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Omissione di soccorso: l’agenda Pozzallo

Se qualcuno si poteva aspettare che il confronto di ieri tra Enrico Letta e Giorgia Meloni avrebbe scaldato i cuori o spostato voti probabilmente stamattina sarà deluso. Però ieri abbiamo assistito alla differenza tra la destra e il centrosinistra con il solito nodo in gola, in un confronto tutt’altro che vivace e sorprendente.

Da una parte c’è Meloni nell’incredibile parte di colei che assicura il posizionamento euro-atlantico dell’Italia con Fratelli d’Italia al governo. Giorgia Meloni sa bene che razza di Paese siamo: mentre noi discutiamo ogni ora del giorno di campagna elettorale gran parte degli elettori basano la proprio preferenza sulla sensazione sedimentata nella narrazione generale degli ultimi anni, senza nessuna preoccupazione e nessun sapere di quali siano gli sviluppi particolari. Giorgia Meloni può addirittura fingersi europeista dall’alto della sua posizione consolidata. Letta su questo non la pungola e agevola la legittimazione della recita. Peccato.

Ci sarebbe da capire come sia venuto in mente al segretario del Partito democratico di dire «con Fratoianni e Bonelli abbiamo fatto un accordo per la Costituzione, non faremo un governo». Se il “campo largo” è solo una somma elettorale senza nessun disegno politico non si capisce allora perché lasciare fuori gli altri (M5s, ad esempio). Non è una grade idea rivendere come Comitato di liberazione nazionale un’alleanza elettorale caratterizzata dalle esclusioni.

Giorgia Meloni è Giorgia Meloni, un’insignificante retorica zeppa di niente che mischia cristianesimo, patriottismo, laicità dello Stato lasciando il dubbio che non conosca nemmeno i concetti di cui straparla. È Giorgia Meloni che chiede “più carceri” senza sapere che il pienone nelle celle dipende dall’orrenda legge Bossi-Fini e da questo Stato che certifica come devianza la fragilità e la disperazione. Uno Stato che non vuole usare le misure alternative trovando molto più comodo utilizzare il carcere come sacchetto dell’umido. E sarà peggio.

Significativo (e prevedibile) il passaggio in cui Giorgia Meloni si incarta sull’amore che vorrebbe normare. Meloni: «I bambini hanno bisogno di un padre e una madre». Letta: «No, i bambini hanno bisogno di amore». Meloni: «Lo Stato non norma l’amore». Letta: «Appunto: tu lo stai normando. Stai decidendo quale è amore e quale non è». L’ipocrisia della destra è tutta qui.

Ma il dibattito di ieri certifica ancora una volta che questo tiepido centrosinistra non ha le spalle abbastanza larghe per distinguersi sull’umanità, la pietà e l’amore, appunto. Mentre Meloni dimostra di conoscere ben poco il decreto flussi e le rotte dell’immigrazione, l’Europa si macchia dell’ennesimo reato di omissione di soccorso uccidendo deliberatamente quattro bambini e tre donne lasciati morire di stenti e di sete. Persone che si sfibrano in mezzo al mare mentre Grecia, Malta e Italia (ma anche Cipro e Turchia) lasciano squillare gli allarmi e tappano la bocca alle richieste di aiuto. Ieri era l’occasione per mettere al centro l’Agenda Pozzallo: tendere la mano a chi chiede aiuto. L’immigrazione è il filo su cui cade la destra feroce, il sedicente terzo polo (che nella migliore delle ipotesi sarà il quarto) che ne sa poco e male e su cui ha molto da farsi perdonare il M5s. E invece niente, occasione mancata.

Continua a sentirsi l’insopportabile olezzo dell’agenda Minniti.

(Non vale nemmeno la pena spendere una parola su quell’altro candidato e la sua scenetta del dibattito da imbucato in Dad. La politica è una cosa troppo seria per commentare cose così. Quando le modalità saranno almeno da adulti ascolteremo e commenteremo con piacere)

Buon martedì.

Nella foto: frame del video del confronto tra Enrico Letta e Giorgia Meloni al Corriere Tv, 12 settembre 2022

Cecilia Iannaco: La famiglia e la scuola non svalutino le richieste di aiuto psicologico dei ragazzi

Mentre le scuole stanno riaprendo in tutta Italia, qual è la situazione degli sportelli d’ascolto psicologico? Ne parla Cecilia Iannaco, psicologa e psicoterapeuta esperta di progetti di prevenzione a scuola e socia fondatrice di Netforpp Europa.

Da studentessa che partecipa alla vita della scuola e del giornale scolastico in modo attivo, vedo coetanei vivere situazioni di crisi e di malessere psichico; solo pochi però si rivolgono allo sportello d’ascolto. Lei, dottoressa Iannaco, che dirige da anni sportelli psicologici e progetti di prevenzione, che ne pensa?
La questione è articolata. Rispetto a 10-15 anni fa sono tanti i passi in avanti, non ultimi gli incentivi economici messi a disposizione in tempo di pandemia per implementare, in ambito scolastico, l’attività degli sportelli. Oggi sono più numerosi i ragazzi che si rivolgono a noi. Ciò nonostante, la sfida da vincere è culturale: far percepire ai giovani, in una società molto più volta al fare e alla prestazione che all’essere e all’introspezione, che stare bene significa conservare o ricreare il naturale equilibrio con cui siamo nati, fra lo stato psichico-emotivo e quello fisico. Obiettivo essenziale della psicologia scolastica è dare risposte ad ampio spettro: da individuare e contrastare fenomeni di rischio, a promuovere percorsi di prevenzione strutturati. Da fare da trait d’union fra istituzione scolastica e sistema sanitario presente sul territorio, a condurre colloqui con studenti che in un qualsiasi momento della loro crescita si pongono domande più o meno complesse sul proprio modo di stare al mondo. Obiettivo che si realizza solo lavorando su conoscenze e credenze e cercando di cambiare mentalità.

Confrontandomi con i compagni, so che ciò che scoraggia i giovani è la difficoltà ad avere fiducia nei confronti dello psicologo.
Non hanno sempre torto ad essere scettici. Dare risposte che chiariscano le idee e arricchiscano il mondo dell’adolescente è compito notevole: occorre essere competenti e sensibili. La competenza professionale è certamente imprescindibile per la conoscenza teorica e l’appropriatezza dell’intervento. Ma occorre anche avere la capacità di comprendere la richiesta di aiuto più vera, al di là di ogni generalizzazione sui ragazzi che potrebbe inquinare la disposizione all’ascolto. Non bisogna avere la presunzione di conoscere il mondo adolescenziale seguendo stereotipi e offrendo soluzioni scontate. Il giovane avverte immediatamente di essere “uno dei tanti”, di non essere, lì e in quel tempo, un ragazzo unico, differente da chiunque altro. L’esperienza professionale pregressa esiste e deve esistere perché ci rende senz’altro più abili ma deve anche, paradossalmente, sparire ogni volta per poter comprendere l’adolescente che abbiamo di fronte. È una sfida continua. Abbiamo un’unica occasione, ossia mezz’ora di tempo che decide se il ragazzo farà tesoro di ciò che viene detto, se tornerà, se rimarrà invece scettico o deluso, se consiglierà ai compagni di frequentare lo sportello.

Ciò che manca è anche la certezza di una intimità, di una riservatezza con lo psicologo.
Non mi stupisce affatto. Al di là del fatto che i ragazzi è bene sappiano che per professione abbiamo un obbligo di riservatezza da rispettare, posso ben comprendere una loro ritrosia nei confronti degli operatori. I giovani non sono abituati al rispetto della loro intimità da parte degli adulti. Non è affatto infrequente che sulla bocca di genitori, insegnanti e amici di famiglia passino considerazioni, commenti e informazioni del tutto riservate che riguardano la vita degli adolescenti. Si racconta ad amici e conoscenti dei loro amori, progetti, paure, sconfitte e successi con estrema nonchalance senza chiedersi che ne penserebbero se fossero presenti.

Visto che parliamo di scuola, mi interessa tanto la sua idea secondo cui la sfida da vincere è culturale. Vuole dire che se combattessimo certi modelli sociali i ragazzi sarebbero più invogliati a frequentare lo sportello?
Sì, possiamo dire così. Per quello che l’esperienza mi suggerisce vi sono deterrenti che allontanano i giovani da una ricerca psichica. Può essere un pregiudizio nei confronti della psicologia, può essere l’influenza di un modello sociale particolarmente volto al profitto e al successo. Non ultimo, può fare da deterrente un certo rapporto di identificazione con i genitori da parte di alcuni ragazzi.

Può dirci di più su questi aspetti iniziando dai pregiudizi nei confronti della psicologia?
Si opera un pregiudizio ogniqualvolta si pensi che chi si rivolge allo psicologo scolastico lo faccia perché ha seri problemi di ordine psichico. È falso. Così come è falso pensare che sia da deboli chiedere aiuto. Semmai è vero il contrario. I giovani ci cercano per un’occasione di ascolto in una società sorda alle tematiche interiori e nel farlo dimostrano un’intelligenza sensibile. L’opposto della debolezza. Alcuni vivono stati di ansia più o meno intensi e ne vogliono comprendere le cause. Altri avvertono una “povertà” interiore a cui non sanno dare un nome e sperano in un’occasione di sviluppo. Alcuni cercano un confronto su dinamiche psichiche che li toccano e rispetto alle quali non sanno muoversi; altri arrivano dopo una delusione sentimentale o per dissapori e scontri all’interno della famiglia o del gruppo di amici. In sintesi, lo scopo è comprendere meglio e arricchire la loro vita.

E perché un modello sociale, come dice lei, «particolarmente volto al profitto e al successo», ostacola la fiducia nella psicologia?
Lo stile di vita scolastico, un po’ troppo volto alla prestazione e al successo, che tanti giovani assumono può allontanare dall’incontro con la psicologia. Ovvio che si debba studiare e puntare ad una buona formazione. Ma diventare bravi studenti non può essere a discapito del benessere psichico. Accade invece che la scuola, prima ancora che come luogo di formazione, incontro e socializzazione, venga vissuta in funzione del profitto. Accade che la media dei voti conti più di stare assieme ai compagni e che essere popolari, “vincenti” e considerati dagli altri valga più del comprendere cosa si vive interiormente. Non è raro e non sorprende che in questi casi, in cui i vissuti emotivi vengono soffocati e annullati per lungo tempo, la psiche del giovane reagisca con una sintomatologia manifesta, quali attacchi di panico e disturbi d’ansia. E spesso è solo l’espressione del sintomo che mette in allarme.

E il rapporto con i genitori come può influire?
Il rapporto con i genitori, come del resto quello con gli insegnanti, agisce in maniera incisiva nel promuovere o inibire l’avvicinamento dei ragazzi alla psicologia. Nel passato il rapporto fra vecchie e nuove generazioni era piuttosto conflittuale ed essere adolescenti significava anche opposizione ai pensieri della famiglia. Oggi noto invece che alcuni ragazzi assumono un atteggiamento di vita simile a quello dei genitori. Sono più timorosi del confronto e dello scontro. Ora, c’è da dire che per lo più i genitori sono propensi a che il figlio partecipi a forum, incontri e progetti focalizzati su tematiche psicologiche. In tanti anni mi è capitato solo un paio di volte che le famiglie non dessero il consenso. Tuttavia, anche se non vi è alcuna opposizione, c’è un clima di sottovalutazione, a volte di svalutazione. La questione, di nuovo, è culturale. Molto dipende dall’apertura mentale della famiglia rispetto alla realtà psichica. L’ambiente in cui cresce un bambino può potenziare o mortificare la naturale curiosità; può accrescere o inaridire la sensibilità per la propria realtà interiore. L’ambiente influenza il pensiero e quindi la propensione o meno verso la ricerca psichica. C’è inoltre un aspetto relativamente nuovo che trovo limitante: l’atteggiamento protettivo nei confronti dei genitori che stanno sviluppando alcuni ragazzi. Venire allo sportello significa per questi deludere e far soffrire i genitori. Segni sottili che rischiano di passare inosservati, ma che per noi costituiscono chiavi di lettura preziose.

Il processo culturale a cui allude mi pare che, almeno nella mia generazione, sia in parte già in atto. Cosa possiamo fare a scuola affinché gli interventi siano più proficui e chi chiede aiuto non venga vissuto come “strano”?
Lavorare assieme sulle idee. Prima fra tutte l’idea della prevenzione. E prevenzione si può fare solo se passa l’idea che il malessere psichico non è un tratto del carattere, non è un destino, non è trasmesso geneticamente. Ci si ammala in più o meno gravi situazioni di deprivazione di presenza psichica, ci si ammala vivendo a contatto con familiari ammalati nella psiche che non sono in grado di permettere il naturale sviluppo psichico del bambino e del ragazzo. Una ragazza, spaventata dai suoi stati d’animo, si è espressa parlandomi di ‘tara mentale’. Dobbiamo chiarire le idee per chiarire il linguaggio e viceversa. Altro punto su cui insistere sempre: come ci si può ammalare, ci si può curare e guarire. Esiste la psicoterapia. A scuola non si fa terapia ma se ne può parlare e, parlandone, sconfiggere magari l’idea malcelata di inguaribilità. Mi ripeto, è una sfida di pensiero che, per ovvi motivi, trova nella scuola il luogo di elezione. A scuola si può parlare di sensibilità e sessualità in modo diverso da come sono abituati a fare i ragazzi, si può parlare di realtà non cosciente e di sogni. Non mancano da parte loro né la curiosità né la partecipazione. Ascoltano e scoprono dimensioni che hanno spesso trascurato ma che sanno di possedere. Si tratta di riscoprirle e valorizzarle.

Nella foto: inizio dell’anno scolastico in una scuola di Milano, 12 settembre 2022

L’ostinata ricerca della libertà del popolo del Burkina Faso

«Tu sei quello che a ottobre ha fatto la rivoluzione con noi» Sams’K Le Jah indica Christian quando lo scorge da lontano. Sams’K, musicista leader della rivoluzione del 2014 in Burkina Faso, non esita a riconoscere il regista italiano, cinque mesi dopo gli eventi dell’ottobre. Lo ricorda tra la folla della piazza mentre riprendeva con la sua videocamera i discorsi e le canzoni contro il presidente Blaise Compaoré. E mentre scappava dai lacrimogeni. E dagli spari.

Dopo aver ricevuto una lettera che invitava tutti gli stranieri a lasciare il Paese, il regista e produttore Christian Carmosino Mereu decide di restare. Prende parte alle proteste contro la riforma della Costituzione proposta dal presidente Compaoré per prolungare la propria permanenza al potere oltre il limite stabilito di due mandati.

Una scena del documentario “Il Paese delle persone integre”

Euforia, speranza e rabbia attraversano le immagini che hanno dato vita al documentario Il Paese delle persone integre, patrocinato da Amnesty international, la cui prima mondiale si è tenuta a Venezia il 4 settembre scorso, in occasione delle Notti veneziane, alle Giornate degli autori. È il racconto di un popolo in cerca di libertà attraverso lotte quotidiane che vanno oltre gli eventi della rivoluzione del 2014.

«Volevo decostruire lo stereotipo dell’Africa, che non è bisognosa di assistenza paternalistica, ma di libertà, ostacolata anzitutto dalle aziende straniere che fanno affari e sfruttano. Se i popoli africani fossero padroni delle proprie ricchezze, non avrebbero bisogno di emigrare. È quindi un film politico al di là delle vicende politiche» spiega Carmosino.

Mentre si mette al riparo dagli spari e dagli scontri, alcuni manifestanti vengono a chiamare Christian, esortandolo a riprendere. «Se non tu chi?» si sente dire il regista, unico straniero bianco in piazza. Attira l’attenzione e un gruppo di persone cercano di strappargli di mano il materiale per registrare. Ma altre persone gli vengono in soccorso. Tra questi Yiyé Constant Bazié, che sarà poi attivo nella vita istituzionale del Paese post rivoluzionario, impegnandosi in politica. Constant è uno dei quattro personaggi che l’autore decide di seguire anche nella successiva fase di transizione, entrando nella sua quotidianità: dalla visita al suo ufficio fino alle discussioni politiche al bar con gli amici. «Sono per lo più i miei personaggi che hanno scelto me, con unica eccezione di Ghost, il minatore. Constant mi è venuto in soccorso durante le proteste, Sams’K mi ha riconosciuto e mi ha accolto mesi dopo. Assanata si è semplicemente seduta accanto a me», commenta il regista.

Il rapper Sams’K Le Jah in una scena del documentario “Il Paese delle persone integre”

L’adrenalina del giorno si protrae fino alla notte e per quasi una settimana Carmosino non chiude occhio, preoccupato che possa venire sequestrato il materiale registrato dalle milizie del presidente Compaoré. In strada, anche in periferia, c’è fermento. Ogni notte si siede con lui su una panchina Assanata Ouedraogo, osservando insieme le barricate. «Se pur non in prima linea durante gli scontri, anche le donne hanno protestato – dice Carmosino -. Il secondo giorno di manifestazioni è stato chiamato dalle donne contro il carovita: sono loro a gestire la casa in tutti i sensi, compreso il budget. È stato un altro modo di schierarsi, per denunciare che mentre Compaoré voleva cambiare la Costituzione, venivano ignorate e dimenticate le condizioni di vita del popolo».

Prima tra le barricate e poi nelle case, uffici e bar durante la fase di transizione alla democrazia, la voce del regista si interseca con le voci del popolo burkinabè, in un dialogo costante. Sottolinea infatti il regista: «Non sono la cosiddetta “voce di Dio”, che parla dall’alto e con superiorità. Nel mio documentario io sono un personaggio che incontra altri personaggi. Alla mia voce volevo che gradualmente si sostituisse la loro».

Le scelte di ogni protagonista scandiscono la narrazione, mostrando l’immagine di un Paese pieno di dignità e forza, de Il Paese di persone integre. Il titolo del docufilm, d’altronde, altro non è che la traduzione di Burkina Faso, nome scelto dal rivoluzionario burkinabè Thomas Sankara, che commenta Carmosino «era una figura straordinaria che ha fatto tantissime riforme sociali e avrebbe potute farne tante altre se non fosse stato ucciso proprio da Blaise Compaoré, uno dei mandanti del suo omicidio. L’immagine di Sankara pesa tuttora, ha fatto arrivare in tutti i villaggi la sanità, le scuole, si è occupato di infrastrutture, dighe, ponti ecc. Lui era per un’Africa indipendente». La sua energia rivoluzionaria scuote ancora il Paese, senz’altro tormentato da una crisi umanitaria che mette a dura prova la speranza del popolo burkinabè.

Nonostante il documentario si fermi agli eventi della fase di transizione immediatamente post rivoluzionaria, con il fallito colpo di Stato del maggio 2015 e le elezioni dell’ottobre 2015, che hanno portato alla nomina del nuovo presidente Roch Marc Christian Kaboré, rimane tuttavia una parentesi aperta. Le lotte quotidiane dei singoli protagonisti continuano e danno una chiave di lettura per interpretare gli eventi attuali. «Avevo già realizzato un reportage televisivo l’anno successivo alla rivoluzione. Ma questa volta ho voluto dare una diversa prospettiva per poter avere una reale comprensione», così il regista descrive il proprio approccio narrativo che si esplicita anche come scelta stilistica. Commenta infatti Carmosino: «La rivoluzione, raccontata in bianco e nero, avviene sotto il regime, sotto oppressione della dittatura. Il momento in cui arriva il colore è il momento del vero incontro con i personaggi, in cui lascio spazio alle loro storie. Volevo un nuovo modo di guardare l’Africa. Gli interessi occidentali sono pesanti nel Paese e le persone che danno vita al film hanno una dignità che noi non conosciamo».

Assanata Ouedraogo e suo figlio, in un frame del documentario “Il Paese delle persone integre”

Una dignità che traspare con chiarezza nelle rivendicazioni politiche di Dieudonné Tagnan (detto Ghost), minatore in una miniera d’oro impegnato nella lotta sindacale. «Mi era stato detto che non avrei potuto capire il Burkina Faso, se non avessi compreso la situazione nelle miniere. Così mi sono messo in contatto con Ghost», spiega Carmosino. Un Paese depredato dagli interessi delle multinazionali e dei Paesi stranieri: ancora una volta il regista sottolinea l’urgente bisogno di libertà che il popolo burkinabè reclama ad oggi. «La situazione geopolitica attuale è complicata in Burkina Faso. Il precedente governo non è stato in grado di contrastare il terrorismo. I gruppi estremisti si stanno impadrondendo di ambiti importanti, come del traffico di esseri umani che, passando dal Sahel, non può non passare dal Burkina Faso, verso la Libia. Inoltre le organizzazioni terroristiche stanno cercando di impadronirsi delle miniere» spiega Carmosino.

Il colpo di Stato di inizio anno 2022 in Burkina Faso, compiuto da membri dell’esercito, consegue anche all’incapacità del governo di gestire la sicurezza all’interno del Paese, che sfiora già 2 milioni di sfollati interni in fuga dai villaggi occupati da gruppi legati da Isis e Al Qaeda. Nel frattempo, non sembra apportare miglioramenti la presenza stabile di contingenti militari di altre nazioni, che confermano invece gli interessi economici dei Paesi stranieri in Burkina Faso. «Oggi il popolo burkinabè si trova a lottare contro molteplici oppressori, dalle aziende multinazionali e occidentali agli estremisti religiosi. Tuttavia c’è stato un momento di speranza dopo la rivoluzione che fa sì che ci sia ancora grande forza».

Con delicatezza Carmosino nella sua opera lascia che la sua voce interagisca con la voce di chi ha fatto la rivoluzione e di chi, in forme diverse, cerca ogni giorno, da anni, la libertà. Segue con la videocamera chi lo invita a seguirlo, con umiltà guarda dove gli viene consigliato di guardare. E spegne, con un clic, quando il silenzio e il buio sono la miglior forma di rispetto e riflessione di fronte al dramma di un Paese tormentato. Conclude l’autore: «Noi occidentali dobbiamo abbandonare un approccio paternalistico e aiutare noi stessi: ci dobbiamo occupare dei nostri governi e di come si comportano e favoriscano lo sfruttamento in Africa. Serve un cambio di sguardo, come atto politico».

 

* In alto, un frame del documentario Il Paese delle persone integre di Christian Carmosino Mereu 

Di cosa parliamo quando parliamo di questa destra

In primis smettiamo di chiamarlo centrodestra. Non lo fa nessun giornalista della stampa internazionale: la coalizione che si prepara a vincere le elezioni è destra pura, una destra con Salvini che invoca le ruspe contro i disperati e con Giorgia Meloni che urlaccia ai comizi di Vox. Che la presenza di Berlusconi possa calmierare questo estremismo rivenduto come buon senso è un’illusione che serve a certa stampa italiana per renderli digeribili. Ma non sono digeribili.

Smettiamo anche di spaventarci per gli avvertimenti di Giorgia Meloni o Guido Crosetto: Fratelli d’Italia è un partito che è nato proponendosi come erede del fascismo (e noi no, non pensiamo che il fascismo possa diventare edibile nemmeno nella sua forma modernizzata) ed è un partito che continua ad allevare estremisti. Lo diceva Steve Bannon chiaramente descrivendo Fratelli d’Italia («Fratelli d’Italia è uno dei vecchi partiti fascisti», disse testualmente) e ce lo dicono la fiamma tricolore, quel «Mussolini è stato un buon politico, non ci sono stati altri politici come lui negli ultimi 50 anni» pronunciato dalla giovanissima Meloni e, arrivando al presente, i saluti romani di dirigenti e candidati e militanti di Fratelli d’Italia in occasione della celebrazione del 40esimo anniversario del Movimento sociale italiano.

Se serve altro c’è il braccio teso del consigliere comunale a Ventimiglia Ino Isnardi, ci sono le braccia tese dei tre consiglieri di minoranza – Valeria Amadei di Fratelli di Italia, Francesco Biamonti della Lega e l’indipendente Mauro Siri – a Cogoleto in occasione del Giorno della memoria, ci sono gli slogan ripetuti da diversi candidati (“boia chi molla”, “me ne frego”) e ci sono le divise nostalgiche come quella di Galeazzo Bignami con la svastica al braccio o quella da Ss di Gabrio Vaccarin, consigliere comunale di Nimis.

Volendo vedere c’é anche la vicinanza a organizzazioni che si autodefiniscono neo fasciste come Lealtà azione. Alla loro festa nel 2018 hanno partecipato l’ex eurodeputato Carlo Fidanza e il consigliere comunale di Saronno Alfonso Indelicato, un indipendente eletto nelle liste di FdI. A Monza è stato eletto (e nominato assessore allo Sport) Andrea Arbizzoni, che descrive Lealtà azione come la sua «comunità politica e umana». Nel 2019 a Lodi era diventato segretario cittadino di Fratelli d’Italia Omar Lamparelli, che è anche un militante di Lealtà azione.

Poi ci sarebbero i programmi. Questi giorni di campagna elettorale ci dicono che i temi su cui questa destra vuole costruire la propria credibilità sono il “blocco navale” che gli stessi compagni di partito di Giorgia Meloni riconoscono essere impossibile per legge. Nel programma della coalizione è prevista la «sostituzione dell’attuale reddito di cittadinanza» con «misure più efficaci di inclusione sociale e di politiche attive di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro» senza specificare quali. C’è la Flat tax che oltre a essere palesemente incostituzionale è l’ennesimo regali ai ricchi.

C’è molta confusione sulla soluzione della crisi energetica, con Meloni e Salvini in disaccordo sull’eventuale scostamento di bilancio e con il nucleare come vuota promessa elettorale, soluzione di tutti i mali. Non c’è una posizione precisa sulla guerra in Ucraina, con Salvini e Berlusconi che ogni giorno barcollano su Putin. C’è la leva militare obbligatoria perorata da Salvini. C’è l’ostilità contro l’aborto testimoniata dalla vicinanza di Giorgia Meloni all’associazione ProVita & Famiglia (potranno non abolirlo, gli basterebbe rendere inaccessibile).

Parliamo di questa roba qui. Buon lunedì.

 

* In foto, i consiglieri comunali di Cogoleto che il 27 gennaio del 2021, nel Giorno della Memoria, votarono alcune delibere di seduta facendo il saluto fascista: Valeria Amadei (Fratelli di Italia), Francesco Biamonti (Lega) e Mauro Siri (indipendente). I tre andranno a processo per violazione della legge Mancino

Un nuovo ceto politico per metterci alle spalle le logiche del capitale

L’epoca è segnata da contraddizioni clamorose, le più laceranti forse che abbiano mai segnato la condizione umana. Le società economicamente avanzate sono in grado di spedire navicelle nelle zone più remote della nostra galassia mentre in tanti villaggi dell’Africa milioni di bambini non hanno acqua potabile da bere. Ogni anno finisce nelle discariche 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo, e nelle campagne del mondo i braccianti che lo raccolgono sono pagati con salari da fame, lavorando almeno dieci ore al giorno in condizioni di semischiavitù. In Italia il caporalato, vecchia piaga delle campagne meridionali dei primi decenni del Novecento, non solo è risorto, ma si è diffuso in tutto il Paese. Eppure questo eccesso di cibo è frutto di una agricoltura che incide per il 30% sul riscaldamento climatico, consuma il 70% dell’acqua disponibile, contribuisce a desertificare ogni anno tra 10 e 12 milioni di ettari di suolo fertile del pianeta.

In Occidente e in altre aree del mondo ricco si sono raggiunti alti standard di produttività del lavoro, un elevato reddito medio per abitante, eppure la gran parte degli operai e impiegati lavora ancora come 40 anni fa e tutti vivono in una perenne corsa come se dovessero ancora sfuggire a una condizione di miseria. Questa estate incendi vasti e indomabili hanno devastato i boschi di gran parte dell’Europa, piogge tropicali hanno infuriato anche sui lidi del Mediterraneo, la scarsa portata dei grandi fiumi come il Reno, il Danubio, il Po hanno messo in forse la navigazione interna, le acque del Rodano e della Garonna sono diventate troppo calde per raffreddare i reattori nucleari in Francia. Eppure in questo stesso 2022 gli Stati europei, che già spendono ingenti fortune in armamenti, hanno deciso di accrescerle ancora per ubbidire alla Nato. Armi per continuare a sterminare esseri umani dopo che il Covid 19 ne ha uccisi oltre 6 milioni e mezzo.

Forse non si era mai verificata in tutta la storia umana una divaricazione così drammatica tra le previsioni, i timori, gli ammonimenti degli scienziati per il futuro prossimo della Terra e il comportamento degli Stati. Nessuno sa quali catene di conseguenze catastrofiche può riserbarci lo scioglimento del permafrost ai Poli, nessuno è in grado di prevedere che cosa accadrà ai mari e agli oceani, il 71% della superficie del globo, con l’ulteriore innalzamento della temperatura. Cassandre inascoltate lanciano i loro allarmi mentre i governi continuano nella routine di sempre, come se il Pianeta fosse nelle condizioni di 100 anni fa.

E dunque chiediamoci: quale può essere la ragione ultima, fondamentale, alla base dell’assurdo che sembra essere l’unica forma di razionalità a orientare i gruppi dominanti del nostro tempo? Qual è l’ordine minimo rintracciabile nel caos? Qual è la causa prima che riassume una condotta di quasi tutti gli Stati, contraria a ogni ragionevolezza, irresponsabilmente votata a lavorare per il collasso definitivo della nostra casa comune?

Io credo che la risposta, nella sua essenzialità, sia ben evidente, purché si possegga uno sguardo radicale e una prospettiva storica. Negli ultimi trent’anni i grandi gruppi del capitalismo dei Paesi avanzati hanno vinto una partita storica contro la classe operaia, le organizzazioni sindacali e i partiti che per decenni l’avevano rappresentata e difesa. Nessuna forza sembra oggi in grado di contrastarli. Il capitalismo ha talmente vinto da essere diventato il modo di produzione non solo dei Paesi ex comunisti, come la Russia, ma anche di quelli che si ritengono ancora tali, come la Cina. La diffusione del pensiero unico quale religione totalitaria del nostro tempo costituisce il sigillo di tale universale dominio. Ma l’anima infernale del capitalismo spinge a un processo di accumulazione continua, senza tregua, che divora quotidianamente immani quantità di risorse.

Diventato l’unico modo di produrre e consumare in tutto il pianeta, lo sta divorando. Mentre i gruppi che lo comandano e ne traggono ricchezza e potenza, avendo a disposizione una forza lavoro assoggettata, legislazioni statali di favore, opinione pubblica manipolata dai media, non intendono arretrare di un pollice. Allo stesso modo i gruppi dominanti dei Paesi che sono arrivati dopo quelli europei e americani sono determinati a partecipare alla corsa con non minore voracità. Dunque, i ceti dirigenti di quasi tutti i Paesi del mondo sono in gara, gettati nell’agone competitivo, e ciascuno riconosce un’unica divinità da adorare: la crescita economica. Essi sono simili a robot caricati con un programma del secolo passato. E quale sia il destino delle società umane mantenendo inalterato l’attuale ordine internazionale è facile prevedere, e perfino vedere, se si considera lo scenario di guerra che oggi investe anche l’Europa.

E allora, quale può essere la via d’uscita, lo spiraglio che porta alla salvezza, il bandolo da afferrare per annodare una nuova tela? Allo stato attuale la via appare quanto mai impervia, ma, in linea teorica, non impossibile. Si tratta di un compito gigantesco, certamente, se non si assume il quale, tuttavia, l’umanità avrà un avvenire di catastrofi a catena e di incerta sopravvivenza. La leva su cui appoggiare la nostra forza è quella dello Stato di diritto, una grande conquista della modernità. È il potere pubblico, grazie alla potenza della legge, che può limitare il dominio sfrenato del capitale, regolare il mercato, puntare a un ordine cooperativo internazionale, imporre la pace e la trattativa quale metodo di risoluzione dei conflitti. Ma lo Stato in gran parte dei Paesi sono i partiti. E oggi i partiti son quasi tutti diretti da personale programmato anch’esso con culture del Novecento. Uomini e donne che nulla sanno di ciò che sta accadendo al pianeta, preoccupati di riprodurre se stessi come ceto, di conservare il proprio status imbonendo i cittadini con una perenne campagna elettorale.

Osservate lo spettacolo paradigmatico dell’Italia alla vigilia del voto. Tutti corrono al “centro”, cioé si mettono nella posizione più vantaggiosa per afferrare voti da tutti le parti, senza disturbare i poteri dominanti, e dunque conservando lo status quo. Nel frattempo il governo dimesso continua a mandare armi in Ucraina gettando miliardi nella fucina della guerra. Ma oggi rimanere fermi non significa conservare un equilibrio stabile, significa precipitare. Il mondo, e l’Italia in maniera più specifica, sono su un piano inclinato, se non cercano di risalire la china, rompendo gli attuali assetti catastrofici, franano in basso.

Per tale ragione oggi le formazioni politiche radicali che faticosamente stanno risorgendo sullo scenario politico – come la Nupes di Mélenchon in Francia, e da ultimo l’Unione popolare in Italia – hanno un compito nuovo ed enorme da affrontare, incarnando una delle poche vie d’uscita che l’umanità ha di fronte a sé per evitare l’abisso. Non devono solo mobilitare le masse per imporre un nuovo assetto sociale, devono indicare a tutti i Paesi la via di un nuovo corso politico, che non intenda limitarsi ad attutire la violenza del capitale, ma miri a limitarne il potere e trasformarlo puntando a un assetto cooperativo e solidale delle relazioni internazionali. Relazioni sempre più fra popoli e sempre meno fra Stati.

Sicché appare chiaro che uno spiraglio per approdare non solo a un assetto di equità sociale, ma anche per modificare il rapporto tra modo di produzione ed equilibri ambientali, passa attraverso un grande rinnovamento della scena pubblica. Bisogna sostituire il ceto politico vecchio e parassitario, che oggi sta al centro, diventato ormai, con ogni evidenza, anche pericoloso. Occorre che al più presto arrivi al potere la generazione più minacciata della storia.

Juntarte a Firenze, la danza cubana è senza confini

«Viaggiare al futuro e tornare: è questa la responsabilità di noi scrittori e artisti» afferma Rafael Gonzáles Muñozel, direttore dell’Associazione Hermanos Saìz (Ahs). È un viaggio nel tempo e nello spazio, sorvolando l’oceano da L’Avana fino ad arrivare a Firenze. Da qualche giorno Gonzáles Muñozel è arrivato nel capoluogo toscano e attende con emozione il 10 settembre, quando verrà messo in scena lo spettacolo preparato nel corso del progetto di cooperazione internazionale “Juntarte, la cadena creativa que hace la escena inclusiva” (Arteinsieme, la catena creativa che rende la scena inclusiva), iniziato nel 2021 a Cuba e gestito da Cospe onlus.

Juntos, insieme. Nuovi legami internazionali gettano le basi per il futuro che Gonzáles Muñozel (nella foto sotto), come molti altri artisti, spera per la cultura cubana. Un’arte che dialoghi e a cui sia permesso dialogare con il globale, che crei catene di solidarietà. «È compito di noi artisti alimentare uno spirito collaborativo e solidale; siamo chiamati a trascendere frontiere e a cercare un’unione universale al di là di credi, sistemi e forme di pensare. L’importante è immaginarsi un mondo più umano e vivibile» dice, mentre descrive la vivacità della scena artistica cubana in tutte le sue manifestazioni, tradizionali o moderne che siano. Ma che senz’altro fatica a farsi conoscere. Ed è questo il futuro che sogna, uno scambio che alimenti le connessioni globali oltre che un’interazione locale.

D’altronde in questa direzione si muove il progetto Juntarte che da più di un anno ha unito artisti cubani provenienti da percorsi di ogni tipo, oltre che da diverse aree geografiche di Cuba. Un incontro che ha permesso e sta permettendo un’attenta e progressiva decostruzione di confini sociali e di etichette rigide, lasciando irrompere con nuova potenza il tema della diversità e dell’inclusività nel panorama artistico cubano. Tra gli stessi partecipanti al progetto, molti sono membri della comunità Lgbtiq+ , che hanno apportato nuovi punti di vista capaci di raccontare temi urgenti nell’isola, come dimostra il referendum che si terrà il 25 settembre a Cuba per chiedere l’approvazione di un nuovo Codice della famiglia in grado di garantire maggiori diritti per le donne e la comunità lgbtiq+.

Dopo un’indagine sullo stato dell’arte a Cuba, progetti di vario tipo sono stati esposti e presentati nell’isola, fino ad arrivare oggi in Italia. Dieci danzatori e coreografi della scena contemporanea cubana stanno prendendo parte in questi giorni alla XXIX edizione di Fabbrica Europa, festival promotore dell’intreccio di culture e linguaggi. «Oltre che formare, il mio ruolo era quello di accompagnare gli artisti in un percorso autoriale attraverso il dialogo e lo scambio» racconta Cristina Kristal Rizzo, coreografa di Fabbrica Europa, mentre ricorda le settimane passate a Cuba per il progetto Juntarte. E continua: «È importante essere riusciti a portare in Italia per quest’occasione alcuni dei partecipanti al progetto. Nei miei giorni a Cuba ho potuto percepire il desiderio degli artisti cubani di stringere relazioni più forti con il resto del mondo».

L’embargo ha reso complicato per l’arte cubana (intesa in tutte le sue forme) farsi spazio nella scena culturale internazionale. «Non è che la cultura cubana sia chiusa, ma ci è stato precluso farci conoscere e apprezzare» commenta Gonzáles Muñozel. Le conseguenze dell’embargo si sono fatte sentire più profondamente a seguito della caduta dell’Unione sovietica, causando un periodo di crisi che ha impattato anche nella dimensione artistica e culturale cubana. Ma già da anni, anche prima della suddetta crisi, Cuba si era scontrata con l’isolamento della comunità internazionale. «Dal 1959, con il trionfo della rivoluzione, ogni tentativo di internazionalizzare l’arte locale è stato fortemente ostacolato. La globalizzazione culturale tende a standardizzare prodotti e renderli egemonici. Ciò che non passa e viene legittimato da Hollywood o ai saloni artistici di Miami, per esempio, rimane al margine del panorama artistico globale».

Gonzáles Muñozel cerca le parole giuste per descrivere le difficoltà vissute nel Paese. Parola dopo parola, racconta delle conseguenze della scarsità di materiale, scarsità data dall’alto costo delle importazioni provenienti da Paesi lontani, come la Cina. «Abbiamo pagato le conseguenze dell’embargo, non potendo accedere ai mercati vicini. La scelta di essere un Paese indipendente ha pesato anche in ambito artistico. Le gabbie imposte dalla comunità internazionale hanno avuto impatti forti, ma noi ci siamo appropriati di queste gabbie risignificandole e risemantizzandole» riflette Gonzáles Muñozel.

Per quanto Cristina Kristal Rizzo noti le difficoltà materiali e infrastrutturali del Paese, narra il suo stupore dopo il primo impatto con il mondo culturale cubano: «È stato interessante interfacciarsi con un modo diverso di concepire la produzione artistica. Per noi l’arte è una forma di economia all’interno del sistema capitalista. Per molti di loro non è necessariamente legata al profitto: ho visto artisti con talenti straordinari lavorare per ore e ore senza alcun compenso, capaci di creare un rapporto con la propria arte di una potenza straordinaria. Poi certo ci sono anche dei limiti». La possibilità di svilupparsi e mantenersi per le nuove generazioni si fa sempre più difficile e diviene tanto più urgente creare nuove connessioni con il panorama artistico globale e trovare nuovi modi sostenibili, anche a livello economico, di fare arte. «Il progetto ha permesso a Cospe, Asociaciòn Hermanos Saiz, Centro Oscar Arnulfo Romero (OAR) e altre associazioni di incontrarsi. Abbiamo stretto nuove relazioni di cooperazione con Paesi stranieri, come l’Italia. E inoltre, non meno importante, abbiamo avuto la possibilità di accedere a fondi europei riuscendo in tal modo a portare avanti studi, ricerche, workshop, laboratori ecc.», spiega Gonzáles Muñozel.

Lo scambio previsto da Juntarte non si muove solo su un piano culturale, ma sull’idea stessa di produzione dell’arte, aprendo un varco di possibilità che cerchi di sfidare le difficoltà che gli artisti cubani si trovano a dover affrontare, sostenendo un processo di cambiamento della percezione sia del valore produttivo ed economico che della funzione sociale e politica del settore. Conclude Rafael Gonzáles Muñozel: «Creare legami con la scena artistica globale e internazionalizzare l’arte è per noi una priorità. Vogliamo uno scambio, vogliamo che l’arte cubana possa essere apprezzata globalmente».

I morti che invece non piange nessuno

Il numero di vite rivendicate dal Mediterraneo continua ad aumentare. Mercoledì 7 settembre la Guardia nazionale tunisina ha riferito che le sue navi avevano recuperato altri tre corpi al largo della costa meridionale di Gabes. Le vittime erano state su una barca che trasportava altri quindici migranti quando è stata “intercettata” e riportata in Tunisia.

Dall’inizio di quest’anno, oltre mille persone sono morte o scomparse nel Mediterraneo centrale cercando di raggiungere l’Europa, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

Lo stesso giorno in cui le autorità tunisine hanno recuperato i tre corpi, più a sud nella città di Zarzis, le madri dei migranti scomparsi si sono riunite per chiedere la verità sui loro figli che sono scomparsi ormai da anni, in alcuni casi anche un decennio.

Decine di donne, alcune con i volti dei loro figli stampati sulle loro magliette, agitavano le foto dei loro amori scomparsi. Tra la folla c’erano anche cartelli che dicevano: “Stop alla violenza contro i migranti” e cartelli e magliette con lo slogan “Ferries, not Frontex”.

Per le madri quella marcia in città (che è luogo di partenza per il Mediterraneo) è il solo modo per mantenere viva la memoria dei loro figli e per chiedere risposte.

«Stiamo lottando per ottenere la verità sui nostri figli», ha detto Fatma Kasroui, una madre tunisina in lutto che non ha avuto notizie di suo figlio dal 2011. «Abbiamo bussato alle porte del ministero degli Interni e del ministero degli Affari esteri. Abbiamo organizzato sit-in. Ma non abbiamo avuto risultati. Come possono le autorità tunisine dirci che i nostri figli sono semplicemente scomparsi?».

Il raduno si è svolto 10 anni dopo la tragedia di una barca partita da Sfax con 130 migranti a bordo, diretti in Italia. Solo 56 sono sopravvissuti a quel viaggio. Un decennio dopo, rimangono molti dubbi su quanti siano effettivamente i morti.

L’Ue fornisce aiuti economici alla Tunisia, che è paralizzata dal debito. In cambio, il Paese si impegna a fermare i migranti che partono dalle sue coste, provando a impedire gli arrivi in Europa. Nonostante ciò, il numero di tentativi di attraversamento dei migranti – e delle sparizioni – dalla Tunisia continua ad aumentare.

Il numero di disastri causati da questi tentativi disperati è talmente alto che la Tunisia è a malapena in grado di seppellire i cadaveri. Ci sono due cimiteri di migranti in città, con quasi 1.000 corpi sepolti. Ormai non c’è più spazio.

Troppo facile usare l’immigrazione solo quando sarà un’utile arma d’opposizione contro il prossimo governo di destra. Troppo ipocrita essere “umanitari” a fasi alterna, nei momenti in cui torna utile per la propria battaglia politica. C’è in corso un guerra feroce da anni in cui l’Europa ha il triste ruolo del mandante.

Buon venerdì.

 

Mélenchon a Roma: «Non conosco Conte, sono qui per sostenere Unione popolare»

Mercoledì 7 settembre in una piazza della periferia sud di Roma a poche centinaia di metri dal Comando operativo interforze, la struttura militare più importante delle forze armate del nostro Paese, e poi il giorno successivo in conferenza stampa in un hotel del quartiere Prati, Jean-Luc Mélenchon, leader de La France insoumise e dell’aggregazione Nupes (Nuova unione popolare ecologica e sociale, ndr) che si è avvicinata alle ultime elezioni legislative a trionfare in Francia, è intervenuto in maniera per alcuni sorprendenti nella campagna elettorale italiana.

Della sua visita si parlava da giorni, alcuni media mainstream avevano lasciato intendere che l’arrivo fosse dovuto alla volontà di fare un endorsment al M5s di Conte, ma questo non è accaduto. Mélenchon ci ha tenuto a dire, sia dalla piazza, da cui ha parlato salendo su una sedia, sia poi davanti ai giornalisti e nelle trasmissioni televisive a cui ha partecipato, che la sua venuta era dovuta al fatto che in Italia è presente una lista elettorale il cui programma politico è identico al suo, ossia Unione popolare, guidata da Luigi de Magistris.

Confermando le proprie capacità di conquistare le folle, pur dovendo rivolgersi ai cittadini con l’aiuto di un interprete, quello che viene definito l’astro nascente della sinistra in Europa, nonostante la non giovane età, ha lanciato messaggi inequivocabili partendo da una parola in italiano: “Resistenza”. «Potevo restarmene nel mio letto in Francia mentre i compagni italiani stanno combattendo contro i fascisti?» ha domandato in maniera retorica.

E da lì, in una piazza attenta, a descrivere con cognizione di causa tanto le ragioni della sua amicizia con il portavoce di Unione popolare, la condivisione della battaglia per i beni inalienabili, primo fra tutti l’acqua, la centralità del pubblico e dello Stato, un’idea di Europa in cui non c’è spazio per le discriminazioni, per le “piccole patrie”, per la xenofobia e il razzismo. Un invito a non farsi ingannare né dalle sirene della destra di Meloni, «ve lo so dire perché noi conosciamo bene Marine Le Pen», né tantomeno dalle forze di sistema che non vogliono far altro che conservare i propri privilegi.

Mélenchon ha poi citato il grande patrimonio storico e culturale italiano da cui dichiara di aver appreso tanto: dall’umanesimo, dal movimento operaio e comunista, da Gramsci e da Pasolini. Ha incantato la folla che aveva già dimostrato di apprezzare de Magistris, raccontando di come la sua forza politica, partita dal nulla, sia riuscita, con un lavoro capillare, e certo lungo nel tempo, a conquistare non solo il voto ma anche il desiderio di partecipare alla vita politica dei giovani, delle classi popolari e delle persone più povere, affrontando temi e bisogni reali con parole chiare e senza accettare compromessi.

Il suo appoggio ad Unione popolare è stato da lui presentato come quasi scontato, naturale, considerando questa forza appena nata come fondata sugli stessi principi della Nouvelle union populaire francese. Ma se l’incontro in piazza è stato un momento dedicato a militanti e simpatizzanti – anche se, chi scrive, di persone venute con opinioni diverse per comprendere e ascoltare ne ha incontrate – è stata nell’atmosfera più pacata e puntuale della conferenza stampa di questa mattina che il leader transalpino ha potuto esplicare meglio il proprio pensiero. Reiterando la scelta di sostegno ad Unione popolare operata e grazie anche alle domande che gli sono state rivolte, ha parlato più approfonditamente sia delle aspirazioni della sinistra francese che delle prospettive della sinistra europea.

«Partiamo dai fondamentali – ha detto nel suo intervento introduttivo – la democrazia è dialogo, confronto, scontro a volte, ma spazio in cui si incontrano le opinioni divergenti. Io ricordo l’Italia in cui c’era un grande Partito comunista e una Democrazia cristiana che dibattevano e che rappresentavano due opzioni diverse per il Paese. Oggi, al di là di alcuni accenti, nessuno discute, tutti la pensano alla stessa maniera che è quella del sistema che sta distruggendo il pianeta intero. De Magistris pensa cose diverse, le vuole discutere. Non dico che debbano essere condivise ma per quale motivo nessuno si confronta con lui sui contenuti? Sulle sue proposte? Perché il Pd o il M5S che si dichiarano di sinistra non discutono con Unione popolare? Questa è la fine della democrazia».

E poi parlando del conflitto in Ucraina e condannando senza appello l’invasione russa ha esclamato, uscendo dagli ambiti italiani: «Intanto a me sembra serva maggiore chiarezza. Si abbia il coraggio di dichiarare di volere la pace oppure la guerra totale. Noi siamo sia contro la guerra totale che contro le guerre piccole, per noi la pace si deve ottenere in Ucraina come nei tanti conflitti che l’Occidente ha provocato. Serve coraggio e serve una scelta intelligente. Ma vi pare possibile continuare ad essere governati da incompetenti che prima applicano le sanzioni alla Russia e sei mesi dopo si preoccupano del fatto che queste mettono in ginocchio le economie dei Paesi europei? Non se lo aspettavano? Pensavano che la minaccia delle sanzioni avrebbe interrotto immediatamente l’invasione? Ora siamo nei guai, per colpa di questi incompetenti che non devono essere votati perché non sanno governare».

Una cartina di tornasole che bene illustra il pensiero di Mélenchon, condivisa dal portavoce di Unione popolare, riguarda il tema delle migrazioni: «Affrontare questa questione non è semplice ma servono dei presupposti condivisi. Il primo è che le persone non possono essere semplicemente respinte, il secondo è che il Mediterraneo non è un mare italiano o greco ma riguarda tutto il continente e non può rimanere un’immensa fossa comune nell’indifferenza di tutti i Paesi a partire da quello in cui vivo io fino a quelli nordici o all’Est Europa fascistizzata. Si possono cambiare le cose acquistando consapevolezza».

«Le persone fuggono dal proprio Paese per le guerre che finanziamo – ha aggiunto Mélenchon – a causa dei cambiamenti climatici di cui l’Occidente è principale responsabile e a causa dell’atteggiamento predatorio delle nostre economie nei Paesi nord africani e dell’Africa Sub Sahariana. Ma vi pare possibile che l’Europa decida quanto debbano essere larghe le maglie delle reti per la pesca per i Paesi del Nord Africa, in maniera tale che peschino solo alcuni pesci mentre altri li possono pescare solo le navi dei Paesi ricchi? Inevitabile che anche scelte del genere costringano le persone a migrare. Creiamo le condizioni per cui si possa scegliere di restare nel proprio Paese».

Il leader di Nupes ha poi ricordato come la Francia sia responsabile per la propria storia coloniale di tanti danni nel passato e nel presente. Ha parlato dei diversi Paesi interessati dal colonialismo francese, dal Mali al Chad, al Camerun, al Burkina Faso denunciando le interferenze nella loro vita democratica, le missioni militari a cui si succedevano bruschi ritorni a casa dei soldati senza nessun passaggio parlamentare o dibattito, i colpi di Stato che avvenivano senza che gli stessi servizi francesi impegnati in quei territori sembrassero accorgersene.

«Da francese mi vergogno enormemente della politica dei nostri governi in Africa – ha dichiarato – da francese vorrei che agli abitanti di quei Paesi venisse garantita la libertà di scegliere i propri governi senza interferenze economiche o politiche».

Tanti, insomma, i temi toccati e tante le proposte su cui Mélenchon ha chiesto di discutere partendo dal presupposto che la sinistra in cui lui era nato e cresciuto ha bisogno di rinnovarsi e di comprendere il XXI secolo con tutte le sue contraddizioni. Su una questione ha voluto essere netto: «Non so chi e perché abbia messo in giro la voce che sarei venuto ad appoggiare il signor Conte. Chi lo ha fatto non mi ha interpellato perché sarebbe stato smentito sin dall’inizio. Al Parlamento europeo ci sono state interlocuzioni con alcuni deputati del M5s ma non hanno portato a nulla. Anche loro sono nel sistema, non hanno una bussola e stanno con i potenti con cui hanno governato e con cui continuano a votare leggi anche in campagna elettorale. Non conosco Conte e sono venuto qui perché Luigi de Magistris e le persone che lottano con lui nell’Unione popolare sono credibili e rappresentano la parte migliore del Paese. Siete nati da poco ma avete un grande futuro davanti».

 

Tutto quello che stiamo concedendo a Giorgia Meloni

Per fortuna esistono media come Pagella Politica che si assumono la bega di andare a spulciare il passato, roba che qui da noi risulta indelicata e maleducata – chissà perché – in campagna elettorale. Così abbiamo l’opportunità di riscoprire comodamente che Giorgia Meloni contro le sanzioni alla Russia lo era fin dal 2014, quando dichiarava in Parlamento che quelle sanzioni fossero «inutili e masochiste» perché massacravano il mercato italiano. Perché conta ricordarlo? Perché una frotta di giornalisti inginocchiati (quelli che amano il potere, da qualsiasi parte provenga) oggi è impegnata a dipingere Meloni come la statista responsabile che sgrida Salvini e invece dicevano le stesse identiche cose.

Possiamo comodamente ricordarci quindi che il programma di Fratelli d’Italia per le elezioni europee del 2014 ci diceva che «l’euro e le sue regole si sono purtroppo rivelati un fattore di disgregazione dell’unità europea» e proponeva lo «scioglimento concordato e controllato dell’eurozona». Anche in questo caso lei e Salvini pari sono: accarezzano gli estremismi sperando (e spesso riuscendo) di potere incamerare i voti fingendo poi di normalizzare le posizioni. È un atteggiamento che non ha nulla a che vedere con la politica “matura” che leggiamo in giro. Anche in questo caso – vale la pena sottolinearlo – nessuno ha chiesto a Giorgia Meloni il perché di questa inversione a U, nessuno ha chiesto spiegazioni. Il voltafaccia le è concesso da una stampa collaborazionista anche con i politici più reazionari.

Ha dell’incredibile il fumus intorno all’irruzione sul palco di un attivista Lgbtqia+ salito a sorpresa sul palco durante un comizio di Giorgia Meloni a Cagliari: la leader di Fratelli d’Italia è riuscita a fare la figura della “progressista”. Giorgia Meloni si è opposta alle unioni civili con tutte le sue forze, declama lo slogan della “famiglia tradizionale” evidentemente contro le coppie gay (essendo lei non sposata è evidente che quello sia il suo obiettivo). Eppure Giorgia Meloni è riuscita a uscirne ancora più convincente per l’elettorato medio. Un trionfo di ipocrisia.

Potremmo (e dovremmo) anche ricordarci di Giorgia Meloni che è tutt’altro che “una responsabile energetica” (qui diventano responsabili e seri tutti quelli che sostengono una certa idea). Giorgia Meloni che oggi parla di “ideologia ambientalista” era la stessa che spingeva il referendum contro le trivelle. «Un referendum molto importante per la qualità del nostro ambiente e la difesa del nostro mare», diceva placida nel 2016.

Giorgia Meloni usa la stessa strategia di certo populismo di destra: passa una vita a votare “contro” e a assumere posizioni al limite del complotto per moderarsi improvvisamente nel tentativo di ricostruirsi una credibilità di cui non si è mai preoccupata. E noi, incredibile, glielo permettiamo e ci caschiamo.

Buon giovedì.

La Fondazione Gimbe analizza le proposte sulla sanità dei partiti in campagna elettorale

La pandemia Covid-19 ha progressivamente aumentato la consapevolezza sociale che un sistema sanitario pubblico, equo e universalistico rappresenta un caposaldo della nostra democrazia. «Se tuttavia inizialmente tutte le forze politiche convergevano sulla necessità di rilanciare adeguatamente il Servizio sanitario nazionale (Ssn) – dichiara Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – con la fine dell’emergenza la sanità è “rientrata nei ranghi”, finendo di nuovo relegata ai margini dell’agenda politica». Di fatto, le criticità rilevate nel 2019 dal 4° Rapporto Gimbe sul Servizio sanitario nazionale sono ancora lontane dall’essere risolte e la pandemia, oltre a non aver mollato la presa, inizia a far vedere i suoi effetti a medio-lungo termine: ritardo nell’erogazione di prestazioni sanitarie, impatto del long-Covid, conseguenze sulla salute mentale, depauperamento e demotivazione del personale.

«Tra gestione della pandemia, attuazione del Pnrr, necessità di riforme strutturali, recupero delle prestazioni sanitarie e gestione ordinaria di oltre 130 miliardi di euro di spesa pubblica – spiega il presidente – la prossima legislatura sarà determinante per il destino del Ssn: per questo è indispensabile rimettere la sanità al centro dall’agenda di governo a prescindere dall’esito delle urne, perché il diritto costituzionale alla tutela della salute non può essere ostaggio di ideologie partitiche. Per tali ragioni, abbiamo ripetuto l’esperienza del 2018, realizzando un’analisi indipendente dei programmi elettorali sulle proposte relative a sanità, assistenza socio-sanitaria e ricerca biomedica».

L’analisi è stata condotta sui programmi elettorali depositati dai partiti entro il 14 agosto 2022 ai sensi della L. 165/2017 e pubblicati nella sezione «Elezioni trasparenti» del sito web del Ministero dell’Interno. Sono stati espressamente esclusi dall’analisi i programmi elettorali pubblicati sui siti web dei partiti, oltre che tutti i materiali divulgativi e le dichiarazioni degli esponenti politici.

Si riporta di seguito una sintesi delle proposte avanzate dalle principali coalizioni e schieramenti politici, rimandando al report integrale per la sintesi delle proposte dei partiti e per la valutazione delle singole proposte.

Pandemia Covid-19 e campagna vaccinale. Le proposte sulla gestione della pandemia riguardano interventi parziali: la coalizione di centrodestra punta su comportamenti virtuosi e adeguamenti strutturali. Azione-Italia viva su sanificazione ambientale, percorsi pandemic-free ed equipaggiamenti per le ambulanze; il Partito democratico sui sistemi di aerazione. Per prepararsi a future emergenze sanitarie +Europa e Azione-Italia viva propongono un’Agenzia nazionale di coordinamento e la coalizione di centrodestra di aggiornare i piani pandemici. «Di fatto – commenta Cartabellotta – la gestione della pandemia e della campagna vaccinale rimangono ai margini delle proposte elettorali, nonostante gli organismi internazionali di sanità pubblica suggeriscano a tutti i governi di predisporre piani di preparedness per il prossimo autunno-inverno».

Su pandemia e campagna vaccinale, invece, una pioggia di proposte da numerosi partiti minori e da Italexit per lo più in contrasto con il principio di tutela della salute pubblica: stop a obbligo vaccinale e green-pass, annullamento/risarcimento delle sanzioni amministrative, indennizzi per danni correlati alla vaccinazione, reintegro/risarcimento per i lavoratori sospesi, abolizione dello scudo penale per i medici vaccinatori, oltre all’istituzione di una commissione di inchiesta senza dettagli su metodi di indagine e composizione. 

Salute al centro di tutte le politiche. Solo Alleanza Verdi e Sinistra propone di inserire l’obiettivo “salute in tutte le politiche” e potenziare i servizi di prevenzione e tutela ambientale. 

Governance Stato-Regioni. Posizioni molto differenti che spaziano tra il ritorno alla gestione centrale della Sanità (Movimento 5 Stelle), all’estensione dei poteri esclusivi dello Stato (+Europa, Azione-Italia viva) sino all’attuazione del regionalismo differenziato (coalizione di centrodestra), proposto anche dal Partito democratico, previa definizione di alcune garanzie. Alleanza Verdi e Sinistra, invece, vuole “espellere” la sanità dall’autonomia regionale differenziata. «Seppur con differente enfasi – commenta Cartabellotta – il regionalismo differenziato appare dunque un obiettivo condiviso tra centrodestra e centrosinistra».

Finanziamento pubblico del Ssn. Da +Europa, Azione-Italia viva, Unione popolare la proposta di allinearlo alla media dei Paesi europei, da Italexit e Partito democratico quella di un generico rilancio e da Alleanza Verdi e Sinistra un piano straordinario di investimenti pubblici per l’ammodernamento strutturale e tecnologico della sanità pubblica. Azione-Italia viva propone di accedere al Mes. «Alle forze politiche che intendono rilanciare i fondi per la sanità – commenta Cartabellotta – utile ribadire che bisognerà invertire la tendenza sulla spesa sanitaria nel Def, visto che nell’attuale documento il rapporto spesa sanitaria/Pil decresce sino al 2025 toccando il 6,2%, ovvero al di sotto dei livelli pre-pandemia».

Livelli essenziali di assistenza (Lea). Solo Azione-Italia viva entra nel merito della metodologia di revisione dei Lea al fine di mantenere costantemente aggiornate le prestazioni offerte dal Ssn. Alleanza Sinistra e Verdi, Azione-Italia viva e Movimento 5 Stelle puntano su finanziamento, accessibilità e rimborsabilità delle terapie innovative e avanzate. Azione-Italia viva punta ad espandere i Lea per le malattie rare. Numerose proposte di inserimento nei Lea di nuove malattie o nuovi servizi non sempre in linea con le evidenze scientifiche, o addirittura in netto contrasto. «La classica strategia elettorale – commenta il presidente – che punta esclusivamente a raccogliere voti da specifiche categorie di malati».

Rapporto pubblico-privato. Pochissimi partiti affrontano il tema dell’integrazione pubblico-privato, con proposte generiche (Azione-Italia viva) o finalizzate ad espandere la sanità privata (Impegno civico).

Riduzione degli sprechi. Nessun partito ha formulato un piano organico in tal senso, anche se non mancano le proposte. Per ridurre l’eccesso di prestazioni inappropriate, Azione-Italia viva punta a contrastare l’antibiotico-resistenza e l’inappropriatezza prescrittiva dei farmaci. Per contrastare frodi e abusi Italexit e Movimento 5 Stelle mirano a ridurre le interferenze politiche nelle nomine dei direttori generali. Relativamente ai servizi e alle prestazioni sotto-utilizzate avanzate varie proposte generiche per rilanciare prevenzione e promozione della salute (+Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Azione-Italia viva, Di Maio) e la medicina predittiva (coalizione di centro-destra). Proposte anche per potenziare i servizi di salute mentale (Partito democratico), gli psicologi (Movimento 5 Stelle, Partito democratico) e i servizi per la salute delle donne (Alleanza Verdi e Sinistra). Sul potenziamento dell’assistenza territoriale convergono tutti i principali partiti (Alleanza Verdi e Sinistra, Azione-Italia viva, coalizione di centro-destra, Partito democratico) che, tuttavia, «se da un lato ricalcano spesso gli obiettivi già previsti dalla Missione Salute del Pnrr e dal DM 77/2022, dall’altro non tengono conto sia che la riorganizzazione delle cure primarie rimane ostaggio della riforma sui medici di medicina generale, sia che l’aggiornamento del DM 70/2015 sugli standard ospedalieri è rimasto al palo», precisa Cartabellotta. 

Assistenza socio-sanitaria. Numerosi partiti propongono in maniera generica di potenziare e/o investire sull’assistenza socio-sanitaria per anziani, persone fragili con disabilità e/o non autosufficienti, facendo riferimento all’assistenza domiciliare (+Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Azione-Italia viva), a quella residenziale (+Europa), all’integrazione in rete dei servizi sanitari e sociali (Alleanza Verdi e Sinistra, Azione-Italia viva). Molto numerose le azioni specifiche, ma estremamente frammentate e senza una visione di sistema. Tra le azioni normativo-istituzionali: riforma della non autosufficienza con incremento del finanziamento pubblico (Partito democratico); riforma per unificare, rafforzare e integrare la rete di servizi sociali e sanitari (+Europa); legge delega in tema di disabilità (Movimento 5 Stelle); istituzione del “Dipartimento per la terza età” e del “Garante dei diritti della terza età” (Azione-Italia viva). Propongono l’aumento delle pensioni di invalidità i partiti della coalizione di centrodestra e il Movimento 5 Stelle.

Personale sanitario. Solo +Europa propone di garantire programmazione, formazione, organizzazione e gestione del personale del Ssn con un quadro legislativo e finanziario coerente e incentrato su qualità e merito. Da numerosi partiti proposte generiche sulla necessità di potenziare il personale sanitario (+Europa, coalizione di centrodestra, Italexit). Alleanza Verdi e Sinistra propone l’assunzione di 40 mila operatori in tre anni; Azione-Italia viva-Calenda di semplificare le procedure per il riconoscimento di titoli di studio esteri per tutte le professioni sanitarie. Varie proposte per migliorare contratti e retribuzione (+Europa, Alleanza Verdi e Sinistra, Azione-Italia viva, Italexit, Movimento 5 Stelle). «A fronte di queste lodevoli intenzioni – commenta Cartabellotta – nessun partito, stando ai programmi depositati al Viminale, tiene conto che la prima azione politica per potenziare il capitale umano del Ssn consiste nell’abolizione dei tetti di spesa per il personale». Sui medici di famiglia Alleanza Verdi e Sinistra propongono il contratto dipendente; Italexit un aumento dei contratti di formazione per la medicina generale e il Partito democratico un nuovo “piano di assunzione” di Mmg. Sulle scuole di specializzazione i partiti della coalizione di centrodestra propongono un generico “riordino”; Azione-Italia viva e Partito democratico un contratto specifico di formazione-lavoro che superi il meccanismo delle borse di studio; Italexit di potenziare numero e importo delle borse di studio. A favore dell’abolizione del numero chiuso a medicina Italexit e Alleanza Verdi e Sinistra che lo chiede anche per gli infermieri, oltre al Movimento 5 Stelle, più in generale, per l’accesso all’Università. «Il “numero chiuso” – commenta Cartabellotta – in realtà è un “numero programmato”: la sua abolizione, oltre ad essere difficilmente attuabile per capienza degli atenei e disponibilità di docenti, in assenza di un parallelo incremento delle borse di studio per la specializzazione e per la medicina generale non risolve affatto la carenza di personale ed espande l’imbuto formativo, rischiando peraltro di alimentare il lavoro a basso costo e la fuga dei laureati verso l’estero».

Sanità integrativa. Alleanza Verdi e Sinistra propone di abolire i vantaggi fiscali per polizze assicurative sanitarie e fondi sanitari integrativi.

Informazione istituzionale. +Europa propone di attuare programmi di cultura scientifica nelle scuole e tramite i canali di informazione di massa.

Ricerca biomedica. Azione-Italia viva-Calenda propone di destinare almeno il 3% del Fondo sanitario nazionale alla ricerca, sostenere la filiera delle Scienze della vita e dei dispositivi e rimuovere gli ostacoli burocratici che rendono l’Italia poco attrattiva per le ricerche cliniche. Alleanza Verdi e Sinistra punta a potenziare la ricerca indipendente sui farmaci. Varie le proposte sulla ricerca in generale, senza riferimento specifico alla ricerca biomedica, con focus principale sull’incremento degli investimenti (Alleanza Verdi e Sinistra, coalizione di centro-destra, Di Maio, Movimento 5 Stelle, Partito emocratico).

Ticket. I partiti della coalizione di centrodestra propongono di estendere le prestazioni medico sanitarie esenti da ticket.

Liste di attesa. Numerosi partiti affrontano lo spinoso problema delle liste di attesa, ulteriormente allungate dai ritardi accumulati a causa della pandemia, ma solo due definiscono criteri quantitativi: Azione-Italia viva propone di ridurre entro un anno i tempi di attesa fino ad un massimo di 60 giorni per le prestazioni programmate e di 30 per tutte le altre; il Partito democratico si impegna a dimezzarli entro il 2027. Più genericamente, i partiti della coalizione di centrodestra propongono di ripristinare prestazioni ordinarie e procedure di screening rallentate dalla pandemia e di abbattere i tempi delle liste di attesa. «Nessun partito – commenta Cartabellotta – rileva che le difficoltà a recuperare le prestazioni ritardate a causa della pandemia sono prevalentemente da imputare alla carenza di personale, nonostante lo stanziamento di quasi 1 miliardo di euro e il piano di recupero delle liste di attesa varato dal Ministero della Salute».

Azioni internazionali. +Europa propone di rafforzare le competenze dell’Ue in materia di sanità pubblica con diverse azioni. Numerosi partiti minori e Italexit chiedono l’uscita dell’Italia dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Libertà di scelta terapeutica. Vari partiti minori e Italexit avanzano varie proposte sul tema: ove non ridondanti con norme attualmente in vigore, si tratta per lo più di azioni che contrastano il principio costituzionale di tutela della salute pubblica o di proposte anti-scientifiche.

«A fronte delle complesse sfide sulla sanità pubblica che attendono il nuovo esecutivo – conclude Cartabellotta – il nostro monitoraggio indipendente restituisce un quadro decisamente deludente. Se da un lato alcune tematiche (riforma della sanità territoriale, potenziamento del personale sanitario, superamento delle liste di attesa) sono comuni alle principali coalizioni e schieramenti politici, dall’altro per la combinazione di ideologie partitiche, scarsa attenzione per la sanità e limitata visione di sistema, le proposte sono frammentate, spesso strumentali, non sempre coerenti e senza alcuna valutazione dell’impatto economico. E, cosa ancora più inquietante, nessuna forza politica ha elaborato un adeguato piano di rilancio per la sanità pubblica, coerente con gli investimenti e le riforme del Pnrr, in grado di contrastare la privatizzazione al fine di garantire a tutti i cittadini il diritto costituzionale alla tutela del nostro bene più prezioso: la salute».

Il report “Elezioni politiche 2022. Monitoraggio indipendente dei programmi elettorali: sanità e ricerca biomedica” è disponibile a: www.gimbe.org/elezioni2022 

Buon mercoledì.