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Buondonno (Sinistra italiana): La scuola deve formare persone, non addestrare al lavoro

La scuola purtroppo non figura tra i temi principali della campagna elettorale. E gli scarni programmi dei partiti su questo tema talvolta risultano perfino regressivi e conservatori, come nel caso del centrodestra che persegue nel sostenere il bonus scuola per le famiglie e quindi sostanzialmente apre ancora di più le porte ai privati, indebolendo l’istruzione pubblica, già sotto attacco dopo decenni di pseudoriforme.

Abbiamo chiesto a Giuseppe Buondonno, responsabile scuola di Sinistra italiana e candidato in Lombardia per Alleanza Verdi Sinistra di raccontarci i punti fondamentali del programma sulla scuola e le sue idee sulla formazione. Buondonno è un insegnante, docente di italiano e storia da trent’ anni nel liceo artistico di Fermo, nelle Marche, «una scuola dove è meraviglioso vedere quanti siano i linguaggi espressivi degli studenti». Inoltre, con Giuseppe Bagni, presidente del Cidi, ha scritto Suonare in caso di tristezza. Dialogo sulla scuola e sulla democrazia (Pm, 2021), un epistolario che ha abbracciato anche il difficile periodo della pandemia, quando le domande di sapere si scontravano con l’emergenza della didattica a distanza.

Buondonno, nei programmi elettorali manca una visione organica, di lungo e medio termine sulla scuola. Lei che è anche insegnante, che idea si è fatto?
Prima di tutto va detto che la scuola è stata sì dimenticata nei programmi dei partiti, ma purtroppo in passato molte forze politiche se ne sono occupate in modo estemporaneo e propagandistico senza un minimo coinvolgimento del mondo della scuola. Dalla “riforma” Gelmini alla Buona scuola, ci sono stati tutti interventi calati dall’alto senza nemmeno tener conto della letteratura pedagogica che aveva prodotto idee e proposte. Quindi la prima cosa da affrontare, su qualunque proposta di legge futura, è provare a coinvolgere seriamente il mondo della scuola – lo dico da insegnante che ha vissuto sulla propria pelle una serie di cambiamenti, come il passaggio degli istituti d’arte a licei artistici voluto da Gelmini, su cui ci sarebbe molto da dire.

Come è nato il vostro programma, qual è la ricerca che c’è dietro?
Questo nostro programma è stato preparato da un lavoro lungo, perché quando non avevamo la più pallida idea che il governo sarebbe caduto in estate, noi come Sinistra italiana abbiamo promosso lo scorso maggio a Pisa l’iniziativa “Pensiero stupendo. Sapere è democrazia”. Il documento che allora è stato prodotto insieme all’elaborazione di Europa verde è stato alla base della nostra proposta programmatica. A Pisa c’erano undici tavoli di lavoro a cui hanno preso parte i sindacati, Cidi, Cgd, le associazioni degli studenti. Il lavoro era articolato in due sessioni: una sulla scuola e l’università e un’altra su come cambia il sapere, il sapere nell’era digitale. Quindi, in sintesi, il programma è stato il frutto di una elaborazione, non di una improvvisazione, un lavoro che voleva ribaltare la logica di una scuola pensata unicamente per il mercato del lavoro, selettiva e prestazionale. Il che non significa che non debba essere una scuola seria, che formi, ma che debba formare persone non pezzi di ricambio per la produzione.

Quali sono i punti che ritiene fondamentali per un miglioramento della formazione?
In questa ottica di ribaltare la visione mercantile della formazione – tanto mercantile per cui si è arrivati a parlare di didattica orientativa al lavoro alle scuole elementari – uno dei punti fondamentali è la riduzione degli alunni a un massimo di 15 in ogni classe. E non per problemi di Covid o in previsioni di emergenze pandemiche, ma per poter realizzare una didattica che possa essere veramente attenta ai problemi che queste generazioni hanno di concentrazione, di analisi, di attenzione, di riflessione, determinati da una rivoluzione digitale che dura da decenni. Sto parlando di una didattica che sia veramente inclusiva nel senso profondo del termine, non che si limiti ad accogliere, ma che accolga formando, integrando le differenze. Insomma, non ci possono essere classi numerose, bisogna eliminare la situazione assurda che abbiamo solo noi in Italia per cui è previsto un numero minimo di alunni per classi ma non un numero massimo.

La riduzione delle classi numerose, che non è mai stata voluta né dai governi di centrodestra né di centrosinistra, che cosa comporterebbe?
Naturalmente per far questo servono più spazi, aule nuove, o meglio, aule che per esempio in molti casi – noi lo scriviamo a latere del programma – possono essere recuperate, coinvolgendo i governi locali, in spazi pubblici esistenti e non utilizzati senza realizzare nuove edificazioni. Ma non c’è solo l’edilizia scolastica. Ridurre il numero degli alunni significa assumere molti più insegnanti, e in pianta stabile. Il sistema continua a produrre precariato e tra l’altro non garantisce spesso la nomina dei docenti all’inizio dell’anno scolastico, come accadrà adesso, visto che si prevedono ancora 150mila supplenti. Serve assumere, se necessario stabilizzare i precari storici ma creando un sistema che sia veramente formativo, smantellando questa cosa dei Cfu (Crediti formativi universitari) che costano solo un sacco di soldi. Serve garantire una formazione seria e un percorso lineare e semplice. Noi abbiamo bisogno di insegnanti preparati, non di percorsi a ostacoli per l’accesso all’insegnamento. Così come abbiamo bisogno di insegnanti di sostegno che abbiano un percorso di formazione serio, lineare e certo. A questo aggiungiamo interventi che per me sono importantissimi.

Vale a dire?
L’estensione del tempo pieno e prolungato in tutta la penisola e in ogni ordine di scuola. Credo che questo vada discusso con il mondo della scuola, per esempio il tempo pieno nella primaria e il tempo prolungato alla scuola media e alle superiori, dove nel triennio potrebbe essere anche con accesso volontario. E tutto questo confrontandoci con i collegi docenti, con le organizzazioni sindacali, con gli studenti, con il personale Ata. Si tratta di pensare come tradurre tutto questo creando una progettazione che sia didattica e formativa anche aperta ad altre esperienze del territorio, culturali e artistiche ma che sia comunque incentrata su un progetto formativo della scuola, elaborato dalla scuola, non dato in appalto come avviene per i Pof. Quello non è tempo scuola.

La scuola, in certe aree marginali dal punto di vista economico e sociale, può fare poco se attorno non esiste una rete “protettiva”. È il problema che poi è all’origine della dispersione scolastica, di cui il nostro Paese detiene un record negativo in Europa. Cosa proponete?
È un punto importante del nostro programma. Riguarda la definizione delle Zone di educazione prioritaria e solidale. Siamo partiti da un dato di fatto: è vero che il problema della povertà educativa è più generale, però è indiscutibile che ci sono zone del Paese – zone geografiche e zone sociali come le aree montane o le periferie delle città – in cui al fenomeno generale si aggiunge una difficoltà, un disagio sociale profondo, qualche volta anche un deserto culturale fuori della scuola, con interi quartieri senza biblioteche, cinema e teatri. Insomma, luoghi dove non c’è quella rete di supporto alla formazione che è importantissima. Quindi, in accordo con le amministrazioni locali, si tratta di individuare queste zone e di portarvi un maggiore contributo in termini di risorse e di personale, finanziando veri e propri progetti specifici per contrastare l’abbandono scolastico, anche con interventi rispetto all’orientamento, per affrontare il delicato passaggio soprattutto dalla scuola media alle superiori.

Questi interventi necessitano di molte risorse.
È vero, tutto questo costa, qualcuno potrebbe dire che il nostro è un libro dei sogni. Però rispondo citando Me-ti di Bertolt Brecht: «Bisogna essere radicali come la realtà». Credo prima di tutto che sia indecente che un Paese come l’Italia investa così poco (3,9 %) rispetto al Pil anche rispetto alla media europea (4,6%). Dobbiamo portare la spesa per la formazione al 6% del Pil, e non con finanziamenti straordinari ma con il bilancio ordinario dello Stato. Non è una battaglia che si può vincere in un anno, ma l’orizzonte è questo, non bisogna andare in direzione contraria. La tendenza, anche del governo Draghi, è stata quella di risparmiare, con la motivazione che è diminuita la natalità. Ora faccio notare che questo fenomeno per un governo non dovrebbe essere un problema statistico ma un problema da risolvere, visto che la natalità diminuisce perché i giovani sono sempre più precari, malpagati e quindi non in condizione di costruire un progetto di futuro. E poi, se mai è proprio questo il momento di diminuire il numero di alunni per classi, non di continuare ad accorpare classi, come stanno facendo gli uffici scolastici regionali, sempre nella logica di risparmiare.

Ma dove pensate di recuperare i soldi per finanziare questo insieme di interventi?
Li dobbiamo prendere con una battaglia, con un conflitto. Questo è un Paese in cui si è deciso l’aumento della spesa militare – stiamo parlando di 100 milioni di euro a giorno, quando verrà portato a regime – ed è gravissimo investire sulle armi invece che sull’istruzione, perché risponde ad un modello di umanità altro rispetto a quello che noi proponiamo. Poi ci sono 120 miliardi all’anno di evasione fiscale: una parte del recupero di questa cifra basterebbe ad alzare l’investimento per la scuola, per non parlare degli extraprofitti delle aziende energetiche, della tassa aggiuntiva costituita dalla corruzione… Insomma, bisogna mettere mano a tutto questo per finanziare l’istruzione. Noi abbiamo proposto e raccolto firme per la Next generation tax che prevedeva appunto una tassazione solidale sui grandi patrimoni. Una patrimoniale finalizzata in qualche modo al futuro delle nuove generazioni perché non possiamo immaginare che l’orizzonte che lasciamo, oltre il disastro climatico, sia questo a livello sociale, fatto di abbandono scolastico e di un basso numero di laureati (sempre un record in Europa). Per superare questo gap, nel nostro programma proponiamo la gratuità del sistema formativo, dal nido all’università, che purtroppo è tornata classista. E tutti questi, sottolineo, sono problemi che dalla scuola si riflettono sul sistema Paese.

Il problema è che nella politica italiana – basta scorrere le riforme della scuola degli ultimi decenni – è sempre mancata una visione di medio lungo termine.
Sì, bisogna investire sulla formazione, ma con un’idea che rifiuta la concezione miope secondo cui si investe sulla formazione solo in termini di competenze lavorative. L’investimento profondo è la formazione di esseri umani e di cittadini, anche perché con le trasformazioni che sono in atto anche nei processi produttivi, è se mai l’elasticità della formazione, la capacità di conoscenze generali, di astrazione, che consentono poi ad una persona la possibilità di adattarsi alle esigenze lavorative. Noi insegnanti non facciamo gli addestratori, facciamo i formatori e gli educatori e questo deve fare la scuola, secondo quanto chiede la Costituzione. A me interessa questo, non quello che chiede il mercato, anche perché ciò che prescrive la Costituzione è l’espressione di un’idea di società, di organizzazione della vita e delle relazioni umane.

Voi siete in coalizione con il Pd, ma molti degli interventi che hanno impoverito la scuola in passato sono venuti proprio dal centrosinistra. Come pensate di muovervi in futuro?
Sono perfettamente consapevole che molte di queste controriforme sono state fatte anche dai governi di centrosinistra, ma noi continueremo a fare la battaglia su questo programma in Parlamento.

A partire dal ministro Luigi Berliguer la sinistra ha mostrato un ritardo, una miopia nei confronti della formazione intesa come strumento di emancipazione individuale e collettiva, cosa che sosteneva Gramsci, la cui lezione sulla scuola è sempre stata ignorata.
Più che di un ritardo, io parlerei di un cedimento culturale alla logica neoliberista. Ora bisogna con forza cambiare radicalmente questa prospettiva. Anche il ministro Bianchi è stato il distillato di quella che io considero una involuzione culturale e che noi continueremo a combattere per cambiare completamente l’asse. Certo, lo faremo molto meglio se al governo non ci sarà la destra che vuole cambiare la Costituzione.

Una domanda sul libro che ha scritto insieme a Giuseppe Bagni, Suonare in caso di tristezza, un dialogo anche sui cambiamenti del sapere all’epoca del digitale. Che tipo di scuola vorrebbe?
Noi siamo partiti da una considerazione, che per quanto mi riguarda è diventata quasi un’ossessione. Lo Stato ha fatto una pioggia di pseudo riforme senza mai fermarsi a ragionare seriamente su un aspetto fondamentale: come sta cambiando il sapere. E questo nel pieno di una rivoluzione digitale che non impatta solo sui processi conoscitivi ma anche sui processi emotivi, relazionali, su come e se sta cambiando il cervello di homo sapiens.

Il digitale cambia il cervello?
Secondo me il funzionamento cerebrale, le funzioni atte alla praticità e alla rapidità sono molto più stimolate, affievolendo l’elemento riflessivo dell’assimilazione lenta. Il problema è che la conoscenza richiede tempi lunghi, la conoscenza profonda delle cose, dico. Credo che la scuola debba rimanere prima di tutto un luogo che dà tempo ai ragazzi per svolgere i propri processi di assimilazione, che rispetti il loro tempo di crescita. Serve una pedagogia per far sì che la scuola, anche nel pieno di questi cambiamenti, anzi, soprattutto nel pieno di queste trasformazioni, continui ad essere un luogo che produce pensiero critico e pensiero complesso. Questo è il problema principe che una democrazia si deve porre perché i processi sul piano conoscitivo e anche quelli della vita democratica sono strettamente correlati. Non cogliere questo nesso secondo me è molto grave. È un problema della democrazia non solo della sinistra .

Riprendendo un po’ Gramsci, forse il vero problema rispetto ai giovani, è quello della mancanza di idee da proporre loro. Non diamo troppa importanza al digitale?
Rispondo con una battuta: insieme a Gramsci c’è anche MacLuhan che diceva che il mezzo è il messaggio. Il cellulare ormai è un arto, l’impatto di questo strumento è enorme e non è paragonabile all’impatto della televisione. Io, che sono di formazione marxista, è chiaro che non sono contrario alla modernizzazione. Sono contrario a viverla in modo subalterno e inconsapevole. I processi vanno governati consapevolmente e collettivamente, sapendo che ci sono dei cambiamenti. Poi tu dici giustamente che mancano le idee: io credo che su questo incida il fatto che anche la politica nel corso dei decenni, più che essere diventato un luogo di elaborazione collettiva di formazione delle coscienze, è diventato un luogo di riferimento del consenso. E invece bisogna tornare a ridare alla politica la forza di un grande strumento formativo di massa perché altrimenti i luoghi della complessità saranno sempre più ristretti e autoritari, producendo messaggi semplificati e inducendo le masse a svolgere una funzione di subalternità. Questo modello va ribaltato. Non ci dobbiamo rassegnare. Se facciamo politica è per cambiare il mondo nel senso dell’uguaglianza e della libertà, non per inseguire un cantuccio nel mercato del consenso.

Nella foto: sit in degli studenti al Pantheon a Roma per la mancanza di interventi nelle scuole dopo la riapertura, Roma, 18 gennaio 2021

No, Calenda, fingere di stare nel mezzo non è serio

Che l’immigrazione sarebbe stata la clava elettorale della campagna elettorale della destra in queste elezioni lo sapevano anche i sassi. Matteo Salvini ieri ha voluto superarsi con una visita lampo all’hotspot di Lampedusa. Lo scopo della visita improvvisata era, a dir suo, non dare il tempo di “sistemare” il campo e fotografare la realtà. La realtà, come sappiamo da anni, è una carrellata di disperati ammassati in attesa che la svogliata burocrazia europea possa garantirne l’identificazione e la distribuzione sui territori.

Matteo Salvini ha gioco facile: lo sdegno iniziale per il diverso trattamento tra profughi “buoni” (ovvero bianchi) e profughi “cattivi” (ovvero nero) si è dissolto in campagna elettorale di fronte a emergenze ritenute più importanti. È il lato crudele della politica quello di dover scegliere le priorità senza avere il tempo e lo spazio di occuparsi di tutto. Da parte sua Giorgia Meloni continua con il suo comico martellare sul blocco navale che viene smontato dai suoi stessi compagni di partito. Prima l’ex magistrato Carlo Nordio e ieri il responsabile del programma di Fratelli d’Italia ci hanno spiegato che il “blocco navale” non è possibile (lo avevamo scritto nel #buongiorno già tempo fa) e che si tratti di un “trucco semantico”. Insomma, è un trucco di propaganda svelato dagli stesso meloniani. Una roba da pacchisti. Ma nessuno se ne cruccia.

Ieri sul tema immigrazione è intervenuto anche Carlo Calenda, presunto leader del cosiddetto terzo polo che nel migliore dei casi sarà il quarto, con la solita modalità da marketing della serietà. «Basta con il bipopulismo porti aperti – porti chiusi. I confini vanno presidiati e le rotte di immigrazione illegale chiuse. Ma chi è in Italia va integrato e occorrono flussi regolari e selezionati. Parliamo di immigrazione seriamente», scrive Calenda, aggiungendo l’hashtag #italiasulserio che è l’ennesima autocertificazione di competenza che si sono inventati da quelle parti.

In Italia la cosiddetta immigrazione illegale è dovuta principalmente all’assenza di vie legali praticabili per trasferirsi in Italia per lavorare dai Paesi al di fuori dell’Unione Europea. La legge che di fatto impedisce l’immigrazione legale e controllata, fra le più stringenti in Europa, è stata introdotta nel 2002 dal governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi e porta il nome dei due principali alleati dell’allora presidente del Consiglio: Umberto Bossi e Gianfranco Fini, all’epoca leader della Lega Nord e di Alleanza Nazionale, che portarono molto a destra il governo sul tema dell’immigrazione. Per parlare seriamente di immigrazione bisognerebbe sapere che non esistono rotte legali per arrivare in Italia. Quindi delle due l’una: o Carlo Calenda è ignorante oppure il suo programma elettorale sull’immigrazione è identico a quello di Giorgia Meloni, anche se lo appoggia con apparente delicatezza.

Chiunque parli di immigrazione senza pretendere l’abolizione della legge Bossi-Fini sta rimestando nello stesso manico della destra. Accade per l’immigrazione come per molti altri temi (la transizione energetica, per esempio): la tiepidezza di chi vuole distinguersi da destra e centrosinistra fingendo una posizione mediana che non significa nulla è un barare. Nient’altro.

L’importante è accorgersene e saperlo.

Buon giovedì.

«A Palermo con la mia carrozzina, vi racconto una città inedita»

“È più facile andare a Capo Nord”. “Non si va al Sud in agosto”. “Muoversi in città è complicatissimo”.
Queste erano più o meno le frasi che sentivo quando esprimevo il mio desiderio di viaggiare, di andare a Palermo in solitaria. Ho mandato tutti al diavolo, amici, parenti, conoscenti. Ho preso la mia carrozzina, la mia tetraplegia, e ho provato. Non volevo fare mio lo sguardo sociale che spesso fa corrispondere disabilità a impotenza.
È stata una trafila di telefonate, di linee che cadevano, di centralini che non rispondevano, di informazioni incomplete e contradditorie. Ma alla fine ho delineato un quadro complessivo abbastanza sicuro.

Gianfranco Falcone all’aeroporto in partenza per Palermo (foto dalla sua pagina Facebook)

Sono arrivato in volo a Palermo la sera del diciotto. Lo scirocco aveva soffiato per tutta la giornata. C’erano stati quarantatré gradi, un forno. Per fortuna nelle ore serali la temperatura era scesa. Davanti all’albergo mi sono messo a ridere. Quattro gradoni mi separavano dall’entrata. Mi hanno fatto entrare da un vicolo. Anche la stanza non era il massimo.

Sono sempre più convinto che gli albergatori italiani non abbiano idea di ciò che significa accessibilità e agibilità. Il personale ha sopperito a tutte le carenze con grande gentilezza. Ma la disabilità non è una questione di gentilezza. Spesso non è neanche un problema di disabilità. Sono un cliente. Mi hanno venduto un prodotto che non aveva le caratteristiche promesse. Poco importa. Non volevo fare un Trip Advisor sull’accessibilità degli alberghi. Mi premeva Palermo.

Ce l’avevo fatta. Ero arrivato.
Il primo impatto con la città è stato in compagnia di Gabriella, figlia di amici di famiglia.
È passata a prendermi in albergo. Ha aspettato venti minuti a causa della mia lotta feroce con le calze elastiche.
Il caldo era tollerabile. Il cielo era di un blu intenso, le nuvole erano gonfie e bianche. Sono subito stato avvolto dai frastuoni della strada, dai profumi, dai rumori delle carrozzelle trainate dai cavalli, dalle motorette Ape che portano in giro i turisti. Ci siamo avviati verso Palazzo delle Aquile, sede del municipio. Lì ci raggiunto il fratello di Gabriella, Davide avvocato a Palermo. Mi ha chiesto se volevo intervistare il sindaco Roberto Lagalla.
Ho nicchiato. Ma mi sono lasciato convincere. Il sindaco aveva passato la notte a Bellolampo dove aveva preso fuoco una delle vasche della discarica più grande del Mezzogiorno.

Ho posto alcune domande a Lagalla, anche sulla disabilità. Non mi ha sorpreso che lui, politico consumato, ma anche Fausto Melluso presidente dell’Arci di Palermo, sui problemi della disabilità non fossero pronti. Da provetto ex maestro elementare mi è venuta voglia di rimandarli a settembre, al tempo delle elezioni.
Sono stato misericordioso. Non ho ricordato loro che il problema della disabilità non è soltanto un problema di accessibilità dei luoghi. Il problema della disabilità è anche un problema di accesso al lavoro, di articolazione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea); è un problema di ampliamento e di gestione dei fondi per i titoli sociali, che servono alle persone anziane e non autosufficienti per pagare i badanti. Il problema della disabilità è anche un problema di detrazioni fiscali.

Dopo il palazzo ci siamo spostati a Ballarò che mi ha investito con una sferzata di energia, di bellezza, di chiasso, con una dimensione popolare vivace e intrigante. Abbiamo pranzato lì. Ed è lì che ho iniziato a fare il gioco che mi ero ripromesso, Il conto delle rotelle.
In Italia secondo l’Istat ci sono tra i quattro e i cinque milioni di disabili. Ero curioso di vedere quante persone disabili avrei visto in giro per le strade di Palermo. La media è stata di due al giorno. Ben pochi.

Quelli di Palermo sono stati giorni entusiasmanti, pieni di incontri, pieni di passione, con l’entusiasmo di potercela fare. Mi sono saziato di immagini, di profumi, di colori. Mi sono rimpinzato di cibo da strada: pane con la milza maritata, cioè col pecorino; la frittola, interiora non meglio identificate che un cuoco improvvisato raccoglieva a manciate da un cesto; arancine, (a Catania sono al maschile); la stigghiola, ancora interiore cotte alla brace; calamari impanati e fritti avvolti nella carta.
La vendetta di Montezuma non si è fatta attendere. Mi ha impedito di andare a Segesta con Lina.

Lina Prosa si è comportata come una sorella. Mi ha portato in giro, mi ha coccolato.
Adoro la sua scrittura apparentemente semplice ma profonda. Ho divorato le pagine del suo Trilogia del naufragio e del suo Pentesilea. Allenamento per la battaglia finale. Insieme ad Anna Barbera ha fondato il centro Amazzone che si occupa di donne, fornendo consulenza per la prevenzione oncologica e consulenza legale. Lina con il centro Amazzone cerca di creare una sintesi tra teatro, mito e scienza, coinvolgendo le donne in spettacoli teatrali che scrive appositamente per loro.
Mi ha parlato del progetto su Le déluge che sta realizzando a Losanna. Secondo lei non vogliamo renderci conto della situazione drammatica in cui ci troviamo. Continuiamo a essere dediti alla religione del consumo mentre rischiamo l’estinzione e non abbiamo più un’Itaca a cui tornare.

Anna e Lina mi hanno portato sul Monte Pellegrino. Da lì si vede Palermo spalmata sulla piana, circondata dalle montagne. Un doppio arcobaleno ci ha inseguito per tutto il viaggio. Lina aveva un sorriso bambino. Anna ha degli occhi verdi color dell’agata di una bellezza straziante. Poeti le hanno dedicato versi. Ignazio Butitta le ha scritto una dedica «Ad Anna. La si può corteggiare a patto di non guardarla negli occhi. Perché altrimenti si cade tramortiti».
Mi piacevano i racconti di Anna sulla Palermo degli anni Settanta, su Guttuso, sulle sue acque forti. Di Guttuso ho amato i dipinti sulla Vucciria. Oggi quella Vucciria non esiste più. È semplicemente un mercato a cielo aperto.

Anche Shobha Battaglia mi è stata amica nei giorni di Palermo. Shobha è diversa da Lina. Tanto claustrale e asciutta sembra Lina, quanto rumorosa, eccessiva, diretta, colma di appetiti che ricordano i miei, è Shobha. Una gaudente le ho detto. Mi ha guardato e mi ha corretto dicendo che in India la chiamano donna tantrica. Mi è sembrata una donna senza pregiudizi, senza moralismi, capace di cogliere la bellezza del mondo, di entusiasmarsi. È una di quelle donne dotate di una creatività straordinaria che elaborano progetti a getto continuo.
Ciò che unisce Lina e Shobha è l’idea di un’arte che deve dare voce.

Lina dice che oggi l’arte fa fatica a parlare di temi essenziali come la morte e il limite. Chiedeva a me se la disabilità può rappresentare una chiave di lettura del reale, la premessa per una rivoluzione culturale. Non lo so. Forse la disabilità costringe a porsi delle domande ma non penso che la trasformazione culturale possa essere appannaggio esclusivo di una categoria.
Shobha mi ha affascinato con i suoi racconti. Mi ha parlato del festival che si tiene nel sud dell’India a Saundatti, in Karnataka, dedicato a Yellamma, la Madre della fertilità e dei diversi. Lì lavora con le donne sciamane che leggono le pietre.
«Loro fanno tre ritiri l’anno sotto la luna piena in un luogo dove arrivano cinquantamila persone, donne, si spogliano nude sotto la luna piena e fanno dei rituali di rinascita. Buttano via tutti i vestiti dell’anno, li strappano, fanno una catasta. Tu immagina tutte queste donne sotto la luna piena che danzano, urlano, si buttano a terra. E sono tutte contadine. Però nel momento in cui loro abitano la dea, perché in questi tre giorni diventano dee, sciamane, canalizzano. Quindi, cambiano».
Shobha è una globe trotter dell’arte. Lavora in India, in Asia, in Italia. Le sue fotografie sono spudoratamente belle. Lei fa poesia.

Mi è venuta in mente la sua fotografia che ritrae due ragazzi down. Lei stringe tra le mani il volto di lui con uno sguardo innamorato. È uno scatto colmo d’amore, di tenerezza. Rappresenta «un momento sospeso prima del bacio, dove si intuisce che quel momento d’amore, che ognuno vuole, è possibile».
È stata Shobha a dirmi che «Palermo si evolve e si involve continuamente. Ed è una malattia questa. Perché arriviamo all’estasi. Poi cadiamo nella merda, nella depressione. Quindi, Palermo è bipolare».
Se Palermo è così posso sicuramente affermare che invece Milano è maniacale.

Nelle ore in cui sono stato solo ho visitato il Centro Internazionale di Fotografia, la Cappella Palatina, la cattedrale, divertendomi ad essere carogna con gli impiegati del bar del Teatro Massimo, che non ha una toilette accessibile. Ma del resto non c’è l’ha neanche La Feltrinelli. Avrei potuto fare spallucce. Sarebbe stata la cosa più semplice. Invece, mi sono ostinato a chiedere spiegazioni. Se La Feltrinelli mi crea problemi sia a Palermo che a Milano significa che la proprietà ha qualche problema con la disabilità.
Alla Cappella palatina mi hanno aiutato gli addetti Sebastiano, Zaira, Giuseppe, portandomi a braccia la dove i montascale erano rotti.

A Palermo ho incontrato anche Luigi Carollo, organizzatore del Palermo Pride. È stata una conversazione effervescente. Dialogando con lui mi sono reso conto che il mondo della disabilità dovrebbe prendere spunto dal modo in cui la comunità Lgbt presenta i propri corpi, le proprie istanze. Purtroppo il mondo della disabilità è ancora troppo frammentato per riuscire ad avere una voce forte, in grado di diventare lobby.
Ci sono stati incontri voluti ma anche incontri fortuiti. A Molti Volti, centro che fa parte della più grande associazione antimafia Libera, ho incrociato i ragazzi del Teatro al Verso che, provenienti dalla provincia di Siena, erano a Palermo di passaggio per partecipare al PaceFest a Caltabellotta. Ho chiesto di recitarmi qualche battuta dello spettacolo che avrebbero presentato. Lucrezia è stata un momento in silenzio poi ha iniziato.
«Prima di combattere la mafia bisogna farsi un auto esame di coscienza. E dopo averla sconfitta dentro di te puoi passare a combattere la mafia nel giro dei tuoi amici. Perché la mafia siamo noi e i nostri comportamenti. È il nostro modo sbagliato di comportarci.
Erano le parole che Rita Atria, testimone di giustizia, scrisse su un biglietto prima di lanciarsi dalla finestra, dopo la strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta».
Non c’è stato bisogno di dirci altro.

A Palermo mi sono sentito coccolato, accolto, tant’è che sto cominciando a fantasticare di andare a Bombay a trovare Shobha insieme a Lina. Immergendomi ancora una volta in un mondo femminile ricco e potente.

L’autore: Gianfranco Falcone è un blogger (Viaggi in carrozzina,  DisAccordi) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni è costretto a vivere su una sedia a rotelle 

Nella foto: i cieli di Palermo (dalla pagina Facebook di Gianfranco Falcone)

Intanto, nel nuovo rinascimento saudita, 45 anni di carcere a una donna per un messaggio sui social

45 anni di carcere: è l’ultima scioccante sentenza pronunciata contro Nourah al-Qahtani per alcuni post non graditi al regime pubblicati sui social in Arabia Saudita.

Secondo un documento del tribunale e le informazioni ottenute dal sito Dawn, la Divisione d’Appello della Corte penale specializzata ha emesso la sentenza contro al-Qahtani ad agosto, probabilmente nell’ultima settimana, per aver «spezzato il tessuto sociale nel Regno» criticando i governanti sauditi, e per «produzione e conservazione di materiali che incidono sull’ordine pubblico e sui valori religiosi».

«Solo poche settimane dopo la scioccante condanna a 34 anni di Salma al-Shehab di questo mese, la condanna a 45 anni di Nourah al-Qahtani mostra quanto le autorità saudite si sentano legittimate nel punire anche le critiche più lievi dei suoi cittadini», ha affermato Abdullah Alaoudh, esponente dell’organizzazione per i diritti umani Democracy for the Arab World Now (Dawn), fondata dal giornalista saudita Jamal Khashoggi, quello ucciso e fatto a pezzi nell’ambasciata saudita di Istanbul per le sue posizioni anti regime.

Qualche giorno fa era stata condannata a 34 anni Salma al-Shehab. La sua colpa? Aver aperto un profilo Twitter e avere ritwittato i messaggi di alcuni dissidenti. Salma al-Shehab studiava all’Università di Leeds ed è stata arrestata durante una vacanza nel suo Paese. Esattamente come Patrick Zaki. La donna era stata condannata a tre anni di carcere per il “reato” di utilizzo di un sito Internet finalizzato a «causare disordini pubblici e destabilizzare la sicurezza civile e nazionale», poi una corte d’appello ha emesso la nuova condanna a 34 anni di carcere per altri presunti crimini.

Quindi? Come va questo nuovo rinascimento?

Buon mercoledì.

Nella foto: una ciclista davanti al manifesto con il ritratto del principe Bin Salman

Cesare Damiano: Letta ha rimesso il lavoro al centro. Ma il Pd deve riconquistare la fiducia dei lavoratori

La guerra in Ucraina e la speculazione non si fermano. I prezzi del gas e delle materie prime schizzati alle stelle stanno mettendo a rischio imprese e moltissimi lavoratori. Quello che ci aspetta rischia di essere un autunno esplosivo dal punto di vista della tenuta sociale. Abbiamo chiesto all’ex sindacalista ed ex ministro Cesare Damiano un’analisi di questa difficile congiuntura sulla base delle ricerche del suo Centro studi Lavoro&Welfare. Quali strumenti mettere in campo per uscire da questa crisi che si annuncia lunga e durissima? Come invertire la rotta?

«Siamo in una situazione nella quale bisogna pesare le parole per non creare equivoci», premette Damiano. «Di fronte all’aggressione dell’Ucraina compiuta da Putin penso sia stato giusto rispondere con le armi e le sanzioni. Ma, detto questo, è giunto il momento di chiarire la questione strategica: se l’esito di questa sciagura fosse una nuova guerra fredda sarebbe un disastro per tutti. Lo dico con cognizione di causa perché appartengo a una generazione che la guerra fredda l’ha vissuta. Ho vissuto anche il tempo della ricerca della distensione fra i due i campi, Occidente e Oriente, pur in un contesto di equilibrio fra armamenti atomici. Dopo la stagione della Guerra fredda abbiamo sperimentato una globalizzazione selvaggia delle relazioni economiche, vissuta in modo troppo positivo ed acritico riguardo alla possibilità di importare ed esportare anche i diritti, le tutele e maggiore eguaglianza. Questo non è avvenuto».

Le conseguenze a cascata della guerra in Ucraina stanno colpendo su vasta scala. La strategia delle sanzioni non ha funzionato?
La narrazione, a mio avviso, ha peccato di eccessivo ottimismo. È un po’ come se avessimo messo la testa sotto la sabbia. Il risultato delle sanzioni è inferiore a quello che ci aspettavamo. Qualcuno afferma che Putin con il rincaro delle materie prime ci abbia guadagnato. Il rublo mi pare che stia tenendo. L’annunciato default della Russia non mi pare che sia alle viste, mentre le ripercussioni sull’Occidente sono state sottovalutate. Ci troviamo in una situazione dannatamente complessa e pericolosa. Basta guardare a quel che succede con l’inflazione che colpisce lavoratori, famiglie, imprese. Non ci voleva un genio per capire che con la chiusura delle forniture dell’energia avremmo corso il rischio di una recessione economica.

Si parla della potenziale chiusura in Italia di centoventimila imprese…
È uno scenario molto preoccupante. Se calcoliamo una media di tre quattro lavoratori per impresa – e mi tengo molto basso – sono 300/400mila posti di lavoro a rischio. Il mio Centro studi Lavoro&Welfare da mesi avverte che, accanto al dato della cassa integrazione complessivamente in calo (ordinaria, in deroga e fondo di solidarietà), c’è un allarme che riguarda, invece, un aumento importante della cassa integrazione straordinaria. Se guardiamo al settore della trasformazione dei metalli, per esempio, siamo al 900 per cento. Sono segnali che, a mio avviso, sono stati sottovalutati. C’è poi il tema dell’aumento del costo del gas che nei giorni scorsi ha sfondato i 300 euro al megawattora alla Borsa di Amsterdam. Tutto questo impone un intervento immediato del governo Draghi, seppur nelle more della sua azione di carattere amministrativo, visto che il governo è caduto. Insomma, a me pare che se Atene piange Sparta non ride. Quello che mi stupisce è che sia proprio Salvini, dopo che ha fatto cadere il governo, a chiedere a Draghi di intervenire. Si è accorto del danno che provocato al Paese? Il Pd, coerentemente, ritiene che un intervento sia necessario. Enrico Letta ha indicato come intervenire, sia nell’immediato sia nel lungo periodo: occorre un tetto europeo al prezzo del gas che va disaccoppiato da quello dell’energia, ma da subito occorre un regime di prezzi amministrati, per esempio per i prossimi 12 mesi. Un’altra misura importante è poi quella definita “bolletta luce sociale” per microimprese e famiglie con redditi medi e bassi, con la fornitura di energia elettrica da fonti completamente rinnovabili e gratuita fino alla metà del consumo medio (che è di 1.350kWh/anno) con prezzi calmierati nella parte eccedente.

Tutto questo si somma a problemi preesistenti: la precarietà, l’impoverimento dei salari, lavori non di qualità, disoccupazione. Problemi che, durante la pandemia, hanno colpito soprattutto donne e i giovani. Quali sono gli strumenti da mettere in campo non solo per l’immediato?
Mi auguro davvero che la politica riconquisti la capacità di avere una visione strategica: dovrebbe essere in grado di mettere insieme le scelte che riguardano il futuro con le contingenze immediate, quotidiane, che colpiscono la condizione materiale delle persone. Cosa intendo dire? Il primo punto è stare nel solco del Pnrr. Si può migliorare sicuramente. Ma non si può mettere in discussione questo strumento essenziale per il nostro Paese. Semmai si può precisare il suo cammino a fronte di queste emergenze. In secondo luogo, come ho già ricordato, bisogna intervenire subito per quanto riguarda il tema del prezzo dell’energia. Giustamente i commercianti espongono nelle vetrine il pagamento dei canoni di un tempo e di quelli attuali: basta vedere la differenza, la moltiplicazione assurda dei costi che rischiano di far chiudere le attività. E poi dobbiamo saper selezionare alcuni interventi, da una parte per quanto riguarda le imprese, dall’altra per quanto riguarda il lavoro, che in Italia, ormai, è povero e precario.

Provvedimenti come il Jobs act hanno prodotto precarietà. Le destre poi si sono infilate nel disagio sociale come lama nel burro?
A me quello che fa specie è che la destra che ha teorizzato la flessibilità del lavoro che si è trasformata in precarietà, l’ha praticata con le sue leggi, non ha mai curato l’aspetto della stabilità del lavoro, adesso si voglia far paladina della sua tutela. Ho letto una notizia che per la mia storia è sconvolgente. Gli operai della Mirafiori interpellati in una inchiesta di Repubblica hanno dichiarato che voteranno per Giorgia Meloni. Da giovane ero un funzionario della Fiom alla Mirafiori quando in quella azienda c’erano 60mila dipendenti, non i 10mila attuali la cui sopravvivenza è legata alle commesse che vengono decise oltralpe. Quei lavoratori, nel Novecento, votavano in prevalenza per il Pci per il Psi. Alcuni votavano altri partiti come la Dc, fino al Msi, ma questa era una parte assolutamente minoritaria. Adesso siamo al capovolgimento. È noto che il Partito democratico è poco votato dai lavoratori e dai ceti più deboli. Se veniamo classificati come il partito della Ztl qualcosa sarà pur successo. Se c’è un distacco dai ceti più popolari che facevano parte della nostra tradizione, questo è il risultato della cura non soltanto di Matteo Renzi presidente del Consiglio, ma anche di Renzi segretario del Pd: ha reso più facili i licenziamenti dei lavoratori e ha introdotto nel mercato del lavoro una flessibilità che si trasforma in precarietà. Oggi il Pd è tornato ad essere il partito che parla alle persone, a chi ha un lavoro dipendente o autonomo che sia, e che chiede di guardare con attenzione ai cambiamenti in corso senza essere abbandonato. Non si tratta di tornare al passato ma si tratta di riscrivere il nostro profilo politico culturale.

Il centrosinistra deve, in primis, tornare ad occuparsi di lavoro?
Ora il programma del Pd, guidato da Letta, ha ripreso il filo di un ragionamento sui temi del lavoro, anche se ci vorrà del tempo prima che si riconquisti la fiducia di chi si è rifugiata o nel populismo della destra o nell’astensionismo. Quale è questo filo? Parliamo del lavoro precario che rappresenta una parte importante nel mercato del lavoro. Io credo, come c’è scritto nel programma, che sia importante affermare un principio: che la stella polare della sinistra deve essere il lavoro a tempo indeterminato che va sostenuto con assunzioni incentivate. Oggi non è esattamente così.

In concreto?
Prendo un esempio facile: la decontribuzione sud. Come è stato certificato dall’Istituto nazionale di analisi delle politiche pubbliche (Inapp) con essa si é realizzato un importante volume di nuove assunzioni attraverso gli sgravi fiscali, al lavoro stabile al lavoro a termine. Il risultato però è che l’85 per cento di quelle assunzioni è con contratto a termine, occasionale, interinale o stagionale. Solo il 15 per cento è andato a vantaggio del lavoro a tempo indeterminato. E poi ci lamentiamo della precarietà. Si tratta di cambiare strada. Dobbiamo affermare un principio: quando il lavoro è stabile deve costare di meno all’imprenditore, quando è flessibile deve costare di più, non l’esatto contrario, se vogliamo davvero puntare alla qualità del lavoro.

Questo è un principio che lei sostenne fattivamente come ministro del Lavoro del secondo governo Prodi e che oggi appare più importante e attuale che mai come dimostra anche la recente, riuscita, riforma spagnola. Quanti danni ha fatto la flexicurity?
È stato un un imbroglio, dobbiamo dirlo con chiarezza. La flessibilità c’è stata in abbondanza, la sicurezza no. E la flessibilità senza sicurezza si trasforma in precarietà soprattutto per le giovani generazioni. Io sostituirei quella formula con una nuova: flessibilità e stabilità. Ha senso accettare l’idea di una flessibilità della prestazione di lavoro: la banca delle ore, la salita e la discesa dei turni di lavoro a seconda delle stagioni, la salita e la discesa degli orari di lavoro. Se produci frigoriferi d’inverno lavori 48 ore alla settimana e 32 d’estate, i week end di lavoro possono essere gestiti nella grande distribuzione. Si può adottare il part time volontario e non imposto e la possibilità di usare modelli basati sul lavoro agile, che ti consente di cogliere le esigenze di una nuova organizzazione del lavoro per obiettivi. Ma in cambio bisogna assicurare un contratto a tempo indeterminato, questo deve essere il nuovo orizzonte. Mi pare che il programma del Pd vada in questa direzione. Come Letta ha giustamente ribadito non è giusto che i ragazzi in Italia incontrino gli stage e tirocini gratuiti come primo rapporto di lavoro e poi il lavoro nero, e poi il lavoro grigio e poi il lavoro precario e forse, arrivati ad una certa età, uno straccio di lavoro a tempo indeterminato. La filosofia del rapporto fra lavoro e modalità di assunzione va completamente rovesciata rispetto alla stagione della flexicurity, che può andare bene in Danimarca, un Paese che ha 6 milioni di abitanti. Non tutti i modelli funzionano allo stesso modo nelle situazioni in cui vengono applicati.

In questi giorni di campagna elettorale le destre e Azione-Italia Viva chiedono a gran voce l’abolizione del reddito di cittadinanza che a loro dire spingerebbe i giovani a non lavorare, a stare sul divano. Dal suo punto di vista?
Il reddito di cittadinanza c’è in tutta Europa e va mantenuto. Ma va fatto meglio. Fare troppe parti in commedia non funziona. Il reddito di cittadinanza deve essere destinato alle persone realmente in stato di povertà, ai nuclei familiari che non ce la fanno, a chi non approderà facilmente al lavoro, perché in quei nuclei familiari esistono delle condizioni oggettive di disagio, di difficoltà che rendono necessario un sostegno. Legare l’erogazione di quel reddito anche all’offerta di lavoro secondo me lo trasforma in un oggetto improprio.

Per esempio?
Il salario di un cameriere è di 1.500 euro lordi mensili, il che corrisponde a 1.150 netti. Rappresenta una cifra superiore rispetto al reddito di cittadinanza, che è pure indirizzato a un nucleo familiare. Quando si parla di lavoro rifiutato difficilmente si parla di queste cifre. Siamo sicuri che il lavoro rifiutato sia un lavoro full time, regolare, che rispecchia gli standard dei contratti di lavoro oppure è un part time con un’aggiunta di lavoro nero, sotto pagato e chiaramente poco concorrenziale rispetto al reddito di cittadinanza? Va fatta chiarezza e si possono fare miglioramenti.

In questi giorni si è tornati anche a parlare di riduzione del cuneo fiscale. Sembrano tutti d’accordo ma a ben vedere destra e sinistra ne hanno una visione opposta?
La riduzione del cuneo fiscale deve andare tutta a vantaggio dei lavoratori. Io non condivido l’idea del centrodestra: due terzi ai lavoratori, un terzo alle aziende, perché se lo diamo a tutte le imprese corriamo il rischio di regalare la diminuzione del costo a imprese che fanno extra profitti. Io sono invece per darlo tutto ai lavoratori e, per quanto riguarda le imprese in difficoltà, sono per definire interventi di carattere specifico.

Letta ha rilanciato anche la campagna per il salario minimo. Che ne pensa di questa misura che inizialmente aveva fatto discutere i sindacati?
Dobbiamo adottare il salario minimo legale. Il salario minimo non serve per aumentare il potere di acquisto, serve per sconfiggere i contratti pirata. Fissare un minimo legale, categoria per categoria, differenziandolo, può essere utile: chi sta al di sotto è fuori legge e quindi quel contratto deve essere cancellato. Ipsoa ha fatto una indagine su circa 200 contratti e ha visto che questi contratti al 75 per cento hanno salari minimi compresi tra i 7 e i 9 euro lordi orari. Sto parlando di paga base e contingenza. Quali sono i contratti che stanno sotto a quella soglia? Quelli mal pagati. Ne possiamo elencare alcuni: i lavoratori domestici, i florovivaisti e gli addetti alla cultura. L’Italia è il Paese della cultura, ma gli addetti alla cultura sono fra i peggio pagati. A causa della scarsa rappresentatività sindacale sono contratti deboli e possono essere oggetto di un intervento particolare. Governo e parti sociali, possono creare un osservatorio per questi settori per un adeguamento del salario minimo proprio perché al di sotto di uno standard dignitoso.

In conclusione?
La situazione è particolarmente complessa, ma ci sono alcuni interventi che possono dare il segno di una vera equità: quando ho parlato del cuneo fiscale tutto a vantaggio dei lavoratori condivido totalmente l’obiettivo che si è dato Letta di fare in modo che attraverso questa misura il risultato sia una mensilità in più a loro vantaggio. Così come una mensilità in più a vantaggio dei pensionati potrebbe esserci con una rivalutazione, almeno fino a 1.500 euro mensili, della cosiddetta quattordicesima mensilità che io avevo instituito nel 2007 per i pensionati più poveri e che è ancora in vigore. Dobbiamo dare segni tangibili di attenzione agli ultimi, a chi sta in difficoltà sia sotto il profilo del lavoro stabile, della qualità del lavoro e della retribuzione.

Tomás Hirsch: La nuova Costituzione libererà il Cile dall’ombra della dittatura

Il 4 settembre il Cile vota per approvare il testo della nuova Costituzione. Questo evento storico è largamente ignorato o poco seguito dai media, soprattutto da quelli europei. Ne abbiamo parlato con Tomás Hirsch, deputato di Acción humanista e soprattutto attivista politico che ha seguito fin dall’inizio l’intera questione costituzionale.

Tomás Hirsch 
Foto (da Wikipedia): René Lescornez A.

Gli umanisti hanno sempre messo in cima alle loro priorità la necessità di una nuova Costituzione in Cile. Tomás, potresti fare un breve riassunto di come siamo arrivati a questo plebiscito?
Questo plebiscito è il risultato di una lunga lotta del popolo cileno, di varie organizzazioni sociali e partiti politici. Molti credono che l’origine sia nelle proteste del 18 ottobre 2019, ma la cosa è iniziata molto prima. Già quando, nel 1980, la Costituzione della dittatura è stata proclamata a ferro e fuoco, abbiamo iniziato a organizzare e mobilitare i vari movimenti sociali e partiti politici per avere una Costituzione democratica. Inoltre, porre fine alla Costituzione del 1980 era uno degli impegni del primo governo dopo la dittatura, che però non è stato rispettato. Per noi umanisti questa è sempre stata una delle richieste fondamentali per cui ci mobilitavamo; quando ero candidato alle elezioni presidenziali abbiamo fatto un gesto che è rimasto impresso nella memoria del Cile, ossia gettare nella spazzatura la Costituzione di Pinochet. Questo atto, che ha scandalizzato alcuni potenti e i membri dell’élite politica, economica e militare del nostro Paese, ha risuonato profondamente nel nostro popolo. Questa mobilitazione è continuata per decenni, fino a quando, dopo la rivolta dell’ottobre 2019, per dare corso e incanalare le diversissime richieste sociali si è giunti alla convinzione che non si trattava di sistemare uno o due aspetti dell’attuale legislazione, ma di andare al cuore del modello. E questo significava partire dal presupposto che viviamo da decenni sotto una Costituzione profondamente antidemocratica sia nella sua origine che nel suo contenuto, che non garantisce alcun diritto, che stabilisce differenze brutali tra una piccola minoranza e le grandi maggioranze del Paese. Fu allora che si raggiunse un accordo per procedere verso una nuova Costituzione generata in democrazia. È stata eletta un’Assemblea Costituente (nell’ottobre del 2020, nda), che ha elaborato una proposta per un anno ed è questa proposta che sarà votata il 4 settembre con due opzioni: approvo o rifiuto. In un primo plebiscito, l’80% degli elettori ha votato a favore di una nuova Costituzione e lo stesso 80% ha votato a favore del fatto che fosse redatta da membri dell’Assemblea costituente eletti a tale scopo e non da parlamentari. Così sono iniziati i lavori di questa Assemblea, la prima al mondo completamente paritaria, con il 50% di uomini e il 50% di donne, con un’ampia partecipazione di rappresentanti degli 11 popoli nativi e con una significativa presenza di indipendenti. Se il testo proposto viene approvato, inizia il processo di implementazione della nuova Costituzione e di generazione delle centinaia di leggi che devono essere promulgate per renderla realtà; se viene respinto, la Costituzione della dittatura viene formalmente mantenuta. Tuttavia c’è già un accordo sul fatto che il mandato popolare ha chiesto la stesura di una nuova Costituzione e quella attuale, sebbene ancora in vigore dal punto di vista legale, è già morta politicamente e nel cuore del popolo cileno. Pertanto, anche se il testo verrà respinto nel plebiscito, promuoveremo la creazione di una nuova Assemblea Costituente per presentare un nuovo progetto che possa essere approvato.
Ma naturalmente speriamo e siamo convinti che l’approvazione vincerà e che avremo una nuova Costituzione a partire dal 4 settembre.

La nuova Costituzione cilena è stata definita d’avanguardia e rivoluzionaria. Quali sono, secondo te, i suoi punti più importanti?
Non c’è dubbio che questa nuova Costituzione sia assolutamente all’avanguardia e rivoluzionaria, perché non solo pone fine a una Costituzione generata sotto una dittatura, che come abbiamo già detto è antidemocratica nella sua origine e nel suo contenuto, ma soprattutto perché ci permette di affrontare le sfide del XXI secolo in modo nuovo e migliore. In questa Costituzione sono presenti i diritti della natura – e credo che sia la prima volta al mondo – così come la protezione delle altre specie, riconoscendole come esseri senzienti. Viene data particolare enfasi alla cura dell’ambiente e al riconoscimento della crisi climatica attuale, che viene segnalata come una delle sfide da affrontare. È una Costituzione che dal primo all’ultimo articolo garantisce, protegge, incoraggia e promuove l’uguaglianza di genere, i diritti della diversità e della dissidenza sessuale e include i diritti delle persone transgender, questioni che non erano mai state considerate prima. La nuova Costituzione definisce il Cile come un Paese plurinazionale in cui sono riconosciuti gli 11 popoli indigeni originari del nostro Paese, una novità assoluta. L’acqua viene ripristinata come bene comune che non potrà mai essere privatizzato e lo stesso vale per il mare e per le risorse naturali. La nuova Costituzione promuove inoltre la democrazia partecipativa diretta con iniziative di legge popolari, revoca del mandato, revoca popolare delle leggi e referendum municipali. In altre parole, si struttura lo Stato in base alla partecipazione diretta dei cittadini alla politica. È una Costituzione che garantisce i diritti sociali in modo molto importante; l’articolo 1 definisce il Cile come uno Stato sociale e democratico basato sullo Stato di diritto, plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico. Credo che l’articolo 1 sintetizzi in modo molto profondo un cambiamento culturale strutturale del nostro Paese e per questo ci dà tanta speranza di avanzare verso la costruzione di un Paese più giusto, più democratico, più partecipativo, più decentrato e con più diritti per tutti.

Alcuni sondaggi danno un risultato incerto a favore dell’approvazione: qual è la tua impressione in base all’azione quotidiana in campagna elettorale?
È vero, i sondaggi continuano a mostrare un risultato in cui il rifiuto è vincente. Tuttavia, nelle ultime settimane c’è stato un cambiamento di tendenza e l’approvazione sta aumentando di due o tre punti ogni settimana. Credo che nei sondaggi delle prossime due settimane assisteremo a una sua vittoria. Non ho dubbi che il 4 settembre vinceremo, perché c’è un’immensa maggioranza di cileni che vuole una nuova Costituzione che garantisca tutti questi diritti. Tuttavia, quello che è successo in questi mesi è stata una campagna brutale da parte della destra, che ha diffuso fake news e manipolato l’informazione grazie al controllo che ha su tutti i media – canali televisivi, giornali, stazioni radio e anche attraverso le reti sociali – con campagne multimilionarie in cui hanno soprattutto squalificato la proposta basandosi su falsità, vere e proprie falsità: sostengono che le persone si vedranno portare via la casa, che i loro fondi pensione saranno espropriati, che i popoli nativi controlleranno il sistema giudiziario. Insomma, una serie di bugie incredibili, ma che in molti casi sono state credute dai cittadini e hanno generato paura, incertezza, dubbio, ed è questo che negli ultimi tempi si è riflesso in una possibile prevalenza del voto di rifiuto. È chiaro però che questa tendenza si sta invertendo, perché nell’ultimo mese le forze che sostengono l’approvazione sono scese in piazza in massa e sono andate nei quartieri a parlare con la gente. Stiamo portando avanti una campagna chiamata “due milioni di porte per l’approvazione”, che parla con le famiglie, cosa che il rifiuto non può fare perché non ha il sostegno popolare. Quindi in quest’ultimo mese, come è successo nel ballottaggio presidenziale dello scorso anno (si riferisce ai sondaggi che davano Boric perdente al secondo turno, in cui l’attuale presidente del Cile ha poi vinto con ampio margine ndt), siamo fiduciosi che il risultato volgerà a favore dell’approvazione .

Cosa possiamo fare noi, dal resto del mondo, per sostenere questo processo costituente?
Penso che il sostegno che possiamo ricevere dal resto del mondo sia molto importante: in primo luogo, per motivare le comunità cilene che vivono in altri Paesi a partecipare, a votare, a essere presenti: questa nuova Costituzione significa anche migliori condizioni per loro. In secondo luogo, per aiutare a diffondere il testo anche in altri Paesi. In terzo luogo, per mostrare attraverso le reti il sostegno all’approvazione e a coloro che stanno lottando duramente per questo. Penso che queste siano alcune azioni molto concrete che si possono realizzare in altri Paesi e che senza dubbio aiuterebbero molto nella campagna per l’approvazione di una nuova Costituzione in Cile.

* L’intervista di Olivier Turquet a Tomás Hirsch è stata pubblicata su Pressenza il 21 agosto 2022

Il testo della Nueva Constitucion politica de la Republica de Chile su cui si voterà il 4 settembre 2022 si può leggere qui

Alla scoperta della lingua universale inventata per abolire la guerra

La Federazione italiana esperantisti ha appena organizzato a Brescia, l’89esimo Congresso italiano di esperanto con un programma davvero corposo: dalla storia della lingua e della cultura occitane ai corsi di esperanto; dai seminari riguardanti gli attuali conflitti nel Mediterraneo alle città gemellate che si uniscono grazie all’arte; dalle relazioni sui temi artistici agli inizi del Novecento al ricordo di Ludwik Lejzer Zamenhof, inventore dell’esperanto, e di Giuseppe Pinelli anarchico ed esperantista.

Una pagina da Una libro per russi, 1887

La storia della Lingvo Internacia (Lingua internazionale)
L’esperanto, lingua pianificata, nasce tra il 1872 e 1887. Il suo inventore, l’oculista polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, la espone in un libro, Primo libro (Unua Libro, Varsavia 1887) e la presenta a Varsavia nel 1887 come Lingvo Internacia. Prende il nome di esperanto (“Colui che spera”) dallo pseudonimo di “Doctor Esperanto” utilizzato dal suo inventore. Il grande obiettivo del medico polacco è quello di far comunicare fra loro i popoli del mondo e favorire la pace. Le regole della grammatica dell’esperanto sono semplici da apprendere, Zamenhof le scelse tra le tante lingue studiate perché arricchissero la lingua pianificata con l’espressività di una lingua etnica. Per Zamenhof l’assenza o la difficoltà di dialogo tra i popoli dovuta alle differenze linguistiche, è stata una delle cause, se non la principale, di violenze e guerre infinite nel corso dei secoli.

Dette il nome di Lingvo Internacia alla lingua da lui inventata perché avrebbe dovuto essere usata tra le diverse nazioni per dialogare tra loro e comprendersi, proteggendo nello stesso tempo le lingue minori e la differenza linguistica: una lingua in più quindi e che, soprattutto, non sostituisce la propria. Nella Dichiarazione di Boulogne (9 agosto 1905, Boulogne sur-Mer, congresso mondiale di esperanto) e nel Manifesto di Praga (luglio 1996, Praga, congresso universale di esperanto) sono espressi gli ideali del movimento nei quali si sottolinea la sua neutralità rispetto a ogni tipo di organizzazione o corrente (politica, religiosa, o di altro tipo) e si evidenzia, nello stesso tempo, l’indipendenza di ogni esperantista dal movimento.
Ma esperanto è una parola affascinante che spinge a leggere di più per scoprire il senso profondo della sua storia e dell’idea di quel medico, un oculista, che cercò di “vedere”, e soprattutto sperare in qualcosa che non c’era più tra gli esseri umani perché era stata perduta.

Un’immagine dell’uscita dal Congresso Universale di Boulogne-sur-Mer del 1905 (Caudevelle, 6 agosto 1905)

A Michela Lipari, responsabile dei grandi eventi culturali della Federazione esperantisti italiani e presidente del comitato organizzatore del congresso mondiale di Torino 2023, chiedo un approfondimento anche sul tema del Congresso italiano di esperanto: “La pace non capita per caso: il ruolo attivo delle città gemellate nella costruzione di un popolo europeo”. E subito il suo entusiasmo mi coinvolge: dice che nemmeno le lunghe e continue restrizioni dovute al Covid hanno mai scoraggiato gli esperantisti di altri Paesi dall’incontrarsi, sia pure on-line, per scambiarsi idee e progettare eventi, men che mai gli esperantisti italiani che, l’anno scorso, con attenzione e rispettando le regole imposte per evitare i contagi, si sono incontrati anche di persona.

Quest’anno a Brescia, il movimento ha presentato una grande novità: la première del film in esperanto Pino – Vita accidentale di un anarchico, dedicato all’esperantista Pinelli, e il cui soggetto è stato scritto dalle figlie Claudia e Silvia Pinelli. Brescia è una città che appoggia e incoraggia molto il Movimento esperantista organizzando per i cittadini numerosi eventi d’arte in cinema e teatri. Gli studi sulla lingua esperanto continuano e si approfondiscono e ogni anno vengono scritte oltre cinquanta tesi su questo tema. L’Università di Parma ha istituito, dal 2009 il premio “Giorgio Canuto” alla miglior tesi in “Interlinguistica ed esperantologia”. Il premio è dedicato al professor Giorgio Canuto, rettore dell’Università di Parma dal 1950 al 1956, e presidente internazionale del Movimento esperantista dal 1956 al 1960. Parlando anche di scuola, Michela Lipari racconta l’esperienza portata avanti per due quinquenni nell’Istituto comprensivo “Don Milani” del comune di Verdello (Bg); sul sito della scuola si legge che l’anno scorso, 2021, nonostante il Covid e le lezioni svoltesi on-line, a maggio tutti e venti i ragazzi del corso di esperanto del secondo quinquennio hanno superato l’esame con esito positivo.

Chiedo un parere e un approfondimento sull’esperanto anche allo scrittore fiorentino Massimo Acciai Baggiani, esperantista, glottoteta, docente di lingua italiana e direttore della rivista Segreti di Pulcinella, il quale mi dice che, in realtà, l’esigenza di una lingua universale nasce prima dell’Ottocento; c’era già nel Seicento con Leibnitz e le lingue filosofiche. Umberto Eco ne approfondisce il tema nel saggio La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea. È una storia antica. Massimo Acciai Baggiani ritiene che l’esperanto sia oggi una realtà viva e vitale, vittima di pregiudizi portati avanti anche da uomini di cultura (il che è grave) e che sia una lingua bella, magari migliorabile ma ormai consolidata e con tutto un mondo meraviglioso dietro, purtroppo del tutto sconosciuto ai non esperantisti.

Alla scoperta dell’Esperanto in Italia
Per conoscere di più le origini di questa lingua, un contributo fondamentale viene dal libro Alla ricerca della democrazia linguistica: l’Esperanto in Italia (Casa editrice Il Poligrafo, 2007, su Academia.edu) di Carlo Minnaja, professore di matematica applicata presso l’Università di Padova e membro dell’Accademia internazionale delle scienze di San Marino dal 1989. Il professore ha scritto numerosi libri sull’esperanto, per lui lingua madre perché figlio di genitori esperantisti. In questo libro ripercorre la storia dell’esperanto e di altre lingue “pianificate” come il Volapűk, il quale, dopo essere stato all’apice della sua diffusione nel 1880, declinò rapidamente perché l’estrema deformazione delle radici linguistiche toglieva alle persone la possibilità di sentirla come propria, di sentire in essa qualcosa di sé.

Minnaja racconta che Zamenhof, vivendo fin da piccolo in un ambiente composto da varie etnie, per esprimersi poteva solo scegliere tra una lingua morta da secoli e una lingua imposta da chi opprimeva il suo Paese. Gli ebrei dispersi nella diaspora non avevano più una lingua comune con la quale comunicare tra loro come se fossero riuniti in un unico territorio, per questo nacque in lui il sogno di una lingua universale, non nazionale, e neutrale, che avrebbe ridato loro l’indipendenza e una possibilità nuova per comunicare. Zamenhof studia per due anni all’Università di Mosca senza mai smettere di interessarsi alle lingue continuando, in segreto, ad elaborare la sua. Nel 1885, a Varsavia, si laurea in medicina, specializzandosi in oftalmologia l’anno dopo. Pubblica la prima grammatica nel 1888, ben presto diffusa presso librerie, accademie, riviste e presso numerosi intellettuali. Con il 1889 la lingua internazionale del dott. Esperanto comincia ad essere chiamata semplicemente con lo pseudonimo del suo fondatore, e saranno chiamati esperantisti coloro che la parleranno. La rivista La Esperantisto (“L’Esperantista”, 1889-1895) introduce in Italia l’esperanto, che si diffonde sempre di più. Molti scrittori e poeti traducono in questa nuova lingua opere scritte in arabo e in altre lingue, ed anche la musica ne viene conquistata. Nel 1905 si svolge, come già detto, a Boulogne-sur-Mer, località turistica sulla Manica, il primo Congresso mondiale di Esperanto: 688 persone di 30 nazioni si incontrano.

Ludwik Lejzer Zamenhof

La lingua ha ormai più di diciotto anni e ha dimostrato la sua utilizzabilità a tutti i livelli, anche nelle semplici conversazioni. È un incontro su vasta scala molto importante e, anche se la maggior parte dei partecipanti ha imparato la lingua su un manuale senza mai praticarla a voce con altre persone di diverse nazioni, la pronuncia e la comprensione risultano perfette. Questo non poteva esprimere valori artistici. In Italia, nel 1918, il giovane Antonio Gramsci, non era per niente d’accordo con i socialisti dell’Avanti! (vedi anche Gramsci e l’esperanto. Quello che si sa e quello che si deve sapere, a cura di A. Montagner, introduzione di C. Minnaja, Arcipelago edizioni, Milano 2009) che invece erano entusiasti della lingua di Zamenhof.

Gramsci diceva che la lingua internazionale era uno sproposito dal punto di vista scientifico, in quanto le lingue non possono essere suscitate artificialmente. Egli considerava già “esperanto” la lingua italiana, perché imposta dall’alto, anche se era necessario impararla per uscire dall’isolamento culturale, sociale e politico in cui si trovavano le genti di quasi tutte regioni italiane, soprattutto quelle che vivevano nelle isole, a causa del dialetto, unica lingua parlata, anche se ricca di grande espressività. Gramsci si esprime contro l’idea di una lingua internazionale, in quanto la vede proposta prima che se ne creino le condizioni politiche, economiche e sociali. Il prof. Minnaja, approfondendo il problema sostiene che, se la lingua è nata e si è moderatamente sviluppata creando valori artistici, vuol dire che le condizioni c’erano sia pure in ambiti più ristretti. In seguito Gramsci, nei Quaderni del carcere (Einaudi, 2007), nei “Saggi sulla grammatica e sulla lingua unica”, parla dei sostenitori fanatici delle lingue internazionali. La sua posizione fortemente scientifica si ritroverà poi anche in altri intellettuali di scuola non marxista.

Ma l’esperanto progredisce comunque, guardato però con diffidenza da altri intellettuali, i quali non gli perdonano la nascita pianificata a tavolino. È ancora famoso il manuale del linguista, filologo ed esperantista Bruno Migliorini, pubblicato da Paolet nel 1925, tutt’oggi in uso, riaggiornato e ripubblicato (l’ultima edizione del 1995 ha una prefazione di Tullio de Mauro). Il nazifascismo perseguita pesantemente gli esperantisti classificandoli come elementi pericolosi, cosmopolitici e filocomunisti, moltissimi di loro vengono fucilati o mandati in Siberia. La guerra termina, gli anni del dopoguerra scorrono veloci. Il 1951 segna l’anno di svolta con il 23° Congresso italiano di esperanto a Pisa, dove interviene il
ministro dell’istruzione Antonio Segni. All’Unesco vi fu una campagna ostile nei confronti dell’esperanto ma, in una petizione firmata da 895mila persone, tra cui 1.600 linguisti e oltre 5mila professori universitari e da 492 associazioni in rappresentanza di oltre 15 milioni di cittadini, si chiese alle Nazioni Unite di considerare il problema della lingua internazionale e la soluzione offerta dall’esperanto. La risoluzione viene approvata dopo una serie di rimandi il 10 dicembre 1954 a Montevideo (e riapprovata ulteriormente dall’Unesco a Reykjavìk nel 1985) ma ammetteva solo che l’esperanto, usato ormai da oltre sessant’anni, era uno strumento valido per lo scambio di valori culturali. C’era solo il mandato di seguire l’evoluzione della lingua nei vari Stati, per altro normale compito dei Comitati dell’Unesco, ma nessun impegno per gli Stati membri.

In Italia, il ministro della Pubblica istruzione, il socialdemocratico Paolo Rossi, riconferma la circolare del 1956 a firma del ministro Antonio Segni, con la quale si portava l’esperanto nelle scuole ed è così che la Fei (Federazione esperantisti italiani) punta alla possibilità di inserire l’insegnamento dell’esperanto nelle scuole in via ufficiale. La legge suddetta consente l’avvio sperimentale della scuola a tempo pieno e l’istituzione di posti nell’organico pubblico per gli insegnamenti speciali e le attività integrative. A Cesena, nella scuola elementare “Oltresavio” viene avviato un progetto con l’offerta di insegnamento di una lingua straniera. Fu scelto l’esperanto anche perché molti genitori erano esperantisti e perché lo studio dell’esperanto predisponeva all’apprendimento di altre lingue ed educava all’internazionalismo e alla fraternità. Il movimento esperantista fu principalmente di matrice cattolico-liberale, ma vi furono anche componenti, associazioni di lavoratori in sintonia con altre associazioni che si erano staccate dal movimento borghese. Il “Laborista Esperanto” (gruppo esperantista dei lavoratori) di Genova, pubblicò in esperanto I doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini. Altri collettivi esperantisti si attivarono contro la corsa agli armamenti e a Forlì, negli anni Settanta, “Libere cane esperantista kubo” (Club esperantista dei liberatori) pubblica ad opera degli anarchici esperantisti i ritratti di L.L. Zamenhof e di Giuseppe Pinelli ritenendo che il modo migliore di commemorare entrambi fosse quello di far circolare, attraverso la meravigliosa lingua dell’esperanto, le esperienze di lotta e d’impegno quotidiano.

La storia dell’esperanto continua nel libro del prof. Carlo Minnaja seguendo i movimenti della lingua internazionale e le opere di tutti gli scrittori e poeti che la adottarono e la adottano ancora oggi. Mi fermo qui perché la data del 1872, anno in cui nasce e si sviluppa l’esperanto, mi riporta ad un’altra data, estremamente importante: il 1972. La bacchetta da rabdomante mi trema tra le dita e quindi scavo ancora. Azzardo nessi in un silenzio segnato dallo scorrere del tempo e mi chiedo se quella di L. L. Zamenhof fosse una grande intuizione, rimasta però incompleta. Il medico oculista cercò di “vedere” quello che mancava agli esseri umani perché era stato perso o tolto, e inventò una lingua fatta di “nuove” parole che, pur conservando in parte la loro radice linguistica, rinascevano, in modo diverso, da essa e dalla fusione con radici linguistiche di altre lingue. Parole “nuove” nelle quali tutti potevano ritrovare ancora una parte della loro storia e cultura, e con le quali comunicare tra loro e con le persone di altri Paesi europei e del mondo.
1972, cento anni dopo: un altro medico, Massimo Fagioli, psichiatra e scienziato, pubblica il primo di quattro libri in cui è esposta una fondamentale scoperta riguardante la nascita umana e la grande teoria che ne consegue, teoria della nascita, fonte di immense ricerche ed infinite possibilità per la conoscenza della psiche degli esseri umani, e per la sua cura e guarigione, qualora si dovesse ammalare nel lungo e difficile cammino della vita. Lui non crea parole nuove, usa quelle conosciute ma in modo nuovo, perché è nuovo il pensiero dalle quali esse nascono e rinascono. È quel tanto, e molto di più, che però forse fu solo intuito dal medico oculista Zamenhof e da altri grandi e che, come una sorgente d’acqua pura continua a sfociare, inesauribile, dagli anni Settanta del secolo scorso per aggiungere alla speranza la certezza dell’esistenza di altri esseri umani con i quali è possibile rapportarsi nel modo più bello e profondo perché parla di immagine interna, che dà alle parole conosciute significato e senso vero e profondo.

Nella foto d’apertura, il magazine Esperanto, novembre 2015 

La pena di morte funziona benissimo

L’altro ieri Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, diceva: «Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare». Eravamo a quota 57 suicidi nel 2022. Nel frattempo se n’è suicidato un altro.

Nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 58 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi due in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto abbiamo registrato 15 suicidi, più di uno ogni due giorni. 57 furono le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021.

«Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione – prosegue Gonnella – ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria».

«Dell’importanza dell’affettività per i detenuti – continua il presidente di Antigone – ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020».

Secondo questa relazione, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari.

«All’indomani di quelle chiusure – sottolinea Patrizio Gonnella – la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il Paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e consentì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali».

«Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate» conclude Patrizio Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, deputati e senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato.

Noi auspichiamo che qualcuno abbia il coraggio di parlarne in questa brutta campagna elettorale.

Buon martedì.

Venezia si apre ai mille linguaggi del cinema nel segno dei diritti e della ricerca artistica

Manca davvero pochissimo all’apertura della 79esima Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia – diretta da Alberto Barbera – che si terrà dal 31 agosto al 10 settembre. E, anche quest’anno, l’attesa è accompagnata da grande entusiasmo ed emozione sia per gli appassionati cinefili che per gli addetti ai lavori. Un’edizione che conta ben 56 Paesi presenti (qui il programma) e che si apre all’insegna di due importanti anniversari: la celebrazione dei novant’anni dalla sua fondazione (la prima Esposizione d’arte cinematografica si tenne nel 1932) e i dieci anni di attività della Biennale College Cinema.

Sul red carpet del Lido sfileranno ospiti italiani e internazionali, tra i quali Julianne Moore, scelta per presiedere la Giuria internazionale del Concorso, che assegnerà il Leone d’Oro per il miglior film e gli altri premi ufficiali. L’attrice statunitense – vincitrice dell’Oscar per Still Alice (2014), e premiata al festival di Berlino per le sue interpretazioni in The Hours (2002) e in Maps to the Stars (2014), e a Venezia per Lontano dal paradiso (2002) – sarà affiancata da Mariano Cohn, Leonardo Di Costanzo, Audrey Diwan, Leila Hatami, Kazuo Ishiguro e Rodrigo Sorogoyen.

Una immagine del film White Noise di Noah Baumbach

White Noise, atteso film d’apertura della Mostra, segna il ritorno al Lido – dopo Storia di un matrimonio presentato nel 2019, in concorso, a Venezia 76 – del regista e sceneggiatore statunitense Noah Baumbach autore, tra gli altri, di The Squid and the Whale (2005), Frances Ha (2012) e The Meyerowitz Stories (2017). Interpretato da Adam Driver e Greta Gerwig, White Noise è tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo il quale, afferma Baumbach, «cattura perfettamente l’assurdità, l’orrore e la follia dell’America» della fine degli anni Ottanta. «L’ho riletto nei primi mesi del 2020 e mi è sembrato come se fosse adesso».

Altro grande ritorno è quello del regista messicano Alejandro G. Iñarritu, ospite nel 2014, a Venezia 71, con Birdman. Presentato in concorso, Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades è, come Iñarritu stesso afferma, il racconto di un viaggio, «un viaggio tra realtà e immaginazione», dove la storia privata di Silverio, un noto giornalista e documentarista messicano che vive a Los Angeles, si intreccia con la storia della sua terra natale, il Messico.

Tra le altre pellicole internazionali, sempre in concorso, Blonde di Andrew Dominik – tratto dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates – ripercorre la vita dell’icona hollywoodiana Marilyn Monroe dall’ascesa al successo fino alla tragica scomparsa avvenuta sessant’anni fa. Nel cast Ana de Armas e Adrien Brody.

E ancora, con Shab, Dakheli, Divar (Oltre il muro), il regista Vahid Jalilvand – ispiratosi a un famoso poeta iraniano – si interroga, attraverso la storia di Ali e della fuggitiva Leila, sui concetti di rinascita e di speranza.
Argentina, 1985 è il film di Santiago Mitre ispirato alla storia vera dei procuratori Julio Strassera e Luis Moreno Ocampo – interpretati da Ricardo Darín e Peter Lanzani -, i quali nel 1985 seguirono coraggiosamente le indagini sulla fase più sanguinosa della dittatura militare argentina, perseguendone i responsabili.
The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, con Colin Farrell e Brendan Gleeson, segue le vicende di Padraic e Colm, due amici di vecchia data. A fare da scenario, una remota isola al largo della costa occidentale dell’Irlanda.

The Son di Florian Zeller con Hugh Jackman e Laura Dern affronta il tema dei complessi legami familiari e della malattia mentale.
E, con Les enfants des autres, Rebecca Zlotowski racconta la storia intima di una donna che si innamora di un padre single e del rapporto profondo che stringe con Leila, la figlia di quattro anni dell’uomo.

Tár di Todd Field è ispirato alla vita della prima donna, nella storia, a divenire direttrice di una delle più importanti orchestre tedesche di musica classica. Come sottolinea il regista, il copione del film «è stato scritto per un’artista: Cate Blanchett. Se avesse rifiutato, il film non avrebbe mai visto la luce. … Sotto ogni punto di vista, questo è il film di Cate».

 

Il regista dissidente iraniano Jafar Panahi

Khers Nist (Gli orsi non esistono) di Jafar Panahi – vincitore del Leone d’Oro nel 2000 con il film Il cerchio -, è il ritratto di due storie d’amore, alle prese con le influenze della superstizione e le dinamiche del potere. La proiezione sarà preceduta da un flash-mob, organizzato dalla Biennale a «dimostrazione della massima solidarietà del mondo del cinema nei confronti del regista e di tutti i colleghi che si trovano nella sua situazione». Panahi, cineasta dissidente iraniano già arrestato e condannato in passato, è stato nuovamente privato della libertà personale lo scorso luglio per aver manifestato, insieme ad altri suoi colleghi, per l’arresto di altri due registi, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad, a seguito delle proteste contro la violenza militare sui civili iraniani.

Ancora uno sguardo alla selezione ufficiale dei film in concorso, passando in rassegna alcune delle pellicole italiane presenti: Bones and All di Luca Guadagnino (co-produzione Usa) adattamento dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis, con Taylor Russell e Timothée Chalamet nei panni di Maren e Lee alle prese con il primo amore.

Una immagine del film L’immensità di Emanuele Crialese con Penelope Cruz

L’immensità di Emanuele Crialese con Penélope Cruz – a Venezia 79 anche nella sezione Orizzonti con il film En los márgenes (On the Fringe) di Juan Diego Botto – e Vincenzo Amato, ambientato nella Roma degli anni Settanta, racconta la storia di Clara e Felice e della loro impossibilità a separarsi, nonostante la fine del loro rapporto. «L’immensità è il film che inseguo da sempre», dichiara il regista «è sempre stato “il mio prossimo film”, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro. È un film sulla memoria che aveva bisogno di una distanza maggiore, di una consapevolezza diversa».

All’interno della selezione ufficiale – Fuori Concorso, si segnalano: The Hanging Sun di Francesco Carrozzini con Alessandro Borghi e Peter Mullan, tratto dal libro Midnight Sun di Jo Nesbø, Living di Oliver Hermanus ispirato al film Ikiru di Akira Kurosawa, Dreamin’Wild di Bill Pohlad (dal romanzo Fruitland di Steven Kurutz) con Casey Affleck e Zooey Deschanel, Kõne Taevast (Call of God) di Kim Ki-duk. Infine, Dead for a Dollar, con Christoph Waltz e Willem Dafoe, di Walter Hill (I guerrieri della notte, 48 ore, Ancora vivo), al quale verrà assegnato il premio Cartier Glory to the Filmmaker.

Nella sezione Orizzonti, particolarmente attenta agli autori emergenti, alle cinematografie minori e meno conosciute, troviamo: Obet (Vittima) di Michal Blasko, che racconta la storia di Irina, un’immigrata ucraina in cerca di giustizia in una società razzista, Innocence di Guy Davidi, un documentario tratto dagli inquietanti diari tenuti da bambini ai quali è stata negata l’infanzia, e costretti all’arruolamento; Chleb I Sól (Pane e sale) di Damian Kocur, tratto da una storia vera e interpretato da attori non professionisti: Tymek, giovane e talentuoso pianista iscritto al Conservatorio di Varsavia, torna in vacanza nella sua città natale, dove si trova ad assistere a crescenti conflitti tra alcuni abitanti del posto, un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato. Infine, La Syndacaliste di Jean-Paul Salomé con Isabelle Huppert nei panni di Maureen Kearney, la storia vera della rappresentante sindacale della centrale nucleare di una multinazionale francese che lottò per portare alla luce gli scandali al loro interno e difendere migliaia di posti di lavoro.

Zapatos Rojos di Carlos Eichelmann Kaiser, Nezouh di Soudade Kaadan, la pellicola iraniana Bi Roya (Senza di lei) di Arian Vazirdaftari e Valeria Mithatenet (Valeria si sposa) di Michal Vinik, sono alcuni dei titoli presenti, invece, nella sezione Orizzonti Extra. Della Biennale College Cinema – laboratorio di alta formazione, ricerca e sperimentazione per lo sviluppo e la produzione di lungometraggi a basso budget, dedicato a registi e produttori di tutto il mondo – si segnalano i due lungometraggi: Come le tartarughe, diretto e interpretato da Monica Dugo, e montato da Paola Traverso, e Banu di Tahmina Rafaella.

Una immagine da Come le tartarughe, regia di Monica Dugo, montaggio di Paola Traverso

Tra i film restaurati nel corso dell’ultimo anno e presentati nella sezione Venezia Classici, Stella Dallas (1925), con Belle Bennett, Ronald Colman, Lois Moran e Douglas Fairbanks Jr, diretto da Henry King, è il film scelto per la serata di pre-apertura di martedì 30 agosto. Il classico del cinema muto sarà proiettato in prima mondiale nel nuovo restauro digitale in 4K realizzato dal Museum of Modern Art (MoMA) di New York e dalla Film Foundation presieduta da Martin Scorsese. Tra le altre pellicole di Venezia Classici , Kaze no naka no mendori (Una gallina nel vento, 1948) di Yasujiro Ozu e La marcia su Roma (1962) di Dino Risi.

Dunque, grandi classici ma anche innovazione, rilanciata anche in questa edizione da Venice Immersive, nuova denominazione della sezione Venice VR Expanded, tesa ad accogliere la crescita dei media immersivi al di là delle tecnologie di Virtual Reality, includendo tutti i mezzi di espressione creativa XR – Extended Reality: video 360° e opere XR di qualsiasi durata, incluse installazioni, live performance e mondi virtuali. Sedici i progetti – sia originali che adattamenti – di Storie Immersive (11 europei e 5 da tutto il mondo), tra cui film di finzione, documentari, film animati e installazioni interattive.
Dodici saranno, invece, i cortometraggi presentati a Venezia 79. tra cui In quanto a noi (5’), con voce di Wim Wenders e A guerra finita (5’), con voce di Gino Strada, entrambi di Simone Massi, Fuori Concorso. I corti saranno disponibili gratuitamente in tutto il mondo e visibili dal sito www.labiennale.org, con proiezioni collocate per conto della Mostra sul sito operato da Festival Scope (www.festivalscope.com). Mentre i diciotto lungometraggi italiani presentati all’interno delle sezioni Fuori Concorso, Orizzonti, Orizzonti Extra e Biennale College Cinema, saranno visibili dal sito www.labiennale.org, con proiezioni collocate sul sito operato da MYmovies.it all’indirizzo www.mymovies.it/ondemand/biennalecinema/.
Fra i lungometraggi disponibili online, anche i quattro film italiani: Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo e The Matchmaker di Benedetta Argentieri (Fuori Concorso), Notte fantasma di Fulvio Risuleo (Orizzonti Extra), e un film della Biennale College Cinema, Come le tartarughe di Monica Dugo. Grazie alla nuova piattaforma streaming Biennale Cinema Channel, ogni film sarà trasmesso a partire dalle ore 21 (ora italiana) del giorno della presentazione ufficiale, per poi rimanere disponibile per ulteriori 5 giorni.

Per giovedì 8 settembre è stata prevista un’importante iniziativa, l’Ukrainian Day, a sostegno degli artisti ucraini attraverso alcuni eventi mirati. Al panel, dopo i saluti e l’introduzione del presidente della Biennale, Roberto Cicutto, e del direttore, Alberto Barbera, parteciperanno, tra gli altri: l’ambasciatore dell’Ucraina in Italia, Yaroslav Melnyk, la responsabile del National cinema institution dell’Ucraina, Marina Kuderchuk, il regista del film Freedom on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom, Fuori concorso, Evgeny Afineevsky.
Ospiti d’eccezione e spettatori in fermento accompagnano un programma articolato e dal respiro internazionale. Si dia, dunque, inizio alla visione!

Nella foto di apertura: il manifesto della 79esima Mostra del cinema di Venezia opera di Lorenzo Mattotti

Camusso: Il jobs act va abolito, partiamo da qui

Presidenzialismo, leva militare obbligatoria, aiuti alle imprese e non ai lavoratori, blocco navale contro i migranti, attacco alla autodeterminazione delle donne…È quanto “promettono” le destre. Giorgia Meloni è stata applaudita al meeting di Comunione e liberazione come se fosse un ritorno a casa. Il rischio che alle elezioni del 25 settembre vinca una destra clerico affarista è reale. I sondaggi parlano di una distanza siderale fra centrodestra e centrosinistra. Cosa fare? Chiedo di getto a Susanna Camusso, ex segretaria generale della Cgil che si candida con il Pd (al Senato collegio Campania 2 ndr).

Lei resta un attimo in silenzio. E poi con la calma di chi ha fatto molte battaglie sociali: «Guardi…io però non la prenderei così».

Camusso, non vede rischi in caso di un governo di destra-destra guidato da Fratelli d’Italia?
Aspetterei il voto degli italiani. Mi sembra più serio. Non vorrei far passare l’idea che il voto sia insignificante, che non c’è niente da fare. Quella che ci aspetta è una stagione assai difficile per questioni molto concrete come il prezzo dell’energia, il caro bollette ecc. Perciò proprio non darei per scontata la narrazione corrente che finisce per avvantaggiare la logica delle profezie che si auto avverano.

Il suo punto di vista?
C’è una partita da giocare in un Paese che è molto preoccupato. C’è un’indubbia condizione di difficoltà e senso di solitudine, in particolare nel mondo del lavoro. Noi dobbiamo impegnarci per costruire una apertura di prospettiva. Questa è la funzione della politica.

Partiamo dal lavoro. I dati ci dicono che donne e giovani sono stati i più penalizzati dalla crisi dovuta alla pandemia, anche perché avevano contratti a tempo determinato, part time involontari, lavoro mal retribuito e a nero. Come invertire questa tendenza che ha radici lontane?
Bisogna contrastare la precarietà, per questo continuerò a battermi. Dobbiamo costruire prospettive per i giovani, ma anche per le lavoratrici che, giovani o meno, sono a loro volta estremamente colpite. Vanno costruiti percorsi solidi, ben retribuiti, di lavoro dignitoso.

Da segretaria della Cgil propose la Carta dei diritti che cancellava il Jobs act.
Su questo abbiamo un bagaglio di esperienze molto significative. Dobbiamo contrastare la precarietà ma anche l’idea che si possa non pagare il lavoro o pagarlo poco. E se sarò eletta vorrei ripartire proprio dal testo della Carta dei diritti e da quelle proposte.

Le destre e Italia Viva vogliono abolire il reddito di cittadinanza perché, per dirla con Rosato: «Disincentiva i giovani dal cercare lavoro», che ne pensa?
È una costruzione del tutto inventata per continuare a mantenere l’idea che i giovani possono essere pagati poco e male. È inaccettabile. Danneggia i giovani e non fa bene all’Italia. Un Paese non lo costruisci sulla precarietà e sul lavoro a basso costo. Qui entra in campo la contrattazione, ma fondamentale è il Parlamento che è chiamato a correggere il disastro di deregolamentazione che è stato costruito in questi ultimi anni e a ricostruire certezze, in particolare per i giovani e le donne.

È sufficiente?
Ovviamente per cambiare il quadro bisogna fare delle scelte: cosa si pensa di fare riguardo all’energia? Cosa si pensa di fare per mettere in opera un Pnrr che comporti piani di politica industriale? Viviamo una stagione in cui si potrebbero fare cose molto importanti. Invece vedo molta deresponsabilizzazione: c’è chi dice diamo soldi alle imprese come se questo risolvesse i problemi. Come è noto non è così. Servono precisi orientamenti: bisogna decidere che la lotta al cambiamento climatico è una partita urgente, drammaticamente urgente. E che ogni rinvio costa alle persone, costa al Paese, esattamente come costa mantenere i giovani in precarietà.

La transizione ecologica può portare alla creazione di nuovi posti di lavoro? In che modo?
Detto in estrema sintesi se davvero vogliamo fermare il climate change in primis dobbiamo puntare sulle energie rinnovabili. Il che significa occuparsi di cosa produce energia ma anche di reti di alimentazione, di infrastrutture, di accesso e di riconversione della rete perché sia adatta a supportare le rinnovabili come fonte primaria di energia. Questo è tutto lavoro. Anche in prospettiva, non solo sul breve periodo.

E poi?
E poi c’è poi tutto il tema dell’economia circolare. Il che significa non puntare ad aumentare i beni consumabili oggi, ma pensare anche a come ridurre la dimensione di rifiuti e dei prodotti che diventano obsoleti e non hanno più la possibilità di essere riutilizzati. Tutto questo implica ricerca, rapporto con i territori, prospettive. Rinnovabili ed economia circolare sono due grandi praterie di politiche industriali che si potrebbero percorrere.

Non rappresentano il vecchio, come qualcuno dice?
Al contrario sono una straordinaria opportunità di favorire lo sviluppo del territorio senza danneggiarlo né esaurirne le risorse ma anzi contribuendo a curarlo. Potrebbero anche essere un indirizzo importante del digitale. Non parlo della digitalizzazione come elemento astratto, figlio esclusivamente delle multinazionali, ma della digitalizzazione come servizio alle esigenze di trasformazione delle politiche industriali.

Veniamo a un tema chiave: la formazione. Tajani ha parlato di ulteriori aiuti alle scuole paritarie e incentivi per la scuola- lavoro, d’accordo con Meloni che punta sulle scuole professionali e chiede di accorciare a 4 anni le superiori. Sul fronte opposto Letta propone l’obbligo scolastico fin dalla scuola dell’infanzia e Fratoianni parla di scuola pubblica gratuita compresa l’università. Quale è il suo punto di vista?
Io credo che la proposta della scuola pubblica gratuita rappresenti una traduzione necessaria dei principi costituzionali. Di questi tempi bisogna ribadire ogni giorno che è bene attuare la Carta in tutti i suoi aspetti. Si chiama diritto allo studio. Vuol dire considerare la Costituzione come un riferimento per ridurre le disuguaglianze. Invece di concentrarsi sulla retorica della meritocrazia, spesso usata per giustificare queste diseguaglianze, dovremmo ricominciare, in particolar modo sull’educazione, a rivendicarne l’universalità. Dobbiamo ricostruire quel terreno minimo di opportunità e di cittadinanza che l’istruzione rappresenta. Da questo punto di vista nella coalizione di centrosinistra la proposta del Pd e quella di Sinistra italiana delineano una presa di posizione netta. Io credo che sia molto importante ampliare l’obbligo anche alla scuola dell’infanzia dando risposta al diritto dei bambini e delle bambine ad avere accesso all’insieme del percorso di istruzione. Mettere mano a un sistema di istruzione come diritto obbligatorio è un investimento, non è un costo. Di pari passo dobbiamo dare agli insegnanti una retribuzione all’altezza dell’Europa. Impoverire il corpo insegnante – che ha sempre avuto una funzione fondamentale – è servito a svalorizzare la scuola. Detto questo io penso anche che il diritto allo studio debba essere garantito attraverso l’istruzione pubblica. Con ciò non vieterei nulla a nessuno.

Guardando a quel che accade in altri Paesi europei, per promuovere il lavoro stabile in Spagna sono stati disincentivati contratti a tempo determinato. Intervenire concretamente si può, non è utopistico?
No, non è utopistico. Quella attuata in Spagna è una di quelle riforme che non comportano neanche grandi costi per lo Stato. Non richiede particolari risorse, richiede una decisone politica, una scelta politica di privilegiare e di premiare il lavoro stabile rispetto al lavoro precario. L’esperienza in Spagna sta già dando risultati importanti in termini di stabilizzazione del lavoro. Non ha prodotto quelle catastrofi sul piano dell’occupazione che tutti preconizzano ogni volta che cerchi di cambiare regole del mercato del lavoro. Era una strada aperta anche nel nostro Paese, ma poi è stato deciso di de-regolarizzare in tutt’altro modo. È il sintomo della debolezza del nostro sistema produttivo che non investe sulla qualità del lavoro e sulla possibilità di spendere maggiori competenze e maggiore impegno. Ci vedo una forma autodistruttiva di un sistema che invece vorrebbe definirsi competitivo rispetto al resto dell’Europa.

In questa campagna elettorale i partiti di destra fanno a gara a proporre la flat tax, ciascuno con percentuali diverse. Anche i liberali di centro promettono di abbassare le tasse. Non sarebbe più efficace e equo fare una riforma fiscale secondo un principio di progressività e offrire più servizi di qualità?
Ho sempre pensato che ci fosse un inganno dietro all’idea per cui basterebbero meno tasse per fare felice il mondo. In quel modo fai felice alcuni (tendenzialmente una minoranza) e pesi su chi ha più difficoltà e meno risposte in termini di servizi pubblici in termini di benefici che derivano da una struttura pubblica organizzata. Noi abbiamo bisogno esattamente dell’opposto; abbiamo bisogno di più cura, come ci ha dimostrato la pandemia, di una maggiore risposta di servizi. Non si può far saltare il fondamentale patto di cittadinanza in virtù del quale al pagamento delle tasse corrispondono l’erogazione dei servizi e una struttura pubblica efficace del Paese. Non si può distruggere perché così si incrementano le disuguaglianze a svantaggio dei più deboli. Da questo punto di vista io penso che si debba tornare ai fondamentali. E l’elemento fondamentale che ci offre la nostra Costituzione è la progressività. Ma dobbiamo anche ricondurre il sistema ad unità perché il sistema è oggi molto frazionato, a seconda delle professioni, delle collocazioni ecc.

È il risultato delle politiche dei bonus?
È anche per l’effetto di una certa modalità di governo che ha caratterizzato gli ultimi anni, fatta di bonus di de-contribuzioni. Un giornalista tedesco mi disse tempo fa: da noi ogni cittadino sa esattamente cosa l’aspetta sul piano fiscale, le regole sono certe, sono note, ognuno ci si può misurare. In Italia non accade perché progressivamente è stata costruita giungla. Io penso che serva un sistema progressivo e unitario in modo che tutti i cittadini sappiano a cosa vanno incontro. Ma deve essere anche un sistema che premia il lavoro. Non si può dire alla classe lavoratrice che il lavoro è fondamentale e poi penalizzarlo dal punto di vista delle scelte e della redistribuzione della ricchezza nel Paese.

Da ultimo, un questione prioritaria: fermare la violenza contro le donne. E, aggiungerei, anche di chi ci marcia. Che il video della stupro subito da una donna a Piacenza sia stato rilanciato da alcune testate e rilanciato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni è estremamente grave. Lei è sempre stata in prima linea su questi temi che ne pensa?
Per prima cosa vorrei esprimere tutti gli abbracci possibili a questa signora che è stata colpita anche da una seconda violenza esercitata nei suoi confronti sia dalla testata che ha deciso di mettere in rete quel video sia da una leader politica in campagna elettorale e che lo ha utilizzato a fini elettorali. Tutto questo è di una violenza inaudita. Vedo anche un’incapacità di ascolto straordinaria perché se c’è un tema su cui il movimento delle donne e tante associazioni hanno lavorato moltissimo è proprio quello della vittimizzazione secondaria. Purtroppo il modo in cui viene trattata e raccontata la violenza sulle donne determina una nuova vittimizzazione, che è l’opposto di quello di cui ci sarebbe bisogno. L’argomentazione usata dalla Meloni è di una debolezza infinita: non c’è bisogno di un video per denunciare. Se vuoi denunciare la violenza contro le donne ben venga ma lo fai innanzitutto difendendo le vittime, non aggredendole ulteriormente. E poi chiamando le cose con il loro nome.

La destra xenofoba addita i migranti. I dati Istat dicono che oltre il 67 per centro degli stupri avviene in famiglia al netto di quelli compiuti da ex e conoscenti. Per chiudere su un tema così importante, un suo commento?
La violenza maschile contro le donne non è “razzializzabile”. L’operazione di indicare il nemico esterno nasconde questa responsabilità maschile. Basta guardare all’incremento dei femminicidi e che caratteristiche hanno. Ho notato, devo dire un abisso di cinismo e di disinvoltura che non mi sarei mai aspettata, ancor meno da chi tiene a specificare ogni giorno di essere donna. Credo che sia preoccupante per il clima sociale prima ancora che politico che si vuole produrre nel Paese e mi viene da pensare che aveva ragione quella signora (Simone de Beauvoir ndr) che diceva “donne si diventa non si nasce”.