Home Blog Pagina 278

Il risiko del nucleare civile tra guerre e tentativi di rilancio

Il nucleare civile è tornato prepotentemente alla ribalta per due aspetti: il primo – decisamente angosciante – riguarda l’eventualità che, in caso di guerra, una centrale nucleare possa essere bombardata, come si teme da settimane per l’impianto nucleare ucraino di Zaporizhzhia. Il secondo aspetto tocca da vicino il tema del Green new deal e quello dell'”indipendenza energetica”. Entrambi gli aspetti presentano elementi di criticità che vale la pena di mettere in luce.

Si può bombardare una centrale nucleare? La risposta a questo semplice ma fondamentale interrogativo è che, secondo le vigenti regole internazionali, non esiste il divieto assoluto di bombardare una centrale nucleare. Il documento a cui fare riferimento risale al 1977 (primo protocollo aggiuntivo della convenzione di Ginevra del 1949) che, all’art. 56, primo comma, stabilisce: «Le centrali elettriche nucleari, non possono essere oggetto di attacco, anche se tali impianti sono obiettivi militari, se tale attacco può causare il rilascio di sostanze pericolose e conseguenti gravi perdite tra la popolazione civile. Parimenti, gli obiettivi militari che si trovano nelle vicinanze di tali impianti, non devono essere attaccati se ciò può causare rilascio di sostanze pericolose e conseguenti gravi perdite tra la popolazione civile». Ma subito dopo, secondo comma dell’art. 56, è scritto che tale imposizione viene meno se «la centrale nucleare fornisce energia elettrica in modo regolare e diretto alle operazioni militari e se l’attacco alla centrale è l’unico modo per porre fine a queste operazioni».

Come si fa a dimostrare che l’elettricità fornita da una centrale nucleare, una volta messa in rete, non vada ad alimentare “operazioni militari”? Da Zaporizhzhia partono varie linee elettriche che alimentano sia il Donbass (dove opera l’esercito russo) sia il territorio dove opera l’esercito ucraino, quindi entrambe le parti in causa potrebbero, legittimamente, invocare il secondo comma sopra richiamato. Resta il fatto che l’esercito ucraino, accusato dai russi di attaccare le loro postazioni poste intorno alla centrale, violerebbe il secondo capoverso del primo comma, mettendo a rischio la popolazione civile. Gli ucraini, dal canto loro, sostengono che siano i russi a bombardare la centrale con l’intento di provocare una catastrofe. Al successivo comma 5 si sollecitano le parti a non collocare obiettivi militari in prossimità di una centrale nucleare (come hanno fatto russi), ma subito dopo si legittima la loro presenza se questa, non avendo parte attiva nel conflitto, ha per solo scopo la difesa dell’impianto (come sostengono i russi). Difficile immaginare che la missione Aiea a Zaporizhzhia possa venire a capo di questa intricata matassa, anche perché la materia fin qui descritta è di competenza dell’Onu, non dell’Aiea che invece è chiamata ad accertare che i materiali nucleari, le apparecchiature e gli impianti esistenti in Ucraina non siano utilizzati in modo tale da favorire alcuno scopo militare-nucleare.

Fuori da questo contesto normativo esistono altri modus operandi, riassumibili in due tipologie: il modello indo-pakistano e il modello israeliano. Il primo consiste nell’accordo stipulato nel 1988 tra India e Pakistan, tutt’ora vigente, dove i due Stati si impegnavano a non svolgere nessuna azione, diretta o indiretta, che potesse distruggere o danneggiare le rispettive installazioni nucleari. L’altro rimanda, come primo atto, alla distruzione del reattore iraqeno di Osirak da parte dell’aviazione israeliana avvenuta il 7 giugno 1981. Il reattore di Osirak non conteneva ancora materiale fissile al pari di due reattori iraniani che l’Iraq tentò di colpire durante la guerra con l’Iran e di quello siriano di Al-Kibar, distrutto da Israele nel 2007. Nel 1991 invece Saddam Hussein lanciò dei missili, per fortuna senza successo, contro il reattore israeliano di Dimona che era operativo, mentre nello stesso anno gli Usa bombardavano il centro nucleare iracheno di Al Tuwaitha in cui erano presenti due reattori di ricerca operativi.

È appena il caso di ricordare che Israele e Stati Uniti non hanno mai ratificato i protocolli aggiuntivi di cui sopra e le conseguenze non sono mancate. Bombardando Osirak, infatti, Israele non aveva solo infranto il tabù che “vietava” di attaccare siti nucleari, ma aveva aperto la strada alla “filosofia” dell’attacco preventivo e “legittimo”, la cui massima espressione si ebbe con la guerra all’Iraq del 2003. Nelle riunioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu del giugno 1981, il rappresentante di Israele dichiarò che «il raid contro il reattore atomico iracheno Osirak era stato un atto di autoconservazione col quale Israele aveva esercitato il suo diritto di autodifesa come inteso nel diritto internazionale e come richiamato nell’Art. 51 della Carta delle Nazioni unite». Sconcerta che a distanza di 45 anni, nel mentre si annoverano ben dieci conferenze di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare, non si sia avviata alcuna revisione dell’art. 56 del primo protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra, tanto più data l’esistenza di un accordo, quello indo-pakistano, che senza troppi giri di parole stabilisce il divieto categorico di colpire qualunque installazione nucleare di tipo civile.

Piccoli reattori crescono. Il rilancio del nucleare civile, che negli Usa è stato pomposamente definito nuclear renaissence, data ormai da qualche anno, ma il suo cammino è accompagnato da segnali contrastanti. Diversamente dagli anni 70-80 del secolo scorso, quando la costruzione dei reattori nucleari era concentrata in Occidente, oggi sono i Paesi orientali (Cina, Corea del Sud, India, con l’aggiunta della Russia) a costruire reattori tradizionali di grossa taglia, mentre in Europa e negli Usa l’attenzione è concentrata sulle cosiddette nuove tecnologie come gli Smr (Small modular reactors) che tanto appassionano diversi uomini politici nostrani, ivi incluso il ministro della Transizione ecologica.

In realtà gli Smr, dal punto di vista dello sfruttamento dell’energia nucleare, non costituiscono né una novità, né una opportunità a portata di mano: dei 72 progetti di Smr censiti dalla Aiea nello yearbook del 2020, molti sono in fase di progettazione concettuale, mentre gli altri non hanno mai superato la fase del prototipo. Di mio posso aggiungere che 7-8 di questi progetti li esaminammo in Enel 40 anni fa, tanto è il tempo trascorso dalle promesse iniziali di certe innovazioni che tali sono rimaste. Se di novità si deve parlare, essa riguarda le modalità di costruzione che, come indicato dalla sigla, sono realizzate per moduli, cioè parti di impianto assemblate in fabbrica e poi montate sul sito dell’impianto allo scopo di accorciare i tempi di costruzione e diminuire i costi. Ciò implica, però, che i reattori abbiano una potenza contenuta come il prototipo della NuScale, recentemente licenziato dalla Nrc (Autorità di sicurezza Usa, nda), che sviluppa appena 77 mWe (megawatt elettrici) per cui, nel caso di potenze più elevate come quelle richieste nella produzione di energia elettrica, viene meno il concetto di economia di scala e quindi la redditività dell’impresa.

Diverso è il caso dei microreattori, sviluppati negli Usa, come il modello “eVinci” della Westinghouse e i prototipi realizzati dall’Argonne national laboratory nell’ambito dei programmi di ricerca del dipartimento dell’Energia. Si tratta di reattori a fissione che usano uranio arricchito fino al 20%; sono moderati a grafite e raffreddati ad elio in circolazione naturale (senza bisogno di pompe) con potenze variabile da 1 a 10 mWe. Il progetto di questi microreattori (detti anche nuclear battery) è ispirato al concetto del “plug and play”, cioè si attacca la spina e si mette in funzione come un normale elettrodomestico. Sono macchine versatili perché ci si può produrre calore per il riscaldamento o acqua potabile; hanno dimensioni contenute (stanno in un normale container da trasporto), la manutenzione è a carico del fabbricante ed hanno tempi di installazione dell’ordine dei mesi. Qui si schiudono orizzonti impensabili per l’energia nucleare se appena la si collocasse nello schema concettuale che molti “esperti” (ambientalisti e non) propugnano come modello di produzione elettrica distribuita sul territorio, simbolicamente rappresentata dalla smart grid, cioè una rete “intelligente” che proprio in virtù di una produzione elettrica non più concentrata in grandi impianti, è in grado di regolare i flussi di energia in modo bidirezionale (dai nodi periferici al centro di una rete elettrica e viceversa). Cosa c’è di più feasible di un microreattore nucleare dal punto di vista funzionale di una smart grid? Ci si può alimentare una fabbrica di medie dimensioni, un piccolo distretto industriale, una stazione di servizio per autoveicoli elettrici, Paesi singoli o consorziati che abbisognano oltre che di energia elettrica, anche di impianti di purificazione dell’acqua, e così via dicendo, fino ad un immaginifico impiego come “reattore di condominio” in grado di fornire anche acqua calda e calore per il riscaldamento.

Con la guerra in Ucraina e le conseguenti sanzioni alla Russia, tutti gli aspetti riguardanti la questione energetica risultano sconvolti. Dal punto di vista economico, il rialzo del prezzo dei combustibili fossili facilita lo sviluppo delle rinnovabili (e per certi versi lo impone come scelta più sensata), ma rimette in gioco anche l’energia nucleare che, apparentemente, vede ridursi il divario sul costo di produzione del kWh rispetto ad altre fonti. Sicuramente i piani formulati in sede internazionale da qui al 2050 (net zero emissions) saranno rivisti: la Germania e i Paesi dell’Est europeo hanno già rimesso in funzione tutte le centrali a carbone e a lignite di cui dispongono per ottemperare temporaneamente al “dogma”dell’indipendenza energetica che sarebbe raggiunta – questo è il messaggio per l’opinione pubblica – con lo sviluppo dell’energia nucleare dato che l’uranio si trova in aree geopolitiche stabili ed affini al punto di vista europeo-occidentale, come il Canada e l’Australia. Ai ritmi attuali di consumo però, ed immaginando che le riserve di questi due Paesi (42% del totale mondiale) siano destinate a rifornire esclusivamente l’occidente, l’uranio canadese ed australiano basterebbe a far funzionare le centrali nucleari europee e del Nord America per appena trenta anni. Giocoforza quindi approvvigionarsi anche da altri Paesi fornitori come la Nigeria e il Kazakhstan che, secondo i canoni occidentali, non possono certo definirsi stabili.

A conti fatti dunque la tesi per cui il nucleare svincolerebbe le economie occidentali da certi fattori di rischio geopolitici non è così convincente, anche perché c’è un altro aspetto sottaciuto dell’attuale mercato dell’uranio che dovrebbe indurre a più ponderate riflessioni: quello per cui l’approvvigionamento di questa materia prima risiede nelle mani di un cartello internazionale. La produzione mondiale di uranio infatti è controllata da quelle che potremmo chiamare «le sette cugine dell’uranio»: sette compagnie che controllano l’85% della produzione mondiale di uranio e appena tre compagnie che sono in grado di fornire i relativi servizi di arricchimento, in un regime di sostanziale monopolio e dunque in grado di condizionare pesantemente i futuri scenari energetici come, del resto, avvenne tanti anni fa per opera delle sette sorelle del petrolio.

In un mondo globalizzato l’indipendenza energetica, specie per un Paese come il nostro, è un wishful thinking (un pio desiderio) che, se messo in pratica a tutti i costi, non farebbe che confermare lo stato di condizionamento in cui versa l’Europa con ripercussioni incalcolabili sulla vita dei suoi cittadini.

Benvenuta catastrofe

I cambiamenti climatici sono qui. La pioggia di sei mesi in un pomeriggio, un sistema temporalesco nato ad ovest della Sardegna che ha attraversato il Tirreno prendendo energia sul mare caldissimo: come risultato ecco i nubifragi torrenziali sul crinale appenninico centrale e le piene drammatiche verso le Marche. Lo scrive Il Meteo.it: «Sono i cambiamenti climatici in atto, con l’eredità della caldissima estate 2022 che, a causa del mare caldo, lascia una possibilità di nubifragi intensi per almeno un altro mese. L’estate 2022 finirà ufficialmente domani con l’arrivo di venti fortissimi, maltempo e un crollo termico diffuso. Ma come visto ieri il rischio nubifragi estivi, a causa del calore accumulato, ci accompagnerà ancora per settimane».

Per ora siamo a 10 persone decedute e 4 dispersi, secondo i Vigli del fuoco che hanno lavorato tutta la notte per salvare centinaia di persone che si sono rifugiate sui tetti per scampare all’acqua. Acqua dappertutto. Acqua e fango cancellano le strade, travolgono cose e persone.

Ora la politica si spremerà in cordoglio e promesse. Eppure ciò che accade nel Marche accade già da tempo nel mondo. Il Pakistan ha un terzo del Paese sommerso dall’acqua, lì le vittime sono più di un migliaio. La catastrofe è già qua mentre la politica fischietta l’ambientalismo per qualche secondo durante i dibattiti, come se fosse un vezzo da mostrare per qualche secondo. L’unico vero conflitto globale è quel cambiamento climatico che alcuni politici, alcuni (per niente autorevoli) scienziati e alcuni pessimi giornali continuano a negare.

Negare la realtà non evita che accada: dovrebbe essere un concetto imparato da piccoli. Negare il cambiamento climatico è criminale al pari del negare una pandemia. Eppure quelli che negano da noi sono venerati come “competenti”. Alla fine, quindi, è anche colpa nostra.

Buon venerdì.

Il Meloni svedese sorpassa i conservatori e sposta a destra l’asse del Paese

Dopo la chiusura delle urne, comincia in Svezia la valvaka: la veglia elettorale, che dirigenti e attivisti dei partiti trascorrono nei rispettivi quartieri generali, ballando (spesso in abito da sera), bevendo e cantando. La festa continua anche quando si delinea il confine tra vincitori e vinti. A quel punto, con qualche certezza in più in tasca, i leader dei partiti arrivano alla spicciolata negli studi della televisione pubblica (Svy) per un primo commento sui risultati.

In mezzo a tanti lustrini e calici e musica, il più sorridente di tutti, la sera di domenica 11 settembre, era Jimmy Åkesson: il quarantatreenne leader dei Democratici di Svezia – partito nato alla fine degli anni Ottanta nel milieu dei gruppi di estrema destra, con molti esponenti incriminati, anche recentemente, per crimini d’odio e atti violenti – ha portato a casa un risultato storico. Non solo il suo partito ha visto crescere la percentuale di consensi del 3,1% rispetto al 2018 (arrivando così al 20,6%), ma ha superato i Conservatori, che scendono al 19,1% (perdendo lo 0,7), privandoli così, dopo decenni, dello scettro di primo partito del centrodestra.

La ripartizione definitiva dei seggi sarà annunciata solo mercoledì, quando verranno conteggiati tutti i voti espressi via posta e quelli degli elettori all’estero; al momento il centrodestra (sempre meno centro e sempre più destra) è in vantaggio di un seggio sulla coalizione di forze che sostengono la prima ministra uscente, la socialdemocratica Magdalena Andersson.

A prescindere dall’esito finale (quale governo sarà formato), il vincitore certo delle elezioni è Jimmy Åkesson. Anche nel caso il centrodestra non riuscisse, per una differenza minima di voti, a formare il governo, i Democratici di Svezia diventeranno ancora più influenti (a livello nazionale, regionale e comunale: in Svezia si vota nello stesso giorno – la seconda domenica di settembre – per tutte e tre le elezioni), ottenendo più posti e di maggior prestigio. Per giunta, anche se il candidato primo ministro del centrodestra in queste elezioni è stato Ulf Kristersson, il leader dei Conservatori, qualche esponente dei Democratici di Svezia già chiede se non dovrebbe essere Åkesson, in quanto leader del partito che ha preso più voti nella coalizione, a rivendicare il ruolo.

Per i Conservatori si tratta di una nemesi. Kristersson si è fatto immortalare in molti manifesti elettorali con il suo cane: mentre lo porta a spasso, lo accarezza, gli parla e così via. In mezzo a tanta cinofilia però il messaggio era uno e uno solo: legge e ordine, ripetuto (così come l’altro slogan: meno tasse) quasi con il pilota automatico, come a voler coprire la mancanza di un programma, e di una visione. Ciò di cui era stato capace Fredrik Reinfeldt, leader conservatore vincitore di due elezioni, nel 2006 e nel 2010. A furia di copiare i Democratici di Svezia (che fanno parte del gruppo europeo dei Conservatori e riformisti, insieme a Fratelli d’Italia di Meloni e allo spagnolo Vox, ndr), Kristersson ha ottenuto di esserne surclassato. Gli altri tre partiti del centrodestra (i Cristianodemocratici e i Liberali) calano entrambi lievemente (-0,9%), attestandosi rispettivamente al 5,4% e al 4,6%, ma esultano, perché capiscono che il vento è girato.

Magdalena Andersson, la prima donna a ricoprire la carica di primo ministro in Svezia, colei che ha impresso una svolta storica alla politica estera e di sicurezza del Paese imboccando il percorso di adesione alla Nato – tema del tutto assente nella campagna elettorale – può, sì, vantare un buon risultato (30,5%, +2,2 rispetto al 2018), ma rischia di non riuscire a formare un governo perché tra i suoi alleati solo i Verdi hanno incrementato i consensi (5,1%, +0,7), smentendo sondaggi che fino a poco tempo fa li davano al di sotto della soglia di sbarramento, che nel sistema svedese, puramente proporzionale, è del 4%. Del resto, il clima non è stato certo protagonista, in queste elezioni.

Il Partito di Centro, che, pur di non appoggiare un governo di centrodestra sostenuto dai populisti, ha rotto già nel 2019 con l’alleanza borghese e ha appoggiato i governi socialdemocratici di minoranza – prima con Löfven e poi con Andersson – è sceso al 6,7% (quasi 2 punti in meno); la sua brillante leader, Annie Lööf, ha dichiarato domenica sera che i voti in uscita sono verosimilmente andati ai Socialdemocratici, sia per l’autorevolezza dimostrata dalla prima donna premier sia perché il partito di Andersson ha assunto posizioni decisamente di centro.

Il Partito della sinistra non esce bene, da queste elezioni. Su assesta sul 6,7% delle preferenze, con un calo dell’1,3% rispetto alle scorse elezioni. Nooshi Dadgostar, leader dal 2020, ha chiarito da tempo che il suo obiettivo è un’alleanza di governo con i Socialdemocratici, non più un semplice appoggio esterno, che pure ha dato frutti importanti, come lo stop alla liberalizzazione dei canoni d’affitto negli alloggi di nuova costruzione e un significativo aumento delle pensioni più basse; risultati ottenuti sfruttando il fatto che i governi socialdemocratici di minoranza susseguitisi dal 2018 dipendevano dai voti del Partito della sinistra. Evidentemente però la determinazione a governare non solo con i Socialdemocratici (neoliberisti e atlantisti) ma anche con il Partito di centro, che si spende molto contro la xenofobia ma in materia di politica economica è assolutamente liberista, non ha convinto l’elettorato di riferimento.

Se sulla Nato il partito di Dadgostar ha tenuto una posizione ferma (pur non ritenendo opportuno uno scioglimento dell’Alleanza atlantica tout-court…), la strategia di rompere i ponti con il comunismo – senza la capacità di distinguere tra esso e lo stalinismo – e proclamarsi di fatto eredi della vera socialdemocrazia svedese è risultata troppo ambigua. Peraltro, né i Socialdemocratici né il Partito di centro hanno alcuna intenzione di accogliere nell’esecutivo il Partito della sinistra.

Il rebus del nuovo governo si scioglierà forse mercoledì o forse molto più avanti; in ogni caso rimarrà il velenoso lascito di una campagna elettorale molto americanizzata. Tra popcorn, musica tecno, falukorv (un particolare wurstel, specialità gastronomica nazionale, molto usato nella propaganda per ostentare la propria “svedesità”) e un’insistenza ossessiva sulla persona dei leader, anziché sui programmi, si è discusso quasi solo di criminalità delle gang giovanili (di immigrati, naturalmente…). Piaga che certamente esiste e alimenta un diffuso senso di insicurezza, ma va studiata e spiegata dati alla mano. Purtroppo è invece sfruttata per normalizzare la xenofobia. Le sparatorie tra gang nei sobborghi degradati sono il risultato delle politiche di quegli stessi partiti (i Socialdemocratici e i Conservatori) che, a livello nazionale come locale, hanno fatto del loro meglio per alimentare la segregazione residenziale (e la disoccupazione) degli immigrati, e ora, tallonati dai Democratici di Svezia, cercano di correre ai ripari, chiedendo pene più severe (anche per i minorenni), più polizia e via dicendo.

I Socialdemocratici ingentiliscono il programma con il richiamo al caro vecchio welfare (la marginalità sociale si contrasta non solo con la repressione, ma anche e innanzitutto con politiche sociali), ma con quale credibilità, dal momento che hanno contribuito attivamente al suo smantellamento e ora propongono, per i sobborghi degradati, criteri di assegnazione degli alloggi su base etnica? Questa ossessione per la criminalità (immigrata) ha finito per relegare in secondo piano i problemi che più stanno a cuore agli e alle svedesi: la sanità, innanzitutto, il welfare in generale e la lotta all’inflazione.

La svolta epocale di queste elezioni – il successo dei Democratici di Svezia, che diventano il secondo partito del Paese dopo essere stati banditi per anni dal salotto buono della politica – ci ricorda una volta di più che inseguire la destra radicale sul suo terreno (con proposte sugli immigrati semplicemente aberranti, formulate non solo, come è ovvio, da Åkesson ma anche dal centrodestra “perbene” e dai Socialdemocratici), lungi dal neutralizzare le spinte estremiste infetta l’intero panorama politico e culturale, perfino in un Paese che della solidarietà e dell’uguaglianza aveva fatto il suo vanto. Figuriamoci in paesi con tradizioni democratiche assai più fragili, come il nostro.

“Vivir bien”, dalla Bolivia il modello per una nuova convivenza sociale

Il concetto andino del Vivir bien è un paradigma innanzitutto biocentrico, perché preserva l’esistenza di tutti gli “esseri viventi”. È una proposta che nasce dalla sapienza dei popoli originari: gli Aymara, i Quechua, i Guaraní. Si crea e si ricrea con il passare del tempo come espressione della dinamica permanente delle culture ancestrali in relazione e conflitto con le dinamiche globali.

Il Vivir bien è una critica ai modelli di civiltà occidentali concepiti a partire dal colonialismo e dal capitalismo, un ripensamento dei modelli di sviluppo della “civiltà del progresso”, che si basano su un costante aumento della produzione e della circolazione dei beni, sulla natura consumistica degli esseri umani rispetto ad altre dimensioni della loro esistenza, sulla natura come fornitore permanente di risorse, vittima incessante dello sfruttamento umano, e sul mercato come regolatore dell’economia.

Il Vivir bien è una parte sostanziale del patto sociale espresso nella Costituzione politica dello Stato del 7 febbraio 2009 che, pur riconoscendo la diversità delle cosmovisioni dei suoi popoli e delle sue nazioni, afferma che: Lo Stato assume e promuove come principi etico-morali della società plurale.
Secondo il Piano nazionale di sviluppo attuato a partire dal 2006 con il primo governo di Evo Morales, Vivir bien è l’accesso e il godimento dei beni materiali e la realizzazione affettiva, soggettiva, intellettuale e spirituale, in armonia con la natura e in comunità con gli altri esseri umani. Un concetto che presuppone l’equilibrio e l’armonia con la Madre Terra, e che stabilisce come l’essere umano, la comunità, la natura e il cosmo siano parte di un tutto.

Il Vivir bien è l’incontro dei popoli, è il rispetto delle differenze, più che della diversità. Non è la tolleranza ma è la valorizzazione dell’identità culturale, il recupero del godimento di una vita basata su valori semplici. Una convivenza comunitaria senza asimmetrie di potere, perché uno non può vivere bene se vive male l’altro. Un’unione dei popoli in una grande famiglia, l’abya yala, dove lavorare nella reciprocità, nella gioia, perché il lavoro è una forma di crescita e non una fonte di guadagno. Dove rimettere al centro la cura, dando priorità alla vita e alla Pachamama, la Madre Terra, che della vita è origine.
Vivir bien non significa vivere meglio. Vivere meglio è un’aspirazione tutta capitalista che sottintende vivere a spese degli altri, sfruttare i propri simili e la terra, saccheggiare le risorse naturali, privatizzare i servizi di base. I popoli indigeni originari propongono di vivere bene per il mondo, in solidarietà, in uguaglianza e in armonia.
Vivir bien è una scelta etica, un modello alternativo di essere nel mondo.

Venti anni di vittorie e sconfitte

Gli eventi della guerra dell’acqua a Cochabamba, in Bolivia, nel 2001, hanno cambiato in modo permanente la traiettoria politica del Paese. Quello che è iniziato come un tentativo di privatizzazione dei servizi idrici nella città di Cochabamba ha portato a una straordinaria e suggestiva dimostrazione di solidarietà e coraggio tra i lavoratori boliviani, che testimonia la forza dei movimenti popolari. Una dimostrazione del potere dei lavoratori sulle imprese e sulle multinazionali orientate al profitto.Per comprendere la guerra dell’acqua, è importante capire come e perché l’acqua sia stata privatizzata in Bolivia. Alla fine del XX secolo, il neoliberismo e le politiche economiche di laissez faire hanno giocato un ruolo considerevole nella politica latinoamericana, incoraggiando il settore privato a rilevare molte industrie che un tempo erano considerate parte del settore pubblico.

Il caso della Bolivia è esemplificativo: le disastrose circostanze finanziarie hanno costretto il governo boliviano a rivolgersi alle organizzazioni monetarie internazionali, in particolare al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. Organizzazioni in gran parte neoliberali, che hanno imposto alla Bolivia la privatizzazione di una serie di industrie nazionali strategiche. Tra queste, l’acqua.
La Banca mondiale riteneva che la privatizzazione in Bolivia avrebbe eliminato la burocrazia corrotta e portato a un aumento della qualità e dell’efficienza dell’industria idrica. In ottemperanza alle pressioni esterne, lo Stato ha pertanto venduto i diritti idrici della città di Cochabamba alla società privata Aguas del Tunari, della statunitense Bechtel Corporations.
La famigerata Legge 2029 ha ufficialmente permesso alla società di applicare prezzi elevatissimi per il diritto all’acqua, divenuta ormai un business nell’intera regione. Una legge che prevedeva persino la vendita di quelle risorse idriche che non avevano mai fatto parte del Servicio municipal de agua potable y alcantarillado (Semapa), autorizzando di fatto i nuovi concessionari a espropriare i sistemi idrici comunali indipendenti, addebitandone l’installazione ai residenti.

Nel giro di pochi mesi molte regioni di Cochabamba hanno visto i prezzi dell’acqua inizialmente raddoppiarsi, per raggiungere poi degli aumenti medi del 350% sulle tariffe minime, di fatto tramutando un bene di prima necessità in uno di lusso.
Il malcontento ha iniziato a crescere tra la popolazione, e a gennaio del 2000 sono iniziate, in modo pacifico, le prime proteste: in una dimostrazione di coraggio e solidarietà, centinaia di migliaia di boliviani, molti dei quali non vivevano neppure a Cochabamba, sono scesi in piazza per chiedere la nazionalizzazione dell’acqua. In particolare, erano contrariati dal fatto che le zone più povere della città non avessero lo stesso accesso all’acqua potabile.

Nel frattempo ai manifestanti si sono uniti i cocaleros, guidati dall’allora membro del Congresso Evo Morales, per chiedere la fine del programma di estirpazione delle coltivazioni di coca. Un’occasione, per il governo, per accusare i manifestanti di essere solo delle pedine nelle mani dei narcos: il ministro dell’Informazione Ronald MacLean Albaroa parlava delle rivolte come di una cospirazione finanziata dai trafficanti di cocaina.
Solo a febbraio le proteste sono diventate violente, quando il governo boliviano ha inviato i militari per disperdere la folla, e la disputa sull’acqua è diventata una vera e propria guerra, con il presidente Hugo Banzer che ha dichiarato lo stato d’assedio.

La violenza dell’esercito contro i manifestanti è diventata sempre più frequente nei due mesi successivi: centinaia di pestaggi e di arresti e 6 morti. In particolare, la morte dello studente diciassettenne Víctor Hugo Daza per mano di un ufficiale militare, ripresa dalle telecamere, è diventata il simbolo della brutalità delle repressioni indette dal governo. Ma i manifestanti sono rimasti fermi e le proteste sono proseguite fino ad aprile dello stesso anno, quando il governo ha finalmente ceduto alle pressioni e ha annullato il contratto con Aguas del Tunari comunicando ai dirigenti che non ne avrebbe potuto garantire la sicurezza personale e abrogando la legge 2029.

La guerra dell’acqua è stata in gran parte un grande successo per i manifestanti: la popolazione è stata in grado di opporsi alla privatizzazione dell’acqua e di sconfiggere efficacemente multinazionali e organizzazioni estremamente potenti. Tuttavia, l’eredità degli eventi di Cochabamba non si è esaurita e la battaglia contro le privatizzazioni è ancora in corso. La crisi di Cochabamba ha creato un senso di solidarietà internazionalista tra i lavoratori, oltre i confini della Bolivia. La lotta contro la privatizzazione ha portato i Boliviani a credere che le proprie azioni potessero portare a un cambiamento reale, anche di fronte alle immense ricchezze straniere. I movimenti popolari, guidati da leader e attivisti sindacali, sono tornati al centro del mondo politico del Paese.

Il governo neoliberale e moderato della Bolivia, lo stesso che aveva permesso le privatizzazioni, è stato rovesciato e nel 2005 è stato eletto presidente Evo Morales, leader sindacale ed ex agricoltore. Uno scenario possibile soprattutto grazie alla dimostrazione di forza popolare nella guerra dell’acqua. Una cultura politica più incentrata sul popolo e sull’azione diretta nel governo. Evo Morales si era già candidato alla presidenza del Paese nel 2002, quando era arrivato secondo, dopo Gonzalo Sánchez de Lozada, e aveva mandato già un segnale importante. Un cocalero Aymara poteva aspirare alla massima carica dello Stato.

Alle elezioni del 2005 Morales ha ottenuto quasi il 54% dei voti: il primo presidente di origine indigena. È stato rieletto alle elezioni del 2009 con il 64,22% dei voti e alle elezioni del 2014 con il 63,36%. È il terzo presidente boliviano nella storia della Repubblica a essere eletto con la maggioranza assoluta dei voti. Rimasto al potere per 14 anni, è uno dei leader più riconosciuti della sinistra latinoamericana. Nel 2008 la rivista Time lo ha inserito tra le 100 persone più potenti del mondo.

Durante il suo mandato, la Bolivia è stata uno dei Paesi con la più alta crescita economica del Sud America, con una crescita media annua del Pil del 5%: il “miracolo economico boliviano”. La povertà estrema in Bolivia è scesa dal 36,7% al 16,8% tra il 2005 e il 2015. Si è registrato anche un miglioramento nella distribuzione del reddito, con l’indice di Gini che è sceso da 0,60 nel 2005 a 0,47 nel 2016, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica boliviano. In termini di istruzione, nel 2006 è stato attuato il piano di alfabetizzazione cubano Yo, sí puedo (Sì, posso), che ha permesso di ridurre il tasso di analfabetismo dal 13,3% del censimento del 2001 al 3,7%. Un dato che, nel 2008, ha portato l’Unesco a dichiarare la Bolivia “Paese senza analfabetismo”. Inoltre, nel 2010, il governo Morales ha approvato la legge sull’istruzione “Avelino Siñani-Elizardo Pérez”, che istituisce un’istruzione gratuita e interculturale.

Dal 2007 al 2014, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il budget stanziato per la salute è aumentato del 173%, rendendo la Bolivia uno dei Paesi sudamericani più impegnati a dare priorità alla salute. L’Organizzazione panamericana della sanità riferisce nel 2015 che le campagne di vaccinazione hanno eliminato o ridotto significativamente la poliomielite, la rosolia e il morbillo. Nel 2017, l’Oms riporta una diminuzione del 50% della mortalità infantile e del 14% della malnutrizione infantile, il tutto nel corso di un decennio. La Costituzione politica della Bolivia del 2009 stabilisce un Sistema sanitario unico che deve essere universale, gratuito, equo, intra-culturale, interculturale, partecipativo, con qualità, calore e controllo sociale (articolo 18).

Il golpe e la rinascita

Il panorama politico della Bolivia ha vissuto dei mesi di intenso fermento, che hanno generato un golpe e uno spaventoso conflitto sociale.
Il 21 febbraio 2016 è una data fondamentale per il futuro politico del Paese: è il giorno in cui il 51,3% degli elettori boliviani, tramite il referendum indotto dal governo del Mas, respinge la proposta di Evo Morales di modificare la Costituzione e correre per il quarto mandato consecutivo (2020-2025). È la prima grande sconfitta per il presidente boliviano, dopo anni di vittorie quasi costanti.

Il 4 dicembre 2018, tuttavia, il Tribunale elettorale supremo conferma la sua eleggibilità: il Presidente potrà ricandidarsi. Il 28 gennaio 2019, in un’elezione primaria senza precedenti, Evo Morales e altri otto candidati dell’opposizione confermano le loro candidature. L’opposizione denuncia che le primarie siano servite solo a dare legittimità alla candidatura del presidente.

Pochi mesi dopo, il 20 ottobre, la giornata elettorale si conclude con lo scandalo dell’interruzione del conteggio dei voti e le affermazioni dell’opposizione secondo cui il voto sarebbe stato modificato per favorire Evo Morales e impedire un secondo turno contro il candidato dell’opposizione ed ex presidente Carlos Mesa. Il 1° novembre, tra un’ondata di proteste sociali e scioperi nelle città che denunciavano brogli, il Tribunale elettorale supremo sancisce la vittoria di Evo Morales al primo turno. Dieci giorni dopo, tuttavia, l’Organizzazione degli stati americani (Osa) pubblica un rapporto preliminare che segnala irregolarità «molto gravi» nel conteggio dei voti.

Evo Morales si dimette dal potere dopo 21 giorni di proteste urbane, la “revolución de los pititas” (dal nome delle piccole funi con cui i manifestanti di destra bloccavano le strade), e soprattutto dopo la rivolta della polizia e il “suggerimento” delle Forze armate di lasciare l’incarico. Il 12 novembre 2019, in una concitata sessione del Parlamento, peraltro senza quorum, la seconda vicepresidente del Senato, Jeanine Áñez, si autoproclama presidente di transizione, appoggiata dalla Corte. Evo Morales fugge in Messico per chiedere asilo. È il colpo di Stato.

Il 24 novembre, Áñez firma una legge che indice nuove elezioni, inizialmente previste per il 3 maggio 2020. Tra il 20 ottobre e il 27 novembre, un totale di 32 persone ha perso la vita in violenti scontri e proteste antigovernative a causa delle dure repressioni delle forze dell’ordine. Il 10 dicembre, la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) definisce «massacri» le morti nel quartiere Alteño di Senkata e nella città di Sacaba durante le operazioni militari. Tra le vittime i sostenitori dell’ex presidente Morales.
Nonostante avesse detto più volte che non si sarebbe candidata, il 24 gennaio Jeanine Áñez annuncia la sua candidatura come tentativo di unire le forze che si oppongono a Evo Morales. Sono otto i candidati registrati per partecipare alle nuove elezioni del 3 febbraio 2020: tra questi, l’ex ministro dell’Economia Luis Arce, del partito Movimiento al Socialismo (Mas) di Morales, l’ex presidente Carlos Mesa e la stessa Añez.

Il 21 marzo, il Covid si inserisce nella crisi politica. Il nuovo Tribunale elettorale supremo (Tse) annuncia che, a causa della quarantena pandemica, le elezioni saranno rinviate al 6 settembre. Il 23 luglio il Tse annuncia un ulteriore rinvio delle elezioni al 18 ottobre, con eventuale secondo turno il 29 novembre.
A partire dal 1° agosto, la Centrale dei lavoratori boliviani e vari settori sociali e contadini simpatizzanti dell’ex presidente Morales avviano mobilitazioni e blocchi stradali per chiedere che le elezioni non vengano rinviate. Perciò il 13 agosto, di fronte alle pressioni, Áñez indice finalmente le elezioni per il 18 ottobre. La sua candidatura sarà ritirata di lì a un mese, dopo un sondaggio che indicava chiaramente un netto calo nei consensi.

Il bilancio del governo Áñez è impietoso: più di 100mila posti di lavoro persi in pochi mesi, più di 3 punti percentuali persi in termini di crescita e un aumento vertiginoso dei tassi di povertà. Senza contare la pessima gestione della pandemia: 75 morti ogni 100mila abitanti è lo spaventoso numero che porta la Bolivia al terzo posto al mondo per morti da Covid-19, nonostante dai dati dell’Anagrafe civile i decessi potrebbero essere ancora di più.
La giornata elettorale si svolge domenica 18 ottobre 2020 senza tensioni sostanziali. Nonostante la pandemia, l’affluenza alle urne è dell’87%. La vittoria è incontestabile: il 55,11% dei voti va al Mas. La distanza che separa Arce e Choquehuanca dal principale contendente Carlos Mesa è di circa 20 punti percentuali, ben oltre le aspettative che volevano un testa a testa con la necessità di un secondo turno per determinare il vincitore.

Il 21 settembre a Roma l’incontro con il vicepresidente Choquehuanca

Sarà il vicepresidente della Bolivia, David Choquehuanca (nella foto), a raccontare in Italia l’esperienza politica del Vivir bien e il rapporto tra socialismo e le culture indigene del Paese latinoamericano. L’incontro “Vivir bien, il paradigma del nuovo ordine mondiale”, è in programma il 21 settembre all’Università di Roma Tre (ore 16, Facoltà di giurisprudenza, Aula magna, via Ostiense 159) dove Choquehuanca terrà una lectio magistralis. Partecipano il rettore Massimiliano Fiorucci, l’ambasciatrice boliviana in Italia Sonia Silvia Brito Sandoval, il direttore del dipartimento di Giurisprudenza Antonio Carratta e l’europarlamentare S&D Massimiliano Smeriglio che ha contribuito a organizzare l’incontro.

Nella foto in apertura: la cerimonia per il giuramento del presidente Luis Arce, 8 novembre 2020

 

 

Pablo Echaurren nel mondo misterioso di Neanderthal

Oggetti trovati come ready made, neanderthalensis siamo.
Dalle Fantasticherie di un passeggiatore solitario di Rousseau dovremmo ripartire, con questa voglia di riscoprire il mondo in cui una volta si è passeggiato. L’uomo che si riscopre così anche collezionista di sé stesso. Perché in fondo la prima forma di sensibilità simbolica viene attribuita ad un australopiteco; una linea diretta che darà vita all’homo sapiens. La percezione che consiste nell’aver capito che l’ominino di secoli fa si era trovato tra le mani un minuscolo oggetto, una pietrina con incisa come una faccetta, in quella sperduta regione chiamata Makapansgat, nel sud Africa, e se lo era portato scientemente con sé. Senza sapere oltre. In questa sua volontà si riconosce la prima vera sensibilità che milioni di anni dopo darà vita alle reali forme di arte.

Raccogliere è così conoscenza di ciò che ti circonda, non si può definire onanismo. È cercare nella natura il vero stimolo. Ammirare. Oggi potersi riferire ad un aspetto del mondo antropologico e biologico vuol dire ritrovare le proprie radici, come fermarsi immobili, affascinati, davanti ai riflessi di un coleottero.
Ecco anche Dunchamp che ci torna a far pensare e ci fa tornare indietro, alle nostre radici e origini oscure. Riannoda il pensiero e proietta teorie antiche e modernissime sul piatto della contemporaneità.

Frame del lungometraggio Pablo di Neanderthal di Antonello Matarazzo

«Mi piace Duchamp perché nulla c’è da guardare, ma solo da leggere». Così mi dice Pablo Echaurren al limitare della proiezione del lungometraggio che lo ha visto protagonista e narratore, tra gli eventi delle Giornate degli autori al Festival di Venezia edizione 2022. Lo ha chiamato, insieme al regista Antonello Matarazzo e allo sceneggiatore e storico dell’arte e dell’immagine in movimento Bruno Di Marino, semplicemente Pablo di Nearderthal, dove il catenaccio recita di arte, evoluzione, bricolage. Che è un modo manifesto e vezzoso, da wunderkammer, di mescolarsi alla sua stessa storia, alla sua stessa vita. Come un modo di entrare dentro una sua opera, quelle meravigliose scatole parlanti e semoventi che oggi realizza e rendersi così figurina animata, essere parlante tridimensionale, che cerca nell’elettronica e nel digitale anche un nuovo modo di essere e di pensare.

Si schermisce Pablo Echaurren se lo incalzi sul suo fare artistico. Dopo essere stato indiano metropolitano, illustratore di libri, pittore puro, bassista, sia suonatore roccioso che vero grande collezionista, esperto di futurismo e in fondo lui stesso avanguardista e futurista mille anni dopo, ora dice di aver smesso di produrre arte. Preferendo questi piccoli mondi di object trouvé, composti con grazia e con malizia, con armonia e sottili prospettive. Racchiusi dentro scatole. Finti teatrini che animano e rilanciano il suo stesso pensiero. E chissà se si ricorda di Herbert Pagani? Prima pittore in quel di Parigi con le sue finte cattedrali alla Escher e poi cantante e cantautore.

Pablo Echaurren in un frame del lungometraggio di Antonello Matarazzo

Il lungometraggio di Matarazzo, regista esperto in esperimenti arditi di arti visive, un medialista insomma, come oggi si ama dire, ovvero uno che mescola e integra vari media, ma capace di farlo con sapienza e coraggio, ci spiazza e ci sorprende, ci cattura e si fa guardare come una grande inchiesta ad personam e sovrapersonale, suffragata da una lucida e spasmodica visione dell’arte.
«Anche se non sempre si hanno le prove per suffragare tutto – chiosa Pablo Echaurren, con quel suo modo pacato e dolcemente sofferente di parlare, avvolto dentro una sottana giapponese – ogni teoria, ogni storia. Certi caratteri negativi sono stati introdotti dal Sapiens nella storia dell’uomo. Le autoregolamentazioni di tipo gerarchico chissà chi le avrà mai create».

Il lungometraggio ha uno slogan, un sottotitolo, un sottopancia che più o meno recita: Cosa sarebbe successo se l’uomo di Neanderthal fosse prevalso sull’Homo sapiens? Come si sarebbe sviluppata la nostra specie? Che relazione c’è tra l’arte e l’evoluzionismo? E perché mai l’evoluzione si comporta come un bricoleur? E infine: cosa c’entra in tutto questo Marcel Duchamp? Questo non è un documentario e non è il portrait dell’artista Pablo Echaurren, ma una riflessione in forma di caleidoscopio sul nostro passato, sul nostro presente e sul nostro futuro.

Perfetta mimesis dell’evoluzione dello stesso artista Echaurren. Ma lui si schermisce se lo chiami tale. E così nell’estrema impresa di rintracciare coerenza di movimenti e di ricerca, nuovi fermenti nel bricoleur dell’arte, mette in scena in tridimensione, quasi una second life del suo evolversi o regredire verso quell’ominino che raccoglie selci e faccette misteriosamente apparse sulla pietra.

Mario Tozzi in un frame del lungometraggio di Antonello Matarazzo

«Fino a poco tempo fa l’evoluzione umana era vista come una linea continua dal basso verso l’alto, oppure in orizzontale. Perché da una scimmia l’uomo si fosse evoluto insomma». Apre proprio con queste parole il film. «In questa progressione si pensava che l’uomo di Neanderthal fosse il nostro antenato», mi racconta Pablo, ma non vuole convincermi, sia detto per inciso. La vita sulla terra e la sua evoluzione, se riavvolgessimo il nastro daccapo, suffraga il mega esperto Mario Tozzi, sarebbero diversi, non li rivedremo così come li abbiamo visti, studiati, certificati. E dunque? Ci sarà sempre una variazione, un’imperfezione che cambierà il risultato finale. Come una partita a scacchi, sottile, creativa. Ma se la creatività non fosse la semplice rappresentazione della realtà. Ma qualcosa bensì di più astratto e celebrale, concettuale? Come rispondere a queste domande complesse?

Il film ci dice in fondo che gli uomini fanno tanti errori, non usano sempre il cervello nel modo migliore. Come nella vecchia poesia citata ad arte di Salvatore Quasimodo: ”Ma tu sei ancora uomo della pietra e della fionda”?
Nel cammino di Pablo Echaurren che da ologramma di se stesso si mette in marcia verso luoghi ricchi di reperti della preistoria, ci accompagnano le splendide musiche di Rocco De Rosa e il suono curato da Canio Loquercio. Due ricercatori preistorici della musica capaci di entrare nel bricoleur del pentagramma.

È una maniera furba, intelligente di raccontarsi e di legare il proprio cammino di artista a quello dell’evoluzionismo. Ma con un sintagma, un punto oscuro: e se Neanderthal battesse Sapiens? Si potrebbe spalancare un futuro bricoleur, ode alla fine proprio a Duchamp. Sì perché Neanderthal, che fino ad oggi in molti hanno sempre visto come primitivo, ovvero involuto, aveva altresì un ben diverso carattere e misterioso sapere e sensibilità. Mai aggressivo e persino premuroso verso i suoi cari. Echaurren e il regista Matarazzo piano piano ci tirano così dentro questa teoria e ce la fanno sospirare e poi ce la regalano con grazia, dolcezza, stupore e soavità.

Ci interessa tutti questo discorso, che è poi quello della nostra specie, antenati, figli, padri. Ci riguarda tutti e ci fa immaginare un nuovo futuro antico
«Neanderthal – mi confessa Pablo al termine del nostro incontro – con un pizzico di malcelata dolce civetteria, mi permette di fare quello che facevo da bambino: passeggiare, guardare le pietre, poterle toccare, raccoglierle. Tu raccogli una pietra che è stata in mano ad una persona risalente a 200-300mila anni fa. Prima c’erano stati altri homo. Questi oggetti trovati o ritrovati sono in fondo per me il pre ready made. E per questo motivo uso l’espressione Duchamp neanderthalensis. Di Duchamp oggi si tende ad imitare l’atteggiamento artistico, il tipo di arte o di investimento che si mette nel proprio fare, poco o nulla invece si è dedicato a quello che era il suo insegnamento esistenziale che ha spiegato nelle tante interviste rilasciate, in cui racconta cosa pensa del ruolo dell’artista. Un anti artista, un anti esteta. Nel suo comportamento vive il vero terremoto: Duchamp non ha mai venduto un’opera, non ha mai fatto una mostra. È il suo disprezzo rispetto ad un sistema che ormai è capitalistico. E lui certo non era un uomo di sinistra. Ma capace di arrivare ad estreme conseguenze, come a dire che un artista non può che essere underground, ovvero clandestino».

Make art, not money. Come da una antica mostra di Pablo stesso. O come scrive nell’antico pamphletto Duchamp politico: «Duchamp, malgrado la sua orgogliosa laicità, è un po’ come certi santi la cui vita, sebbene vissuta in costante ritiro, lontano dai richiami della vanità, nella cocciuta rinuncia dei beni materiali, finisce per diventare pubblica, per manifestarsi in tutta la sua potenza di attrazione e di esortazione collettiva verso una scelta cruciale».
Tutto sta anche nell’attaccamento al lavoro nel senso più umile e nobile del termine. Travail desinteresse è travail superieur.
Lo pensava, a ben guardare questo film, anche Neanderthal. Nostro compagno di strada.

Come l’armata Brancaleone ma meno divertente e più pericolosa

Per uno strabismo tipico di certa politica gli articoli di questa campagna elettorale vertono sui disastrosi rapporti tra gli ex alleati di centrosinistra, di sinistra, né di destra né di sinistra e di sedicente terzo polo – che può essere al massimo il quarto – dimenticando di osservare e raccontare il disfacimento che si sviluppa a destra. Lì Giorgia Meloni si avvicina alla vittoria – che dà per certa – ogni giorno più sospettosa mentre Matteo Salvini – come lo scorpione sulla schiena della rana – piccona la sua alleanza pur di raccogliere qualche spicchio di visibilità.

Ieri sono accaduti almeno due fatti particolarmente significativi. Giorgia Meloni ha spinto talmente forte la sua propaganda che alla fine si è invertita: «Vogliamo dare il diritto alle donne che pensano che l’aborto sia l’unica scelta che hanno, di fare una scelta diversa. Non stiamo togliendo un diritto ma aggiungendolo», ha detto la leader di Fratelli d’Italia durante un comizio a Genova. Ricorda la parabola triste del capo di governo che chiude una corsia di un’autostrada a tre corsie, la riapre il mese dopo e dice «con la chiusura di una corsia su tre abbiamo segnato un -33% ma poi aggiungendo una corsia alle due esistenti abbiamo guadagnato un buon 50% quindi il saldo è positivo di 17 punti percentuali». Avere il coraggio di intestarsi un diritto esistente dalla notte dei tempi (le donne partoriscono fin dalle loro più lontane antenate) è un azzardo che potrebbe sembrare solo linguistico mentre è molto politico. Giorgia Meloni fingerà di avere a cuore i diritti, non si azzarderà mai a negarli platealmente ma semplicemente incaglierà quelli che non le piacciono. C’è una definizione per questi politici: reazionari. Non è un caso che ieri Meloni abbia confessato di sognare “il Paese dei nostri nonni”.

Ieri è accaduto anche che Salvini e Meloni se le siano date (metaforicamente parlando) per tutto il giorno. Da una parte il leader leghista ha passato la giornata a criticare “l’amica Giorgia” (Salvini ha imparato benissimo come trollare da ottimo epigono del “papà della bestia” Luca Morisi) per la sua opposizione allo scostamento di bilancio: «Rischiamo di perdere un milione di posti di lavoro se non ci muoviamo rapidamente. La Lega lo chiede da due mesi con insistenza ma da sola perché la maggior parte dei partiti, a sinistra il Pd ma anche Fratelli d’Italia in casa centrodestra, dicono che bisogna essere prudenti e non fare nuovo debito», ha detto, solo per fare un esempio tra tanti, ieri mattina a Rtl 102.5. Alla fine Meloni ha sbottato: «È qualche giorno che mi sorprendono alcune dichiarazioni di Salvini, sempre più polemico con me che con gli avversari», ha detto la leader di Fdi intervistata al Tg di La7, parlando di «polemica pretestuosa». Che ha fatto Salvini? Ha rincarato la dose: «Mi spiace che Letta dica di no, mi spiace che anche Giorgia, con cui vado d’accordo su tutto, dica di no», ha detto il leader della Lega arrivando a Pescara, rispondendo a una domanda dei cronisti sulle parole di Meloni.

Pericolosi e litigiosi. Molto probabilmente questo centrodestra vincerà le elezioni (più per demeriti altrui che per meriti propri, ma questo accade spesso in politica) ma che poi sia in grado di governare è tutto da verificare. Il problema è che ancora una volta lo verificheranno a proprie spese gli italiani.

Buon giovedì.

Quello scippo di parlamentari a danno del Mezzogiorno

Il taglio dei parlamentari a seguito del referendum del settembre 2020, fortemente voluto dal Movimento 5 stelle, unito all’attuale e deleteria legge elettorale, priva i territori del Mezzogiorno di una rappresentanza parlamentare degna di questo nome. Già lo avevamo previsto su queste pagine. Il Partito consociativo del Nord non si accontenta più di sfruttare il Mezzogiorno, di opprimere i suoi cittadini con i tanti, continui, scippi di fondi, ma adesso occupa, esautora e soppianta con propri candidati paracadutati in collegi “sicuri” da altri territori del Centro-Nord, anche le liste elettorali, proprio come si fa con una colonia, con l’effetto che i cittadini di molti territori del Sud resteranno senza una propria rappresentanza politica territoriale diretta. A meno che non si pensi davvero che un Franceschini, un Salvini o una Boschi, fra gli altri, abbiano a cuore e conoscano le problematiche dei territori nei quali sono stati paracadutati.

Analizziamo le conseguenze per il Mezzogiorno della riduzione dei parlamentari, in quello che potrebbe essere l’ultimo imbroglio, forse quello definitivo, per il Sud ed i suoi cittadini, approfondendo la spaccatura già presente nel Paese. La densità di popolazione, parametro per l’assegnazione del numero dei seggi alla Camera e al Senato, al Sud è più bassa che al Nord, mentre la desertificazione demografica causata dall’emigrazione cresce di anno in anno. La conseguenza è che il Sud, in un Parlamento ridotto, avrà un peso politico ancora minore del precedente.

Sicilia e Sardegna, ad esempio, avranno una più pesante riduzione dei rappresentanti in termini percentuali al Senato rispetto ad altre Regioni a Statuto speciale come il Trentino Alto Adige e la Val d’Aosta. La Basilicata e l’Umbria subiscono il taglio maggiore al Senato, i rappresentanti passano dagli attuali 7 a soli 3 (-57,1%) e qualsiasi partito sotto il 20% dei voti non eleggerà alcun rappresentante, inoltre visto che il Senato è eletto su base regionale, la Sardegna finisce per avere un senatore ogni 328mila abitanti, mentre il Trentino-Alto Adige uno ogni 172mila (a causa della legge che taglia i parlamentari, che tutela particolarmente la rappresentatività delle province autonome di Bolzano e Trento, ndr) rendendo evidente la sperequazione per cui il voto di un cittadino trentino vale il doppio di quello di un cittadino sardo.

Bisogna poi considerare che, in linea generale, gli attuali collegi sono diventati grandissimi, soprattutto al Senato, e che con la riduzione dei seggi il rischio, o meglio la certezza, è che solo il maggior partito riuscirà ad eleggere, soprattutto nelle regioni più piccole, così con questo meccanismo mancherà una rappresentanza di tutte le opposizioni al Senato non solo in Basilicata e Umbria, ma anche in Calabria, Abruzzo, Sardegna oltre a Liguria, Friuli, Marche, Umbria e Trentino.

Inoltre la riduzione degli eletti al Sud comporterà una loro minore autonomia, visto che sui pochi eletti graverà una maggiore pressione dei gruppi di potere economico e delle varie lobby, che come è noto sono concentrate al Nord. In altre parole, i già minori eletti del Sud saranno sottoposti a pressioni di ogni tipo per spingerli a scelte che spesso potrebbero essere contro l’interesse dei territori che devono rappresentare, inoltre l’inevitabile riduzione degli eletti del territorio a favore dei paracadutati sposterà ulteriormente il piatto della bilancia politica e di rappresentanza verso Nord.

Dunque, considerato che il numero dei seggi è minore di prima e che le liste dei candidati sono, come si è visto, compilate dalle segreterie di partito, e fatta salva la buonafede di tutti, la domanda che si pone è: sono stati candidati, al Sud come al Nord, i personaggi più autonomi, quelli che maggiormente possono fare gli interessi dei propri elettori oppure il rischio è quello che siano stati candidati quelli più propensi ad obbedire alle direttive del partito, a maggior ragione di fronte all’evidenza che, come visto, solo i maggiori partiti avranno possibilità di eleggere? Forse sarebbe stato il caso di procedere, parallelamente alla riduzione dei parlamentari a seguito del referendum, ad un ritorno ad una legge elettorale proporzionale, così come aveva detto durante la campagna referendaria l’allora segretario del Pd Zingaretti, ma purtroppo le cose non sono andate così.

Stupisce che l’artefice primo di questa manovra di riduzione dei parlamentari e di rappresentanza sia proprio il M5s che al Sud ha avuto un grande risultato alle ultime elezioni del 2018. L’ennesima giravolta, dopo il governo con la Lega, che mortifica i territori del Sud e ne tradisce le aspettative.

Ciliegina sulla torta in questa sottrazione di rappresentanza è il fatto che, non potendo comunque vietare il voto ai cittadini meridionali, lo si impedisce nei fatti ad oltre 4,9 milioni di cittadini “fuori sede”, cioè domiciliati in Italia ma che per motivi di studio, lavoro o perché devono curarsi, hanno momentaneamente il domicilio lontano dal Comune di residenza. Infatti, mentre un italiano che vive all’estero può votare con facilità, uno studente, un lavoratore, un malato in Italia deve necessariamente tornare al Comune di residenza per poter esprimere il suo voto. Inutile dire che la stragrande maggioranza di questi cittadini, privati così di un diritto costituzionale, sono meridionali.

Una vergogna indegna di un Paese civile che (a chiacchiere) si definisce democratico. L’ennesima evidente prova di una sottrazione di rappresentanza voluta e dettata da un razzismo di Stato che opprime da decenni il Mezzogiorno, tramutato così sempre di più in una colonia interna in cui larga parte dei cittadini non hanno, nei fatti, nemmeno più il diritto di voto. Politicanti e media mainstream come sempre diranno dopo le lezioni che nel Mezzogiorno l’astensionismo è molto alto, segno di un disinteresse per la politica. Insomma al danno si aggiungerà come sempre la beffa del pubblico ludibrio.

Ecco perché per il Sud si prepara l’ennesimo scippo. Uno scippo di rappresentanza e di democrazia che prelude consequenzialmente all’ennesimo furto di risorse.

 

* In foto: il ministro della Cultura Dario Franceschini, candidato al Senato nel collegio di Napoli nella lista del Pd

L’autore: Natale Cuccurese è presidente del Partito del Sud

Quello sguardo di Godard che ha segnato la storia del cinema

«Signor Parvulesco, qual è la più grande ambizione della sua vita?»
«Divenire immortale… e poi morire» (dialogo dal film A boute de souffle – Fino all’ultimo respiro)

È scomparso ieri, 13 settembre, all’età di 91 anni, Jean-Luc Godard, cineasta tra i più importanti della storia del cinema e tra i maggiori esponenti della Nouvelle Vague, insieme a Éric Rohmer, François Truffaut, Claude Chabrol e Jacques Rivette, con i quali condivide anche la critica militante e appassionata sui Cahiers du Cinéma (dove si firma, inizialmente, con lo pseudonimo di Hans Lucas). E furono proprio loro a infondere alla rivista l’impronta audace e battagliera che – da un certo momento in poi – contraddistinguerà le sue pagine. In quel periodo, il giovane critico frequenta i corsi di filmologia alla Sorbona, il più delle volte disertati per recarsi nei cineclub parigini del Quartiere Latino. Successivamente, insieme a Jean-Pierre Gorin e Gérard Martin, darà vita al collettivo Dziga Vertov, coraggioso promotore di un cinema di ricerca, militante e rivoluzionario.

Jean Luc Godard al festival di Cannes, 15 maggio 2001

«A mio avviso, il cinema è, allo stesso tempo, spettacolo e ricerca»: queste le parole di Godard in apertura della conferenza stampa indetta dai Cahiers il 16 febbraio 1968 e presieduta dal regista stesso, a difesa del ruolo preminente di Henri Langlois, da poco destituito dal ruolo di direttore tecnico e artistico della Cinémathèque.
Raffinato cineasta, Godard rivendica, fin dal suo primo lungometraggio, A boute de souffle (1960) – una personale e originale ricerca sul cinema, legata a una profonda e sempre rinnovata riflessione sul linguaggio. Mediante uno sguardo che privilegia la modalità di rappresentazione al racconto, marginale ed essenziale: un cinema antinarrativo, pionieristico nel sovvertire le norme codificate del découpage classico che ponevano in primo piano la linearità della storia. È nella modernità del suo sguardo che scorgiamo la portata innovativa e rivoluzionaria del suo cinema, nelle scelte stilistiche, nell’indagine minuziosa della realtà, dei corpi e del loro movimento, nell’attenzione al dettaglio. Pensiamo ai numerosi jump-cuts del suo primo film, veri e propri salti temporali che creano discontinuità all’interno dell’inquadratura.

Andrà sempre più a fondo con le successive pellicole – Vivre sa vie (1962), Le Mépris (1963), Une femme mariée (1964) in particolare – dove il singolo piano è costruito in modo tale da frammentare lo spazio e finanche il corpo dei personaggi; fino ad arrivare al rifiuto del campo/controcampo in Masculin féminin (1966), nel quale viene ratificata la violazione alla norma come segnale di poetica e, conseguentemente, rivendicata una sempre maggiore libertà di sperimentazione, anche nel rapporto tra visivo e sonoro. Fino ai più recenti e complessi Tout va bien (1972), ultimo film nato all’interno del collettivo Dziga Vertov, Passion (1982) e Nouvelle Vague (1990).

In primo piano i corpi femminili, sfuggenti nella loro totalità, come in Une femme mariée, dove il corpo nudo della donna viene maggiormente scomposto per inquadrarne dapprima le gambe, le mani, la schiena, fino ad arrivare al volto.
«Il cinema, diceva André Bazin, sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. Questo film è la storia di questo mondo», è quanto dichiarato all’inizio del film Le Mépris (nella sua versione originale, non in quella italiana, tristemente rimaneggiata). Qui, sono i piani sequenza e le composizioni geometriche nate dall’incontro del corpo di Camille (Brigitte Bardot) con quello di Paul (Michel Piccoli), all’interno della villa – che sembrano rievocare, anche per i colori utilizzati, le tele di Mondrian – a permettere a Godard di esplorare lo spazio in libertà.

Tra le scene iconiche realizzate dal regista francese, pensiamo all’indimenticabile corsa, all’interno del Louvre, dei protagonisti del film del 1964, Bande à part, che ha ispirato registi come Tarantino e Bertolucci. E ancora, a Michel (Jean-Paul Belmondo) e Patricia (Jean Seberg) lungo gli Champs-Élysées, o nella camera dell’Hotel de Suède dove la donna gioca con il proprio volto riflesso allo specchio.

Leone d’oro alla carriera nel 1982 e Oscar alla carriera nel 2011 (tra i numerosi riconoscimenti) Godard ha costantemente perseguito, nella sua ricerca cinematografica, il rapporto tra pensiero e linguaggio, unitamente a quello che lo lega alle altre arti.
Il drammaturgo e poeta tedesco Heiner Müller, ricordando il suo soggiorno a New York nel 1975 – quando guardò per settimane intere film americani, provando infine una sorta di repulsione per questa mentalità di action e plot – scrive: «Ad un certo punto ci fu una retrospettiva su Godard e mi sembrò di respirare, perché all’improvviso vidi di nuovo film che avevano a che fare con il pensiero, che producevano un’eccedenza di idee».

L’unico tetto di cristallo che sfondano è quello delle prebende

L’Italia è nel mezzo di una tempesta economica, immersa in una crisi energetica e con lo spettro di una recessione. Proprio qui dentro un decreto che si chiama “Aiuti bis” spunta il via libera per stipendi sopra ai 240mila annui per una serie di figure apicali della pubblica amministrazione. Non hanno avuto nemmeno la decenza di pensare a un ulteriore tetto. Nulla. Si fa solamente riferimento al «limite massimo delle disponibilità del fondo» per le esigenze indifferibili istituito presso il Mef, che ha una dotazione annua di 25 milioni.

Da Palazzo Chigi “filtra disappunto” – perché parlarne chiaramente mettendoci la faccia forse avrebbe sgualcito la capigliatura – scaricando la colpa sui partiti: «Dinamica squisitamente parlamentare», dicono. Il governo che scarica le responsabilità sul Parlamento è un’altra caratteristica dello sfaldamento di fine legislatura.

Dice il Pd che si tratta di un emendamento «di Forza Italia riformulato dal Mef, come tutti gli emendamenti votati oggi con parere favorevole». Matteo Renzi spiega giustamente: «Quello è un tetto che avevo messo io, oggi il governo ha fatto questa riformulazione e non avevamo alternativa che votarlo per evitare che saltasse tutto e saltassero 17 miliardi di aiuti alle famiglie». L’Ansa però scrive che l’emendamento è stato votato in commissione, prima dell’approdo in Aula, da Pd, Fi e Italia viva. Astenuti Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 stelle. Subito dopo fonti Pd fanno sapere nelle commissioni riunite al Senato (Bilancio e Finanze) l’emendamento «è stato votato da tutti». In Aula invece si sono registrate poi le astensioni di Fdi, Lega e M5s.

Le giurista ed editorialista Vitalba Azzollini giustamente fa notare che «Mattarella potrebbe non firmare la legge di conversione del decreto-legge contenente l’emendamento relativo al tetto agli stipendi dei manager pubblici, in quanto contenente norma disomogenea rispetto alla materia del decreto (sentenza Corte Costituzionale n. 3/2015)».

Così, a pochi giorni dal voto, possiamo gustarci tutti i sermoni sulla “disaffezione dalla politica” fingendo di non sapere perché accada.

Buon mercoledì.

Rischio guerra nucleare, a che punto siamo

Il pericolo di una guerra nucleare non è mai stato così alto dai tempi di Hiroshima e Nagasaki, ed è addirittura aumentato negli anni recenti: il Doomsday Clock, l'”Orologio dell’Apocalisse”, istituito dal 1947 dal Bulletin of the atomic scientists, aveva toccato durante gravissime crisi 2′ 30″ dalla fatidica Mezzanotte, ma da una ventina d’anni il rischio si è progressivamente aggravato finché tre anni fa il board del Bulletin è stato costretto ad avvicinare le lancette ad appena 100 secondi.

La guerra in Ucraina poi ha riportato d’attualità l’incubo nucleare. A dire il vero, siamo dominati da una disinformazione pilotata che ha celato all’opinione pubblica i programmi “triliardari” di cosiddetta “modernizzazione” delle armi nucleari, in tutti i Paesi che ne sono dotati (ovviamente in proporzione alle rispettive risorse), i quali hanno invertito i processi di disarmo nucleare degli anni 90, ed aggravato i pericoli in misura senza precedenti. Perché è vero che gli arsenali nucleari mondiali si sono ridotti dal picco demenziale di 70mila testate del 1985 a circa 12mila attuali (più del 90% di Usa e Russia), ma queste ultime non hanno paragone con quelle di 30 anni fa: basti pensare che una super-spoletta nucleare realizzata 5 anni fa ha triplicato, a parità di numero, l’efficacia dei missili nucleari della marina americana. Si è aggiunta poi l’ipertecnologizzazione dei meccanismi di controllo e lancio di queste armi, motivata dal pretesti di evitare l’“errore umano”, ma qualsiasi macchina è soggetta ad errori, e (quanto più è sofisticata) può essere ingannata, e un errore sarebbe irreparabile; così un articolo del Bulletin qualche mese fa recitava: «Se l’intelligenza artificiale controllasse le armi nucleari potremmo essere tutti morti».

In questo contesto generale si è conclusa a fine agosto a New York – nel disinteresse dei media italiani -, dopo quattro settimane di lavori, la decima Conferenza quinquennale di Revisione del Trattato di non proliferazione, RevCon del Tnp (rinviata della data prevista del 2020 a causa della pandemia), ma si è conclusa senza riuscire ad approvare un documento finale condiviso: cosa che è stata denunciata in generale come un fallimento della RevCon.

Più che formulare giudizi tranchant, vorrei cercare di impostare un ragionamento critico generale sulle 10 RevCon, quindi sulla funzione del Tnp relativamente al “disarmo” nucleare. Non v’è dubbio che questo fosse “anche” un obiettivo del trattato del 1970, sebbene sia importante osservare l’accennata lievitazione degli arsenali atomici da quasi 37mila a 70mila testate fra il 1970 al 1985 (+27mila dell’Urss, −5mila degli Usa). Infatti il Tnp aveva lo scopo prioritario di sbarrare la strada ad ulteriori Paesi che intendessero dotarsi della bomba atomica. Eppure, del Tnp faceva parte integrante l’art. VI, che imponeva negoziati “in buona fede” per arrivare al disarmo completo: di fatto, dall’entrata in vigore del Tnp nel 1970, tutte le RevCon hanno visto i Paesi non (dotati di) armi nucleari contestare agli Stati nucleari di avere disatteso in modo flagrante l’art. VI.

Fallimento della RevCon, o di una strategia?
Torniamo alla Conferenza di Riesame del Tnp conclusa il 26 agosto a New York, che si è conclusa senza un accordo unanime su un documento finale, cosa che ovviamente si deve deplorare. Intanto vale la pena ricordare che l’ultima volta che gli stati sono riusciti ad adottare un documento consensuale e un piano d’azione per il Tnp fu nell’ottava conferenza del 2010, ma la bozza di documento fu notevolmente annacquata per avere il sì di Usa, Francia, Gb e Russia (sebbene un anno prima il presidente Obama avesse pronunciato il discorso visionario di Praga): comunque il documento consensuale comprendeva la decisione di indire una conferenza internazionale per promuovere una Zona libera da armi nucleari e di distruzione di massa (Nefz) in Medio Oriente, alla quale Israele si è sempre opposto strenuamente, ma non è mai stata realizzata. E c’è chi ha indicato la questione della Nefz come una delle ragioni principali della mancata produzione di un documento finale consensuale nella successiva conferenza di revisione del 2015 (intanto l’Assemblea generale dell’Onu surrogò l’iniziativa realizzando due conferenze internazionali per la costituzione della Nefz nel 2019 e nel 2020, la terza fu sospesa per il Covid e dovrebbe tenersi nel prossimo novembre).

Dunque, arrivare o meno a un documento finale condiviso è l’indice univoco del Successo di una RevCom? Sarebbe lungo discutere quante sono state nella storia delle RevCon le indicazioni e raccomandazioni dei documenti condivisi che sono rimaste lettera morta: basti ricordare le 13 misure, “Thirteen steps”, del documento finale della sesta RevCon del 2000 nientemeno che «per gli sforzi sistematici e progressivi di attuazione dell’articolo VI», a posteriori suona come una presa in giro; o anche ai 64 punti programmatici del 2010.

Insomma, le raccomandazioni delle RevCom sono aria fritta se non sono supportate dalla volontà comune a tutti gli Stati nucleari! Ma anche in questo caso, che è comunque piuttosto raro, le decisioni cruciali trovano applicazione o meno assolutamente al di fuori dall’ambito di quelle conferenze, o dell’Onu. Gli accordi decisivi per la riduzione delle armi nucleari sono nati da negoziati indipendenti, soprattutto fra Stati Uniti e Unione Sovietica/Russia: la prima fu tra i presidenti Reagan e Gorbachev e portò al Trattato Inf (Intermediate nuclear forces) del 1987, che eliminò i missili nucleari a raggio intermedio ponendo così fine alla Crisi degli Euromissili; né il Tnp e tanto meno le RevCon giocarono alcun ruolo. Lo stesso può dirsi del trattato Nuovo Start del 2010, come pure delle difficoltà intervenute per il suo rinnovo: oggi il trattato è a rischio, ma la RevCon non ne ha discusso direttamente, sarebbe un’interferenza negli affari di due Paesi, eppure è un problema cruciale relativo agli armamenti e ai rischi nucleari.

Con queste argomentazioni non intendo in alcun modo negare che a questa decima RevCon si sia persa l’occasione per affermare alcuni punti importanti: la bozza del documento finale non approvata avrebbe infatti espresso profonda preoccupazione «per il fatto che la minaccia dell’uso di armi nucleari oggi è più alta che mai dall’apice della Guerra fredda e per il deteriorato ambiente della sicurezza internazionale», e avrebbe anche impegnato gli Stati aderenti al trattato «a compiere ogni sforzo per garantire che le armi nucleari non vengano mai più utilizzate». “Impegnato”? Ho appena discusso tante “promesse da marinaio”…

Ma vale la pena ricordare che proprio negli stessi giorni della RevCon la premier britannica Liz Truss (la Gran Bretagna è un Paese che ha deciso di aumentare il numero delle proprie testate nucleari, in barba al Tnp), ha dichiarato impunemente che sarebbe pronta a premere il bottone nucleare se fosse necessario: notare che il no-first-use era contemplato nel primo draft proposto alla conferenza, anche se poi cancellato dagli stati nucleari nell’ultima settimana a porte chiuse nella quale erano esclusi i rappresentanti della società civile, esempio eloquente del livello della “democrazia” in campo nucleare.
Sulla mancata condivisione del documento finale è poi opportuno specificare che in questa decima conferenza il tema si è allargato da quello delle armi nucleari alla denuncia dei rischi che siano le centrali nucleari per usi civili ad essere bombardate: ovviamente il riferimento era alla centrale di Zaporizya occupata dai russi, sebbene le accuse di bombardamenti siano rimpallate sia da parte ucraina che russa. In ogni caso, la guerra in Ucraina è entrata nei lavori della conferenza introducendo, nel bene e nel male, un tema squisitamente politico: così la Russia si è espressa contro il documento finale. Forse era stato messo nel conto.

Uno fra gli innumerevoli commenti sulla lista internazionale Ican, del giapponese Kawasaky, osservava con sconforto: «Penso che sia necessario creare un’ondata di opinione pubblica internazionale che accerchi le potenze nucleari in modo tale che non ci sia una situazione in cui le potenze nucleari abbiano potere di veto». A me sembra che sia come dire l’Onu ha fallito, e con esso il Tnp: da dove si ricomincia? … dal Trattato di proibizione nucleare?

In effetti, per completare succintamente il quadro generale c’è da aggiungere che proprio la frustrazione per il persistente rifiuto delle potenze nucleari di ottemperare agli obblighi dell’art. VI motivò circa 15 anni fa la Campagna internazionale per l’abolizione della armi nucleari (Ican), la quale diede origine al negoziato all’Onu che portò il 7 luglio 2017 al Trattato di proibizione della armi nucleari (Tpnw in inglese) approvato da 122 Stati. Il Tpnw, raggiunto il numero necessario di 50 ratifiche, è entrato in vigore il 22 gennaio 2021 nel diritto internazionale. A giugno di quest’anno si è svolta a Vienna la prima Conferenza degli Stati parte del Tpnw. Ad oggi il numero di ratifiche ha raggiunto 66, altri 20 Paesi hanno firmato ma non ancora ratificato: gli Stati parte del Tnp sono 191.

Insomma, il cammino per liberarci dalle armi nucleari è ancora lungo: è probabile che il pericolo di queste armi incomberà per molto, auguriamoci che non precipiti.