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Da dove potrà ripartire questo Paese a pezzi

Il Paese chiamato alle elezioni politiche del 25 settembre è un Paese a pezzi, sfiancato, ove a questioni ormai croniche sono andati sommandosi, negli ultimi mesi, problemi che appaiono rendere fosche le prospettive per il futuro.
L’elenco è noto: dalle disuguaglianze alla povertà, dalla precarietà del lavoro alla sua insicurezza, dagli squilibri territoriali all’abbandono delle aree interne, dal consumo di suolo, la cementificazione e la depredazione del territorio alla transizione ecologica che non decolla. Un elenco che è lo stesso da tempo, le cui tendenze in atto hanno radici antiche sulle quali poco o nulla è stato fatto per invertirle. In un macabro gioco delle parti, la campagna elettorale ci ha mostrato un surreale rimpiattino tra quelli che pure sono stati al governo del Paese negli ultimi trent’anni, a fasi alterne.

Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza sono maledettamente persistenti, se non maggiori e l’Italia, in questo, primeggia in Europa. Se le politiche redistributive hanno contribuito ad attenuarle, rimangono sperequazioni terribili a monte: nei livelli salariali, nelle differenze tra redditi da lavoro e redditi da capitale e rendite, nella concentrazione della ricchezza mobiliare e immobiliare. La mobilità sociale è quasi assente: per fasce di reddito – i figli degli operai restano operai – come nei livelli di istruzione – i figli di chi non ha titolo di studio secondario o terziario resta senza titolo secondario o terziario – come nelle caratteristiche della famiglia di origine: chi nasce al Sud hai meno opportunità di chi nasce al Nord.

La povertà, nelle sue varie forme, oggi affligge un quarto della popolazione italiana (a anche in questo primeggiamo in Europa). E molti poveri hanno un lavoro che non li fa uscire da quella condizione. Il lavoro precario è aumentato, per non parlare del lavoro nero e sotto pagato, sempre presente e diffuso. Il lavoro è sempre meno tutelato e insicuro, come testimonia il triste bollettino quotidiano delle morti e degli incidenti sul lavoro, cui si aggiungono ora i morti tra i tirocinanti.

Gli squilibri territoriali sono andati aumentando, cronicizzandosi, non solo tra Nord e Sud ma anche nelle stesse regioni. Il destino economico di vaste aree appare segnato ormai, da decenni, e sembra che nulla si possa fare per invertire la rotta. Il Meridione continua ad essere caratterizzato da emigrazione, interna ed esterna, bassi livelli di spesa pubblica nei servizi, scarso dinamismo economico, bassa domanda di lavoro, industria e servizi che arrancano, a fronte di un’agricoltura su cui negli anni non si è investito. Inoltre, le aree interne del Paese – soprattutto quelle montane e collinari, un tempo più popolose – sono sempre più esposte, dove al calo demografico si aggiunge l’abbandono del territorio.
Il consumo di suolo procede indiscriminato e la cementificazione non vede sosta, con nuovi edifici residenziali e industriali, nuovi raccordi stradali, sottraendo terreno e contribuendo all’aumento dell’emissione di gas serra. I trasporti privati e pubblici sono ancora fondamentalmente su gomma e pochissimo viene fatto per la loro riconversione ecologica e per un più largo uso da parte del pubblico. La transizione ecologica, peraltro, è rimasta quasi lettera morta: l’uso di combustibili fossili viene ancora sussidiato, l’uso di energie rinnovabili non viene incentivato come dovrebbe, mentre si riparla, ora che la disponibilità di gas è stata messa in forse, di gassificatori e termovalorizzatori.

Ora, come si può vedere, questo elenco sommario evidenzia questioni le cui radici sono profonde ma nelle quali l’intervento di governo, le politiche, avrebbero potuto fare molto, se non moltissimo. Quella legislatura che era partita all’insegna del richiamo “anti-casta” ed egalitario (M5s) e del “sovranismo” securitario, all’insegna dell’«apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno», si è chiusa anticipatamente dopo aver prodotto il reddito di cittadinanza ma anche i decreti “sicurezza” – mai davvero superati – e poc’altro, se non il governo “dei migliori” che doveva mettere in pista il Pnrr e la “rinascita” dell’Italia.
Per il resto, infatti, non è stato fatto nulla. Non per aumentare la progressività delle imposte né per andare a tassare i grandi patrimoni e i redditi altissimi. Non per non lasciare che fosse il mercato che decidesse livelli stipendiali e remunerazioni, quando i salari sono fermi da anni, in termini reali. Non per invertire la rotta in tema di ambiente e cura del territorio, di disparità territoriali, di riconsiderazione delle aree interne.

A tutto ciò negli ultimi due anni e mezzo si è aggiunta la pandemia, arrivata come una mannaia a fare ancor più a pezzi il tessuto sociale. L’Italia ha avuto una mortalità altissima, più degli altri Paesi europei occidentali. Se il sistema sanitario nazionale frammentato nelle regioni ha contribuito, due sono stati i fattori che più hanno inciso, amplificando gli effetti della pandemia. Da un lato, una sanità pubblica cui negli anni sono state destinate sempre meno risorse, dove ha prevalso il potenziamento delle strutture ospedaliere a danno delle strutture di cura e trattamento diffuse sul territorio e della medicina di base. Dall’altro, una popolazione fragile soprattutto in alcune fasce, di età e condizione socio-economica: non a caso, in Italia l’85% dei decessi ha riguardato gli “over 70”, che sono quelli con altre patologie, la maggior parte delle quali dovute alle loro condizioni di vita. La pandemia, in questo, è stata una sindemia che ha avuto un impatto molto più forte sulle persone in condizioni disagiate. A questa “disuguaglianza della pandemia”, si è poi aggiunta una sua gestione inefficiente e spesso improvvisata su una materia – la salute individuale – nella quale molta più attenzione avrebbe dovuto essere riservata alla condizione delle persone.

Le elezioni di domenica prossima segneranno una svolta. Non tanto perché a vincere saranno le destre – e non è la prima volta – ma perché il partito maggioritario sarà quello di Giorgia Meloni. E sarà una svolta perché si andrà finalmente a un redde rationem per il Pd e la sinistra tutta. Dal 26 settembre, la storia della sinistra in Italia riparte.
Perché segna il fallimento del “progetto Pd”, un partito di centro-sinistra che ha solo legittimato l’impianto liberista delle politiche economiche e sociali volute da Bruxelles, a cominciare dall’austerity per finire con i tagli alla spesa sociale. Perché se c’è una ragione per cui aumenterà l’astensionismo e diminuirà il consenso del centro-sinistra, è perché le classi popolari sono state abbandonate. Il numero dei voti della destra non aumenteranno, ma caleranno, di molto, quelli dei 5 Stelle, ora ambiguamente riposizionati a sinistra, mentre ne guadagnerà l’altra sinistra. Con un governo di destra, il conflitto sociale riesploderà rancoroso e, se la sinistra saprà finalmente fare la sua parte, unitariamente, potrà ritrovarsi in un nuovo soggetto politico. Tutto dipenderà da come classi dirigenti vecchie e nuove sapranno leggere la società e i suoi bisogni, offrendo una prospettiva nuova.

L’autore:  Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. È candidato per Unione popolare in Emilia Romagna

Nostalgici del fascismo sospesi per finta

Una storia piccola ma significativa. Calogero Pisano è un candidato di Fratelli d’Italia nel collegio uninominale della Camera ad Agrigento, con molte possibilità di essere eletto. È coordinatore provinciale del partito nel capoluogo siciliano e componente della direzione nazionale. È bastato spulciare nel suo profilo Facebook per trovare post che inneggiavano a Hitler, al fascismo e trionfali post di sostegno a Putin.

Cosa accade? Alcuni giornalisti segnalano l’indecenza e Giorgia Meloni, impegnatissima ad arrivare in piedi alle elezioni, lo sospende: «Da questo momento in poi Pisano – si legge in una nota – non rappresenta più FdI a ogni livello e a lui viene inibito anche l’utilizzo del simbolo». La sospensione di un candidato, si sa, è un’azione che non influisce minimamente sulla sua possibile elezione. Da parte sua Pisano mette in scena la parte del contrito e scrive chiedendo scusa «a chiunque si sia sentito offeso da quei post che a distanza di anni giudico indegni»: «Anni fa – ha aggiunto – ho scritto cose profondamente sbagliate. Avevo cancellato il mio profilo personale su Facebook perché mi vergognavo delle cose che erroneamente avevo pubblicato».

Solo che Pisano pensa di essere scaltro e invece è poco furbo. Manda un messaggio vocale ai suoi sostenitori in cui il tono cambia completamente: «Questa, tra virgolette, sospensione – dice – è dovuta solo al fatto di questo post e quindi abbiamo dovuto prendere le distanze e anche io mi sono dovuto sospendere solo per questi due-tre giorni, fino a quando non arriviamo alle elezioni. Quindi state tranquilli che resta in carica (la candidatura ndr) e siamo sempre più forti di prima». Insomma, è tutta una finta. Del resto, è finta la moderazione che Giorgia Meloni ha improvvisamente indossato per rendersi credibile e per rivendersi come rassicurante a livello internazionale.

Pisano viene beccato di nuovo. Passa qualche ora e Pisano rassegna le sue “dimissioni volontarie dal partito”. Ora fateci caso, segnatevelo su un foglietto da qualche parte: verrà eletto e entrerà nel gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia. E sarà l’ennesimo caso di fuffa politica, l’ennesima presa di distanza utile solo agli smemorati.

Buon mercoledì.

 

“Free Assange”, un libro per ribellarsi al potere che censura la verità

Free Assange edito da Left a cura di Patrick Boylan, attivista di Free Assange Italia e Peacelink, non è un semplice libro che ci narra la vicenda umana e giudiziaria del giornalista australiano Julian Assange, è qualcosa di più. È un’antologia di pensieri, riflessioni, punti di vista di grandi nomi e intellettuali del panorama mondiale da Noam Chomsky al Premio Nobel Esquivel. È un taccuino di guerra, che ci rivela i crimini portati alla luce da Assange e WikiLeaks. È un diario di bordo e di viaggio, dove possiamo leggere l’intervista alla giornalista d’inchiesta Stefania Maurizi, dove possiamo prendere atto della violazione dei diritti umani attraverso la voce di Tina Marinari di Amnesty international.

Giornalisti, intellettuali, attivisti coronano questo libro di annotazioni, punti di crisi e di svolta della nostra umanità. Perché il caso di Assange non è l’attacco ad un semplice uomo ed editore, è un attacco, un monito del potere a tutti noi. È la libertà che viene messa sotto processo, è il meccanismo perverso dove i criminali vengono rilasciati e il crimine resta impunito, è la verità, al contrario, incarcerata e messa a tacere.

Free Assange è un testo che ci offre infinite opportunità di riflessioni. Che ci mette di fronte alla possibilità di trasformare l’ingiustizia attraverso la pratica dell’azione e dell’attivismo. Che ci pone interrogativi sulla prassi politica degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, che mette di fronte a tutti noi, l’impunità di cui gode il potere, quello che Maurizi definisce “il potere segreto”.

Free Assange è “un libro da battaglia”, come lo definisce bene la direttrice della rivista Left Simona Maggiorelli. Un testo che vuole farsi largo tra le persone, passare nelle mani dei lettori, attraversare questo tempo così complicato e oscuro, lasciare squarci di luce, nuovi modi di ripensare la nostra società. È un libro che si fa dovere morale e collettivo, voce del popolo e di qualsiasi passante sconosciuto che noti questo testo, che vuole entrare nelle vite di ognuno di noi e informarci, renderci partecipi e consapevoli del presente e del futuro del nostro mondo. Un testo fluido, diretto, semplice, che si svuota di fronzoli grammaticali e linguistici, che non vuole ergersi a pretesa o a somma sapienza.

Un testo umano, ricco di interventi, che vuole arrivare e toccare l’umanità di ognuno di noi. E ricordarci che siamo tutti uomini, possibili bersagli, che l’ingiustizia è forte e silenziosa, ma più forte possono essere tutte le nostri voci, a gridare, a protestare, nella folla o nel silenzio, a dire semplicemente a chi ci è accanto una sola frase: “Free Assange”.


* La recensione di Dale Zaccaria che rilanciamo sul nostro sito è stata pubblicata su Pressenza

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De Magistris e Iglesias insieme contro le destre

Il 17 settembre a Napoli si è svolto il convegno “Il potere mediatico. Come l’informazione in mano ai pochi può danneggiare la democrazia”. Tra i partecipanti, Luigi de Magistris, portavoce nazionale di Unione popolare, e Pablo Iglesias, politologo, ex vicepresidente del governo spagnolo, uno dei fondatori di Podemos e adesso direttore del podcast La Base. Iglesias ha evidenziato il parallelismo tra Italia e Spagna rispetto all’ascesa delle destre e l’incontro ha sancito una sorta di gemellaggio politico tra Up e Podemos. L’incontro di Napoli è stato l’occasione per presentare in anteprima il libro di Luigi de Magistris Fuori dal sistema (Piemme), in uscita nelle librerie. Anticipiamo qui la postfazione scritta da Pablo Iglesias, mentre la prefazione è di Nino Di Matteo.

Poco dopo un vertice della Nato a Madrid, ho pranzato con l’ex presidente José Luis Rodríguez Zapatero. José Luis è una rara avis nel suo spazio politico: lo era a capo del governo spagnolo e continua a esserlo ora quale lucido analista della realtà e figura internazionale. Neanche Zapatero teme le questioni scomode per il suo stesso partito. Lo ha dimostrato in America Latina difendendo posizioni di sinistra non comuni tra i dirigenti socialisti e lo ha mostrato nel commento che mi ha fatto in quel pranzo, e che voglio usare qui come spunto per parlarvi di Luigi de Magistris.

Il vertice della Nato ha generato notevoli tensioni tra Podemos e il Psoe (alleati in un governo di coalizione) ma anche tra Podemos e altri settori della sinistra alternativa al Psoe. Di fronte all’entusiasmo atlantista dei socialisti, che non hanno esitato a presentare la Nato come un baluardo della democrazia europea e hanno insistito sulla necessità di infliggere alla Russia una sconfitta militare, non a tutti, alla sua sinistra, erano chiari gli sforzi che dovrebbero essere dedicati alla critica della Nato e all’invio di armi in Ucraina. La precandidata sindaco di Madrid del partito Más Páis è arrivata al punto di dichiararsi orgogliosa del fatto che Madrid abbia ospitato il vertice, e alcune correnti dello stesso Unidas Podemos hanno creduto di dover evitare di esporre i loro leader principali (soprattutto quelli titolari di importanti ministeri) a un dibattito sulla Nato e sulla guerra in Ucraina. Erano stati Podemos e la sua segretaria generale e ministra Ione Belarra a mantenere una posizione inequivocabile di critica alla Nato, così come avevano sempre sostenuto che inviare armi all’esercito e alle milizie ucraine fosse un errore. In un contesto nel quale tutti i media, soprattutto quelli presunti progressisti, hanno criminalizzato e spudoratamente ridicolizzato il pacifismo, la posizione di Belarra, in linea con Melénchon e Corbyn, si è dimostrata coraggiosa, in contrasto con la scelta di altri settori della sinistra di mantenere un basso profilo e persino di far propria un’infamia ampiamente pubblicizzata dai media e da gran parte dell’ala sinistra di quello che in Spagna è già noto come “partito degli editorialisti” per la sua importanza sulla stampa e in televisione, ossia che l’Ucraina era in una situazione paragonabile alla Repubblica spagnola nel 1936, quando un colpo di stato sostenuto dalla Germania nazista e dall’Italia fascista finì per distruggere la democrazia spagnola di fronte all’inerzia delle forze democratiche europee.

Se nelle settimane successive all’invasione russa dell’Ucraina si è assistito a un linciaggio contro Belarra e Podemos, il vertice della Nato è stato il pretesto per riproporre la stessa criminalizzazione del pacifismo che, come ho detto, si è infiltrata in misura notevole in molti ambiti della sinistra. Attenzione, non credo nemmeno che la sinistra che ha deciso di sostenere l’invio di armi in Ucraina e di non criticare troppo la Nato ritenga che mandare armi risolva qualcosa o che la Nato sia un baluardo di libertà. Penso, al contrario, che questa parte della sinistra veda nella critica alla Nato una battaglia politica già persa, e che per puro pragmatismo consideri necessario concentrarsi su questioni che attengono al progresso sociale e su una generica difesa dell’ambiente, tenendosi lontana da temi che porteranno la sinistra a isolarsi ed essere esclusa dal quadro politico. Questa sinistra si ritiene più sofisticata e concreta rispetto a ciò che interpreta come una radicalizzazione di Podemos e dei suoi principi, che allontanerebbe la sinistra dalle maggioranze sociali e la condannerebbe a un trattamento editoriale assai aggressivo da parte dei media progressisti. È convinta che criticare la Nato oggi significhi uscire dall’ineludibile perimetro di consenso imposto dal potere mediatico e pensa che attaccare i media sia un errore perché questi continuano a essere gli arbitri del gioco politico. In effetti, il dispiegamento alla radio, alla televisione e sulle colonne dei giornali di presunti esponenti di sinistra che hanno difeso con entusiasmo la Nato e le armi all’Ucraina, ha esercitato una pressione tale da spingere molti movimenti politici più a sinistra del Psoe a credere che non abbia senso combattere battaglie ideologiche che non si possono vincere, e che per una cittadinanza che fondamentalmente pensa alla bolletta della luce e al prezzo della benzina sia meglio non discutere di questi temi troppo “politici”. Allo stesso modo percepiscono che chi scommette sulla lotta ideologica su questi argomenti è condannato alla marginalità politica e a un’ostilità mediatica a cui è impossibile resistere.

Ed ecco quel che mi ha riferito Zapatero, e la sua relazione con questo libro di Luigi de Magistris. Zapatero, con la sua lucidità da vecchia volpe della politica, mi ha detto in quel pranzo: «Iglesias, guarda la faccia dei capi di governo al vertice Nato. Vediamo quanti saranno ancora in sella tra un anno». Il primo a confermare la profezia del mio amico José Luis, che non è sospettabile di radicalismo né di votare per Podemos, è stato Mario Draghi. Il terremoto italiano ha generato una crisi politica in Europa, con buona parte delle élite atlantiste europee che corrono come suore in fuga da un incendio davanti alla caduta del loro tecnocrate italiano e alla prospettiva che la nuova alleanza della destra/ultradestra italiana (con include molti vecchi putiniani oltre a berlusconiani e fascisti impenitenti) salga al governo della terza maggiore economia della zona euro dopo le elezioni del settembre 2022.

Ma la convocazione delle elezioni politiche in Italia ha anche accelerato il processo di articolazione dell’Unione popolare e la candidatura di de Magistris. Il libro di cui sono stato invitato a scrivere la postfazione risponde anche a questa urgenza e alla necessità di raccontare un progetto politico alternativo in costruzione, oltre che la traiettoria personale e il pensiero politico di chi lo guida.

Ho letto la bozza con entusiasmo durante il mese di agosto 2022. Non ho nulla da dire ai lettori italiani sulla figura di Luigi de Magistris come Pm impegnato in una tormentata e contrastata lotta alla corruzione, e nemmeno sulla sua brillante esperienza da sindaco di Napoli. I lettori italiani lo conosceranno molto meglio di me, tanto più dopo aver letto Fuori dal sistema. Ma nella parte finale del libro ho sottolineato due passaggi che mi hanno fatto ammirare quella che reputo non solo una dimostrazione di coraggio, ma anche un’immensa lucidità di leader politico da parte di Luigi. Permettetemi di riportarli qui.

«Immagino un’Italia protagonista per la pace. Un’Italia che davvero ripudi la guerra e non invii più armi come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Oltre a firmare il trattato per la messa al bando delle armi nucleari dal nostro territorio, bisognerà diminuire le spese militari in favore dei corpi civili di pace e della protezione civile impegnata in difesa del territorio e di ben altre guerre: quelle eco-ambientali, per i diritti pubblici».

«Il nostro Paese deve impegnarsi senza sosta per creare un’Europa dei popoli, delle città, della fratellanza, della giustizia ambientale, del lavoro, della libera circolazione delle persone, anziché un’Europa unita solo dall’euro e dai vincoli di bilancio, asservita alla finanza e alle banche. Un’Europa umana, e quindi protagonista nella corsa al disarmo. In quest’ottica, l’Italia non deve rinunciare all’amicizia con gli Usa, ma non da sudditi e subalterni: anzi, bisogna pensare al superamento della Nato, organizzazione che non aiuta a costruire in Europa rapporti pacifici dal Portogallo alla Russia. La guerra illegale e sanguinaria di Putin, non così diversa dalle guerre illegali americane e della Nato, non può essere il pretesto per costruire la nuova guerra fredda in Europa. E un’Europa che tagli i ponti con la Russia non può esistere, e sarà ancora più subalterna agli interessi statunitensi e forse della Cina in ascesa».

Il pensiero di de Magistris non è quello di un leader della sinistra radicale avulso dal senso comune generale. Basta leggere questo libro per verificare che Luigi è soprattutto un democratico, un difensore dei diritti umani e dello spirito sociale e antifascista che è nel Dna della Costituzione italiana. Ma in questo paragrafo che vi segnalo, mostra un’enorme lucidità quando si tratta di comprendere le sfide che affrontano i democratici e la sinistra in Europa.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia (il cui sistema politico autoritario, peraltro, è stato elogiato fino all’altro ieri dalle democrazie europee, da quando l’autocrate Eltsin prese il potere) ha conferito alla Nato un ruolo di primo piano in Europa senza precedenti dai tempi della guerra fredda. Ma la Nato non è un’organizzazione militare delle democrazie, come sostengono le destre e i sedicenti partiti socialdemocratici, ma piuttosto uno strumento geopolitico degli Stati Uniti per la loro lotta fino alla morte contro la Cina. La strategia politica della Nato è oggi una delle principali minacce a ciò che resta delle libertà e dei diritti sociali nell’Unione Europea, e ha messo i Paesi membri dell’Unione davanti a una crisi energetica ed economica ancora difficile da calcolare, la quale ha fermato i timidi passi che si stavano compiendo per contrastare la crisi climatica e si sta aggravando in una dinamica che spinge a destra i media e le società europee e che minaccia, oggi in Italia ma molto presto in altri Paesi, i minimi comuni denominatori della democrazia liberale.

Affrontare con decisione e senza scuse la durezza dell’imminente battaglia ideologica è il più grande esercizio di pragmatismo politico che possa esistere per una sinistra europea che, ancora una volta, è chiamata a difendere la democrazia e i diritti dei lavoratori. Il successo di Melénchon in Francia, con un discorso ideologico senza complessi di inferiorità, indica la strada a chi è ancora convinto che rinunciare a posizioni ideologiche sia un esercizio di intelligenza politica. L’Italia, che ha avuto la sinistra elettorale, sociale e ideologica più forte di tutta l’Europa occidentale, è oggi la migliore prova del fallimento di una certa propensione al compromesso.

C’è chi ha interpretato come sintomo di lucidità che nel 1976 Berlinguer abbia rivendicato «l’ombrello della Nato» dalle pagine del Corriere della Sera. Non sarò io a giudicare se sia stato un successo allora, ma oggi, ovviamente, non lo sarebbe. Al di là della realtà dei blocchi geopolitici, la lotta culturale e ideologica continua a essere il terreno fondamentale della politica, e sicuramente l’insegnamento più attuale del maestro Gramsci.
Mi riempie di orgoglio vedere Luigi de Magistris e i suoi compagni impegnarsi in questo compito.

Nella foto: frame di un video de Il Mattino sull’incontro a Napoli il 17 settembre tra Luigi de Magistris e Pablo Iglesias

«Troppe contestazioni»

Dal palco di Caserta Giorgia Meloni ha puntato il dito contro la ministra dell’Interno: «È il sesto comizio che faccio e ci sono ancora contestatori che provocano – dice indicando un gruppo di persone con manifesti su dl Zan e cannabis – Chiamerò di nuovo il ministro dell’Interno Lamorgese, che evidentemente non sa fare il suo lavoro. Perché le altre volte si poteva parlare di incompetenza, ma ora penso sia una cosa fatta apposta. Si sta cercando l’incidente». Poco dopo su Facebook ha pubblicato un video proprio per denunciare la gestione della ministra e il rischio incidenti.

Particolare fondamentale: i “contestatori” di Giorgia Meloni sono semplici cittadini che alzano cartelli. Sembra una piccola cosa nel frastuono di questa campagna elettorale e invece è molto significativa: «troppe contestazioni» significa fondamentalmente non riconoscere il diritto di manifestare idee contrarie al presunto potere. Roba da regimi. Non è diverso da quel che pensa Matteo Salvini e da quel che Salvini faceva da ministro all’Interno, quando abitazioni private venivano perquisite per avere esposto striscioni che contestavano il leader della Lega, senza contenere né insulti né offese.

Quando Giorgia Meloni dice che «Lamorgese non sa fare il suo lavoro» sta implicitamente dicendo che il mestiere di un ministro all’Interno sia quello di evitare il dissenso. Non c’è altro da aggiungere. Non serve troppa fantasia per capire a cosa riporti il voler silenziare le idee piuttosto che sconfiggerle politicamente. Non si tratta di un lapsus, è questione di natura.

Buon martedì.

Nella foto da facebook manifesti satirici nei confronti della politica di Fratelli d’Italia

Perché serve uno scostamento di bilancio per proteggere i più vulnerabili dal carovita

L’attuale impennata dei prezzi dell’energia, al di là delle temporanee scosse di assestamento, non ha precedenti storici. La crisi del 1973 vide un aumento del prezzo del barile di petrolio all’incirca del 30/40%, quella del 1979 un raddoppio dei prezzi. La crisi attuale ha visto il prezzo del megawattora passare da 30 euro a 200, con picchi anche decisamente più alti. Perché questo è avvenuto? La risposta è semplice perché la dimensione della finanziarizzazione dei prezzi dell’energia è oggi infinitamente maggiore rispetto agli anni settanta. Peraltro, la diminuzione dell’offerta reale di petrolio nelle due crisi petrolifere è stata decisamente maggiore rispetto all’attuale contrazione.

Dunque, la trasformazione dell’energia in una scommessa finanziaria è una novità assoluta, in termini storici, che ha generato un aumento dei prezzi altrettanto sconosciuto. È evidente che la fisionomia del sistema produttivo è ancora legata ad un livello di prezzi dell’energia che non può subire oscillazioni vertiginose come quelle attuali perché rischia di dissolversi assai più rapidamente di quanto non sia avvenuto negli anni Settanta quando la crescita dei prezzi non era incendiata dalla speculazione. Nel caso italiano, poi, l’inflazione sta producendo profondi effetti distorsivi, di carattere strutturale anche sul piano sociale. È sempre più evidente infatti che il rialzo dei prezzi accentua le disuguaglianze. L’inflazione è, attualmente, vicina al 9%, ma risulta ben oltre il 10 per le fasce di reddito più basse e inferiore al 6 per quelle più alte; una differenza che dipende in primis dalla struttura dei consumi. Dunque i poveri saranno sempre più poveri.

Ma c’è un altro dato rilevante. I prezzi aumentano in misura maggiore nei grandi centri; questo fenomeno impedisce sempre più le possibilità di spostamento di lavoratori e studenti. La cosiddetta mobilità interna che ha caratterizzato la storia italiana ed è stata uno strumento di riduzione delle disuguaglianze sta venendo meno per effetto dei differenti livelli di inflazione. Per famiglie con redditi bassi è impossibile mandare i figli e le figlie a studiare nei grandi centri, così come per lavoratori con salari bassi diventa impossibile mantenere un’occupazione nei grandi centri. In altre parole, l’inflazione sta erodendo rapidamente il tessuto sociale.

Non è possibile, allora, affrontare un simile fenomeno ricorrendo soltanto a misure di finanza ordinaria. Sostenere che non serva uno scostamento di bilancio per far fronte all’attuale situazione può essere una speranza, ma in termini concreti è quasi impossibile, come dimostrano i numeri. Negli ultimi sei mesi il governo Draghi ha impegnato oltre 60 miliardi di euro per far fronte all’impennata dei prezzi dell’energia, coprendone una parte rilevante con nuovo debito. Appare molto probabile che almeno nei prossimi sei mesi l’inflazione difficilmente calerà in modo sensibile (i tempi per un tetto europeo sono difficili e lunghi, al di là dell’efficacia della misura, la speculazione sembra destinata a continuare e l’Europa non pare intenzionata a cambiare la Borsa di riferimento, l’introduzione di un tetto nazionale al prezzo del gas sarebbe costosissima); dunque serviranno altri interventi pubblici, probabilmente non dissimili in termini quantitativi da quelli già erogati.

Ma se non si ricorre allo scostamento, con nuovo debito, come si coprono altri 30-40 miliardi di euro di spesa? Con gli extraprofitti? Sarebbe auspicabile, ma sappiamo che ad oggi di 10 miliardi che dovevano essere incassati, siamo fermi a 1,5 miliardi. E, in ogni caso, gli extraprofitti potrebbero partorire, forse, altri 10 miliardi a cui aggiungere, nella migliore delle ipotesi ulteriori 6-7 miliardi di maggior gettito Iva. E poi? con cosa finanziamo il resto del fabbisogno senza applicare alcuna riforma fiscale, perché in quasi nessuno dei programmi elettorali si parla di nuove, significative entrate?

Alcune forze della destra immaginano persino di ridurre le tasse al minimo e di cancellare i crediti fiscali dello Stato, restringendo ulteriormente le risorse disponibili ma, in ogni caso, anche ammettendo le politiche più “virtuose” è chiaro che, in queste condizioni inflazionistiche, il bisogno di maggiori spese e di maggiori interventi imposti dal caro prezzi richiede risorse che non possono non derivare da un maggior debito pubblico. In tal senso, quindi, piuttosto che immaginare entrate inesistenti, in nome di facili slogan, occorrerebbero misure per attrarre verso il debito pubblico il risparmio italiano e una politica in sede europea per frenare, altrettanto rapidamente, il rialzo dei tassi della Bce, che rende complicatissimo il collocamento del debito italiano.

A questo riguardo è opportuna un’ultima considerazione. Le principali beneficiarie del rialzo dei tassi della Bce sono le banche, come sta dimostrando l’andamento dei loro titoli. In estrema sintesi, la Bce rende più caro il costo del denaro e le banche migliorano i loro margini. Si tratta di un’operazione che ha un valore quasi interamente finanziario visto che è molto difficile che questa strategia del rigore possa frenare l’inflazione, almeno in Europa. Del rialzo non beneficia certo l’economia nel suo insieme che, oggi, avrebbe bisogno di tutto meno che di una nuova stagione di rigore. Avere affidato per intero le politiche monetarie a banche centrali che rispondono in primis a soggetti finanziari per effetto della struttura stessa delle banche centrali tende a favorire i grandi fondi hedge, proprietari di fette rilevanti del sistema bancario, piuttosto che l’economia. Non una grande scelta, ma la politica pare aver rinunciato a questo strumento fondamentale.

 

* L’autore: Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. È autore di numerose pubblicazioni e articoli sulle tematiche della storia economica e dell’economia

In foto: un’iniziativa contro il caro bollette di Confcommercio e Fipe, i supermercati abbassano le luci per evitare consumi troppo elevati. Nella foto, un punto vendita della grande distribuzione a Roma, 31 agosto 2022 

Nella mente di Macbeth

Quando calano le luci ed entrano in scena gli attori, affannati, stravolti e sporchi di sangue, si parte. Istantaneamente Roma diventa un ricordo lontano. Daniele Salvo con il suo Macbeth, di cui ha curato regia, traduzione e adattamento, ci porta in Scozia, più che un passato distopico, in quella che lui stesso definisce un’archeologia del futuro; perché le vicende narrate nel Macbeth hanno un indiscutibile valore universale.

L’opera riflette sulla pericolosità della cieca ambizione, su come un uomo possa esserne trasformato al punto da perdere la morale, il senso comune. Daniele Salvo, nella sua magnifica interpretazione, ci restituisce la complessità dell’opera shakespeariana nella sua integrità, amplificata dal sinistro valore ermeneutico che oggi quest’attenta analisi della psicosi del potere assume. Macbeth è un dramma articolato che presenta almeno un duplice livello di lettura: politico e psicologico.

Politico perché affronta le dinamiche distruttive che nascono dalla brama di potere e trasformano gli uomini in esseri meschini, pavidi e vili. Racconta lotte intestine, fratricide, tradimenti. Psicologico nella misura in cui affronta i processi psicologi che portano i protagonisti alle loro agghiaccianti azioni. In altre parole, l’autore approfondisce il processo attraverso cui la malattia riesce a farsi strada in una mente umana fragile, inquinata dalla vacuità.

Shakespeare è talmente intelligente da capire, molto prima del tempo, che la manifestazione della pazzia più grave non sta nei raptus, nelle passioni, ma nell’assenza delle stesse, nell’anaffettività più totale che conduce alla completa perdita del rapporto con la realtà. Infatti, nei due protagonisti, la psicosi si manifesta sotto forma di freddissima lucidità calcolatrice. Macbeth, non compie il delitto preso da un furore omicida, da una hybris violenta, ma in modo freddo e chirurgico, quasi senza rendersene conto. Uccidendo, con il Re Duncan, anche l’ultimo barlume della propria umanità. Non a caso, per descrivere l’azione Macbeth afferma: «Ho ucciso il sonno». Frase con cui, a mio parere, Shakespeare allude all’annullamento della realtà inconscia, ovvero della propria immagine interna. In altre parole, Macbeth è una profondissima analisi psicologica di una coscienza malata, che dimostra come l’ambizione fredda e disumanizzata «divora tutto, rende sterili, annienta il nostro essere più umani, toglie agli uomini e alle donne il senso del Tutto», per usare le parole del regista.

L’opera al Globe Theatre ha le «caratteristiche dell’allucinazione, dell’incubo, della fiaba marcita», rispecchiando la volontà di Daniele Salvo che intendeva creare un’atmosfera surreale, sospesa. Anche se, più che di dimensione onirica, parlerei di dimensione delirante, in cui il sogno lascia spazio ad una notte buia, senza speranza e umanità.
La formidabile recitazione degli attori amplifica e rafforza le intenzioni del regista. Tutti sono bravissimi a cominciare dai protagonisti. Graziano Piazza, interpreta magistralmente il ruolo di Macbeth, succube della sfrenata libidine e ingordigia della moglie, disposta a tutto pur di emergere. Melania Giglio, ovvero Lady Macbeth è prodigiosa. Incarna pienamente il ruolo di regina delle tenebre e della donna senza scrupoli. Ogni particolare in lei è calibrato e studiato al minimo dettaglio. Il cadenzato tono di voce ne sottolinea la dissolutezza, le movenze sensuali, da gatta maledetta o mantide religiosa, ne rappresentano l’insaziabile voracità. La sua sensualità, attraverso cui soggioga emotivamente il marito, ha un carattere demoniaco e, proprio tramite un metaforico amplesso, stringe un patto con il male, rappresentato dalle tre “strane sorelle”. Lady Macbeth offre se stessa all’altare della cupidigia e, rinnegando la sua umanità, inizia un percorso verso la perdizione, che la porterà al delirio allucinato e, da lì, alla morte.

Il Macbeth di Daniele Salvo è provocatorio, denso di simbologia, allusioni religiose e artistiche. Emblematica la scena dell’ultima cena di Re Duncan – Carlo Valli – in cui gli attori riprendono meticolosamente l’Ultima cena di Leonardo da Vinci, rimanendo esattamente immobili, nelle stesse identiche posizioni dei personaggi ritratti nel quadro, per tutta la durata del monologo di Macbeth e del successivo dialogo tra i due protagonisti. Ancora fortissime sono le allusioni all’eucarestia, come ad indicare il fatto, a mio parere, che la redenzione non va cercata nella vita ultraterrena ma nel presente, nel qui ed ora. E, se il personaggio positivo di Banquo, interpretato da Alessandro Marmorini, viene brutalmente ucciso, la sua nobiltà d’animo viene riscattata da altri personaggi, come Macduff, Alessandro Albertin, e Malcom, erede di Duncan, Alberto Mariotti.

L’elemento esoterico e quello religioso si mischiano e si compenetrano, senza giudizio, come a voler innescare – nella mia visione – una riflessione più alta sui concetti di “bene” e “male”. Concetti astratti, estranei all’essere umano. In relazione al quale, come sosteneva il grande psichiatra Massimo Fagioli, sarebbe più corretto parlare di sanità, incarnata nei personaggi positivi di Banquo, Macduff e Malcom e malattia, in Macbeth e Lady Macbeth. Come se Shakespeare, utilizzando il linguaggio proprio della sua epoca, ricco di riferimenti alla stregoneria e all’esoterismo, intendesse andare al di là di quello per dimostrare con i fatti che, indipendentemente delle profezie e dei rituali, la responsabilità dell’essere umano sta sulla terra e, proprio come il suo destino, risponde alle azioni che, di momento in momento, sceglie di compiere.

Per concludere, il Macbeth di Daniele Salvo è un capolavoro da non perdere. Un succedersi di immagini potentissime che rimangono fortemente impresse nella memoria. Insomma, la performance attoriale è di altissimo livello. Gli attori padroneggiano perfettamente i loro corpi, per citare un esempio, è dirompente la scena in cui le tre streghe sorelle, interpretate da Giulia Galiani, Silvia Pietta, Mària Francesca, fanno partorire simbolicamente un uomo – con un movimento pelvico e addominale convulso e così accentuato, da lasciare davvero esterrefatti.

Globe Theatre, Roma, fino al 25 settembre (dal mercoledì al venerdì ore 21, sabato e domenica ore 18)

Nella foto: Graziano Piazza e Melania Giglio

Manuale di come non gestire una crisi

La vicenda delle presunte molestie del senatore di Azione Matteo Richetti si risolverà molto prima del previsto. Nelle ultime ore è uscito il nome della donna, si sa che l’indagine (iniziata con una denuncia di Richetti per stalking) è vicina alla fine e la testata giornalistica Fanpage (che scrive di avere altre testimonianze) dovrà difendersi da una querela mostrando quindi tutti gli elementi in suo possesso. Calenda esulta perché la donna in questione era già stata denunciata, si è dimenticato di dirci che per la denuncia di Richetti è stata chiesta l’archiviazione. Ma non scrivo di questo.

Una notizia del genere, a pochi giorni dalle elezioni, è ciò che viene definito “crisi”. Dover gestire una crisi accade ai partiti, alle aziende e alle persone, ogni giorno in tutto il mondo. Nella gestione della crisi spesso accade che per l’urgenza e per l’emergenza si possano cogliere anche i lati spesso dissimulati. La gestione della crisi da parte di Carlo Calenda è stata disastrosa, comunque vada a finire.

Negli ultimi giorni Carlo Calenda è intervenuto inizialmente chiedendo garantismo per il suo senatore. Richiesta legittima (finanche costituzionale) se non fosse che lo stesso Calenda ha nel frattempo condannato la presunta vittima, definita “mitomane” e “stalker” con una condanna passata subito in giudicato nel tribunale degli account social del leader del sedicente terzo polo che al massimo può aspirare a essere il quarto. Non è tutto: è Calenda ad avere fatto il nome di Richetti. «Dall’inchiesta di Fanpage era facile risalire all’identità del senatore», dice Calenda. Poi è avvenuto tutto il resto: colpevolizzazione della presunta vittima senza nessun processo e accusa di non avere mai presentato denuncia (senza tenere conto che l’85% delle donne vittime di molestie non denunciano). Calenda ha anche dimostrato di saper declinare al femminile, quando vuole. Gli uomini innocenti fino a prova contraria, le donne bugiarde fino a prova contraria. Ci vuole parecchia insipienza per riproporre uno schema del genere.

La gestione di questa crisi poteva raccontarci molto di come il leader di Azione (e del cosiddetto terzo polo) poteva porsi di fronte a un tema troppo ampio e troppo complesso per essere ridotto alla difesa di un suo singolo senatore (in un fatto tutto da accertare): Calenda invece ha fatto il maschio, puro, nella sua accezione peggiore. E non si tratta solo di questo: la compulsività di Calenda cha non perde mai occasione di dire qualcosa anche quando si richiede cautela dimostra che il suo partito non ha nessun filtro e nessuna struttura in un momento emergenziale. Si dimostra, ancora una volta, che Matteo Renzi ha potuto cucinarlo a fuoco lento stando in disparte. Incredibile poi che le donne del partito che si sono ritrovate a gestire una questione del genere siano Gelmini e Carfagna, le stesse che dopo avere giustificato le cene eleganti di Berlusconi e Ruby nipote di Mubarak ora dovrebbero certificare la “serietà del maschio compagno di partito”. Sì, come no.

Dice Calenda che si tratta di una polpetta avvelenata confezionata da Fanpage. Anche questo avremo il tempo di scoprirlo. Di certo ha sbagliato tutto quello che c’era da sbagliare.

Buon lunedì.

Contro tutte le politiche di esclusione e discriminazione, sosteniamo il “modello Riace”

Si prepara «una notte buia e tempestosa»? Possibile, ma l’antica saggezza popolare che raccomanda di «non fasciarsi la testa prima di rompersela», va tenuta in conto. È opportuno, in ogni caso, prevedere un periodo di “resistenza” (mi raccomando, le virgolette!) per impedire il peggio, raccogliere le forze e organizzare pratiche politiche razionali e intelligenti. È probabile, a esempio, che il governo di centrodestra – nel caso sia questo l’esito del voto – adotti una politica per l’immigrazione particolarmente restrittiva: e ciò rende ancora più necessari iniziative in controtendenza, scelte virtuose, progetti che abbiano un segno differente, indirizzati verso l’accoglienza e l’inclusione.

Per questa ragione è importante continuare a seguire e a sostenere quello che è stato definito il “modello Riace”: una politica dell’amministrazione locale di quel Comune e di quel territorio basata sulla convivenza tra nuovi arrivati e vecchi residenti, in luoghi dove la crisi economico-sociale ha prodotto fenomeni di spopolamento e marginalità con l’abbandono di borghi e attività, di risorse e speranze.

L’operato del Comune di Riace, guidato da Mimmo Lucano, ha costituito una esperienza fondamentale – conosciuta e apprezzata in tutto il mondo – che ha dimostrato nei fatti la possibilità di un’accoglienza diffusa sul territorio e capace di creare nuove opportunità di sviluppo. La sentenza del Tribunale di Locri (13 anni di reclusione e oltre un milione di sanzioni pecuniarie) ha colpito al cuore questa storia di solidarietà e convivenza pacifica, ma non l’ha sconfitta. Oggi, a Riace, migranti, profughi e richiedenti asilo trovano ancora la possibilità di inserirsi nel tessuto sociale e di accedere al sistema dei diritti di cittadinanza.

Nel villaggio globale di Riace, in questo momento, soggiornano già oltre quaranta persone in difficoltà e altre ancora sono attese: profughi afgani, nigeriani, eritrei e di altre nazionalità. Servono fondi per la sistemazione degli alloggi, le vettovaglie, le attività di inserimento socioculturale che erano state brutalmente interrotte dalle indagini e dalla sentenza. Per questo è stata lanciata una nuova raccolta di fondi – promossa da Alex Zanotelli e Sandro Veronesi, Elena Stancanelli e Gad Lerner, Valentina Calderone e Alessandro Bergonzoni – finalizzata al pagamento delle spese che richiede, ora, subito, nell’immediato, l’importante attività di accoglienza e integrazione in corso.

Consideriamo essenziale per tutti noi la prosecuzione dell’attività di accoglienza diffusa intrapresa da Mimmo Lucano, che non vuole arrendersi alle avversità. Si tratta di un esempio di solidarietà concreta che merita il vostro aiuto. Sosteniamo il “modello Riace” contro tutte le politiche di esclusione e discriminazione.

Vi chiediamo di dare il vostro contributo, piccolo o grande che sia, inviando un bonifico a:

A Buon Diritto Onlus
Banco di Sardegna
IT73H0101503200000070779827
causale “Per Mimmo”

Nota bene: A Buon Diritto Onlus sostiene e affianca l’iniziativa mettendo a disposizione un conto corrente bancario interamente dedicato alla raccolta di fondi. Le relative sottoscrizioni non sono erogate, quindi, a favore di A Buon Diritto onlus e pertanto non godono del beneficio della deducibilità fiscale.

L’autore: Luigi Manconi è presidente e fondatore di A buon Diritto onlus 

In apertura: Riace 2018, foto di Stefano Giorgi

La pace è rinnovabile, la guerra è fossile

Mentre andiamo a celebrare l’ennesima Giornata internazionale della pace, il 21 settembre, aumentano le spese militari dell’Italia. Sono in discussione in Parlamento richieste di investimenti in nuove armi per 12,5 miliardi, presentate dal governo nelle ultime settimane. Nonostante, in pendenza di elezioni, si dovrebbe occupare solo di affari correnti.

Invece sono ancora bloccati i regolamenti per le Comunità energetiche rinnovabili, previste ai sensi del decreto legislativo 199/2021, che dà attuazione alla direttiva europea Red II sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili. Regolamenti, principi e modelli che dovevano essere emanati, con decreti del ministro della Transizione ecologica, entro 180 giorni dall’entrata in vigore del decreto, cioè entro maggio 2022. Ben quattro mesi fa. E questo sì che è un “affare corrente”. Perchè Cingolani ancora non emana i necessari decreti? Ormai è evidente che saranno lasciati al successivo governo con i ritardi biblici tipici di queste situazioni.

Mentre le rinnovabili rimangono bloccate, i “rigassificatori galleggianti” vanno avanti come treni, in barba a qualsiasi regola, anche di sicurezza, e con investimenti, già fatti, di centinaia di milioni di euro. Investimenti che proseguiranno per anni. Quello che hanno detto alcuni partiti, cioè che i rigassificatori galleggianti possono “essere smobilitati ben prima del 2050”, vuol dire confessare che ce li terremo ben oltre il 2030, nonostante gli obiettivi fissati dall’Unione europea sul clima e in particolare sulle energie rinnovabili (“Fit For 55”).

Un dubbio sorge lecito. Perché si vuole privilegiare il gas e penalizzare le energie rinnovabili? Il Portogallo in poco tempo ha già raggiunto il 60% di energie da rinnovabili e raggiungerà l’80% a breve. E le bollette costano 1/3 circa di quelle italiane. Impianti rinnovabili, anche di grandi dimensioni, possono essere istallati in meno di due anni. L’Italia ha tanti bacini idroelettrici ideali per il fotovoltaico galleggiante, tanti tetti pubblici, tanti capannoni industriali da riqualificare, tante scuole che possono essere fulcro di Comunità energetiche per i piccoli e numerosi paesi delle nostre province. Eppure si continuano a favorire le energie fossili semplicemente passando dal “pusher di gas” russo ad altri “pusher”, spesso Paesi con regimi altrettanto dittatoriali, invece di “disintossicarsi” con le rinnovabili.

In primo luogo è da rimarcare che, poichè le energie rinnovabili sono a disposizione di tutti e non in mano a poche multinazionali come avviene per il gas, il petrolio e il carbone, non ci possono essere vendute a caro prezzo come avviene con l’acqua che dovrebbe essere pubblica ma non lo è. E se le multinazionali non sono ancora pronte a venderci il nostro sole, il vento e il mare, le fonti rinnovabili possono essere usate in modo democratico e solidale, magari proprio con le Comunità energetiche rinnovabili.

La seconda osservazione è che le guerre, tutte le guerre e in primis quella in Ucraina, sono funzionali a perpetuare l’era fossile. Basta pensare che negli ultimi 100 anni quasi tutte le guerre sono state fatte per le fonti fossili. A partire dal carbone nel 1900 arrivando poi al petrolio e al gas degli ultimi 50 anni. E ormai le guerre vengono anche combattute con il gas e il petrolio. Ogni guerra poi rilancia l’energia fossile. Lo dimostrano la riapertura di centrali a carbone e la ricerca di nuove fonti di approvvigionamento di petrolio e di gas. Inoltre ogni guerra aumenta le diseguaglianze: l’Europa si impoverisce in favore degli Stati Uniti e della Cina e all’interno di ciascun Paese i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Le multinazionali del fossile, e i loro ricchi azionisti, si arricchiscono in maniera spropositata, 40-50 miliardi di extra-profitti solo in Italia. Basta questo per capire a chi giovano le guerre e perché si aumentano le spese per nuove armi.

La fine dell’era dell’energia fossile sarebbe invece una necessità impellente per l’umanità intera e per molte altre forme di vita sul pianeta. Le spese militari e i sussidi pubblici per le fonti fossili dovrebbero essere spesi interamente per la transizione energetica. Le spese militari sono ormai proiettate al 2% del Pil, 38 miliardi annui, i sussidi al fossile sono pari a oltre 20 miliardi annui… parliamo di circa 60 miliardi di euro annui cui aggiungere, almeno il primo anno, 40-50 miliardi di extraprofitti (altro che Pnrr) che dovrebbero invece essere usati per una transizione equa, per nuovi posti di lavoro, per riqualificare territori esausti.

L’urgenza è massima, la scadenza è ieri: come ci dicono da tempo gli scienziati questo modello sociale e questa spirale perversa stanno creando disastrosi cambiamenti climatici e sono ormai incontrovertibili le loro conseguenze, non solo sul territorio e gli ecosistemi, ma anche sull’uomo e sulla società, relativamente al suo benessere, alla sua sicurezza, alla sua salute e alle sue attività produttive.

Vediamo costantemente crescere la povertà e gli effetti della crisi energetica, aggravata dalla guerra in Ucraina, vengono pagati dalle fasce più deboli della popolazione, in Italia come nel resto del mondo. Ci troviamo davanti a due ipotesi, entrambe drammatiche: l’aggravarsi del conflitto fino ad un allargamento mondiale o l’ulteriore incancrenirsi di guerre endemiche di media intensità con crisi economiche e conflittualità sociali sempre più gravi. Si sta allargando il debito che lasceremo alle future generazioni: al gravoso debito economico italiano stiamo aggiungendo un sempre più grande e pericoloso debito ambientale e sociale. Invece di seguire la strada della transizione ecologica, come ci chiedono gli scienziati, ci stiamo avviando a una transizione basata sulla conflittualità tra Paesi ricchi e Paesi poveri e, all’interno di ciascun Paese, tra i più ricchi e i più poveri: invece di adottare politiche per rigenerare e distribuire equamente le non infinite risorse della Terra si combatte per accaparrarsele a favore di pochi e a danno di molti.

Eppure la Costituzione italiana delinea chiaramente il solco da seguire per intraprendere il percorso che ci indica la scienza: l’articolo 3 pone l’uguaglianza al centro degli obiettivi sociali, l’articolo 9 ci ricorda che la Repubblica tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, l’articolo 41 che l’attività economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e che l’attività economica pubblica e privata deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.

Questo il faro che deve guidare la politica, chiamata a trasformare in atti concreti i principi costituzionali, per riuscire a invertire i processi conflittuali in atto e avviare un percorso di transizione ecologica, di crescita sociale e lavorativa, di miglioramento delle condizioni di vita, di riduzione della povertà, di miglioramento della salute e per riuscire a eliminare le condizioni che scatenano i conflitti. La pace è rinnovabile, la guerra è fossile.


* L’autore: Guido Marinelli, co-autore di 5 brevetti internazionali, è stato professore di Elementi di economia nel progetto di sistemi all’Università di Roma Tor Vergata. È cofondatore delle associazioni Carteinregola, Ponti per il futuro, PerImolti e Ledd. Fa parte della segreteria provinciale dell’Anpi Roma

In foto: una protesta dei Fridays for future a Varsavia, 22 aprile 2022



L’evento: il 21 settembre, alle ore 17:30, nella sede di Left a Roma (via Ludovico di Savoia 2b) si terrà l’incontro LA PACE È RINNOVABILE, LA GUERRA È FOSSILE.  L’iniziativa è promossa dal Comitato Anpi provinciale di Roma e dall’Anpi Roma VII municipio, con la collaborazione di Left, in vista dello Sciopero mondiale per il clima del prossimo 23 settembre

Interverranno: 
• Antonello Pasini, climatologo, professore universitario, ricercatore del Cnr e promotore dell’appello “un voto per il clima” che ha raccolto già più di 220mila firme;
• Filippo Sotgiu, uno dei portavoce nazionali di FridaysForFuture;
• Maddalena Lamura, ricercatrice università di Vienna, esperta di povertà energetica;
• Francesco Cioffi, Università La Sapienza;
• Leonardo Filippo, Left;
• Fabrizio De Sanctis, Presidente provinciale Anpi Roma;
• Guido Marinelli, segreteria provinciale Anpi Roma.