Da quella parte sono bravi a sottolineare le spaccature nel campo del centrosinistra. Meloni, Salvini e Berlusconi hanno avuto gioco facile nelle prime settimane di campagna elettorale con Calenda e la sua strategia dei due forni di andreottiana memoria, con il sedicente terzo polo che invece è il quarto (tra l’altro i sondaggi ogni giorno ci ricordano quanto li stiamo sopravvalutando) che sta facendo la migliore campagna elettorale possibile per Fratoianni e Bonelli rilanciando Sinistra italiana e Verdi tutti i giorni sui giornali.
Ma l’ostilità che pagheranno gli italiani è una serpe in seno all’alleanza di centrodestra. Matteo Salvini e Giorgia Meloni oggi a Messina si rincorrono per la città con comizi quasi contemporanei e i loro scherani sono già pronti per sfoderare l’applausometro da sventolare. Dentro la Lega solo Salvini spera in un miracoloso recupero che gli permetta di ritrovare i voti che in questi ultimi mesi sono passati alla sua competitrice interna. Fratelli d’Italia incoronerà Meloni il prossimo 25 settembre ma gli eventi da un minuto dopo le elezioni saranno meno lineari di quello che si pensa.
Meloni sta portando avanti la campagna elettorale fingendo che Salvini non esista, concentrata solo a non commettere grossolani errori e sperando che la magistratura non rovini la rincorsa a Palazzo Chigi (nel caso sarebbe già pronta la narrazione berlusconiana delle “toghe rosse”, ovviamente). Meloni e Salvini non si parlano. «Con Giorgia faremo in modo di vederci: io non ho l’agenda degli altri, se saremo nella stessa città, troverò il modo di abbracciarla, ma io, onestamente, faccio la mia corsa in giro per l’Italia e non so dove vanno gli altri», dice Salvini con il solito infastidito distacco che non riesce a nascondere una competizione mal sopportata da entrambi.
Meloni intanto si propone ogni giorno come sicura Presidente del Consiglio («se Fratelli d’Italia risultasse il primo partito», ripete sapendo che sarà così) avanzando dubbi su Mattarella. La preoccupazione della leader di FdI in realtà è rivolta agli “alleati” Salvini e Berlusconi e ai loro rapporti con il Quirinale che potrebbero – più per giochi interni che per preferenze del Capo dello Stato – fare svanire il sogno.
Una cosa è certa: Meloni e Salvini cominceranno a combattersi sul serio dopo la campagna elettorale. Troppo difficile la convivenza tra due leader di partiti che ormai sono sovrapponibili nell’offerta politica. La resa dei conti avverrà nel governo, in un momento difficilissimo per l’Italia, sulla pelle degli italiani.
Gli ultimi dati forniti dall’Istat indicano che la povertà in Italia è sensibilmente cresciuta negli ultimi dieci anni, con un picco drammatico a partire dal 2020. Nello stesso decennio, la ricchezza finanziaria ha raggiunto i 5.256 miliardi di euro, con un incremento di oltre 1.700 miliardi. Si tratta di una ricchezza fortemente concentrata che si è spostata, durante il decennio, dai titoli di Stato all’acquisto di azioni e di altri prodotti finanziari in larghissima misura esteri. Ora, con questi numeri davanti, ho provato a leggere i punti contenuti nei programmi dei principali partiti italiani e, con notevole sgomento, ho trovato misure di cosmesi nel migliore dei casi e nel peggiore – dal mio punto di vista – destinate ad approfondire le disuguaglianze.
Non si parla di imposizione sulle rendite finanziarie, anzi si ipotizzano regimi più favorevoli, in realtà senza grandi differenze tra i principali partiti, non si immaginano forme di incentivazione vera all’acquisto di titoli di Stato da parte dei piccoli risparmiatori italiani, che potrebbero garantire una più solida tenuta dello Stato sociale. Manca peraltro qualsiasi riflessione sulla natura degli acquisti finanziari da parte dei fondi di previdenza complementare ed anzi si auspica una generalizzata riduzione dell’imposizione sui capital gain. Mi sarei aspettato al contrario una serie di proposte che, partendo dalla marcata distanza tra povertà diffusa e ricchezza finanziaria cresciuta e polarizzata, provassero a ridurla; invece non mi pare affatto che un simile sforzo emerga e gran parte delle proposte si traducono in bonus e sussidi di brevissimo respiro che saranno cancellati dall’inflazione.
Il sistema fiscale italiano ha una base imponibile talmente ridotta da rendere la progressività, principio costituzionale fondamentale, inapplicabile se non a danno dei redditi da lavoro e da pensione. Attualmente, infatti, il sistema fiscale italiano dipende troppo dall’Irpef che è pagata praticamente solo da lavoratori dipendenti e pensionati. L’evoluzione storica delle imposte è molto chiara in tal senso. Nel corso del tempo dall’Irpef, che già non contemplava i redditi da capitale e da fabbricati, sono state escluse numerose fonti di reddito, così come è avvenuto per l’Irap che ha finito per gravare come l’Ipref, di fatto, sugli stessi soggetti, peraltro con aliquote ridotte. Considerazioni analoghe valgono per le addizionali comunali dell’Irpef. Al di fuori dei redditi da lavoro e da pensione sono moltiplicate le cedolari secche e le flat tax e continua la pressoché totale esenzione fiscale per le piattaforme digitali, rispetto alle quali per ottenere un prelievo sarebbe indispensabile agire sui ricavi e non sui profitti. Nel contempo, i redditi da lavoro e da pensione sono penalizzati sul versante della spesa sociale perché l’applicazione di una progressività distorta fa sì che paghino spesso per prestazioni che non ricevono mentre tutte le altre forme di reddito ricevono prestazioni che, in larghissima parte, non pagano.
In estrema sintesi, se non si cambia la base imponibile ampliandola e estendendola finalmente a tutti i redditi e non solo a quelli da lavoro, la progressività è lo strumento per impoverire la platea sociale che oggi regge, ingiustamente, la gran parte della spesa pubblica finanziata con le imposte. Pensare a flat tax in tale contesto è puro egoismo: in Italia, le fasce medio basse della popolazione in termini di reddito già pagano un’aliquota Irpef inferiore al 23%; si stima che quasi il 50% dei contribuenti italiani abbia un’aliquota più bassa, se si considerano deduzione e detrazioni. Ridurre tutte le aliquote Irpef al 23% anche per i plurimilionari significa fare loro un enorme favore, che diventa insostenibile per tutti gli altri nel momento in cui verrà meno, con tale misura, circa un terzo del gettito con cui lo Stato finanzia la scuola, la sanità pubblica e gran parte del Welfare.
È indispensabile, alla luce di ciò, invece una tassazione finanziaria più rilevante che vari, nettamente, a seconda della durata dell’“investimento”. Peraltro sarebbe necessario il divieto assoluto delle vendite allo scoperto come dimostra la recente vicenda dell’acquisto di titoli del debito pubblico italiano da parte di speculatori. Sta circolando infatti la notizia dei fondi hedge, in termini più semplici, speculativi, che scommettono contro il debito italiano. Naturalmente gran parte dei media riportano la notizia legandola alla crisi presente nel nostro Paese dovuta all’“allontanamento” di Mario Draghi e a tutte le nefaste conseguenze generate e generabili dalle elezioni. Colpisce che in pochissimi però si soffermino sull’assurdità di quanto sta accadendo.
Alcuni fondi speculativi americani, come accennato, hanno acquistato “allo scoperto” titoli del debito italiano per circa 40 miliardi di dollari a prezzi decisamente bassi prevedendo un caduta del valore di tali titoli e dunque vincendo la scommessa al ribasso. Ora, in tutto ciò sono evidenti diverse assurdità. Gli acquisti fatti dai fondi hedge sono di fatto delle prenotazioni non pagate – allo scoperto significa questo – di titoli di uno Stato sovrano, fatte solo per lucrare sulle sue difficoltà che proprio quelle scommesse finiscono per determinare, con l’ausilio della stampa e dei media che ne danno ampia notizia. Allora, perché bisogna ritenere legittimo che soggetti dichiaratamente speculativi – i fondi hedge lo scrivono nei loro statuti – possano acquistare, o meglio prenotare, senza soldi veri titoli del debito di un Paese – che sono di fatto soldi della collettività per gli effetti che producono – per trarre giovamento dalle sue difficoltà e persino dal suo default? Perché non è possibile mettere una regola che dica espressamente che non si possono fare le vendite allo scoperto e i fondi hedge non devono occuparsi dei debiti pubblici, così come dell’energia, del grano e delle commodities?
Servono poi misure, possibili anche con la normativa nazionale, per ridurre il numero dei soggetti che interagiscono nelle transazioni finanziarie rispetto alle dinamiche dello scambio reale. In altre parole, un freno ai derivati che oggi sono il vero motore dell’inflazione energetica. Per questo occorre una chiara ridefinizione, in sede normativa, degli operatori bancari e finanziari. Occorre affrontare, parimenti, il tema dell’Iva sui beni di lusso così come non è rinviabile una vera rimodulazione dell’imposta di successione. Serve poi una rimodulazione del metodo tariffario; non è possibile che l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – l’Arera – usi il metodo “giornaliero” che spinge l’inflazione e che l’attuale sistema della tutela non funzioni ed anzi sia peggiore di quello del mercato libero. Non si può neppure continuare a tenere totalmente legati i prezzi dell’energia all’ingrosso agli hub finanziari e a costruire la filiera dei prezzi dell’energia su quello del gas. In estrema sintesi, occorre una grande riforma fiscale che abbassi la pressione sul lavoro in maniera significativa e l’aumenti sulle rendite.
* L’autore: Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. È autore di numerose pubblicazioni e articoli sulle tematiche della storia economica e dell’economia
In foto: il dito medio di Cattelan con lo smalto rosa in occasione della Giornata internazionale della donna. Milano, 8 marzo 2021
Tanta è l’emozione sul palco del Forte Prenestino, storico centro sociale romano, che Militant A si dimentica di mettere i tappi per le orecchie. Se ne accorge dopo qualche canzone, ma decide di farne a meno. Soffre di acufene, ma questa volta, dopo quattro anni, vuole sentire la musica a pieno. Mentre canta, assapora ad una a una le note del nuovo album degli Assalti Frontali, Courage, durante il primo concerto di presentazione del 15 luglio. Vive il reincontro di cui parla nella canzone di apertura, stesso titolo del disco: «Siamo qui, siamo vivi e siamo ancora noi / mentre usciamo da sto baratro e fuggiamo gli avvoltoi / respiro con la pancia, tiro fuori l’ansia».
Così Assalti Frontali tornano sui palchi alla ricerca di un senso collettivo perso nel disorientamento della pandemia e della guerra. «Quando ho scritto questa canzone mi sono immaginato quando l’avrei cantata dal vivo. Avrei ritrovato le persone, una comunità», spiega Militant A, nome d’arte di Luca Mascini.
Militant A, nome d’arte di Luca Mascini
«Racconto di un brutto momento che abbiamo vissuto non tanto per il virus in sé, ma per la gestione liberista e capitalista che ha creato un’atmosfera di diffidenza, mettendoci l’uno contro l’altro». Disertori, untori, bene e male. E un sentimento di solitudine pervasivo, ma difficile da combattere perché «piano piano ognuno è diventato sempre più isolato / neanche ci dispiace soli stiamo bene / ma chi si sente libero le soffre le catene», come cantano gli Assalti nella seconda canzone dell’album, “Perdere la testa”. Di fronte a questa situazione apparentemente senza futuro, il courage, avere coraggio, è la chiave per cercare nuovi spazi di possibilità, per immaginare un futuro. E così Militant A canta per trovare e al tempo stesso per dare courage. Courage; non per la dolcezza della lingua francese, ma per quella del ricordo della madre scomparsa durante la pandemia. Originaria di Brest, titolo della canzone di chiusura del disco, la madre rivive nel rap del figlio, che commenta: «Quando è scomparsa abbiamo salutato mia mamma al lago della Snia a Roma ed è stato un momento di grande unione, anche con la terra. Ho pensato che questo courage è un coraggio che viene dalle generazioni passate e noi siamo il tramite per passarlo a quelle future. “Brest” è una canzone per chi è venuto prima e ci ha lasciato questa energia».
Energia che Marguerite, la madre di Militant A ha devoluto all’insegnamento e ha lasciato esplodere danzando nei balli popolari della sua terra, rievocati nella canzone a lei dedicata. Le note dal sapore bretone si aggiungono alle diverse musicalità dell’album, frutto di diverse collaborazioni. Bonnot, dj e produttore dei precedenti dischi, ha (per quanto possibile) contribuito a distanza in seguito al suo trasferimento alle Canarie, mentre la produzione musicale è stata affidata quasi interamente a Luca D’Aversa, cantautore romano, la cui musicalità permea arrangiamenti e ritornelli dell’intero disco. Il tocco musicale di Daniele Tittarelli al sax e Pietro Lussu al pianoforte aggiunge ricchezza all’album, così come le giovani voci del “Coro se…sta voce” e del coro dell’Antoniano. Cantano fieri quest’ultimi: «e saremo noi stessi, noi stessi come artisti / artisti in una squadra dove tutto quadra / artisti di un sogno che abbiamo inseguito / capaci di toccare il cielo con un dito” nella canzone “Gol Gol Rap”, elogio al calcio popolare.
Le nuove generazioni, con cui da anni Assalti Frontali comunicano e dialogano, irrompono con una forza nuova in Courage. A loro viene tramandato il coraggio necessario per non perdere la voce e non naufragare. Ma diventano anche protagonisti, artisti di una squadra che non può andare avanti e vincere senza la solidarietà tra i suoi componenti. Due figure incappucciate si prendono per mano nella cover di Courage: sono due generazioni che si accompagnano e che muovono un passo dopo l’altro, insieme. «Andate nelle scuole, formate i collettivi / organizzate la rivolta finché siete vivi»: l’esortazione decisa di “Cattivi maestri”, il messaggio di ribellione della canzone manifesto in molti cortei studenteschi degli ultimi anni, non viene sostituito, ma assume una nuova forma, frutto di un percorso decennale di laboratori rap nelle scuole.
«I valori e le idee restano, però il modo in cui bisogna esprimerli cambia; quindi si deve cercare nuovi linguaggi. Questo disco arriva dopo dieci anni di lavoro nelle scuole. Ho fatto rap con i ragazzi e mi sono identificato con loro. Insieme ci siamo presi per mano», spiega Militant A, che aggiunge: «Da una parte vogliamo spronare come in “Cattivi maestri”, dall’altra sentiamo più un senso di comunità con le nuove generazioni, con cui vogliamo cambiare le cose insieme. Anche perché tutti noi non sappiamo cosa ci aspetti». Il primo e netto dualismo che viene sfidato nell’album è la distanza tra nuove e vecchie generazioni, che qui comunicano e dialogano, prendendosi egualmente la responsabilità di pensare a nuove soluzioni di fronte ai binarismi contemporanei. «Quello in cui credo è più forte di prima / vive dentro a ogni rima / se ho conosciuto una sconfitta era solo una nuova fitta» recitano le rime di Militant A nella canzone “Sogno ancora”, decisa affermazione contro la disillusione attuale.
«Senti quanto spaccano ancora gli Assalti» canta insieme a Militant A il giovane e appena diplomato Er Tempesta, che fa tesoro della storia del gruppo per trovare senso e coraggio nella lotta. Un incontro tra passato e presente. In “Vecchi Pirati” o “Ufo nella scena” (come s’intitolano due delle canzoni del disco) gli Assalti Frontali raccontano di sé, tramandando l’impegno di lotta che dai loro albori li ha caratterizzati. Il gruppo nasce all’interno di Radio Onda Rossa con il nome di Onda Rossa Posse, rilasciando il primo disco Batti il tuo tempo nel 1990. Da questa esperienza nascono poco dopo Assalti Frontali. Occupazioni e centri sociali autogestiti divengono la loro casa, lì si fanno conoscere, primi a fare rap in italiano in un panorama per lo più in lingua inglese. «I centri sociali autogestiti sono uno spazio unico, comunitario, solidale, nessuno ti può prevaricare. Ci sono anche tanti problemi e lacune; però è un’esperienza di cui avevamo bisogno negli anni Novanta di fronte all’irruzione del mercato nello spazio pubblico, corrotto. Non è nè pubblico nè privato; è uno spazio sociale dove noi della nostra generazione siamo cresciuti» commenta Militant A. Una terza via che oggi si trovano a ricercare per creare nuovi modi di stare insieme, per «tenere insieme una comunità distrutta» (“Courage”). Per sfidare i dualismi, rompere frontiere che separano e creano astio: «Ci sono dei popoli a cui non importano i confini e l’identità nazionale, popoli che stanno insieme al di là di questi limiti e si riconoscono fratelli».
Frame dal video degli Assalti Frontali Courage (Visual Lyrics)
Il coraggio che attraversa i testi del disco è anzitutto volto alla ricerca del giusto, al di là di legale e illegale, facilmente manipolabile da «uno stato immorale» che come cantano gli Assalti «ci fa la morale / con un banchiere e un generale e mi rende illegale» (“La Morale”). Un concetto di illegalità che porta non solo alla criminalizzazione di chi agisce fuori dal coro, ma anche alla netta condanna dell’utilizzo di droghe leggere o gesti di micro delinquenza. «Sono altre le vere prevaricazioni. Il fatto che venga colpita la dimensione del pubblico, che c’è chi ruba veramente: chi ti ruba l’aria, chi ti ruba la spiaggia libera. Nessuno dice niente e poi magari fai te piccole azioni di illegalità e ti criminalizzano. Anche se c’è una legge o un codice, non significa che sia automaticamente sinonimo di giustizia» commenta Militant A.
E con quale forza, con quale courage, si può continuare a cantare nelle manifestazioni il coro «i soldi per la scuola si possono trovare tagliando la spesa militare?»; con quale speranza scendere ancora in piazza e cercare una voce diversa nell’ipnosi? «Adesso c’è sfiducia nella coscienza collettiva, nel poter agire tutti insieme. Tanti pensano che non ha senso tentare di cambiare, che ci abbiamo provato in tutti i modi ed è inutile sperare di riuscirci ancora». In Courage sono molteplici le risposte di Assalti Frontali contro tanta disillusione. E tra queste spicca il racconto della determinazione delle tre volte prevaricata Lala «perchè donna, donna libera e perché donna rom» della canzone “Il mio nome è Lala”, scritta per un film di Ludovica Fales, in uscita. «La protagonista è una ragazza rom incastrata nel limbo dell’illegalità perchè senza documenti: questo compromette anche la sua possibilità di essere una mamma. La sua lotta per cercare di esistere e semplicemente essere come tutti gli altri, è una lotta che secondo noi rientra nel ragionamento del courage che volevamo comunicare» dice Militant A. Sull’onda di questo coraggio, Assalti Frontali cantano per unire i puntini sparsi di una collettività frantumata: «Metto il sole in una poesia/ ricostruiamo una community con l’empatia / faccio rime vitamine per il villaggio / e sembra di tornare a casa dopo un naufragio» (“Perdere la testa”).
Nella foto d’apertura: frame dal video degli Assalti Frontali Courage (Visual Lyrics)
Mettere al centro della propria riflessione la felicità può facilmente apparire, di primo acchito, occuparsi del godimento effimero, dell’edonismo individualistico che domina l’epoca. Fraintendimento a cui sfugge subito chi un po’ ricorda l’origine storica di questo lemma e soprattutto chi conosce l’autore che ne tratta. Domenico De Masi nell’agile e denso libretto La felicità negata(Einaudi) fuga subito il possibile equivoco, mostrando come il termine sia figlio dell’Illuminismo. Esso compare nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 quale diritto di tutti gli uomini alla «vita, la libertà, la ricerca della felicità».
Sappiamo peraltro che la felicità civile di cui parla De Masi diventa lo scopo del buon governo nelle teorizzazione degli illuministi napoletani, da Galiani a Filangeri e si ritrova nella Costituzione giacobina del 1793 in Francia. Ma l’autore la rintraccia addirittura nel 1759, addirittura in Adam Smith. Il fondatore dell’economia politica, che per decenni è stato evocato da migliaia di politici e intellettuali orecchianti per nobilitare il più sfrenato mercatismo, considera virtuosa la ricerca della felicità. Come fa nella Teoria dei sentimenti morali, dove tuttavia considera vera virtù solo la ricerca della felicità comune, mentre «il meno virtuoso…. è quello che non tende ad altro che alla felicità di un individuo». Quale grandezza in questa borghesia del Settecento, di fronte alla famelica ottusità di quella dei nostri anni.
In questo testo arioso, scritto con il nitore narrativo di chi ha lunga familiarità con i temi trattati, l’autore compie a mio avviso un’operazione compositiva geniale, che contiene alla fine una critica dirompente al sistema capitalistico giunto a questa fase estrema di sviluppo. Un’apertura di orizzonte di cui dovrebbero impossessarsi e trasformare in discorso corrente la politica radicale, le nuove generazioni. De Masi, dopo una breve introduzione in cui elenca tutte le conquiste grazie alle quali potremmo essere tutti felici, ricostruisce la vicenda di due grandi e contrapposte scuole di pensiero: la Scuola di Francoforte e la Scuola austriaca, che dà cui è nato neoliberismo. Seguono due capitoli, uno dedicato al lavoro, com’era e come è diventato, e un altro all’ozio, nel quale l’autore offre 5 soluzioni possibili per risolvere il problema della sua crescente rarefazione del lavoro nella società postindustriale e per il conseguimento della felicità civile.
Non mi soffermerò sulla vicenda delle due scuole nelle quali il lettore, oltre a una ricostruzione agile ma circostanziata, troverà un vero repertorio di notizie particolari, che rendono l’analisi ricca di sorprese. A dispetto della vasta letteratura accumulatasi su queste due grandi correnti che hanno attraversato il Novecento, De Masi rende nuova questa pagina storica soprattutto grazie alla sua competenza e al suo sguardo di osservatore dei nostri anni. Egli può mostrare le ragioni per cui il rinnovato marxismo incarnato dalla Scuola di Francoforte, portatore di originalissimi contributi di analisi dei fenomeni culturali della società capitalistica, abbia avuto scarsa efficacia politica. Fatta eccezione per l’annus mirabilis 1968 e la fine di quel decennio, in cui Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, diventarono testi sacri per una intera generazione, il resto della produzione non ebbe l’ influenza che arrise alla scuola avversaria. Intellettuali della statura di Theodor Adorno, Max Horkheimer, autori di un testo memorabile come Dialettica dell’illuminismo, Friedrich Pollock, Erich Fromm, Walter Benjamin che ancora gettano luce sul nostro tempo, non andarono oltre una influenza di natura intellettuale. Ma quasi tutti i grandi studiosi che diedero vita all’Institut für Sozialeforschung fondato nel 1923, erano ricchi borghesi che fecero poco o nulla per diffondere le loro idee e per imprimere ad esse efficacia politica.
Diversamente da come operarono Böhm Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e altri economisti, che nella Vienna tra fine Ottocento e primi del Novecento (formidabile crogiolo intellettuale prima del tramonto), diedero vita a quella corrente che verrà chiamata neoliberismo. Costoro, anch’essi ricchi borghesi, erano intenzionati a combattere il socialismo e la classe operaia e misero in piedi circoli per diffondere le loro idee, entrarono nei consigli delle banche, delle imprese, nelle università, nelle redazioni delle riviste più prestigiose. Insomma misero in piedi, sul piano culturale, una esplicita lotta di classe. Alcuni di loro guardarono con favore perfino al nazifascismo.
De Masi ricostruisce la fortuna di questa scuola che negli ultimi decenni si è trasformata nel pensiero unico dell’umanità, la «nuova ragione del mondo» e ci regala anche una pagina storica di applicazione di quel pensiero all’economia italiana: la svendita del patrimonio industriale pubblico da parte di Mario Draghi.
Ma il messaggio più profondo e dirompente del libro, in pagine ricche di analisi in cui splendono i pensieri di Marx, di Keynes, di Simon Weil è che l’infelicità presente, il disorientamento psichico e morale dell’epoca è frutto dello sfruttamento sempre più totalitario del lavoro. Sfruttamento e disoccupazione strutturale che, come dice André Gorz, «è anche un’arma per stabilire l’obbedienza e la disciplina nelle imprese». Uno strumento di ricatto con cui il potere non contrastato del capitale distrugge per cieca ricerca del profitto la società e saccheggia le risorse della Terra. Eppure, ricorda l’autore: «Già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero al lavoro un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità». Noi potremmo consentirci, grazie al patrimonio tecnologico di cui disponiamo, la possibilità «di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria». La felicità civile è a portata di mano ma l’enorme squilibrio nei rapporti di forza fra capitale e lavoro, ha come esito una società ingiusta, frenetica, fonte di alienazione e malessere. Eppure, luminoso messaggio affidato alle parole di Marx, può esserci felicità anche nella lotta, nell’impegno a migliorare la vita degli altri: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, egoistica, limitata, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre».
Non c’è pace per Piombino. La città medaglia d’oro della Resistenza al nazifascismo che nel suo passato vanta anche una clamorosa sconfitta dei turchi, immortalata in un’opera dal Vasari ed esposta a Firenze, e che per due secoli ha prodotto acciaio e macinato fatturato per il Paese oggi è di nuovo in trincea.
La Parigi della Val di Cornia, come veniva chiamata affettuosamente da Elisa Bonaparte, quando Piombino era un Principato e la reggente era la sorella di Napoleone, è oggi di nuovo al centro del dibattito politico.
Con una decisione a sorpresa il 6 aprile scorso è stato annunciato dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani un rigassificatore dentro il porto della città per contrastare l’emergenza energetica causata dalla guerra tra Russa e Ucraina. Il gas sarà acquistato dall’America, trasportato allo stato naturale liquido nel porto di Piombino e lì riportato allo stato gassoso.
Senza zone di interdizione, come accade a Livorno, dove peraltro il rigassificatore è stato ubicato a 23 chilometri dalla costa. Senza gli accorgimenti di altre piattaforme, che prevedono sistemi a circuito chiuso meno impattanti nell’ambiente.
E ora anche senza valutazione di impatto ambientale. Lo ha comunicato il governo con una lettera all’Unione europea lo scorso 12 agosto. «Se salta la valutazione di impatto ambientale saltano le regole e se saltano le regole salta la democrazia – dice MirKo Lami , membro direttivo della Cgil Toscana – il problema è che Piombino non è adatta per accogliere una nave di quel tipo, c’è solo una strada di entrata e di uscita dal porto, non a caso ha sempre concesso l’ingresso solo a minicrociere».
La cittadinanza è in allarme da tempo, ma a niente sono valse le proteste, gli appelli e l’opposizione netta dell’amministrazione comunale, dei comuni limitrofi di Follonica, San Vincenzo, Suvereto, dell’Elba, di tutte le associazioni ambientaliste, Wwf, Legambiente, Greenpeace, Italia Nostra, delle associazioni di volontariato, di tutti i partiti politici territoriali senza distinzione, dagli attivissimi comitati cittadini, Piazza val di Cornia, Comitato di Salute pubblica, Gruppo Gazebo 8 giugno e Insieme liberi. Per il 27 agosto (ore 21) è in programma una manifestazione promossa da tutti i comitati cittadini che fanno parte della rete No Rigassificatore.
Una vetrina di un negozio nel centro di Piombino, 26 agosto 2022
Neppure la caduta del governo Draghi ha rallentato alcunché, anzi. Il presidente della regione Eugenio Giani, nominato per l’occasione commissario straordinario, ha firmato l’inizio dell’iter procedurale lo stesso giorno in cui il premier Draghi saliva al Quirinale e da allora è stato un susseguirsi di annunci, sull’urgenza del rigassificatore, sul numero di anni che dovrà rimanere in porto. Venticinque ha chiesto Snam, la società energetica che gestisce la rete italiana dei gasdotti e che ha acquistato il rigassificatore per 350 milioni di dollari tramite Fsru Snam Rsl Italia, nata due anni fa con un capitale sociale di appena 10mila euro. Tre anni ha replicato Giani, almeno tre ha rilanciato Snam. Dovrà essere operativa da aprile 2023, hanno detto più volte dal governo.
Di certezze ce ne sono ben poche. Di certo si sa che la Golar Tundra, questo il nome della nave, è un colosso lungo oltre 300 metri e largo 40 e, sarà ubicata nella banchina est, dove il fondale è alto 20 metri. Dovrà trasformare in gassoso il gas liquido che si trova a una temperatura di -160 gradi e per farlo prenderà oltre 600mila metri cubi di acqua ogni giorno dal mare per poi ributtarvela con 7 gradi in meno di prima e con una quantità di ipoclorito di sodio che oscilla dai 50 agli 80 chili. Non proprio la stessa acqua. Con buona pace degli allevamenti ittici vicini che rappresentano da soli il 60% del fabbisogno nazionale. Poi, c’è la questione maltempo, Snam esclude il pericolo di trombe d’aria per la zona, ma Maurizio Acerbo di Rifondazione comunista e Fabrizio Callaioli di Unione popolare puntano il dito: «L’immagine della ruota panoramica travolta dalla tempesta dei giorni scorsi basta e avanza per smentire l’analisi dei rischi di Snam». Insomma, il progetto non convince.
«Per forza, fa acqua da tutte le parti – dice Alessandro Dervishi del comitato Piazza Val di Cornia – La piantina del porto usata non corrisponde a quella attuale perché non c’è la parte più recente della diga, le prove sono state fatte al computer con una nave che assomiglia alla Golar Tundra ma che non è lei. Inoltre, non sono stati considerati fattori come il flusso delle acque, l’ostacolo all’attività industriale e commerciale di Piombino. Non si sono considerati i venti che a volte impediscono alle navi di ormeggiare e neppure è stato previsto l’impatto sul traffico per l’Elba durante il rifornimento».
I turisti si imbarcano al porto di Piombino, 26 agosto 2022
Tra Piombino e l’Elba ci sono 120 corse giornaliere nel periodo estivo, tanti turisti che formano lunghe code sulla strada che porta al porto, ma anche tanti pendolari, insegnanti, infermieri, medici che la mattina prendono il traghetto perché all’Elba ci lavorano. «Cosa ne sarà di loro – continua Dervishi – Ogni 5-7 giorni è previsto l’ingresso di un’altra metaniera per il rifornimento che impiega due ore per entrare e dalle 24 alle 48 ore per completare il travaso. Si blocca tutto così».
A niente valgono le rassicurazioni fatte dal presidente Giani e dai vari partiti sulle compensazioni che riceverebbe in cambio la città. A Piombino solo a sentire la parola si storce il naso. «Le compensazioni sono atti già sottoscritti dallo Stato e mai portati a termine – dice Ugo Preziosi sempre del comitato Val di Cornia – il prolungamento della statale 398 è già finanziato e il primo lotto è già in cantiere, così come è già stata finanziata la bonifica della falda del sito di bonifica di Piombino». Ma anche questo è un altro film già visto. «L’opera doveva essere conclusa nel 2020, invece non è mai iniziata – continua Preziosi – Dei 47 milioni di euro finanziati 24mila sono già stati spesi per studi e consulenze, ne rimangono solo 13 e ne servono 21».
L’area industriale di Piombino in una foto di alcuni anni fa
Decenni di attività siderurgica hanno lasciato il segno e le parole date dai politici di elezione in elezione e mai mantenute hanno portato la rossa Piombino negli ultimi anni dritta nelle braccia della destra (il sindaco Ferrari è di Fratelli d’Italia, il cui cofondatore Ignazio La Russa si è detto favorevole al rigassificatorendr) . Ai banchetti raccogli firme contro il rigassificatore, onnipresenti per tutta la stagione nelle strade del centro, la gente allarga le braccia. «Piombino ha già dato – dice una signora – anni e anni con i fumi che uscivano dalla fabbrica e la polvere che ci ricopriva tutti, la discarica in località Ischia di Crociano negli anni 90, fatta anche quella contro il volere della popolazione, da 7 metri di altezza è arrivata a 36, e poi la chiusura dell’altoforno e la disoccupazione. E ora che la città sta cercando a fatica una ricollocazione a livello turistico ci arriva questa tegola sulla testa».
La tegola sembra inarrestabile, ma nessuno ha voglia di mollare. Le osservazioni che potevano essere presentate alla Regione dai cittadini tramite pec sono arrivate a valanga. «Il paradosso è che si potevano inviare osservazioni solo fino al 20 agosto – dice Roberta Degani del comitato di Salute pubblica – mentre Snam può presentare le integrazioni al progetto richieste dai vari enti che partecipano alla Conferenza decisoria fino al 30 agosto, dunque le nostre osservazioni sono su qualcosa di incompleto». L’iter procede dritto, il 19 settembre è stata indetta la Conferenza dei servizi e il 29 ottobre Giani dovrà esprimersi.
Fuori dal perimetro comunale la politica nicchia, pochissimi i partiti che si sono espressi per il no, Rifondazione, Unione popolare, Sinistra italiana, poco altro, gli altri ripetono come un mantra che siamo in emergenza energetica. E i problemi ambientali, la disoccupazione, le promesse non mantenute? Si sorvola e si dice che i piombinesi sono dei nimby, dall’inglese non nel mio cortile, un modo finto elegante per dire che lì pensano al proprio orticello. Peccato che l’orticello sia diventato una palude.
Forza Nuova non parteciperà alla prossima tornata elettorale. È la prima volta dal 2001 che la formazione di Roberto Fiore non partecipa a una tornata per le elezioni politiche per la mancanza delle 36mila firme necessarie e abbiamo dovuto perfino sorbirci la morale di un pluripregiudicato e ex terrorista come Roberto Fiore che parla di «sistema banditesco».
Molti esultano: i fascisti rimangono fuori dalla democrazia, dicono. Peccato che lo scioglimento di Forza Nuova sia stato in cima all’agenda della politica solo per qualche settimana e ora si voglia fare passare un’esclusione “tecnica” come una vittoria politica. Forza Nuova che tutti i partiti avevano promesso di sciogliere in nome della Costituzione è stata sciolta dai cittadini italiani. Così la politica potrà tranquillamente continuare a sottovalutare il fenomeno dei rigurgiti fascisti in Italia e potrà tollerare la morbida applicazione delle leggi che già ci sono.
Ma dove andranno quei voti? La risposta è fin troppo facile Come accade per le mafie c’è una sostanziale differenza tra chi dice chiaramente di voler rifiutare i voti di qualcuno e chi invece sminuisce un fenomeno per lasciare intendere di restare il fianco. Qui il punto non è tanto la quantità dei voti (comunque pochi) ma la sponda politica a una militanza nei territori che da sempre si confonde con azioni criminali. Nelle liste di Giorgia Meloni ci sono personaggi che fanno riferimento alla radice culturale fascista (benché Meloni e Crosetto fingano male di non saperlo) e sulla parte (nera) del Paese non basta un’esclusione dalle elezioni per dichiarare compiuta la missione. Questo è chiaro, vero?
Buon venerdì.
Nella foto: Roberto Fiore davanti al Viminale per la presentazione del simbolo elettorale, 12 agosto 2022
Avevamo ragione quando, isolati e additati come profeti di sventura, sommessamente facevamo presente che la riduzione del numero dei parlamentari avrebbe ingenerato un effetto ulteriormente maggioritario sul sistema elettorale, determinando un innalzamento implicito della soglia di sbarramento e una dote in seggi più generosa per le coalizioni in grado di conseguire la maggioranza relativa dei voti.
Avevamo ragione quando, in un angolo, sostenevamo che il taglio avrebbe consentito alle destre di accentuare l’esito numerico di una vittoria già scontata rendendo plausibile il conseguimento di un numero di seggi idoneo a consentire la modifica della Costituzione senza necessità di ricorrere al successivo voto referendario.
Avevamo ragione quando vedevamo nel taglio del numero dei parlamentari la prima avvisaglia di un’onda più grande, antiparlamentare, contraria alla cultura del costituzionalismo democratico, che si sarebbe abbattuta sull’Italia e sulle sue istituzioni già fragili.
Avevamo ragione quando rimproveravamo al Partito democratico guidato da Nicola Zingaretti di assecondare un processo di modifica strutturale degli assetti istituzionali solo per omaggio ad un governo e a una alleanza legati alle contingenze, un governo che sarebbe caduto dopo soli un anno e cinque mesi, un’alleanza che avrebbe resistito, per forza d’inerzia, per meno di due anni.
Avevamo ragione quando decidemmo di manifestare, anche attraverso le pagine di questa rivista, il nostro dissenso a costo di passare per “quelli che difendevano le poltrone”. Ora, di poltrona, rischia di restarne soltanto una: quella del decisore unico, dell’amministratore delegato della Repubblica Italiana che le destre vorranno introdurre modificando la Costituzione del 1948 a colpi di maggioranza.
Ora il rischio di una deriva autocratica e cesarista, di una svolta gaullista, di un superamento non soltanto sul piano fattuale ma anche su quello giuridico del parlamentarismo nato dalla Resistenza, è più attuale e concreto che mai. In piena onestà, non si può far finta di credere che la delegittimazione del Parlamento derivante dal contingentamento della rappresentanza politica per un risibile risparmio di spesa non abbia contribuito a creare i presupposti giuridico-culturali per la messa in discussione della stessa forma di governo parlamentare. Contrastare una tendenza all’avvitamento del sistema istituzionale ed impedire lo stravolgimento delle istituzioni democratiche saranno le sfide più difficili che saremo chiamati a intraprendere nella prossima legislatura, senza garanzie di buona riuscita.
Anche questa volta ci additeranno come profeti di sventura. Speriamo solo, stavolta sul serio, di avere torto.
*L’autore: Jacopo Ricci è portavoce nazionale di Nostra – Attuare la Costituzione
Come si possa ritrovarsi nella più grande iniezione di denaro dal dopoguerra senza avere una sana preoccupazione per la fame delle mafie è una questione che può avere solo due risposte: che ci sia sul tema un’ignoranza che non possiamo concedere alle forze politiche oppure che gli interessi tra certa politica e le mafie siano convergenti (non sarebbe una sorpresa, per niente).
Sono passati i tempi in cui tutti i partiti (perfino Salvini e Berlusconi) proclamavano di essere antimafiosi perché la lotta alle mafie era un prerequisito essenziale per la propria credibilità politica. Negli ultimi anni anzi la legislazione antimafia ha subito attacchi anche dai partiti tradizionalmente considerati “antimafiosi”.
Wikimafia segnala che «secondo un’indagine di SWG dello scorso luglio, da Nord a Sud non vi è territorio che si senta al riparo dalla presenza delle organizzazioni mafiose. Il 64% degli italiani trova insufficiente l’impegno dello Stato contro la mafia, tanto che il 54% individua nella complicità tra mafia e pezzi di Stato la causa della morte di Falcone e Borsellino. E se il 51% è convinto che il fenomeno mafioso sia ancora un problema concreto, che può essere sconfitto, il 41% oramai lo considera un problema irrisolvibile e che tutto ciò che viene fatto sia inutile».
Per questo lanciano 10 proposte ai candidati in Parlamento:
«1. Affrontare la questione morale, non solo inasprendo le pene per tutti quei reati alla base del rapporto tra mafia, politica ed imprenditoria, ma anche lavorando affinché all’interno del proprio partito si escludano dalle liste personalità in conflitto di interesse e aduse a pratiche clientelari e frequentazioni non specchiate.
2. Approvazione di una legge costituzionale che inserisca il carattere antimafioso della Repubblica italiana nella nostra Costituzione, accanto a quello antifascista.
3. Difesa e potenziamento dell’impianto legislativo antimafia, in gran parte ideato da Giovanni Falcone (dal 41bis all’ergastolo ostativo, fino allo scioglimento dei comuni per mafia), sollecitando il Governo italiano a intraprendere ogni iniziativa utile per sensibilizzare l’Unione europea sull’urgenza del contrasto alle mafie a livello comunitario.
4. Approvazione di una legge che istituisca Sezioni distrettuali antimafia nei Tribunali della Repubblica, composte da giudici con comprovata e certificata esperienza e conoscenza del fenomeno mafioso, che abbiano la medesima competenza territoriale delle Direzioni distrettuali antimafia.
5. Valorizzazione dei beni confiscati alle mafie, potenziando l’Agenzia nazionale, snellendo le procedure di assegnazione e facilitando il riuso sociale da parte di enti del terzo settore composti perlopiù da giovani under 35 prevedendo specifici fondi per l’iniziale messa in sicurezza, ristrutturazione e avvio attività, anche attingendo dal Fondo Unico Giustizia.
6. Introduzione dell’obbligo di dichiarazione del titolare effettivo in bandi, gare, convenzioni pubbliche e quant’altro presupponga impegni economici da parte delle amministrazioni pubbliche.
7. Introduzione del divieto per la pubblica amministrazione e per gli enti territoriali dello Stato di contrarre rapporti di natura economica con società aventi residenza fiscale nei c.d. Paesi offshore e/o con i titolari effettivi aventi residenza fiscale nei medesimi Paesi e/o siano controllate da società schermo o da reticoli societari opachi.
8. Approvazione di una disciplina di tutela per giornalisti, ricercatori e cittadini che punisca severamente il ricorso alle querele temerarie, nuovo strumento di intimidazione per colpire la libertà di stampa e di ricerca in Italia.
9. Tutela del diritto all’informazione e alla ricerca accademica, introducendo limiti al diritto all’oblio per quei personaggi i cui comportamenti, pur non penalmente rilevanti, mantengano una rilevanza pubblica, storica e politica nella storia della lotta alla mafia e del movimento antimafia.
10. Introduzione nelle offerte formative delle scuole primarie e secondarie di almeno un’ora alla settimana dedicata allo studio del fenomeno mafioso e alla storia delle principali organizzazioni mafiose e del movimento antimafia, introducendo nell’organico docenti un insegnante specializzato in materia, come previsto per l’insegnamento della religione cattolica.
Chiedete ai candidati del vostro collegio se se la sentono di aderire. Vale la pena parlarne e soprattutto costringere la politica a esporsi. Soprattutto adesso che l’antimafia sembra essere diventata un vezzo di pochi. Trovate tutte le informazioni qui».
Buon giovedì.
Nella foto: l’arrivo a Palermo della nave della legalità, 23 maggio 2019
Bisogna essere grati all’intelligenza di Donatella Di Cesare che con il suo intervento (sul Fatto quotidiano del 13 agosto) fa compiere un salto di qualità allo stanco e banale dibattito elettorale.
Ogni ragionamento deve partire dal fatto che numericamente la destra ha già vinto, ma questo accade a causa della legge elettorale maggioritaria “rosatellum” (con la proporzionale, Meloni avrebbe forse il suo 20% e non andrebbe da nessuna parte). Il 46% della destra vs il 31% del campo (mica tanto) largo del geniale Letta comporta la sicura vittoria numerica della destra nei collegi maggioritari, come non si stancano di ripeterci tutti i Tg con le desolanti cartine d’Italia tutte blu e azzurro scuro (molto scuro).
E sappiamo chi dobbiamo ringraziare per questo: anzitutto l’on. Rosato, eroe eponimo del “rosatellum” (al tempo del Pd) e i partiti che, per fregare il M5s, votarono la sua orrenda legge elettorale (il Pd e tutta la destra); poi un grazie anche a Pd, M5s e Leu che – pur avendo i numeri in Parlamento – non hanno voluto cambiare quella legge elettorale (erano distratti? se ne erano dimenticati?); infine un ringraziamento a Letta che ha rifiutato l’alleanza col M5s, abbandonato poi sull’altare, col suo bel velo bianco ancora in testa, dal fedifrago Calenda, subito dopo aver pronunciato il suo “Sì”; ma anche un sentito grazie a Si, Verdi e M5s che hanno respinto la proposta di un polo unitario avanzata da Unione Popolare, un polo a cui comunque si dovrà lavorare dopo le elezioni.
Ora dunque le cose stanno come stanno, e la vittoria numerica della destra si trasformerà in vittoria politica dando vita dopo le elezioni a un ennesimo governo delle banche e della Nato, benedetto da Mattarella, con l’agenda Draghi in mano, magari condito da qualche Cottarelli di fiducia di Confindustria.
Questo fatto (la sicura vittoria numerica della destra) ha alcune conseguenze che rendono invece la partita politica ancora del tutto aperta. Nessuno si deve arrendere: “Aquì no se rinde nadie!”.
Anzitutto: evidentemente non ha più alcun senso l’appello del Pd alla sinistra perché, turandosi il naso, gli dia ancora un voto cosiddetto utile “sennòvienelameloni”. Non saremo certo noi poveri untorelli di sinistra a trasformare il 31% in 46%.
Ma soprattutto occorre guardare al voto come una tappa per ciò che verrà dopo. Si tratta di ricostruire una sinistra che sia espressione del conflitto sociale e del rifiuto della guerra, – come scrive Di Cesare – «una nuova formazione in grado di dar voce alla necessaria sinistra del XXI secolo». È questo il vero scopo politico di questo voto.
E allora la domanda da porsi è la seguente: per realizzare questo scopo serve di più mandare in Parlamento qualche parlamentare del Pd oppure garantire la presenza di un gruppo di vera e sicura opposizione come Unione Popolare? Detta ancora più brutalmente: è meglio assicurare un seggio a qualche Casini o a qualche Minniti in più oppure eleggere qualcuno come l’ambasciatore Calamai, candidato di Unione Popolare? Direi che per raggiungere il vero scopo che oggi abbiamo di fronte, nessun voto è più inutile di un voto dato al Pd o ai suoi cespugli, e nessun voto è stato mai tanto utile, e necessario, quanto un voto dato a Unione Popolare.
La mancanza in Parlamento di una vera opposizione di sinistra (fondata sulla difesa intransigente della pace, del lavoro, dell’ambiente, della Costituzione) rappresenterebbe una grave minaccia per la stessa democrazia, perché una tale mancanza legittimerebbe quel micidiale “so’ tutti uguali!” che le masse hanno sperimentato in queste anni di governo del “Partito unico articolato” obbediente a Nato, Confindustria e banche, che ha già provocato livelli terribili di astensionismo. Si rafforzerebbe la dittatura che già c’è, un nuovo fascismo, magari senza bisogno né di orbace né di fiamma tricolore.
Unione Popolare è del tutto cosciente di essere solo un inizio, cioè un processo unitario aperto a tutti e a tutte; per fare solo un esempio: del tutto aperto ai/lle compagni/e di Sinistra Italiana che rifiutano l’intruppamento nelle fila di Letta e dell’agenda Draghi e che hanno criticato la mancata consultazione della base (prevista dallo Statuto di Si). Nel segreto della cabina elettorale la vostra coscienza di compagni/e vi vede, Letta no: aiutate dunque Unione Popolare a superare lo sbarramento!
L’impegno straordinario di tante e tanti è riuscita nell’impresa impossibile di raccogliere 60mila firme in agosto, ora si tratta di superare la feroce censura dei media, la totale mancanza di soldi, lo sbarramento, e di mandare in Parlamento un gruppo pacifista, eco-socialista, femminista, contro il fascismo, le mafie e le masso-mafie.
Ci sono momenti in cui la cosa giusta è anche quella più difficile da fare.
Ero agitato, mi guardavo freneticamente attorno senza in realtà vedere niente. Cercavo di mostrarmi calmo, per le persone che erano con me. La macchina andava veloce e i pali della luce sulla strada, ormai distrutti, scorrevano davanti ai miei occhi. I miei pensieri mi tormentavano, in una lotta che sapevo di non poter vincere. Stavo lasciando indietro tutto quello che avevo, l’università, la galleria, i miei dipinti, il mio dotar, uno strumento musicale della mia regione, l’armonio, i miei libri, i miei amici e moltissimi dei miei studenti. Ma soprattutto quello che mi faceva più male era il pensiero che avessi abbandonato i miei genitori, che per tutta la vita avevano lavorato duro per garantirmi una vita migliore, proprio adesso che era arrivato il mio tempo per ripagarli di tutti i sacrifici. Invece, eccomi che andavo incontro ad un futuro imprevedibile, di cui non avevo certezze.
Era passata una settimana da quando i talebani avevano conquistato Herat, dopo diciannove giorni di battaglia, e tutti gli impegni degli ultimi venti anni erano stati sgretolati dal ritorno di questi terroristi e dalla codardia di un presidente traditore e fuggitivo. Pochi giorni prima, avevo terminato la costruzione della mia galleria. Negli ultimi cinque anni, oltre alle mie lezioni all’Università di Herat, avevo anche cominciato a lavorare al progetto della costruzione di una galleria d’arte e, con l’aiuto di alcune mie studentesse della facoltà di Belle arti, eravamo riusciti a trasformarla in uno spazio stimabile. La verità è che la nostra galleria era l’unica di Herat. Avevo investito tutti i miei risparmi, e le ragazze avevano contribuito con tutto quello che potevano, in modo da rendere la galleria un posto speciale per tutti gli studenti appassionati.
Herat, Afghanistan
Mentre la mia memoria ripercorreva i ricordi di quei giorni felici nella mia galleria, un forte scossone fece tremare il pullman, e mi riportò di colpo alla realtà. Guardando fuori dal finestrino, notai che stavamo tentando di attraversare una zona distrutta dell’autostrada Herat-Kabul. Incredibile, pensai, i talebani non avevano risparmiato nemmeno le strade e le avevano fatte saltare in aria. Tutti quegli anni di violenza per nulla, se non per distruggere la strada fondamentale per lo sviluppo del Paese, per impedire al nostro popolo di potersi modernizzare. Appena posai lo sguardo all’interno della vettura, una terribile angoscia mi riempì il cuore. Ventotto giovani donne e due bambine viaggiavano con me, in un Paese dove essere semplicemente una donna era punibile con la prigione e la tortura. Dei terribili dubbi mi tormentavano, dove sto andando? In che avventura mi stavo buttando?
Una voce interruppe la catena dei miei pensieri, «Stai bene, professore?». Mi affrettai a rispondere che sì, stavo bene, ma assicurandomi di non incontrare il suo sguardo, così che non potesse leggere nei miei occhi tutti i dubbi che mi assillavano. Erano passati esattamente due giorni da quando avevo ricevuto un messaggio whatsapp, che mi chiedeva se fossi proprio io Nazir Rahguzar, un professore dell’Università di Herat. Il messaggio era da parte di una donna di nome Mara Matta, che si era presentata come professoressa dell’Università La Sapienza di Roma, in Italia. A quanto pare, il mio amico Morteza, che era suo studente, le aveva raccontato della situazione che le mie studentesse ed io stavamo vivendo, e Mara, che in quei giorni era in vacanza in Grecia, aveva deciso di aiutarci ad uscire dall’Afghanistan. Tra di noi la chiamavamo “il piccolo angelo”. Un gruppo di persone aveva deciso di tendere una mano e dedicare tutte le loro forze e il loro tempo per aiutarci, in quel momento cardine, così critico della nostra vita.
Avevano riaperto le piattaforme di iscrizione universitaria per le mie studentesse. Mi ricordo il giorno dopo aver ricevuto questa notizia, le ragazze avevano creato un cerchio, sedendosi intorno alla stanza. A gruppi di tre, si davano il cambio per registrarsi. Allo stesso tempo però, sapevo che stavano aspettando che dicessi qualcosa. Era impossibile non leggere angoscia e disappunto nei loro occhi. Ognuna di loro mi guardava come se potessi salvarle da quell’inferno. Pensavano che io avessi una soluzione, un asso nella manica che avrebbe risolto tutto. «Prof, qual è il prossimo passo?» chiese una di loro. Io le risposi, nel tono più rassicurante che potessi, che adesso dovevamo aspettare che i nostri benefattori si facessero sentire e ci dicessero cosa fare. Una delle mie studentesse, Nilofar, mi aveva chiesto con scetticismo quando sarebbe avvenuto. Io le avevo risposto “presto”, ma neanche io ero sicuro delle mie parole.
Quella sera, andai al club del biliardo con degli amici, ma l’atmosfera che si respirava era soffocante come mai prima d’ora. Era come se ognuno dei presenti avesse paura di qualcosa. Mentre giocavamo, ricevetti una chiamata. Sullo schermo si leggeva “sconosciuto”. Dall’altra parte della cornetta mi aspettava una donna, che lavorava per il ministero della Difesa italiano o dell’Interno. A distanza di un anno, i miei ricordi si fanno già confusi. Dopo aver chiesto il mio nome, mi disse di raggiungere Kabul il più presto possibile, e io accettai senza fare domande.
Il giorno in cui ho detto addio a mia madre, l’ho vista svenire tra le mie braccia. Lasciare andare il suo unico figlio era la cosa più dolorosa al mondo per lei, ma sapeva di non avere scelta. Era consapevole che quel dolore era l’unico modo perché suo figlio si salvasse. La stavo lasciando nelle braccia di altri. Ho lasciato di corsa la casa. Non volevo che le mie studentesse, e i miei figli, vedessero le lacrime sul mio viso. Mentre mi allontanavo, sentivo mio padre, ormai anziano, piangere, che chiedeva a Dio, Allah, di prendersi cura di me.
La macchina rallentava di nuovo. Dopo quasi venti ore di viaggio, avevamo finalmente raggiunto le porte di Kabul, la sanguinosa capitale dell’Afghanistan. Appena varcammo il confine, fummo informati che c’era stata una tremenda esplosione all’interno dell’aeroporto. Uno dei nostri compagni di viaggio aveva preso le chiavi di un appartamento a Makroryan, una zona residenziale vicino l’aeroporto. Intorno alle dieci del mattino, raggiungemmo la casa e il nostro interminabile tragitto finalmente si interruppe. Mentre tutti intorno a me si addormentavano stremati dal viaggio, a me risultava impossibile prendere sonno, e continuavo a scambiare messaggi con Mara, riguardo l’incidente all’aeroporto.
Per due giorni e due notti, il mio gruppo formato da trentatré persone visse in un appartamento di sole tre stanze. Diverse volte, durante quei giorni, le forze militari italiane che erano stazionate all’aeroporto ci contattarono per sapere la nostra posizione e per venire ad accompagnarci all’aeroporto, ma tutte le volte i nostri appuntamenti venivano cancellati per ragioni di sicurezza. Dopo aver passato due giorni e due notti a Makroryan, i talebani, che nel frattempo stavano organizzando gruppi di pattugliamento per tutta la città, cominciavano a destare sospetti sui nostri movimenti, e fummo costretti a scappare nella notte, a gruppi di cinque, per non attirare attenzione. Il nostro nuovo rifugio era l’appartamento di un vecchio vicino di casa, nel quartiere di Wazir Akbar Khan. Questo posto era più spazioso e adeguato per il numero di ospiti. Altri quattro lunghi giorni passarono, e ogni volta che tentavamo di raggiungere l’aeroporto, le nostre speranze morivano.
Appena scattata la mezzanotte del 31 agosto, il cielo di Kabul, che fino a quel momento era stato riempito dal rumore degli aeroplani, si fece completamente muto. Quel silenzio, sinistro e irreale, fu interrotto poco dopo da milioni di pallottole sparate in aria dai Talebani, che festeggiavano il ritiro della comunità internazionale. Quello che per i talebani simboleggiava la vittoria, per noi era un veleno amaro, impossibile da mandare giù. Quella notte, mi trovavo all’ospedale di Wazir Akbar Khan. Il corpo malato di Nahid, una delle mie studentesse, giaceva tra le mie braccia. Era da giorni che stava molto male per il coronavirus, e il forte rumore di colpi nell’aria la agitava. Presa dai deliri della febbre, continuava a strillare «corri, nasconditi sotto il letto», mentre cercavo di calmarla.
I giorni passavano, e noi eravamo confinati in casa. Aspettavamo un miracolo, che sembrava non arrivare più. Le giornate si facevano sempre più pesanti. La maggior parte delle ragazze non avevano il passaporto, e ci avevano avvertito che lasciare il Paese senza i documenti sarebbe stato impossibile. Cercavo di mantenere alto il morale delle mie ragazze, e giocavamo a qualche gioco per tenerci occupati. Le spese erano tante, e i nostri fondi si stavano esaurendo. La professoressa Mara cercava di aiutarci mandando soldi dall’Italia, così che potessimo sopravvivere, ma le condizioni diventavano sempre più pesanti. Cose belle, brutte e terribili accaddero in quei giorni, che per motivi di spazio e di sicurezza non posso raccontare in questo articolo.
Dopo quindici giorni, mi comunicarono che un aereo ucraino stava aspettando all’aeroporto di evacuare i suoi cittadini dal Paese, e che erano stati dedicati dei posti per me e la mia famiglia. «Non è possibile evacuare le tue ragazze adesso, ma se esci dal Paese, forse potrai fare ancora di più per loro. Potrai informare il mondo di quello che sta accadendo, rilasciare interviste, partecipare a conferenze…». Quindi parlai con le mie ragazze, tutte loro votarono perché partissi, sperando che dall’Italia potessi difendere la loro causa e accelerare la procedura. Il 18 settembre la mia famiglia ed io lasciammo la casa per raggiungere l’aeroporto.
Il momento degli addii con le mie studentesse fu ancora più difficile che quello con i miei genitori. Tutti mi guardavano in lacrime e potevo leggere il disappunto nei loro occhi nonostante mi avessero convinto a partire. Io rispondevo ai loro sguardi con un sorriso, che però mi sembrava ridicolo. Quel giorno promisi a me stesso che avrei fatto qualsiasi cosa perché anche loro potessero raggiungere, il prima possibile, l’Europa.
La diaspora afgana
L’aeroporto non era affollato quando arrivammo, ma il personale della polizia talebana era ovunque e si guardava in giro con aria minacciosa, alcuni di loro avevano fruste tra le mani. La mia famiglia ed io eravamo in fila per entrare nell’aeroporto, la folla cresceva rapidamente e i talebani fustigavano qualcuno ogni momento. Passarono quattro ore, e i talebani ancora non ci avevano permesso di entrare. Ad un certo punto, un uomo con una lista in mano si mise a confabulare coi talebani, e lesse ad alta voce una serie di nomi, tra cui i nostri, e così finalmente ci permisero di entrare. Passammo diversi controlli di sicurezza, e ad ognuno rileggendo la lista dei nomi.
Raggiungemmo la zona dove venivano stampati i passaporti della gente che era in lista ma non aveva i documenti necessari per partire. Con mille paure e speranze, i nostri passaporti furono stampati. Il mio primo compito fu quello di mandare un messaggio a Mara, la sua collega Lucia e al resto del gruppo.
La nostra felicità ebbe vita breve, perché improvvisamente diversi talebani irruppero nella sala, cancellarono il nostro volo senza comunicarci nessuna motivazione e distrussero i nostri documenti. Noi non potemmo fare altro che restare a guardare impotenti. Ero terribilmente amareggiato, ma cercavo di confortare me stesso. Alle sette e mezza raggiungemmo finalmente casa, stanchi morti e con tutti i nostri bagagli, e le ragazze, nonostante fossero già a conoscenza della notizia, mi guardavano sorprese come se pensassero che fossi stato io a decidere di non partire. Nonostante questo, nessuno osava fare domande.
Ricevemmo ben presto un altro messaggio, dove ci convocavano all’aeroporto per la mattina seguente, e sentii un barlume di speranza. Non riuscii ad addormentarmi prima che fosse l’alba, e la mattina dopo vennero replicati gli addii del giorno prima. Questa volta però, appena arrivammo all’aeroporto, decisi di prenotare una stanza nell’ostello proprio davanti: avevo imparato la lezione del giorno precedente e sapevo che stare vicini sarebbe stato più comodo. Quella mattina non fecero entrare nessuno, e rimanemmo tutti stipati in una stanzetta che puzzava terribilmente fino alle sei del pomeriggio, assistendo per tutto quel tempo al terribile e umiliante trattamento dei talebani che la povera gente presente doveva subire. La descrizione di queste scene esula dall’ambito del mio articolo, ma sono immagini che non scorderò mai. Alle sette di sera, dopo aver atteso dodici ore, tornammo a casa e dovemmo affrontare di nuovo gli sguardi disperati delle ragazze, che si trovavano in una situazione anche peggiore della nostra, e poi di nuovo ci ordinarono di presentarci all’aeroporto per un terzo tentativo.
Alcune studentesse di una scuola religiosa a Kabul, 11 agosto 2022
Questa scena si replicò di nuovo, salutai le mie ragazze, prenotai la stessa stanza, aspettammo per tempi interminabili dentro l’aeroporto, vedemmo i talebani prendersela con gente innocente. Non potei fare a meno di notare le mie due figlie, di quindici e vent’anni, stremate, appoggiate sulle loro valigie, i loro occhi mi sembravano spenti, la luce che li aveva sempre distinti sembrava essersi spenta. Questa visione non faceva che aumentare in me la determinazione a lasciare l’Afghanistan. La stessa persona che avevamo incontrato due giorni prima era tornata con la lista in mano e, dopo esserci messi in fila, seguimmo le stesse procedure, una dopo l’altra.
Alle sei del pomeriggio, eravamo finalmente arrivati alla parte in cui i nostri passaporti sarebbero dovuti essere timbrati. In quel momento, un leader dei talebani, con uno sguardo molto duro, ci comunicò che il volo era stato cancellato. Ancora una volta, fu come se avessero svuotato un secchio di acqua bollente sulle nostre teste. Ci disse che la torre di controllo dell’aeroporto era sotto la supervisione del Qatar, e che il loro turno finiva alle sei di pomeriggio. La situazione precipitò e la tensione salì alle stelle. In quel momento, uno dei talebani aveva notato che stavo segretamente riprendendo la nostra conversazione. I talebani presenti si avvicinarono con aria minacciosa e con tutta l’intenzione di arrestarmi per il crimine di “diffusione di bugie sul loro conto”. Alla fine, presero il mio telefono e lo distrussero, poi mi intimarono di andarcene. Cosa potevamo fare se non tornare a casa? Non mi ero mai sentito così esausto nella mia vita. Nessuno se la senti di farmi alcuna domanda. Presi due pillole e mi sdraiai, per cercare di riposare. Non riuscivo a concentrarmi su niente, non riuscivo a pensare al mio passato né tanto meno al futuro delle mie ragazze e della mia famiglia.
Anche quella sera avevamo ricevuto il messaggio che ci diceva di raggiungere l’aeroporto l’indomani, ma questa volta non guardai in faccia nessuna delle studentesse e mi infilai velocemente in macchina. I talebani ci guardavano da ogni lato, come se fossimo criminali di guerra. Mai nella mia vita mi ero sentito così umiliato come durante quei giorni. Mai avrei pensato che sarei stato trattato così dal mio stesso Paese, un Paese che era stato ricostruito dall’impegno della gente come me. E adesso mi ritrovavo intrappolato, costretto a scappare come un codardo. Ero consapevole che, se non fosse stato per i miei figli e le mie studentesse, non avrei mai tentato di abbandonare il Paese. Mille pensieri attraversavano la mia mente e furono interrotti solo da un talebano che, puntandomi la canna del fucile sul fianco, mi intimava di camminare. Seduto nella solita stanza, aspettavo solo che ci comunicassero che anche quel giorno il volo era stato cancellato, e leggevo negli occhi delle mie figlie che anche loro avevano perso le speranze. Avrei voluto abbracciarle, ma sotto il regime dei talebani anche quel gesto avrebbe portato ad una punizione.
La moschea blu di Mazar-i-Sharif a Balkh
Ad un certo punto, ci dissero che potevamo salire sull’aereo, e ognuno di noi si diresse al proprio posto, non potendo fare a meno di scrutare tutto e tutti con fare sospettoso. Il pilota annuncio che saremmo partiti a momenti, e l’aereo cominciò a muoversi in direzione della pista di decollo. Il rumore del motore si faceva sempre più forte. Il mio cuore batteva così forte che avevo l’impressione che sarebbe scoppiato. Quando l’aereo lasciò finalmente il suolo, la realizzazione che stessi veramente lasciando l’Afghanistan, e con lui tutti i miei sogni, mi travolse appieno. I ricordi del mio passato scorrevano davanti ai miei occhi. Mia madre, mio padre, la mia università, i miei amici, i miei studenti. L’aereo stava partendo, ma io avevo le lacrime agli occhi. Nel cielo di Kabul, mi sembrava di vedere Goli, Susan, Nilufar, che mi guardavano pregando di aiutarle. Abbassai velocemente gli occhi, mentre la capitale spariva dalla nostra vista, e noi ci dirigevamo verso un futuro sconosciuto.
Traduzione a cura di Ileana Amadei
Nell’immagine di apertura, Nazir Rahguzar e le studentesse della facoltà di Belle arti dell’Università di Herat, in uno scatto dal profilo Instagram del professore