei materiali. Tutti, ugualmente». Studiare, anche confrontando. Facendo fluire il pensiero.
Manacorda sostiene che «Datare non basta. La definizione della cronologia di un evento acquista senso, infatti, se essa si pone come punto di partenza per elaborare e applicare modelli che consentano di offrire una spiegazione culturale, sociale, economica delle testimonianze raccolte«. Può bastare, per oggi.

Ce ne torniamo a Roma. Dopo essere passati per Madonna degli Angeli. Quando si può vedere quel di cui si è parlato, bisogna farlo. Sempre.

Qui un’altra puntata della rubrica “Ricreazione” di Manlio Lilli su Left

*Immagine tratta dal sito del Comune di Velletri

Essere donna in Afghanistan, venti anni di conquiste civili spazzati via dalla violenza talebana

È passato un anno dall’arrivo dei talebani, una presenza che non ha portato nulla alle donne se non l’essere respinte e represse, insieme al dover affrontare i cancelli delle scuole chiuse, la fine delle università miste, la depressione e il suicidio. Human rights watch ha definito il 2021 l’anno peggiore per le donne afghane sotto il profilo dei diritti umani.

Nella storia dell’Afghanistan – se si esclude l’era buia dei talebani – le donne, sebbene si muovessero in un ambiente chiuso, tradizionale e segnato dal più rigido patriarcato, hanno però affrontato le politiche antifemministe essendo in grado di lasciare impronte immortali, a livello nazionale e globale. Infatti, nonostante l’Afghanistan sia uno Stato dove tutti i giochi di potere si svolgono nella totale assenza di donne, le quali in definitiva sono costrette a venire a compromessi con le decisioni prese da politici uomini, le afghane sono scese nell’arena politica, sociale, intellettuale e letteraria chiedendo giuste condizioni e giungendo a traguardi significativi.

Di seguito mi concentrerò sugli ultimi vent’anni, a partire da quando, con la caduta del governo talebano nel 2001, venne firmata l’ottava Costituzione dell’Afghanistan. Per legge veniva riservata alle donne una quota in Parlamento del 25%, poi aumentata al 30%. Per le donne, stanche della guerra e delle ineguaglianze, era il più grande traguardo a cui si fosse mai assistito nella storia: equivaleva ad un nuovo inizio. Molte donne hanno iniziato a ricoprire ruoli chiave un tempo riservati agli uomini, come quello di ministro, viceministro della Difesa, viceministro degli Esteri, governatore di una provincia, capo della commissione indipendente per i Diritti umani, capo della commissione per i Reclami elettorali, fino ad occupare quasi un quarto del Parlamento, inoltre sono stati emanati dei provvedimenti che chiedevano la nomina di almeno una donna vicegovernatrice in ogni provincia, cosa che si verificò anche per altre cariche pubbliche o posizioni nel privato: tutto questo dimostra la forte presenza femminile ai più alti livelli politici e di governo.

Nell’ambito accademico, secondo statistiche pubblicate da media afghani, nel 2018 il numero di studentesse nelle università afghane era di 88mila contando solo i corsi triennali, e 300 di queste ragazze avevano anche ottenuto una borsa di studio estera. Il numero delle professoresse nelle università afghane aveva oltrepassato le due migliaia ed erano venti le donne impiegate ai più alti livelli manageriali delle istituzioni accademiche. A livello scolastico erano circa 80mila le insegnanti donne e più di tre milioni e mezzo di studentesse frequentavano le scuole afghane.

Nel frattempo, le artiste afghane non sono rimaste a guardare. Per la prima volta il cinema afghano è stato in grado di cambiare il volto del Paese nei festival internazionali brillando alla luce di alcune donne, e non di uomini. Il film A letter to the president diretto da Roya Sadat, regista afghana, è stato candidato per la nomination a un Oscar nel 2018 e ha ottenuto riconoscimenti. Nel 2019, Hava, Maryam, Ayesha è stato presentato nella sezione Orizzonti della 76esima edizione della Biennale di Venezia e ha vinto il Premio Ipazia nel Festival dell’eccellenza al femminile, per l’impegno della regista afghana Sahraa Karimi nel realizzare film incentrati sulle donne. Lina Alam, attrice e attivista, ha vinto più di dieci premi come miglior attrice in festival nazionali e internazionali, mentre Sogra Satash, Marina Gol Behari, Elka Sadat, Sahra Mousavi, Hasiba Ebrahimi e molte altre ancora hanno trasformato il cinema afghano facendolo approdare ai festival più prestigiosi al mondo.

Il diametro di questa cerchia di donne all’avanguardia si stava facendo sempre più ampio giorno dopo giorno anche grazie al team di ragazze afghane che ha conquistato il secondo posto in una competizione di robotica superando gli altri 88 di provenienza internazionale e ribaltando così la visione che il mondo aveva delle giovani afghane. Le ragazze della Federazione ciclisti dell’Afghanistan sono state candidate per il Premio Nobel per la pace e, poco prima della caduta del Paese nelle mani dei talebani, un team di astronome ha vinto la competizione dell’Unione astronomica internazionale.

Il forte impatto delle donne nella regione e nel mondo, unito ai numerosi riconoscimenti scientifici, politici, economici, culturali e altre onorificenze, ha fatto si che, persino dopo l’occupazione dell’Afghanistan, nel 2021, la Bbc abbia selezionato 50 afghane annoverandole tra le 100 donne più influenti al mondo. Negli ultimi vent’anni, le donne afghane sono cresciute in maniera significativa in diversi campi, politico, scientifico, economico, sociale e letterario, e la loro tensione verso una consapevolezza e un illuminismo di matrice kantiana ha aperto la strada alle nuove generazioni facendo dimenticare il primo periodo buio dei talebani; fin quando le loro aspirazioni e tutti i loro sforzi sono giunti al termine, il 15 agosto 2021. Vent’anni fa a partire dal crollo del regime talebano questa cerchia di donne preparate e illuminate si è via via consolidata e vent’anni dopo con la nuova ascesa del regime talebano ha subito un terribile contraccolpo.

Da quando i talebani hanno preso il potere, numerose donne, tra cui giornaliste, giudici, militari e attiviste per i diritti umani, sono state sistematicamente uccise: un quadro completo della totale assenza di rispetto dei diritti umani. I cancelli delle scuole sono rimasti chiusi per tre milioni di studentesse e così anche le insegnanti, donne e ragazze, sono rimaste a casa. Solo un mese dopo l’occupazione dell’Afghanistan, i talebani hanno soppresso ciò che era anche un simbolo, il ministero degli affari delle Donne, degradandolo nel ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio, mentre in seguito ad un altro provvedimento la Giornata internazionale delle donne, l’8 marzo, è stata rimossa dal calendario.

Lo sport femminile non è più considerato «né appropriato né necessario», volendo citare il capo della commissione culturale del governo talebano. Divieto di viaggiare se non accompagnate da uno Sharia mahram (membro della famiglia di sesso maschile, ndt), obbligo di coprire il volto (Hijab), università divise per sesso con obbligo, per le studentesse, di frequentare le lezioni di professori maschi nascoste da tende e mille altre leggi restrittive e primitive rischiano di trasformare le donne in esseri passivi e depressi. Una studentessa che fino a ieri si era battuta per avere il nome della madre sulla propria carta d’identità accanto a quello del padre riuscendo a far approvare il provvedimento, ora è stata privata di questo diritto fondamentale. Non ci sono più notizie di registe e giornaliste donne dopo un periodo in cui sono state costrette a coprire i propri volti, in lacrime, in diretta tv.

Secondo le statistiche dei centri di salute mentale, ad oggi la maggior parte dei pazienti sono donne che lavoravano per il precedente governo, che hanno più volte fallito il tentativo di mantenere la propria posizione nella società e che sono state respinte e allontanate quando hanno gridato e protestato. Tutte loro chiedevano giustizia e rivendicavano i loro diritti fondamentali: in risposta hanno ottenuto gas lacrimogeno e la loro definitiva sconfitta.

Tutto questo è solo una parte di ciò che la presenza dei talebani dell’ultimo anno ha inflitto alle donne. Alle madri afghane di oggi non è permesso studiare e il loro lavoro si è trasformato in schiavitù. Ogni giorno vanno incontro a violenza fisica, psicologica e verbale. Elementi come la povertà, la disoccupazione, l’analfabetismo, la mancanza di libertà d’espressione e la violenza che schiacciano l’identità delle donne si diffondono come un virus tra le famiglie afghane. Il perpetuarsi di giorni come questi rischia di portare al totale annullamento delle donne. Ben 18 milioni di donne afghane sono immerse nell’oscurità più assoluta; la sola presenza dei talebani ha messo a tacere lo slogan “uguaglianza e pace per tutti”. Queste donne circondate da povertà e violenza sono diventate madri affrante che proprio per questo rischiano di crescere dei figli ancora più malsani dei talebani stessi e allora il mondo assisterà alla miseria di una generazione un tempo sana nel mio Afghanistan.

* Traduzione a cura di Ileana Amadei

In foto, alcune ragazze afghane protestano per il diritto all’istruzione. Kabul, 2 agosto 2022

 

Difendi i diritti umani? Per Israele sei un terrorista

Una lastra di metallo saldata alla porta per sbarrare l’ingresso, il sequestro di documentazione e materiale di lavoro e un ordine militare che impone all’istituto di interrompere le attività: è quello che resta del raid del 18 agosto, compiuto nella mattina dalle Israel defense forces, l’esercito israeliano, negli uffici centrali di Al Haq, a Ramallah. Ad essere colpite sono state anche le sedi di Addameer, Bisan center for research & development, Defense for children international-Palestine, Union of palestinian women’s committees, Union of agricultural work committee, Union of health workers committee, anch’esse situate a Ramallah. Ognuna di queste organizzazioni non governative, con differenti specializzazioni, compie un importantissimo lavoro di mappatura e di studio che consente il monitoraggio costante delle violazioni dei diritti umani perpetrate dall’occupazione israeliana.

Shawan Jabarin, il direttore dell’ong Al Haq. Foto di Zenobia project

Le azioni militari sono avvenute nella città di Ramallah, area A dei Territori palestinesi occupati: il controllo amministrativo e di sicurezza spetta all’Autorità palestinese. Questo a sottolineare come l’esercito abbia agito fuori dalle aree a controllo militare o amministrativo israeliano. Sono, dunque, azioni svolte senza alcuna legittimità ed al di fuori dei confini in cui è prevista la giurisdizione israeliana.

Lo Stato di Israele, anche grazie al lavoro di raccolta di dati e testimonianze delle sei organizzazioni, è sotto processo presso la Corte penale internazionale dell’Aia, davanti alla quale deve rispondere per crimini di guerra contro la popolazione civile palestinese. Non è un caso che l’intensificarsi dei tentativi di criminalizzazione mediatica da parte delle autorità israeliane sia avvenuto, nell’ultimo anno, in coincidenza con l’invio alla Corte penale internazionale di report sulle condizioni di vita sotto l’occupazione israeliana. Questi report, inoltre, hanno rappresentato il fondamento per la denuncia, ripresa da diverse associazioni internazionali impegnate nei diritti umani come Amnesty international (che ha diffuso una nota congiunta sul raid contro le ong, ndr) o Human rights watch, dello stato di apartheid cui è sottoposta la popolazione palestinese.

Gli attacchi del 18 agosto, come i bombardamenti con vittime civili (bambini in particolare) su Gaza all’inizio del mese, dimostrano che le autorità israeliane agiscono, quotidianamente, consapevoli della propria impunità. Poche ore prima dei raid, peraltro, le forze armate israeliane avevano ucciso a colpi d’arma da fuoco un ventenne palestinese durante un’operazione militare nella città di Nablus.

Le organizzazioni sotto attacco rappresentano una fonte di crescita e di sviluppo per le realtà rurali palestinesi, per l’impresa locale, svolgono attività di supporto legale, si battono per la difesa della terra e delle proprietà dalle espropriazioni, monitorano l’espandersi dei settlements nei territori occupati. Organizzazioni come Al Haq sono lo strumento e il corpo della resistenza della società civile palestinese e per questo oggi sono finite nel mirino.

L’azione fa seguito alle dichiarazioni dello scorso ottobre, con cui le autorità israeliane avevano designato Al Haq e le altre cinque organizzazioni della società civile palestinese oggetto dei blitz come organizzazioni terroristiche. Questa accusa, benché non sostenuta da impianti probatori concreti, aveva provocato la temporanea sospensione dei finanziamenti cui le ong avevano accesso grazie alle partnership con istituzioni europee e internazionali.

Nelle ultime settimane, tuttavia, sia le Nazioni unite che diversi Paesi europei hanno riconosciuto l’infondatezza delle accuse mosse dalle autorità israeliane nei confronti delle sei ong in questione. Nel frattempo, il tentativo di isolamento e depotenziamento del lavoro prezioso che svolgono sul territorio palestinese è stato motivo di espansione della solidarietà internazionale diffusa nei confronti di queste ong. Tra le altre istituzioni, lo scorso 30 giugno anche la Commissione europea ha ritirato la sospensione dei fondi nei confronti delle sei organizzazioni.

A fronte dell’inconsistenza del processo per via legale ed al fallimento del tentativo di delegittimazione delle ong agli occhi della comunità internazionale, le autorità israeliane hanno proceduto all’ennesima dimostrazione di forza platealmente illegittima, praticando la scelta dell’azione militare.

Durante una conferenza stampa, i rappresentanti di Al Haq hanno fatto appello alla comunità internazionale per chiedere un impegno concreto nel richiamare Israele a revocare immediatamente la designazione delle sei ong come organizzazioni terroristiche (in aperta violazione della libertà di opinione ed espressione, e della libertà di associazione) e a stralciare le ordinanze militari con cui ha provveduto alla chiusura delle loro sedi. Forte anche l’appello nei confronti della Corte penale internazionale e degli Stati che finanziano i progetti delle ong al fine di continuare a sostenere le associazioni ed il loro lavoro. All’appello hanno aggiunto la richiesta di misure concrete, come un embargo sugli armamenti e restrizioni sul commercio, per interrompere quei flussi internazionali che alimentano e sostengono il sistema di apartheid perpetrato dalle autorità israeliane.

 

* In foto, alcuni attivisti appendono un poster all’ingresso della sede dell’organizzazione per i diritti umani Al Haq, a Ramallah, dopo che è stata perquisita e chiusa dalle forze militari israeliane, 18 agosto 2022

Un programma Possibile

Il partito fondato da Giuseppe Civati e oggi guidato dalla segretaria Beatrice Brignone parteciperà alle elezioni nella lista di Sinistra italiana/Verdi. Per motivi che magari un giorno qualcuno ci spiegherà i simbolo di Possibile non appare all’interno del simbolo della lista.

Per uscire da questo balletto di maschere e personalismi che sta infestando questi primi giorni di campagna elettorale abbiamo deciso di dedicarci ai programmi. Sostanzialmente per due motivi: innanzitutto per valutare la piattaforma di proposte dei partiti di “sinistra” in Italia e poi – questo lo faremo nei prossimi giorni – per chiederci e chiedergli come possa accadere ogni volta che ci si divida.

Ma andiamo con ordine. Secondo il programma di Possibile (lo trovate qui) per evitare la catastrofe climatica «bisogna proseguire – si legge – con la liberalizzazione delle comunità energetiche pubblicando i decreti attuativi mancanti e promuovendone l’adozione, specie per i piccoli comuni. Aumentiamo il ritmo delle autorizzazioni, procediamo almeno a 10 GW all’anno, per rispettare il parametro del programma europeo RePowerEu».

«Una rete rinnovabile è possibile: la ricerca scientifica lo conferma, una rete di produzione dell’energia elettrica totalmente proveniente da fonti rinnovabili è possibile – scrivono nel programma – bisogna costruire un sistema multipiattaforma (fotovoltaico, eolico, solare a concentrazione, con adeguate tecnologie di accumulo di energia (non solo batterie al litio ma anche pompaggi idroelettrici, idrogeno, ecc.) da impiegare nei periodi di minor produzione. Terra, acqua, aria: in primo luogo piantare alberi, al momento sono la tecnologia migliore per sequestrare CO2 dall’aria. I centri urbani, le metropoli, vanno difese dagli incrementi di temperature e soprattutto l’acqua deve essere tutelata. Occorrono limiti stringenti per le contaminazioni da Pfas nelle acque. La mobilità nuova: è integrata, intermodale. Usa le piattaforme digitali per essere accessibile più facilmente. Le automobili devono essere ridotte. Insieme al trasporto pubblico su rotaia, urbano ed extraurbano, devono essere creati i percorsi ciclabili. Il resto della mobilità pubblica è organizzato tramite mezzi elettrici. Bisogna rivedere le disposizioni del Pnrr in tal senso».

Sul lavoro la dignità è perseguibile – si legge – attraverso il salario minimo (su cui Possibile da tempo lavora a una sua proposta di legge di iniziativa popolare): «Rimettere al centro i Ccnl anche con l’aiuto del salario minimo (unico, nazionale, stabilito dalla legge ma in base al livello dei salari come determinato dalla contrattazione) è la misura necessaria per far crescere tutte le retribuzioni, non solo quelle che sono al di sotto di quel valore». Inoltre, si propone la cancellazione dei tirocini a favore del contratti di apprendistato. Mentre il lavoro agile «deve entrare negli accordi collettivi, nei contratti, con una cornice chiara di diritti, tra cui il diritto alla disconnessione e il mantenimento dei ticket / voucher pranzo». Per la sicurezza, incrementare gli ispettori (e le ispezioni), regolare il part-time e modificare il Reddito di cittadinanza sulla scorta del documento prodotto dal comitato presieduto da Chiara Saraceno.

Ci sono poi ovviamente scuola e università e ricerca (con il ritorno al piano Amaldi), una legge subito contro l’omotransfobia, il matrimonio egualitario, piena applicazione della legge 194, congedo parentale e parità retributiva di genere. L’abolizione dei decreti Sicurezza, il ritorno al modello d’accoglienza Sprar (cancellato da Salvini), lo Ius soli senza timidezze sono tra i punti prioritari. Poi l’imposta sostitutiva sui patrimoni, maggiore progressività fiscale (mentre molti parlano di flat tax), la riforma del catasto. “Tax the rich”, insomma. Come dovrebbe fare la sinistra.

Il programma lo trovate completo qui. Forse se uscissimo da questa smisurata attenzione ai temi che piacciono solo ai liberali di casa nostra potremmo aprire un dibattito più largo. E sarebbe meglio per tutti, senza perdere troppo tempo in scissioni, liti per le candidature e favole.

Buon venerdì.

 

* In foto, Beatrice Brignone e Giuseppe Civati

 

Lesbo è ancora un’Alcatraz per migranti

Mentre le politiche europee sull’immigrazione continuano sulla linea della chiusura e della esternalizzazione delle frontiere, ripubblichiamo questo bel reportage di Elvis Zoppolato da un luogo simbolo della “Fortezza Europa”: il campo profughi di Lesbo. Con questo lavoro uscito su left.it il 18 agosto 2022 Zoppolato ha vinto il Premio Leali Young nella categoria “podcast o prodotti web”. La premiazione si terrà il 13 giugno durante l’inaugurazione del Festival del giornalismo di Ronchi dei Legionari. 

C’è stato un periodo in cui sentivamo parlare di Lesbo in continuazione. Nuovi profughi in arrivo, campi sovraffollati, condizioni di vita disumane. Manifestazioni di protesta, tensioni tra i volontari e la popolazione locale, abusi della guardia costiera. Erano i titoli che dipingevano perfettamente la situazione in quella che in molti si sono immaginati come una specie di “isola maledetta”, un luogo dannato in cui testare le politiche anti-migratorie dell’Unione Europea. E poi quell’incendio a Moria, nel settembre 2020, che ha spaventato un po’ tutti. Il più grande campo profughi d’Europa bruciato nel giro di una notte, incredibilmente – per fortuna – senza portare con sé morti.

Tutto questo oggi sembra appartenere al passato, un lontano ricordo di cui è meglio sbarazzarsi invece che conservare la memoria. Poco più di un migliaio di rifugiati, condizioni di vita decisamente migliori a Kara Tepe (il nuovo campo, chiamato anche Moria 2.0), una quindicina di ong in totale rimaste sull’isola. Gli abitanti di Mitilene sono concordi nell’affermare che “ora si sta molto meglio”, anche se in verità preferiscono non parlarne più di tanto; si capisce che negli anni la situazione li ha logorati. Anche chi inizialmente era ben disposto nei confronti degli ultimi arrivati, alla lunga ha perso le speranze e assunto un atteggiamento di ostilità, complice in questo soprattutto l’aggressività del governo Mitsotakis. Nell’insieme, la consapevolezza che la propria abitazione sia conosciuta nel mondo come una prigione a cielo aperto non aiuta molto. Una reputazione che non giova all’immagine dell’isola, né tanto meno a chi possiede attività legate al turismo.

«Dopo gli accordi tra l’Ue e la Turchia del 2016 è cambiato tutto», spiega a Left Michael Aivaliotis, manager di Stand by me Lesbo, organizzazione locale che si occupa prevalentemente di istruzione. «Prima i rifugiati non stavano qui molto, un paio di settimane, poi se ne andavano verso altri Paesi. Dopo l’accordo con la Turchia hanno cominciato a rimanere bloccati sull’isola, sempre più a lungo, fino a rimanerci anche diversi anni. Così hanno cominciato ad accumularsi a dismisura e i campi profughi sono diventati sempre più sovraffollati. Moria è arrivato ad ospitare 20mila rifugiati, un campo che inizialmente era stato progettato per 3mila persone. Ora ce n’è circa 1.300, ne arrivano più o meno 50 a settimana, però nessuno sa cosa succederà domani. Nel frattempo stanno costruendo un altro campo in mezzo al nulla, e nessuno capisce perché, visto che ci sono pochi arrivi. Le cose vengono fatte quasi di nascosto, senza informare la popolazione locale».

L’accordo tra Ue e Turchia firmato il 18 marzo 2016 aveva sin da subito generato accesi dibattiti, proseguiti sino ad oggi. Il primo punto della Dichiarazione recita: «Tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia, nel pieno rispetto del diritto dell’Ue e internazionale, escludendo pertanto qualsiasi forma di espulsione collettiva. Tutti i migranti saranno protetti in conformità con le pertinenti norme internazionali e nel rispetto del principio di non-refoulement». L’accordo dunque si fonda sul postulato che la Turchia sia un Paese sicuro per i rifugiati e i richiedenti asilo e in virtù di ciò ogni migrante che arrivi in maniera irregolare sulle isole greche verrà restituito alla Turchia, dove attualmente vi sono circa quattro milioni di rifugiati.

A suscitare tutt’oggi polemiche è soprattutto il fatto che la Turchia venga considerata un Paese sicuro, mentre violenze e discriminazioni sono all’ordine del giorno. Inoltre, secondo il principio di non-refoulement, cioè di non-respingimento, sancito dall’art.33 della Convenzione di Ginevra del 1951, un rifugiato non può venire respinto «verso confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Molti però ritengono che sia proprio quanto succede in Turchia e denunciano la natura illegittima dell’accordo, che violerebbe in questo modo uno dei principi fondamentali del diritto internazionale. L’obiettivo dell’accordo – definito «deleterio per la storia dei diritti umani dell’Ue» da Amnesty international – sarebbe quello di esternalizzare i flussi migratori: fare in modo che i rifugiati non arrivino in Europa, in cambio di miliardi di euro per la Turchia.

Da qui cominciano i problemi per Lesbo che, assieme a Chios, Samos, Leros e Kos, le altre isole greche affacciate sulle coste della Turchia, è diventata l’epicentro della crisi migratoria. Dopo l’accordo infatti la Grecia ha introdotto delle misure che obbligano i rifugiati a rimanere nei campi finché le domande d’asilo non vengono accolte o respinte. Chi arriva dalla Turchia quindi è soggetto a “restrizioni geografiche” che non permettono di lasciare l’isola e recarsi nella Grecia continentale finché l’intera procedura non sia stata completata – salvo circostanze eccezionali in cui si può ottenere la revoca della restrizione. Il problema è che le pratiche per l’asilo possono richiedere anni prima di venire risolte, al termine dei quali, chi non viene ritenuto idoneo alla protezione internazionale, verrà rispedito in Turchia. Durante questi anni i rifugiati rimangono segregati nei campi, non lavorano, non hanno accesso all’istruzione e vivono in condizioni di assoluta povertà. Molti cominciano a soffrire di disturbi psichici e alcuni arrivano a togliersi la vita.

«Anche se sull’isola sono rimasti solo un migliaio di rifugiati o poco più, non significa che le cose per loro siano migliorate» ha dichiarato a Left Nikolaos Markou, responsabile della comunicazione di Lesbo solidarity. «Il sistema non riesce a integrare queste persone. Il processo di asilo, di integrazione, di alloggiamento e di inserimento nel mondo del lavoro semplicemente non funziona. Tutt’ora c’è molta discriminazione. Per fare qualche esempio: i rifugiati non possono uscire durante Pasqua e Natale perché i locali escono in questo periodo ed è meglio non importunarli. Tutti i turisti possono entrare senza Covid test ma i rifugiati no, appena sbarcati sull’isola devono farne uno ed eventualmente andare in isolamento per un mese».

E poi, prosegue Markou, «c’è la questione della solidarietà; ti racconto la mia esperienza. Appena arrivato a Mitilene, un anno fa, incontrai una persona che mi disse “se vedi qualcuno sulla spiaggia con vestiti sporchi e bagnati, non toccarlo, non aiutarlo, potrebbe essere un rifugiato”. Questo è il classico consiglio che oggi un greco potrebbe dare a un altro. Un consiglio utile per salvare se stessi perché in Grecia la criminalizzazione della solidarietà ha raggiunto dei livelli senza precedenti: si può venire accusati di traffico di esseri umani e rischiare fino a dieci anni di prigione».