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La politica fossile di Meloni mette a rischio la lotta al cambiamento climatico

«A 174 anni dal manifesto del comunismo di Marx, in Europa si aggira un altro spettro, quello dell’ambientalismo nella sua forma degenerata». Parola di Nicola Procaccini, uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni, responsabile nazionale del dipartimento Ambiente ed energia di Fratelli d’Italia, europarlamentare – attualmente indagato con le accuse di turbativa d’asta e induzione indebita a dare o promettere utilità, nell’ambito dell’inchiesta sulle concessioni demaniali a Terracina, la sua città natale.

Lo scorso 22 aprile, in occasione della Giornata mondiale della Terra, Procaccini ha presentato il “Manifesto dell’ecologia conservatrice”, ribadendo in questa occasione l’importanza dell’attenzione all’ambiente e del territorio da parte della destra italiana. Ma attenzione a non farsi illusioni, perché questa forma di rispetto non dovrà condurre «alla mortificazione delle attività economiche ma a un giusto equilibrio con i temi legati all’emergenza ecologica». Soprattutto, ci tiene a precisare il big di FdI, la Fiamma rifugge le posizioni ideologiche tipiche «di un certo ambientalismo di sinistra».

Servirebbe ricordare a Procaccini che spesso, a Bruxelles e Strasburgo, i gruppi della destra sovranista che siedono tra i banchi dell’europarlamento – di cui fanno parte anche il suo stesso partito e la Lega salviniana – hanno quasi sempre cassato le proposte per attuare le politiche ambientali ed energetiche contro il riscaldamento globale. E la loro eventuale vittoria alle elezioni del 25 settembre – molto probabile, secondo tutti i sondaggi – potrebbe mettere seriamente a rischio la lotta contro il cambiamento climatico.

Tuttavia, la strada per tener fede agli impegni europei di riduzione del 55% delle emissioni di gas serra al 2030 passa quasi sicuramente per un esecutivo a trazione sovranista, elezioni permettendo. La grande favorita a sostituire Mario Draghi a Palazzo Chigi sembra essere proprio la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che guida una coalizione di cui fanno parte anche la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia di Silvio Berlusconi.

Ma che ne pensa la leader della destra italiana della questione climatica? Nel suo intervento alla conferenza programmatica di FdI dello scorso aprile, Giorgia Meloni non spende una parola contro la crisi climatica, e non perde tempo a incalzare Mario Draghi a chiedere all’Ue la revisione del Pnrr e dei suoi obiettivi ambientali e climatici definiti «irraggiungibili», figli di una strategia «poco intelligente» che sembra «scritta da Greta Thunberg». E riguardo ai combustibili fossili? Abbandonarli è “velleitario” secondo l’ex ministra della Gioventù.
Ma attenzione: non è che ai patrioti non interessi il tema, tutt’altro. Ma la sostenibilità ambientale può e deve essere coniugata con la sostenibilità economica al netto della “cieca ideologia green” che tutto blocca e impedisce.

Facendo riferimento alla mobilità elettrica, la leader di FdI chiede al suo uditorio se «vogliamo combattere l’inquinamento legandoci mani e piedi ai Paesi più inquinanti al mondo», ovvero la Cina da cui importiamo auto elettriche. Ovviamente non ci pensa nemmeno a far balenare l’idea di spronare gli imprenditori italiani a rinnovare la filiera automotive nazionale per renderla al passo con le sfide del XXI secolo. E sembra non saperne niente dei colossali investimenti europei sulle batterie e la mobilità elettrica.
All’interno del piano contro il cambiamento climatico, chiamato “Fit for 55”, che prevede la riduzione del 15% delle emissioni inquinanti dal mondo dei trasporti e dell’automobile entro il 2025, lo scorso 8 giugno il parlamento Ue ha approvato la proposta della Commissione Europea di vietare la produzione e la vendita di auto con motori termici a partire dal 2035.

Il testo è stato approvato con 339 voti favorevoli, 249 contrari e 24 astenuti. Tra gli oppositori i gruppi di estrema destra Identità e Democrazia (Id), di cui fa parte la Lega di Salvini (insieme ai francesi del Rassemblement National di Marine Le Pen, gli austriaci del Partito della Libertà e ai tedeschi di Alternative für Deutschland) e Conservatori e riformisti europei, di cui fa parte Fratelli d’Italia. A cassare la proposta sono stati anche alcuni membri del più moderato Partito popolare europeo, in primis gli italiani di Forza Italia.

Molto esemplificativo, in questo caso, è il discorso pronunciato in sede di discussione dall’eurodeputato leghista Paolo Borchia: il Commissario al green deal Frans Timmermans è definito “surreale”, mentre in realtà l’ambizione climatica maschererebbe «grossi interessi economici e un’overdose di ideologia». E le politiche green servirebbero non ai cittadini europei, ma alla Cina per «sferrare il colpo di grazia all’industria europea». Gli fa eco la compagnia di partito Isabella Tovaglieri: dopotutto, in questo momento «è davvero rischioso sacrificare le economie europee sull’altare dell’utopia ecologista della svolta verde».

La destra italiana ha dato il meglio di sé anche lo scorso 22 giugno, in occasione del voto per la riforma del mercato di carbonio e l’introduzione di un nuovo Fondo sociale per il clima, approvato grazie al sostegno dei principali gruppi parlamentari ma ovviamente osteggiato da Meloni, Salvini e dai loro omologhi europei. Per l’eurodeputata Silvia Baldassarre (Lega), le misure per il clima sarebbero una sorta di «autolesionismo politico» per l’Ue, mentre il Fit for 55 %, un pacchetto «che porterà a un aumento di tasse e bollette pur di rincorrere il solito idolo green a tutti i costi». Invece, per Raffaele Fitto (FdI) le posizioni pro-clima dello schieramento progressista sarebbero puro «furore ideologico».

È proprio sui grandi interessi economici e fonti inquinanti, che si vede, anche in sede di voto europeo, quanto sia ambientalista la destra italiana. Quando una parte del Parlamento europeo (socialisti, verdi e sinistra) hanno provato a fermare la “tassonomia” della Commissione Europea – che bollava come green gli investimenti in nucleare e gas – i gruppi di Meloni e Salvini si sono, ovviamente opposti.

In poche parole, la destra è contraria a qualsiasi intervento politico volto a incidere su una trasformazione del nostro sistema economico improntata alla transizione energetica ed ecologica. E, se il deputato leghista Claudio Borghi sostiene di voler «buttare a mare» il Green Deal europeo, Giorgia Meloni afferma che «l’ecologismo non si impone dall’alto» ma che bisogna cominciare a «difendere il proprio giardino». L’idea è che nessuna iniziativa dall’alto debba mettere a repentaglio le iniziative economiche predatorie dell’uomo.

All’ambientalismo di sinistra, incentrato sulla lotta contro la crisi climatica e i combustibili fossili, Meloni e soci contrappongono l’ecologismo del pensatore ultraconservatore britannico Roger Scruton (deceduto nel 2020), alfiere di un ambientalismo mistico che riprende l’antica triade di Dio, Patria e Famiglia, dove alla questione ambientale non viene data un’accezione globale, ma territoriale e identitaria, un concetto di protezione della natura reazionario, avulso dalle moderne politiche sulla riduzione delle emissioni e di contrasto al cambiamento climatico.

Il prossimo 25 settembre toccherà al popolo italiano scegliere tra il “globalismo ecologista” che si contrappone al negazionismo climatico opportunatamente mascherato da ambientalismo: da una parte c’è chi chiede la transizione ecologica, la riduzione delle emissioni, lo stop all’uso delle fonti fossili. Dall’altra quelli come Procaccini, secondo cui «davvero un certo ambientalismo pensa sia più importante difendere un cucciolo di foca rispetto al cucciolo custodito nel grembo di una donna?».
Elettori italiani, a voi la scelta.

Nella foto: Giorgia Meloni all’Assemblea dell’associazione industriali di Cremona, 6 ottobre 2020

Di Novaya Gazeta, Safronov e della difesa della libertà

Dmitrij Muratov, direttore della Novaya Gazeta, è uno che lascia squillare il telefono non avendo voglia di rispondere all’ennesima telefonata di accuse e di minacce e poi scopre che dall’altra parte del filo c’era l’Accademia di Svezia che lo informava dell’assegnazione del premio Nobel per la pace.

Quando è andato a ritirare il Nobel il direttore russo l’ha voluto dedicare ai sei giornalisti ammazzati dalla fondazione del giornale – era il 1993 – fino a oggi. Tra quei nomi c’è anche Anna Politkovskaja, una stella polare del giornalismo mondiale che questa guerra ha dato in pasto agli smemorati con eroi alterni, in base alle situazioni geopolitiche.

Novaya gazeta è un fulgido esempio del giornalismo come dovrebbe esser fatto, incurante del conveniente ma innamorato del proprio ruolo di cane da guardia dei poteri (tutti i poteri) che vedono i giornalisti come semplici ingranaggi della grancassa.

Anche per questo l’ordinanza con cui il tribunale di Mosca vieta la stampa e la vendita in territorio russo dello stesso giornale che ha raccontato la guerra in Cecenia, l’orrore di Beslan e la guerra in Ucraina è uno scempio che deve stare a cuore a tutti.

Il giornale aveva già sospeso le pubblicazioni a fine marzo, quando le regole volute dal Roskomnadzor, l’agenzia statale delle comunicazioni russa, avevano reso difficilissimo raccontare la guerra senza incorrere in sanzioni. Parte della redazione si era trasferita per sicurezza personale in Lettonia.

«Oggi abbiamo ucciso i nostri colleghi già uccisi da questo Stato per l’adempimento del loro dovere professionale – Igor Domnikov, Yuri Shchekochikhin, Anna Politkovskaya, Stanislav Markelov, Anastasia Baburova, Natalia Estemirova, Orkhan Dzhemal», scrive nel suo editoriale il direttore Muratov.

Nello stesso giorno la Russia ha condannato a 22 anni in un carcere di massima sicurezza Ivan Safronov, consigliere del capo dell’agenzia spaziale russa Roscosmos, giornalista ex corrispondente di Kommersant e Vedomosti. Safronov è colui che nel 2019 raccontò della vendita di jet russi al Cairo, sollevando un imbarazzo politico che si paga caro dalle parti di Putin.

Scrive Muratov: «Novaya gazeta non ha bisogno delle vostre carte. Era, è e sarà. Anche quando non c’è né questo potere, né questi giudici, né questi impiegati. Lo spirito libero soffia dove vuole e come vuole».

Per ora Novaya gazeta continua sul suo sito internet (finché riuscirà a farlo) e sarebbe curioso sapere cosa ne pensano i giornalisti e politici nostrani, di quello che accade.

Buon martedì.

Enrico Calamai: Nuove destre, nostalgici e neoliberismo, quante analogie inquietanti tra il Cile e l’Italia

Il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973 e dopo due anni e mezzo un altro golpe in Argentina: il fascismo prende il potere nei due Paesi del Cono sur facendo strage di un’intera generazione di lottatori sociali. Sono solo due tasselli della più generale guerra messa in campo dalla Cia dalla fine del secondo conflitto mondiale per imporre il modello economico Usa e colpire ovunque l’affermarsi di governi popolari, socialisti o anche soltanto progressisti che quel modello rifiutano. In quel quadrante, in quegli anni, si trova ad operare il giovane diplomatico italiano Enrico Calamai.
Il vice console Calamai infischiandosene della direttiva del “quieto vivere” del governo italiano decide di “restare umano” mettendo in salvo centinaia di persone, prima in Cile poi in Argentina.
Per questa sua azione umanitaria si è guadagnato l’appellativo di “Schindler di Buenos Aires” anche se lui, con profonda umiltà, risponde che chiunque al suo posto avrebbe fatto le stesse cose…
Oggi Calamai è candidato al Senato nelle liste di Unione Popolare e da parecchi anni è impegnato nella difesa dei diritti dei migranti. È stato lui per primo a definire le vittime delle tragedie in mar Mediterraneo i “nuovi desaparecidos” e le politiche che gestiscono il fenomeno migratorio un “…sistema complesso di eliminazione che richiama il Plan Condor praticato in America Latina…”. Per provare a costruire un ponte tra due epoche e due Paesi che solo apparentemente sono lontani e all’indomani della bocciatura della nuova Costituzione cilena, abbiamo rivolto a Calamai alcune domande.

Enrico Calamai

Dott. Calamai cosa pensa dell’esito del recente referendum costituzionale in Cile? Il 62% dei cileni ha rifiutato la nuova Costituzione, a detta di molti la più avanzata al mondo e non a caso nata da una sanguinosa stagione di lotte sociali contro il liberismo selvaggio introdotto proprio da Pinochet.
Il trionfo del “rechazo” (no) è per me un colpo doloroso e difficile da analizzare. In mancanza di elementi di valutazione sulla situazione attuale in Cile, posso soltanto dire che questo rifiuto ricorda l’amara novella di Pirandello, del canarino che trova lo sportello della gabbia aperto, ma preferisce non volar via. Ci leggo il permanere di un’oscura paura di un popolo che ha conosciuto le stragi su cui si è costruita la dittatura di Pinochet e che teme di scoprire il riproporsi di quell’orrore senza paragoni, come reazione a ogni tentativo di mutamento per il meglio.

Le masse neoliberiste vivono d’altronde in una paura che viene continuamente inoculata…
Esattamente. Paura del terrorismo, paura della violenza, paura del caos economico, paura di perdere il lavoro e la libertà, paura di un’invasione di migranti… L’egemonia culturale della destra neoliberista ricorre continuamente a una rappresentazione falsata e violenta della realtà, in cui a contare è soltanto l’economia, mentre la politica resta una partita inevitabilmente giocata tra pochi e tentar di cambiarla, questa realtà, è un ballare sul bordo dell’abisso.
Come si risponde a tutto questo?
È difficile da dire. Certo in Cile c’è stato un movimento travolgente che ha saputo spazzar via quanto restava del pinochetismo. Costruire il nuovo risulta essere ancora più difficile, ma una risposta la politica che ha saputo liberarsi dall’ingessamento del passato dovrà pur trovarla. Con il superamento delle divisioni a sinistra, con una più realistica percezione delle forze in campo, con tutta la mediazione che sarà necessaria, ma una soluzione comunque esiste e un popolo finisce per trovarla.

Nel corso della sua esperienza diplomatica ha conosciuto e affrontato l’omertà dei governi rispetto a palesi violazioni dei diritti umani…pensa sia cambiato qualcosa rispetto alle vicende che l’hanno vista protagonista?
Rispetto alle vicende degli anni ’70 i governi italiani avevano una maggiore preoccupazione in materia di diritti umani anche se questa preoccupazione era subordinata a trovare il modo di salvaguardare il ritorno economico e commerciale. Nascondendo quello che stava accadendo non si voleva cioè turbare l’opinione pubblica. Credo che dopo la caduta del muro di Berlino anche quest’ultimo scrupolo è stato spazzato via. Oggi non mi pare che i governi italiani e nemmeno quelli occidentali in generale abbiano una particolare sensibilità rispetto alla violazione dei diritti umani.

Siamo in campagna elettorale, il Pd di Letta punta tutto, ancora, sulla alterità rispetto alle destre. Secondo lei, in particolare sulla questione dei migranti, è possibile rintracciare questa differenza?
No, non c’è nessuna differenza. La differenza è solo di linguaggio. Minniti (ex ministro interni Pd, ndr) ha aperto ai memorandum con la Libia che sono in realtà una delega affinché i libici facciano il lavoro sporco per eliminare i migranti. Ma questa operazione non è stata sbandierata, è stata tenuta un po’ nell’ombra. Poi è arrivato Salvini che ha dato la massima pubblicità a questa azione politica diretta ad impedire gli sbarchi a qualunque costo. Poi è arrivata Lamorgese che ha continuato a fare come Minniti e Salvini ma sotto traccia, senza dichiarazioni roboanti. E’ cambiato l’abito, non la sostanza.

Madeleine Albright, democratica statunitense con importanti ruoli di governo, disse candidamente che la morte di 400mila bambini iracheni a causa delle sanzioni occidentali furono il prezzo da pagare per vincere la guerra. Il mondo occidentale sembra egemonizzato da due forme di suprematismo: uno apertamente razzista ed uno più subdolo e “politaclly correct”. La morte di migliaia di migranti nei lager libici voluti dal governo a guida Pd e poi rifinanziati da tutti i governi successivi sono il “prezzo da pagare” per vincere una guerra? Quale?
Non c’è nessuna guerra. Non c’è nessuna invasione. C’è un mondo in cui l’occidente ha un ruolo saccheggiatore, di sfruttamento, di assorbimento delle risorse specialmente energetiche ma non solo. Un ruolo dove l’occidente gestisce a volontà dittature, regimi, guerre, guerre civili…Tutto questo, unito ai cambiamenti climatici indotti dal modello produttivo dominante porta ad una conseguenza: la fuga dal proprio Paese è una necessità strutturale, la gente è costretta a migrare per sopravvivere e quindi è costretta a muoversi verso l’Europa. L’Europa neoliberista non li vuole e li elimina. Ma li elimina in modo che non si veda. Li elimina non diversamente da quanto fatto in Argentina con i desaparecidos, in modo incongruo rispetto alle alte dichiarazioni di valori democratici e di civiltà, li elimina in modo che l’opinione pubblica possa andare avanti dicendo di non sapere oppure di sapere e non sapere allo stesso tempo…Non molto diverso nemmeno da quanto succedeva nell’Europa nazi-fascista con la caccia agli ebrei.

Parliamo ancora di “prezzi da pagare”: il segretario generale della Nato Stoltemberg ha dichiarato che questo inverno l’Europa pagherà un prezzo molto duro per il sostegno all’Ucraina. Chi pagherà davvero questo prezzo? Per ottenere quali risultati? Letta cinque mesi fa diceva che le sanzioni avrebbero piegato il governo russo in pochi giorni…
Tanto per cominciare dobbiamo dire che siamo direttamente coinvolti in un teatro di guerra. Una guerra che però non riguarda il popolo italiano, una guerra voluta dalla Nato e sostanzialmente dagli Stati Uniti. L’Europa si trova in mezzo a questo confronto senza una politica lucida, razionale e consapevole: invia armi e applica le sanzioni pensando di esorcizzare i pericoli che la situazione comporta, pensando così di mantenere aperta l’emorragia che la continuazione della guerra comporta per la Russia ma che evidentemente non è sufficiente a piegarla. Hanno deciso di entrare in guerra con la Russia che è il principale fornitore di prodotti energetici. E questo evidentemente ha delle conseguenze. Il prezzo di cui parla Stoltemberg non lo pagherà lui anche se usa il “noi”, lo pagherà la maggioranza della popolazione europea trascinata in un’economia di guerra e già travolta dal caro vita e dalle speculazioni sui prezzi. Ma pagherà anche l’Europa come costruzione perché si trova a diventare marca di frontiera tra due superpotenze con gli Stati Uniti sempre più bellicosi e la Russia provocata da decenni di espansione Nato.

Cosa dovrebbe fare l’Italia per sganciarsi da questa guerra tra superpotenze il cui esito potrebbe essere una escalation nucleare fuori controllo?
Le rispondo col programma di Unione Popolare. L’Italia può e deve fare di tutto per riaprire una fase negoziale e di trattativa sulla guerra in Ucraina e più in generale sul disarmo convenzionale e nucleare. Per fare questo però è necessario proporsi con atti concreti di distensione: fermare l’invio di armi, uscire dalle sanzioni alla Russia che non sono servite a niente se non ad impoverire noi stessi, ritirare soldati e mezzi dal fianco est della Nato, liberarsi delle bombe atomiche statunitensi che teniamo sul nostro territorio nazionale. Solo con questi atti concreti l’Italia potrà prendere l’iniziativa e promuovere una conferenza internazionale di pace qui a Roma coinvolgendo tutti gli attori regionali. Ma è chiaro che se noi continuiamo ad armare il confine con la Russia non possiamo che aspettarci la stessa cosa dall’altra parte.

Dobbiamo completamente invertire la rotta?
Dobbiamo. L’Italia può e deve diventare protagonista della distensione anche con una campagna affinché l’Onu si liberi dai veti incrociati e diventi finalmente sede riconosciuta e rispettata di una sicurezza globale condivisa. Se non si agirà in questo senso, al più presto e con determinazione, l’escalation in corso potrà trasformarsi in un conflitto mondiale in grado di cancellare l’umanità dalla faccia della terra.

Tra Fiano e Rauti

Emanuele Fiano è figlio di Nedo, rimasto orfano a diciotto anni con la matricola A5405 a Auschwitz. La famiglia Fiano venne sterminata perché ebrea, Nedo ha partecipato a centinaia di incontri nelle scuole. «Porto con me l’odore, il buio, l’orrore e la ferita di quel tempo lontano. Lotto ancora e recito la parte di un uomo comune, come tanti altri. Ma sento spesso un inferno dentro, anche se cerco di apparire sereno e felice», raccontava.

Emanuele Fiano non è solo figlio di Nedo. Emanuele Fiano è uno di quei parlamentari che non è caduto nell’irresistibile tentazione di normalizzare l’indicibile e di annacquare l’antifascismo. Crede nella reale applicazione della legge Mancino (che per troppi, anche nel presunto centrosinistra, è semplicemente una raccomandazione ornamentale in memoria del tempo passato), indica il razzismo chiamandolo per nome.

Isabella Rauti è figlia di Pino. Pino Rauti è stato un neofascista della primissima ora. Subito dopo l’avvento della repubblica si è impegnato a ricostruire l’estrema destra sia istituzionale (con l’Msi nel 1946) sia d’azione (con la rifondazione, agli inizi degli anni 50, dei Far – Fasci di azione rivoluzionaria). I Far erano la destra estrema dell’estrema destra italiana. Filonazisti dichiarati si distinsero durante la loro breve vita per due attentati, uno al ministero degli Esteri ed uno all’Ambasciata Americana di Roma, entrambi nel 1951. Nel relativo processo per i due attentati gli appartenenti ai Far furono tutti condannati. Tutti tranne tre: Evola, Erra e Pino Rauti. Ha fondato l’organizzazione Ordine Nuovo. Rauti fu indagato per le stragi di Piazza Fontana a Milano e Piazza della Loggia a Brescia. Da assolto Rauti stesso rivendicava “la responsabilità morale delle stragi”. Poi anche Rauti è stato “normalizzato” da Silvio Berlusconi (che ha responsabilità enormi sullo sdoganamento del fascismo, ma ce ne siamo già dimenticati).

Fiano e Rauti in politica provano a trasmettere i valori dei propri padri. Lo ripetono entrambi. Sono candidati, l’uno contro l’altro, nel collegio di Sesto-Villa Pizzone-Legnano che copre anche la zona nord di Milano città, Cinisello e Paderno Dugnano. Collegio uninominale: chi prende più voti viene eletto. Isabella Rauti ha però un comodo paracadute in collegi plurinominale offerti dal partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Per capire il senso della sfida si può raccontare un episodio recente. Rauti chiede il voto perché «Sesto San Giovanni non torni ad essere la Stalingrado d’Italia» e lo dice con l’ignorante formuletta di chi spande anticomunismo senza conoscere la storia. Fiano le risponde: «Quel titolo Sesto l’ha guadagnato per la similitudine con la città industriale del Volga per la resistenza, poi vittoriosa ai nazisti. Stessa cosa che fece Sesto, fin dal 1943, nelle sue fabbriche e nei suoi quartieri, pagando un prezzo atroce con deportazioni nei campi di sterminio, fucilazioni, torture e violenze e ricevendo per questo, la Medaglia d’oro per la Resistenza. Quando ci vedremo, davanti alla Parrocchia di Santo Stefano, che fu sede del Cnl cittadino, avrò modo di raccontare a Isabella Rauti questa grande ed emozionante storia. La aspetto».

Cosa accade? Che i seguaci di Meloni (e di rimbalzo di Isabella Rauti) ricoprono Fiano di insulti antisemiti e qualcuno scrive: «Un confronto con te si dovrebbe fare solo davanti a un buon forno acceso». Si tratta di “odio dei social”? No, no. È il profumo di impunità per topi che escono dalle fogne. Fratelli d’Italia simula qualche spicciolo di solidarietà (sono diventati bravissimi a fingersi educandi in attesa di mettere le mani sul potere) e invita a «non parlare di storia del ‘900». Come se noi non fossimo la nostra storia.

Io non ho condiviso alcune posizioni di Fiano nella sua carriera politica. Chi ci legge sa quanto siamo critici con il Partito democratico (e anche su questa candidatura, ne parleremo a tempo debito) ma ogni volta che penso alla sfida di Sesto San Giovanni mi prende la sensazione del limite del dirupo a cui siamo arrivati. Decenni di antifascismo spolpati da un centrosinistra sempre timido (se non addirittura connivente) e una destra che ancora oggi viene chiamata “centrodestra” (solo da noi) sempre alla ricerca delle “anche cose buone”. Non posso non pensare che la sfida tra Fiano e Rauti sia una spaventosa carta tornasole di questo tempo. E mi dico: noi siamo ancora quel Paese in cui vince Fiano in quel collegio, vero?

Buon lunedì.

NRG Bridges: improvvisazione jazz, energia, pensiero

Per fare qualcosa di vero l’unico mezzo è essere se stessi. Parola di NRG Bridges, una formazione davvero particolare: un trio strumentale di soli fiati, nato dalla collaborazione tra uno dei grandi senatori del jazz in Italia, il clarinettista e polistrumentista Gianluigi Trovesi, ed i NovoTono, il duo dei fratelli Adalberto ed Andrea Ferrari: tre artisti di tre generazioni diverse, che mettono in comune clarinetti e il sassofono, in un progetto basato su di un interplay tanto fitto quanto profondo.
Il loro album pubblicato dalla Parco della Musica Records, Intertwined Roots, e registrato presso Artesuono di Stefano Amerio, si presenta come una serie di racconti, dal taglio quasi cinematografico, nel quale ciascun titolo nasce dall’ambizione di rappresentare il dipanarsi di una storia spingendo l’ascoltatore a viaggiare con la propria fantasia.
Radici intrecciate che si uniscono per dare vita ad un solo albero, è forse questa l’immagine più adatta ad esprimere il lavoro del trio, a partire dalle esperienze comuni ai tre musicisti, dalla loro formazione clarinettistica classica fino al lavoro di ricerca di nuovi e diversi mondi musicali, una ricerca sempre alimentata dalla linfa vitale di un terreno ricco di diversità, come ci racconta Adalberto Ferrari.
«Diciamo che NovoTono ha sempre avuto nel proprio Dna e nella propria mentalità artistica l’idea dello sviluppo e dell’evoluzione del linguaggio attraverso lo scambio e la contaminazione con altre modalità espressive pur mantenendo una propria e forte caratteristica identitaria».
Il trio nasce quindi con questa concezione dell’esperienza musicale, ovvero quella di costituire un’ identità nuova che fosse però l’integrazione e lo sviluppo delle idee di ciascuno dei componenti?
È evidente che ciò richiede una notevole preparazione, disponibilità ed apertura mentale, nonché una vera e propria unità di intenti. Il pensiero individuale deve essere finalizzato a comprendere a fondo le idee ed i ruoli di ciascun “attore”, a svilupparli in relazione alla propria individualità ed espressività; in tal senso l’unione di NovoTono con Gianluigi Trovesi si è presentata sin da subito molto “centrata”.
Il duo NovoTono si è confrontato in questo caso con uno degli esponenti “storici” più illustri del Jazz in Italia, aprendo un confronto “generazionale”, con Gianluigi Trovesi, come è nata la vostra collaborazione?
Effettivamente la forte intesa che si è creata nell’ensemble, ci ha consentito di definire un terreno comune e “fertile” che ha costituito, e costituisce tuttora, un’area di confronto e di collaborazione», dice Adalberto Ferrari, con Andrea. «Sebbene ognuno di noi abbia un proprio modo di agire una propria storia ed una propria personalità, si tratta proprio di alimentare il confronto utilizzando le risorse di ciascuno per creare un’integrazione tra le differenti modalità espressive. La diversità diventa così una ricchezza imprescindibile.
Il dialogo serrato tra i protagonisti in campo ed una sorta di “contrappunto continuo” è il segno distintivo di questa musica, nella quale l’improvvisazione ha un ruolo decisivo con un equilibrio “dinamico” tra parti scritte e parti improvvisate.
L’idea è quella di non tracciare mai una linea di separazione fra ciò che è parte scritta e improvvisazione. Nelle parti scritte usiamo molto quella parte di imprecisione tipica della scrittura musicale per poterla interpretare in modo libero – ma sempre coerente all’idea compositiva – allo stesso tempo nelle parti destinate all’improvvisazione sfruttiamo l’idea iniziale per portare il viaggio sonoro negli spazi che più ci interessano in quel preciso istante. Spesso le parti scritte possono diventare parzialmente improvvisate e viceversa molte idee improvvisate diventano nel tempo elementi fissi. Sostanzialmente non c’è davvero una parte più importante tra scrittura e improvvisazione.

L’empatia ed il rapporto umano tra i musicisti coinvolti resta l’elemento imprescindibile per la riuscita del progetto?

Con NovoTono abbiamo lavorato per molti lunghi anni prima di proporci al pubblico e continuiamo a lavorare a fondo, questo perché ci interessa sempre capire chi siamo davvero, potremmo dire- approfondisce Ferrari – che ci piace trovare quello che dell’uomo c’è nell’arte che fa, il che sembra la cosa più semplice e naturale, ma in realtà è davvero complicato. Bisogna conoscere quanti più linguaggi musicali possibili, approfondire, elaborare per poi dimenticare ciò che si è imparato per poter suonare liberamente, ed avere una tecnica strumentale e un suono che supporti le proprie idee». Ma non solo. «Occorre anche ascoltare, per poi approfondire la conoscenza di se stessi anche al di là della musica, sapersi mettere in relazione con gli altri e saper lavorare davvero in interplay, in un lavoro continuo che richiede anni di studio.
Per fare qualcosa di vero l’unico mezzo è essere se stessi e questo, come detto, è davvero un grosso e lungo lavoro».
IL progetto prevede ulteriori sviluppi?
Abbiamo tante cose in cantiere che si definiranno nel tempo; come NovoTono stiamo lavorando da parecchi mesi ad una nuova idea progettuale, credo entreremo in studio di registrazione nella seconda metà del 2022.
Stiamo anche confrontandoci con molti artisti di tutte le estrazioni, musicisti e non, per poter crescere e non fossilizzarci : fermarsi sulle proprie convinzioni e conoscenze crediamo sia davvero perdente.

John Axelrod: La mia idea di orchestra democratica, grazie alla lezione di Bernstein

John Axelrod è oggi uno dei più interessanti direttori d’orchestra. Musicista di grande prestigio e cultura, si è formato in particolare sotto la direzione di Leonard Bernstein da cui ha appreso non solo la pratica direttoriale ma quella relativa alla comunicazione. Ed è questo il punto forte di Axelrod: la sua vena comunicativa, per cui è impressionante come le sue interpretazioni risultino sempre intense e perfette nell’esecuzione. Frutto di un giusto equilibrio fra musicisti. Lo abbiamo incontrato a Salerno presso il Teatro Verdi dopo uno dei concerti della tournée estiva dell’Orchestra nazionale della Rai. Nei giorni 5 e 6 settembre Axelrod dirigerà la Philharmonia Orchestra nei due concerti inaugurali (dal titolo Luci immaginarie), a Torino e a Milano, di MiTo settembre musica.

John Axelrod, mi può parlare di Leonard Bernstein?
Bernstein aveva una personalità molto speciale. Come professore era il migliore di tutti, non solo perché era un grande divulgatore nei programmi televisivi, ma perché riusciva ad arrivare a tutti noi studenti, a noi musicisti. Io sono stato suo allievo a Houston che è la mia città, dove realizzò A Quiet Place la sua ultima opera andata in scena nel 1983 e ho avuto l’opportunità di studiare assieme a lui per tre mesi. Avevo paura di non essere capace, di non essere come lui. Bernstein lo capì e mi disse: «Tu sei direttore d’orchestra perché ami molto le persone e lo strumento del direttore d’orchestra sono i musicisti». Era un umanista, non un autocratico o un director dictator.

Leonard Bernstein nel 1973 (foto di Allan Warren)

Lui era un musicista profondamente umano.
Sì, lo era. Veniva da una famiglia ebraica, era un uomo dotato di grande empatia, intelligente, saggio. Una espressione che usava spesso era: «Ci sono due tipi di musica, una positiva e una negativa. Quando suoniamo la musica e la eseguiamo bene, allora la vita è bella». Ed aveva ragione, non solo nel suonare bene la musica classica, ma il jazz, il pop, il rock. Una fortuna avere avuto da lui questo insegnamento: è stato molto importante, un grande regalo per la vita.

È vero quello che dice, perché si percepisce questa sua dimensione di comunicatore, dagli orchestrali al pubblico, ed è una dote che non tutti i direttori hanno.
La comunicazione è l’elemento più importante anche per l’educazione e poi conta molto l’unità, perché la musica è una somma di parti individuali. Per me tutto ciò è una filosofia politica e l’orchestra deve essere un luogo democratico.

Infatti Bernstein è stato sicuramente uno dei pochi, se non il primo vero direttore democratico.
Lui ha iniziato a dirigere dagli anni Quaranta quando c’era una forte tendenza autocratica e il direttore d’orchestra era uno specchio della leadership nel mondo. Si dirigeva da director dictator come Arturo Toscanini, che non faceva altro che rispecchiare quello che succedeva nel mondo. Le cose sono poi cambiate, sono nati i sindacati per la tutela degli orchestrali e dei musicisti. E in tutto questo Bernstein è stato esemplare, è stato contrario all’autocrazia direttoriale. Lui era quasi come John Kennedy: infatti compose la Sinfonia n. 3 Kaddish in memoria dell’assassinio del presidente. Insomma, Bernstein era democratico e aperto. E fu messo duramente alla prova durante il periodo del maccartismo. Il suo esempio è stato fondamentale proprio per rendere l’orchestra un luogo democratico e questo ha permesso l’ingresso delle donne.

Ma c’è ancora qualcuno che non vuole le donne in orchestra…
Questo accade perché stiamo vivendo un nuovo periodo di autocrazia nel mondo e quindi oggi viene considerata importante la visione del direttore d’orchestra nel senso della leadership. Così come però è importante, in questa figura, la fusione di leader e di manager: ci sono direttori come Riccardo Chailly, Riccardo Muti, Daniele Rustioni che riescono a ricoprire questo ruolo e garantiscono democrazia all’orchestra. Trovo stupido poi chi ancora continua a sostenere la differenza di genere nella vita come nella direzione d’orchestra.

Lei come si sente e come vive questi tempi?
Naturalmente seguo la scuola di Bernstein, è evidente. Aveva ragione, io amo le persone. Stasera (a Salerno ndr) mi ero reso conto che per il caldo una musicista stava soffrendo e le ho quindi portato dell’acqua per farla stare meglio.

Un gesto encomiabile che cancella quella idea che la musica classica deve essere seria, rigida, difficile. Perché succede questo?
È importante sapere che la sala è come una chiesa, pensiamo solo al silenzio che vi deve essere durante un concerto, ad esempio. Tutto questo serve a sentire la spiritualità. Se lei ci pensa, tranne questa sera che fa caldo, l’orchestrale maschio indossa il frac che è la sua divisa da lunghissimo tempo. Due, sono le divise che nel corso del tempo non sono mai cambiate: quella dell’orchestrale e quella del sacerdote. In tempi più antichi il musicista era considerato malissimo a livello sociale. Dopo il 1650, la situazione è migliorata, nel ruolo che aveva nella società. Durante l’epoca di Haydn, di Mozart, e perfino di Beethoven, il musicista era a servizio dell’aristocrazia e quindi doveva avere un abbigliamento che fosse conforme a quello del pubblico che ascoltava i concerti. Lo stesso è successo nell’Ottocento quando gli spettatori maschi indossavano il frac e anche il musicista ha iniziato ad indossarlo. Dopo Liszt, dopo Wagner, dopo Verdi, il ruolo del musicista è decisamente cambiato: è diventato l’eroe. Non più quindi l’artista che serve il pubblico. Il musicista a questo punto diventa il dominatore della scena e il pubblico ne vive il fascino. Come ad esempio succede oggi in un concerto con un grande tenore, anche se succedeva ieri anche con Liszt. Oggi il direttore d’orchestra è posto su una pedana, è al di sopra di tutti. Questo dà la sensazione di stare più vicini al Paradiso.

Anche lei prova questa sensazione quando dirige?
No, assolutamente, io sento il Paradiso e la Terra, il bene e il male e come Buddha sento l’universo di tutto.

Lei ha scritto un libro su Stradivari, ce ne parli.
In verità ho scritto un libro nel quale ho studiato, ho cercato il motivo del dilagare del mercato degli strumenti musicali rari, degli Stradivari, appunto. Cosa ho scoperto? Che questo mercato è un settore più importante di quello delle criptovalute!

Nella foto: John Axelrod (dal sito di MiTo Settembre musica)

Enrico Galiano: La scuola deve essere un luogo dove i ragazzi stanno anche bene

Il nuovo libro dell’insegnante e scrittore Enrico Galiano, Scuola di felicità per eterni ripetenti, è appena uscito ed è già in odore di ristampa. Anche se questa volta non si tratta di un romanzo ma di un saggio in parte autobiografico, scritto provando a mettersi dall’altra parte del banco «per ascoltare le lezioni che ci possono dare i più giovani». Pubblicato da Garzanti si articola in 21 piccole lezioni sullo scegliere, sul coraggio, sulla libertà, sul rispetto, sulla pace. E proprio su questo tema: scegliere e costruire la pace Galiano è intervenuto  il 3 settembre al Festival di Emergency a Reggio Emilia in un incontro dal titolo Make art not war. E il 15 settembre sarà a Pordenonelegge coinvolgendo anche le scuole

Gino Strada diceva che la guerra è disumana. Potremmo dire che l’arte è l’esatto opposto dacché ci parla di vita e di valori umani universali. Che ne pensa Galiano da scrittore e da insegnante?
Quando vinse il Nobel, quasi schermendosi Montale disse: «Io per tutta la vita ho scritto poesie. Non ho fatto niente di speciale, però scrivendo poesia non ho mai fatto male a nessuno». E già questo mi sembra un fatto importante. L’arte può impedirti di fare male a qualcuno. Nell’attuale momento storico mi sembra importante. E poi certo il valore dell’arte è anche quello educativo. Io lo vedo per esempio nella vita spicciola quotidiana a scuola. I ragazzi che hanno avuto la fortuna di crescere in ambienti familiari dove circola arte e dove circola letteratura sono molto spesso più propensi al dialogo e non al conflitto a tutti i costi. Anche questo mi sembra un aspetto significativo

L’arte può essere uno strumento di resistenza, mi riferisco a uno dei tanti esempi che si possono fare. Tra il 1992 e il 1996 a Sarajevo ci fu un tripudio di spettacoli, di mostre, nonostante la situazione (ne ha scritto Andrea Caira per Left), come se fosse un’esigenza profonda per resistere in tempo di guerra. Che ne pensi?
Ti rendi conto quanto l’arte sia un’esigenza primaria solo quando qualcuno te la vuole togliere. Quando ce l’hai lì sempre a portata di mano… invece… Io avevo letto la stessa cosa all’indomani della fine della guerra in Kosovo, quando tantissimi giovani si sono trasferiti a Pristina in una città bombardata, distrutta, l’hanno resa anche nel corso di poco tempo una città dei giovani in Europa, dove tutto è più bello, dove c’è più freschezza, dove c’è più vitalità.

Dall’altra parte i regimi totalitari ma anche quelli fondamentalisti odiano l’arte.
Anche la mafia….

Penso ai Budda di Bamiyan distrutti dai talebani, ma si può pensare anche all’Isis, alla distruzione del patrimonio iracheno e siriano. Cosa non sopportano dell’arte?
Io farei una riflessione sulle parole, esiste un contrario di arte? Io credo che il contrario di arte sia rassegnazione, esprime ciò che arte non è. E sia i regimi totalitari, oppure come stavo dicendo la logica mafiosa, si basano sulla rassegnazione del popolo.Le persone devono essere rassegnate per poterle poi assoggettare meglio e appunto qualunque manifestazione artistica che sia l’opposto della rassegnazione è vista come il nemico, come qualcosa che va sfregiato o addirittura distrutto.

Avvicinare i ragazzi al nostro patrimonio artistico è anche un modo per avvicinarsi a una finestra sul futuro. Noi abbiamo uno straordinario articolo 9 della Costituzione, veramente rivoluzionario…

E’ un po’ come la storia delle finestre rotte. Se tu vivi in un quartiere con delle finestre rotte poi magari ti viene di lanciare sassi verso altre finestre rotte. Quando vivi in un quartiere dove non esistono finestre rotte, hai remore anche a buttare una cartaccia per terra, istintivamente vuoi preservare questa bellezza che trovi intorno a te. Se tu fai crescere un bambino senza arte, senza bellezza lui sarà istintivamente portato a non preservare nessuna bellezza, non sa nemmeno che esiste. Se lo porti da piccolo a vedere la Notte stellata di Van Gogh, se lo porti da piccolo a vedere la torre di Pisa farai crescere il suo desiderio di bellezza e quindi anche il suo desiderio di proteggerla di conservarla di custodirla

Il ruolo della scuola da questo punto di vista?
Il ruolo della scuola è quello di dare a tutti le stesse possibilità. Non tutti nascono in famiglie in cui puoi andare a vedere la Notte stellata. Non tutti se lo possono permettere culturalmente, la scuola ci serve proprio a questo. A permettere proprio a chi non può di mettere al primo posto questo sentimento. Non può essere più come nell’800 un posto dove vai a reperire informazioni che poi ti serviranno nel posto del lavoro. Ormai queste cose non funzionano più. Si informazioni nel mondo della scuola ce ne sono fin troppe. La scuola ha tutt’altro ruolo rispetto al passato, ha il ruolo di aiutare ogni bambino, ragazzo o ragazza a riconoscere la bellezza e a difenderla.

In questo senso il lavoro dell’insegnante è anche creativo. Tu ti sei inventato delle forme di comunicazione diverse da quelle istituzionali e hai avuto un grande successo usando i social network, i nuovi media che sono più vicini ai ragazzi, è necessario anche da parte degli insegnanti per rendere più saldo e più forte il rapporto con i ragazzi?
E’ necessario fare questi corsi di “nuove lingue”. I linguaggi in cui si esprimono gli adolescenti sono diversi dai nostri e i tentativi che faccio io sono tentativi di parlare una lingua che per me magari è un po’ straniera, mentre per loro magari è una lingua madre. Bisogna poter comunicare, va trovato un modo per comunicare insieme, per poter trovare un punto di incontro. Poi va demandato alla sensibilità di ogni insegnante. Ognuno deve seguire anche le cose più congeniali altrimenti diventa scimmiottare e può diventare molto pericoloso.

Ma hai anche inventato la web serie Cose da prof che ha fatto venti milioni di visualizzazioni. Giusto?
Sì ormai per me è giurassico questa cosa qua si parla degli anni 2015-2018 pre covid, pre tik tok, un mondo che mi ha aiutato molto ad arrivare ad oggi. Ma molte carte sono state cambiate in tavola. Ci sono nuovi mezzi, nuovi social. Sono andato anche su Tik tok per cercare di capire come si usa, è una fatica. Immagino che con gli anni lo sarà sempre più, non è semplicissimo ma è anche divertente, dai diciamo.

Ma tu hai mutuato anche pratiche dalla Beat generation, e di Ferlinghetti che bombardava le città di poesie. Ho letto che sei stato fautore di poetiteppisti con flash mob di studenti, che portano la poesia nelle città.
A proposito di difendere la bellezza, l’idea era quella di far portare la poesia fuori dalla scuola. Poi questo flash mob è stato emulato da tanti colleghi che andavano in giro per l’Italia, attaccavano queste poesie sulle macchine, sulle vetrine, sui bancomat, è stato un modo per far vedere che certi versi di poeti anche di canzoni possono uscire dalla polvere del libro ed entrare nelle nostre case, nelle nostre vite.

Come si compone in questo quadro la tua narrativa, anche quello è uno strumento per arrivare ai giovani? Tu sei seguitissimo.
Forse è lì che arrivo più lontano perché attraverso i libri e le storie porto quello che vedo. Io ho una grande passione per quel mondo magico che sono gli adolescenti. E soprattutto ho una grande curiosità, voglio esplorarlo nei libri e nelle storie porto un volto di cui non si parla tanto. Nel senso che gli adolescenti fanno notizia quando fanno qualcosa di male, quando ci sono notizie di cronaca. Ma io voglio raccontare anche un’altra faccia. Le paure, i bisogni degli adolescenti, il fatto che a volte urlino e noi non li sentiamo. Provare a sentire cosa ci urlano.

La Rete degli studenti medi ha fatto una ricerca con il supporto della Spi Cgil che s’intitola “Chiedimi come sto”. I giovani pretendono maggior attenzione alla loro salute mentale. Cosa ne pensai?
Insieme al tema dell’arredo scolastico che andrebbe aggiornato, insieme al tema del reclutamento degli insegnanti che andrebbe rivoltato come un calzino, un altro tema che mi sta molto a cuore è quello della presenza di uno psicologo in ogni scuola e della formazione degli insegnanti riguardo gli aspetti della psicologia degli adolescenti. Non è più procrastinabile questa cosa. C’è una percentuale sempre crescente di Hikikomori, ragazzi che si chiudono in casa e non escono per mesi , i disturbi dell’alimentazione ormai cominciano a 13 anni, è una roba che fa paura, così come la dispersione scolastica ai massimi livelli Ocse. Mi pare evidente che stiano male. E cosa vogliamo fare? Continuare a pensare solo alle declinazioni, ai monomi e polinomi o iniziare a pensare al loro benessere e alla loro salute mentale? La scuola deve essere un luogo dove i ragazzi stanno anche bene.

Il 25 settembre rottamiamo draghismo, neoliberismo e logica della guerra

L’Italia ha la grande necessità di ridurre le disuguaglianze, disuguaglianze che sono venute crescendo nella società e sul territorio, spinte dalle leggi non regolate del mercato e dal succedersi delle cosiddette “emergenze”, dalla pandemia alla guerra. Non si tratta più soltanto di differenze riconducibili alla storica questione meridionale, che mantiene tutto il suo peso, ma di disparità sociali e territoriali che attraversano l’intero Paese: tra ricchi e poveri, tra città e campagna, tra costa e entroterra, tra montagna e pianura. Il risultato è che ci sono strati sociali e ambiti territoriali nei quali è minore l’accesso ai diritti e alle opportunità.

Così oggi per tante persone è più difficile frequentare una scuola o un asilo, utilizzare mezzi di trasporto, fruire dei servizi sanitari, trovare un’occupazione, esercitare un mestiere o una professione, fare sport o andare all’università. Tutto ciò contrasta con la nostra Costituzione che afferma l’uguaglianza dei cittadini e stabilisce che la Repubblica è tenuta a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). La politica ufficiale, sostanzialmente piegata all’economia e ai poteri forti, ha fallito su questo, facendo aumentare tali ostacoli anziché rimuoverli. Quindi occorre cambiare rotta.

Ne sa qualcosa il Molise, un territorio piccolo e bello che è l’emblema delle aree interne italiane, vittime sacrificali di politiche che sul lungo periodo hanno privilegiato i poli urbani, industriali e commerciali, trascurando la maggior parte del territorio italiano: campagne e paesi spopolati e marginalizzati, feriti e qualche volta perfino derisi. Non si tratta affatto di disuguaglianze ineluttabili, ma frutto di scelte compiute, di una incapacità del sistema politico di restare dalla parte delle persone, delle comunità locali, dei territori, che infatti hanno reagito con un sentimento sempre più diffuso di sfiducia verso la politica e di allontanamento dalle istituzioni. Ora che ci troviamo di fronte all’ennesimo teatrino dei partiti in vista delle imminenti elezioni politiche, i nodi ritornano al pettine.

Il 25 settembre ci saranno tante liste, quasi tutte orientate al draghismo, al neoliberismo, alle logiche della guerra, del privato e del mercato, responsabili di una società disgregata e disuguale e di un territorio sempre più insidiato e abbandonato. Ecco perché lo scopo primario di chi si impegna nella cultura come nella politica deve essere quello di ridare voce a chi l’ha perduta, riportare al centro chi è finito ai margini non per colpa del destino, ma di chi ha governato fin qui lo Stato e le Regioni: centrodestra o centrosinistra non sono stati in grado di arrestare il processo di declino, tanto meno di invertirlo; incapaci entrambi di lanciare l’idea di un modello alternativo, di giocare un’altra partita: quella della solidarietà al posto della competizione, della giustizia sociale e ambientale al posto degli interessi economici.

Le cosiddette aree interne – campagne e paesi, territori fragili e lontani – possono essere un ambito privilegiato per la sperimentazione di una nuova idea di politica: aree come il Molise dove è più impellente bisogno di rinascita, ricche di una umanità profonda ma stanca, un patrimonio territoriale diffuso ma dimenticato. Territori dove non è difficile incrociare lo sguardo dei giovani in cerca di futuro e quello dei paesi bisognosi di cure. Altro che autonomia differenziata, altro che business dell’energia, altro che presidenzialismo, altro che armi per restare in guerra…

Occorre un reale impegno di pace, una effettiva solidarietà tra regioni, una cura del territorio e un uso sostenibile delle risorse, una vera conversione ecologica dell’economia, uscendo dal fossile e dalla guerra; un rilancio della democrazia e della partecipazione. Un impegno che può essere assicurato con coerenza e credibilità solo da quei soggetti politici che mettono il dito nelle contraddizioni del sistema, cercando di scardinarlo e di sperimentare forme nuove di assistenza, di economia, di cultura, di mobilità, che propongano agli elettori un’alternativa vera, per la pace, l’uguaglianza, i beni comuni.

Su questo terreno regioni come il Molise possono giocare da protagoniste la loro partita, rifiutandosi finalmente di assecondare lo stesso modello, gli stessi partiti e le stesse persone che sono responsabili della loro marginalizzazione. Vediamo se gli elettori sapranno andare oltre il pernicioso schematismo centrodestra-centrosinistra, che spesso ha visto gli stessi politici spostarsi di poco per passare di qua o di là pur di stare al potere e di mantenere status e privilegi. Le stesse definizioni di centrodestra e centrosinistra (con o senza improvvisati terzi poli) sembrano essere funzionali a una partita da giocare tutta al centro, sulla linea di un patologico trasformismo, in difesa di un sistema da non mettere mai in discussione alla radice. Ecco perché è necessario giocare un’altra partita, di scelte radicali (nel senso di andare alla radice, appunto) per aprire una stagione nuova, fatta di proposte alternative e di persone credibili. Sarebbe un bene per l’Italia, per tutti coloro che ormai percepiscono la politica e lo Stato come lontano dai bisogni e dai desideri dei cittadini e dei territori.

 

* L’autore: Rossano Pazzagli è professore all’Università del Molise, dove insegna Storia moderna e Storia del territorio e dell’ambiente. Direttore della Scuola di Paesaggio “Emilio Sereni presso l’Istituto Cervi, fa parte della Società dei Territorialisti e dell’Officina dei Saperi. È candidato al Senato in Molise per Unione popolare con De Magistris.

Vaiolo delle scimmie, la caccia agli untori e quel (brutto) ricordo dei tempi dell’Hiv

Accade nelle Marche, laboratorio politico della destra dove si aspetta con ansia di vedere Giorgia Meloni alla guida del Paese.

Sabato scorso Fabio (chiamiamolo così) è stato contattato dall’Asl. L’anno prima si era sottoposto a un test per l’Hiv (per sicurezza sua e del suo compagno) presso la struttura ospedaliera di Urbino e aveva compilato un questionario in forma anonima. Una gentile voce femminile al telefono gli propone il vaccino per il vaiolo delle scimmie spiegando che secondo i dati a loro disposizione la trasmissione sarebbe molto più facile tra uomo e uomo (è vero, ad oggi gli studi dicono questo).

Fabio risponde di avere una relazione stabile da una anno e quindi di non correre nessun rischio. La gentile voce femminile serafica risponde: «Eh, ma si sa voi come fate». Quel “voi”, ça va sans dire, sta a indicare gli omosessuali, tutti, indistintamente. Del resto per questa destra peggiore di sempre l’omosessualità rientra nelle “devianze” che vorrebbero estirpare, anche se non hanno il coraggio di confessarlo apertamente.

La Regione Marche lo scorso gennaio, dopo 2 anni di pandemia e in piena quarta ondata, non era ancora dotata di un sito regionale per la prenotazione di tamponi o di vaccini. Quando Fabio all’inizio dell’anno ha contratto il Covid è stato rimbalzato da un numero all’altro perché (dopo 2 anni di pandemia globale) perché nessuno sapeva dare i riferimenti per il tracciamento. Fabio è stato chiamato solo dopo un mese dalla sua guarigione.

La ricerca dell’untore invece è velocissima. Troppo appetitoso scovare i malati tra i froci. Il compagno di Fabio, chiamiamolo Alessio, mi dice: «Mi sembra di tornare agli anni 80 e la campagna per l’Hiv e i gay visti come untori».

Non sarà breve, non sarà agevole ma rischiano di riuscirci.

Buon venerdì.

Il nucleare di Calenda? Costa fino a 400 miliardi e non risolve i nostri problemi

Il leader della coalizione Azione-Italia viva Carlo Calenda, e quelli della destra Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, hanno proposto nel loro programma elettorale il ritorno al nucleare. In particolare Calenda propone la costruzione di sette centrali nucleari da 40 Gw totali. Calenda e la destra, però, non hanno volutamente detto due cose. Primo, quanto costa il programma nucleare da loro proposto. Secondo, dove si costruiranno le centrali nucleari.

Come riportato da uno studio della danese Aarhus university sui rischi di progetto delle varie tecnologie per la produzione elettrica, il nucleare è un vero disastro in quanto a costi che lievitano e a ritardi. Dei 180 impianti nucleari censiti dallo studio, per 117,6 Gw di potenza, a fronte d’investimenti iniziali per 459 miliardi di dollari si sono avuti sforamenti per 231 miliardi e per 9 centrali su 10 si è speso più di quanto preventivato.

La centrale nucleare di Flamanville, in Francia, con reattore terza generazione plus da 1,6 Gw, in costruzione dal 2007 e i cui lavori non sono ancora terminati, i costi sono passati da 3,7 miliardi di euro a 19 miliardi di euro. Nella centrale nucleare di Olkiluoto 3 (Ol3) da 1,6 Gw, in Finlandia, il costo è passato da 3 miliardi di euro a 11 miliardi di euro, cifra che non tiene conto degli oneri finanziari. La società Areva è fallita a causa delle perdite economiche del cantiere di Ol3 ed è stata riorganizzata con due nuove newco. A Hinkley Point, Inghilterra, sono in costruzione due reattori da 1,6 Gw l’uno, i lavori non sono terminati, ma i costi sono arrivati a 26 miliardi di sterline ovvero 30 miliardi di euro con un aumento del 50% rispetto alle previsioni.

Il costo medio a consuntivo per 1 Gw di energia nucleare, prendendo a riferimento il costo più basso, è di 7 miliardi di euro mentre quello medio di 10 miliardi di euro. Pertanto il costo a consuntivo per il programma nucleare di Calenda di 40 Gw va da un minimo di 280 miliardi di euro a 400 miliardi. Chi pagherà? in Francia il nucleare è totalmente a carico dello Stato.

Électricité de France (Edf), il colosso dell’energia francese che gestisce le centrali nucleari, dopo una capitalizzazione in borsa pari a 3,1 miliardi di euro e la nazionalizzazione del restante 16% di azioni pari a 9 miliardi di euro, ha subito nel primo semestre 2022 una delle perdite più pesanti della sua storia, 5,3 miliardi di euro. In Francia su 58 reattori nucleari una buona parte sono fermi a causa della corrosione e della siccità (un reattore da 1 Gw necessità di 1.800.000 litri di acqua al minuto per il raffreddamento).

Calenda e Salvini non dicono agli italiani dove prenderanno i soldi per realizzare le loro centrali nucleari. Chi pagherà la gestione delle scorie nucleari e dove realizzeranno le centrali, nonché il deposito di scorie? Vi presentiamo una mappa dove Calenda, Berlusconi, Salvini e Meloni con molta probabilità realizzeranno le loro centrali nucleari.

Per noi di Europa Verde e dell’Alleanza verdi e sinistra non esiste alcun sito compatibile nel nostro Paese a causa della densità della popolazione, della sismicità e della siccità che interessa l’Italia. Lavoreremo per proporre soluzioni più sicure, economiche e rapidamente realizzabili contro quella folle idea di riportare il nucleare in Italia, energia costosa e pericolosa che è stata bocciata con due referendum.

Un’emergenza che dobbiamo affrontare subito è la speculazione sul prezzo del gas che sta portando famiglie e imprese italiane verso il massacro sociale. Il prezzo del gas alla borsa Ttf di Amsterdam il 26 agosto ha raggiunto i 339 euro Mwh, un anno fa il 26 agosto 2021 era 28 euro circa. Ci troviamo di fronte ad una speculazione alimentata anche dalla guerra russa in Ucraina che ha portato ad aumenti inaccettabili, ingiustificati e insostenibili per famiglie e imprese. Se non interverranno provvedimenti urgenti in Italia le bollette rischiano di decuplicare rispetto ad un anno fa. Non possiamo mandare alla disperazione famiglie e far chiudere migliaia di imprese. È necessario prelevare integralmente gli extraprofitti che si sono generati dalla speculazione che da settembre 2021 a giugno 2022 sono stati pari a 50 mld di euro.

Per spiegare cosa sono gli extraprofitti è fondamentale fare degli esempi. La sola Eni nell’ultimo trimestre 2021 ha conseguito un utile del +3.870% e nel primo semestre del 2022 un +670% per un totale di extra profitti di 9 miliardi di euro. Questo accade perchè le società energetiche acquistano il gas con contratti pluriennali sottoscritti anni fa a prezzi fissati, 0,30 centesimi euro metro cubo mentre oggi vendono anche a 1,5 euro mc.
Le società energetiche hanno accumulato un’enorme ricchezza a causa della speculazione, una ricchezza che deve essere restituita a famiglie e imprese direttamente sui loro conti correnti. Il governo aveva previsto un tassazione del 25%, misera, che doveva essere versata entro il 30 giugno 2022. A quella data su 10 miliardi attesi solo 1 mld è stato versato. Per questo abbiamo presentato un esposto alla procura perché se un cittadino non paga le tasse la finanza e l’Agenzia dell’entrate bussano alla loro porta.

La nostra seconda proposta è mettere un tetto al prezzo del gas, 90 euro al mWh, anche nazionale se l’Europa non si deciderà. Il meccanismo può essere quello spagnolo e portoghese, il governo mette la differenza tra il tetto e il prezzo di mercato. Il 29 agosto il prezzo dell’energia in Francia era di 733 euro al mWh, in Italia di 730 euro al mWh, in Spagna e Portogallo 188 euro al Mwh, un costo quattro volte minore rispetto ai Paesi europei.

Terza proposta: sganciare, temporaneamente, il gas dal mercato elettrico per abbassare il prezzo attraverso le energie rinnovabili. Quarta proposta: istituire una fascia gratuita di energia per famiglie e imprese più vulnerabili fino a 1.800 kWh l’anno. Quinta proposta: fornire subito le autorizzazioni per installare in tre anni 60 Gw di rinnovabili che possono sostituire l’equivalente di 15 miliardi di metri cubi di gas. Sesto: stop al trading con il gas in Italia che ha portato nei primi sei mesi del 2022 a esportare 2 miliardi di metri cubi di gas.

In questa fase di emergenza dobbiamo utilizzare le capacità delle infrastrutture energetiche esistenti, ad esempio gli attuali rigassificatori in Italia sono sotto utilizzati perché lavorano al 55%. Il problema che abbiamo di fronte non è la quantità di gas che arriverà in Italia ma quanto lo pagheremo, con il gas liquido i costi aumenteranno di circa il 40%, ecco perché dobbiamo liberarci dalla dipendenza dalle fonti fossili per pagare meno l’energia e dare un contributo alla crisi climatica. Abbiamo bisogno di un piano strategico sul risparmio, l’efficienza energetica e per arrivare nel 2030 al soddisfacimento dell’80% del fabbisogno elettrico dalle rinnovabili per pagare sempre meno l’energia perché la responsabilità di quello che stiamo vivendo si chiamano fonti fossili.

 

* L’autore: Angelo Bonelli è co-portavoce di Europa verde