Un concertato di visioni che ha per protagonista lo sguardo femminile, variamente declinato e altamente spregiudicato. Si dipana fino al 2 ottobre a Firenze, fra Villa Bardini e il Forte di Belvedere, un interessante percorso che esplora il carattere formale, l’audacia sperimentale, il contributo artistico e la dimensione storica dell’essere Fotografe, ieri e oggi, mettendo in rapporto, o come oggi si usa dire in “dialogo”, lungo un unico itinerario che a volte stride, altre collide, altre ancora forse disorienta, altre infine partecipa incrociando le traiettorie, come disposto in una sismica camera degli specchi, vecchie tracce risalenti agli albori di un mezzo che alla metà dell’Ottocento muoveva i primi passi in “vista” di una rivoluzionaria paternità del concetto stesso di realismo, a un intrigo di combinazioni e palinsesti contemporanei dettati dalle moderne apparecchiature tecniche.
L’epoca della Desistenza italiana
Lì dove molti vedono una donna a capo del governo per la prima volta c’è il governo più destrorso dalla seconda guerra mondiale. La destra in Italia non esiste, è solo una stampella dell’estrema destra dove Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni ha svuotato il suo vaso comunicante, la Lega di Matteo Salvini. La destra, al massimo, è quel sedicente terzo polo che invece è sesto (un’altra truffa lessicale in piena regola durata per l’intera campagna elettorale) che nonostante i proclami (e gli scherani tra i media) è riuscito a sommare i risultati dei due partiti personalistici, senza niente di più.
Nel Partito democratico si dicono stupiti che gli italiani abbiano visto in Luigi Di Maio un “pacco” in piena regola senza cascarci, si domandano attoniti perché Carlo Cottarelli non scaldi i cuori nemmeno nella sua città (è riuscito a perdere contro Daniela Santanchè, qualche genio democratico pensava di vincerci le elezioni regionali). Il capolavoro politico di chi ha passato settimane invocando “un fronte comune contro la destra” mentre non è riuscito nemmeno a tenere il fronte minimo facendo franare il “fronte largo” sia a destra che a sinistra. Come spesso accade da quelle parti la tentazione al Nazareno sarà di addossare tutte le colpe a Letta affilando i coltelli per il prossimo congresso e ricominciare di nuovo verso la prossima analisi della sconfitta.
E la sinistra? Bella domanda. La sinistra se n’è stata come al solito sparpagliata nelle tasche di qualche esponente del Partito democratico (Peppe Provenzano e Elly Schlein, per fare qualche nome) che difficilmente riuscirà a dare le carte; sta con il risultato in linea con le aspettative di Bonelli e Fratoianni coalizzati nella coalizione (nulla di esaltante) e nel risultato (deludente, bisogna avere il coraggio di dirselo) di Unione popolare che ora deve decidere se essere l’ennesimo cartello elettorale fallito oppure essere la pietra di inciampo di una strada lunga da costruire.
Poi, svestendosi dallo snobismo, toccherebbe dirsi che la sinistra è andata nel bacino di voti del Movimento 5 Stelle (sarà perché hanno fatto una misura di sinistra – il Reddito di cittadinanza – mentre gli altri si crogiolano nella loro aporofobia?). Come si potesse credere che un elettore di sinistra potesse scaldarsi di fronte agli inginocchiati dell’agenda Draghi è uno dei misteri di quest’ultima strategia elettorale.
Si registra che quelli che hanno sventolato la Resistenza in campagna elettorale (rispettandola pochissimo nelle occasioni di governo) sono i fautori della peggiore Desistenza italiana dalla seconda guerra mondiale in poi. Questa sconfitta ha molti padri, solo che essendo i cardini della nomenclatura del centrosinistra italiano finiremo per averli ancora tutti lì.
Buon lunedì.
“We want it all”, un inno alla libertà al Romaeuropa festival
Iniziare dalla fine. Direi che, in questo momento storico, attribuire al concetto di fine un’accezione positiva ha un valore costruttivo e potenziante ed è questo il messaggio veicolato dalla Ick dans Amsterdam, fondata da Emio Greco – Pieter C. Scholten, con lo spettacolo We want it all, presentato in prima nazionale l’8 e il 9 settembre alla Cavea dell’Auditorium, come opera inaugurale della trentasettesima edizione del Romaeuropa festival.
Nel pieno della crisi, con una guerra che sta scuotendo gli animi di tutto il mondo, il cambiamento climatico e l’emergenza energetica, quando la decostruzione è totale e la sensazione è quella di essere costantemente alla vigilia dell’apocalisse, la cosa migliore per reagire è sicuramente quella di ripartire dalla fine. Così We want it all è un inno alla vita e alla libertà.
Uno spettacolo corale, che nasce dall’unione di undici finali tratti dalle oltre 60 opere realizzate dal celebre duo italo-olandese tra il 1995 e il 2020 che, cuciti insieme, si trasformano in un nuovo spettacolo. Un’opera vibrante, all’insegna della speranza, della vitalità e della fantasia.
We want it all, dal retorico sottotitolo “Is this the end?” converte il famoso verso di Freddie Mercury in un appello collettivo di 15 giovani performer della junior company Ick Next che sembrano riunirsi sul palco per far fronte alle crepe del presente. E non c’è dubbio. We want it all è uno spettacolo sul presente, contemporaneo con la C maiuscola che affronta diverse tematiche chiave della nostra epoca; scandito da una colonna sonora che stupisce, perché alterna brani classici, come Bach, a canzoni rock e pop – lasciando inaspettatamente fuori i Queen, a cui la compagnia reca omaggio nel titolo – fino alla musica francese.
La questione dell’energia fa da sfondo a tutto il balletto. Specialmente in alcuni passaggi, sembra che i danzatori si trasformino in vere e proprie fonti energetiche, come se sprigionassero calore ed elettricità con i loro movimenti, rapidi e potenti. Nello stesso tempo, We want it all è un lavoro sull’inclusione, sull’importanza dell’accoglienza, sulle migrazioni. Celebra, dunque, l’uguaglianza che si traduce in un inno alla libertà quando, nella parte finale, tutti i performer entrano in scena vestiti di bianco e si muovono intorno ad un’enorme bandiera bianca.
La libertà in We want it all è un altro dei fili conduttori, uno statement che rispecchia l’identità stessa della compagnia, da sempre proiettata verso l’apertura e la curiosità. Pur stando perfettamente nel tempo e nel ritmo, ogni ballerino interpreta le coreografie in modo libero e personale e questo fa sì che il meraviglioso senso di libertà sprigionato dallo spettacolo non sfoci mai in una caotica anarchia. We want it all è un’opera che scuote ed emoziona, proprio perché offre una sana rappresentazione della libertà, in cui ognuno è se stesso senza ledere gli altri ma anzi contribuendo alla riuscita di tutti rafforzando la propria identità.
Trovo che questo sia un altro messaggio di vitale importanza, dal momento che oggi l’idea di identità mi pare venga messa spesso in discussione, a favore di una tanto decantata fluidità, concetto molto interessante ma foriero di confusione e travisamenti, soprattutto tra i giovanissimi. Il punto è che per crescere ed innescare un cambiamento ci vuole apertura verso ciò che è diverso ma anche coraggio di essere se stessi.
Lo spettacolo di Emio Greco e Pieter C. Scholten, esagerando il gesto coreografico, lasciando liberi gli interpreti di esprimersi, rompe con gli schemi, creando una vera e propria summa poetica; tuttavia, pur proponendo un’idea decisamente innovativa di danza, che respira e diventa vita, i due artisti rendono omaggio al balletto classico, “richiamando”, in maniera dolce, velata ed ironica il famoso Lago dei cigni.
Per tutti questi motivi, la scelta di Fabrizio Grifasi, direttore generale ed artistico del festival, di inaugurare questa 37esima edizione, intitolata Dialoghi, con lo spettacolo della Ick dans Amsterdam è particolarmente riuscita. Dal momento che, oltre che emozionare il pubblico, o meglio, i pubblici del Ref, perché il Romaeuropa festival si rivolge ad un parterre molto eterogeneo, We want it all innesca una serie di riflessioni costruttive, ideali per aprire una manifestazione che si propone come un faro “sull’oggi” e sui temi che più lo caratterizzano: diritti, inclusione, ecologia, patrimonio.
Il Ref 37 si occupa dell’oggi mettendo al centro il concetto di “Dialogo” essenziale per «sintetizzare un sentire profondo che rappresenta la dimensione plurale di scambio, incontro, discussione tra artisti, istituzioni e discipline che è costitutiva del Festival stesso» per citare il direttore. E questa edizione, che finalmente torna agli antichi splendori pre-pandemici, con 400 artiste e artisti da 5 continenti; oltre 80 spettacoli in 18 spazi della Capitale, per ben 74 giorni di programmazione, fino al 20 novembre, ha davvero tutte le carte in regola per rispondere ad un vasto pubblico che ha bisogno di creatività, fantasia, condivisione e per ribadire e sottolineare che dove c’è cultura non ci può essere guerra.
Nella foto: un momento dello spettacolo We want it all (ph. Alwin Poiana)
I narcos d’Albania, il crimine cavalca l’onda dall’Europa al Sud America
Nel complesso intreccio criminale degli ultimi anni, una delle forze più sottovalutate è stata quella della mala albanese. Gli episodi di microcriminalità sono un ricordo sbiadito, quelli delle bande che si organizzavano in Italia dopo gli sbarchi degli anni 90, per fame e antichi rituali molto simili alla criminalità del sud Italia. Il racconto di quegli episodi serve sporadicamente alla propaganda che descrive lo straniero come brutto, sporco e cattivo. Il crimine albanese negli anni si è invece evoluto, sedendosi al tavolo con le mafie italiane. I clan albanesi in un primo momento hanno fatto da manovalanza ai grandi traffici per poi imporsi come realtà in grado di creare connessioni intercontinentali. Il punto di partenza per i clan albanesi è stata la tratta di giovani donne, schiave del mercato del sesso. “I narcos albanesi”, il documentario prodotto da Videa Next Station, in onda sabato 24 settembre, in prima serata su Nove, comincerà la sua cronologia criminale dalla voce proprio di una donna che è stata prima vittima e poi ribelle di un sistema criminale feroce.

Giovani donne, dagli angoli più disparati dell’Albania, venivano vendute, grazie alla corruzione di agenti di frontiera e connivenze in Italia. La tratta e lo sfruttamento della prostituzione su tutto il territorio italiano è servito ai clan albanesi per dimostrare alla malavita italiana quanto potevano essere affidabili, violenti e intransigenti con i traditori. La conoscenza del mare, delle frontiere e degli scafi è stato poi il secondo step. La marjuana, quella che serviva alle piazze di spaccio italiane. I trafficanti albanesi in Patria riciclavano e in Italia portavano erba a quintalate. Le rapine degli anni novanta non interessavano più al clan degli albanesi, che si fanno conoscere come clan strutturati, non in maniera verticistica, ma orizzontale, grazie ad una rete fittissima di affiliati.
Le evasioni dalle carceri europee dei loro grandi boss diventano cronaca esaltante, che alimentano l’epica di cui ogni criminalità necessita. L’ostentazione dei soldi a Londra, Milano, Rotterdam è molla per giovanissimi pronti ad arruolarsi. La diaspora albanese criminale, che si infiltra tra i tantissimi albanesi che cercano solo fortuna e vita dignitosa in Europa, è numerosa in tutto il mondo e nessuno tradisce. In “Narcos albanesi” c’è la possibilità di ascoltare la testimonianza del primo pentito della mala degli albanesi.
Ci sono poi tantissime vittime, adescate per lavori che si rivelano grigi, in piazze di spaccio violente. In Albania restano famiglie in lutto, per regolamenti di conto inspiegabili, come la storia che il documentario racconta partendo da una famiglia in un angolo remoto dell’Albania, che finisce nel sangue di una mazza da baseball a Mantova.

I soldi col contrabbando i boss albanesi li sanno fare benissimo. Sanno anche reinventarsi, di nuovo, con la cocaina questa volta, dall’altra parte del mondo. Il loro know how criminale resta il mare e la capacità di infiltrarsi nei porti per i traffici. Paesi Bassi, Grecia, Italia ed Ecuador. In Latino America c’è l’ultima tappa, in Ecuador appunto, nella zona di Guajaquil, dove la guerra tra narcotrafficanti conta numeri impressionanti. Conquistare il porto di Guayaquil è fondamentale, per la coca purissima che arriva dalla Colombia. Gli albanesi conquistano quella zona a suon di mattanze e corruzione nelle carceri. “Narcos albanesi” arriva fino in Ecuador, per mettere assieme tutti i volti di questa incredibile ascesa criminale.
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Il documentario fa parte della serie “Mafia connection” ideata da Carmen Vogani e condotta da Nello Trocchia. La serie si compone di quattro episodi, per quattro sabato sera in prime time su Nove. Il primo episodio è proprio sulla mala degli albanesi, sabato 21.25 su Nove.
I prossimi cinque anni
Eccoci di nuovo da voi, cari lettori e compagni, con questa nuova, emozionante, avventura che vi avevamo preannunciato a luglio: ampliare l’offerta informativa di Left articolandola fra mensile cartaceo, sito e newsletter.
Chi ci ha seguito online nei mesi di agosto e settembre ha avuto modo di leggere interviste, analisi politiche, longform che raccontano e analizzano come sta cambiando la realtà in Italia e nel mondo. Ora è il momento di varare la nave dell’approfondimento facendo un passo oltre con questo nuovo Left mensile. Abbiamo deciso di iniziare il nuovo corso con un numero quasi monografico, molto ambizioso, fin dal titolo: Agenda 2022-2027 e che non a caso è uscito a ridosso delle elezioni politiche ( qui un consuntivo) dopo una campagna elettorale, breve e concitata, basata su slogan e promesse, durante la quale si è parlato pochissimo di contenuti. Anche per gli effetti collaterali di questa legge elettorale, il Rosatellum, frutto dell’era renziana, che obbliga a forzosi apparentamenti; una brutta legge con cui ci siamo ritrovati ad andare al voto, dopo lo sciagurato taglio del numero dei parlamentari e senza una necessaria riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Ma tant’è, questa è la dura realtà dei fatti. Ma non ci arrendiamo. Ora, dopo la vittoria della destra destra, guidata da Giorgia Meloni ci aspetta una opposizione serrata. Dispiace dire lo avevamo detto.
Sul nostro sito, per tutta l’estate abbiamo spulciato i programmi, incalzato i politici, smascherato le false promesse e i pericolosi attacchi alla Costituzione di un centro destra che è sempre più destra-destra, nera e clericale, ma anche del polo cosiddetto liberale, che ripropone fallimentari ricette neoliberiste in salsa democristiana. Senza lesinare critiche anche alla coalizione di centro sinistra e alla sinistra radicale quando, su specifiche questioni, non ci hanno convinto. Ma a noi di Left, si sa, non basta fare il “cane da guardia” dell’esistente.
Le quattro parole che formano l’acronimo della testata: libertà, uguaglianza, fratellanza e trasformazione, ci obbligano a uno sforzo maggiore, a “romperci la testa” per cercare una visione, insieme concreta e ideale, per cambiare questo Paese in chiave democratica, progressista, laica, pensando alle nuove generazioni.
Beninteso non è un programma politico quello che qui vi proponiamo. Non vogliamo certo fondare l’ennesimo partito! Da giornalisti di sinistra, impegnati da sempre sul versante della difesa dei diritti civili e sociali abbiamo chiesto alle migliori menti e alle migliori energie di questo Paese – dal premio Nobel Giorgio Parisi agli attivisti dei Fridays for future, da Ilaria Cucchi a tantissimi giovani ricercatori – di aiutarci a immaginare come il nostro Paese possa uscire dalla crisi e dalla stagnazione liberandosi da feroci disuguaglianze, dalla oppressiva cappa vaticana, dal razzismo, dalla discriminazione, dall’incuria e dalla devastazione del territorio.
Gettando il cuore oltre l’ostacolo e, al contempo, essendo ben consapevoli che l’autunno che ci aspetta sarà durissimo. Non solo per il caro bollette e per le difficoltà materiali.
Per battere sul lungo periodo questa destra nerissima, nazionalista e retrograda sul piano culturale, servono idee. Serve ripensare profondamente la sinistra. E noi che veniamo da una lunga storia di ricerca collettiva abbiamo l’ambizione di poter dare, insieme a voi, un contributo per costruire una strada che ci porti anche oltre il 2027. Su questo numero di Left diamo qualche spunto puntando alto: osando parlare di scuola e università pubblica e gratuita in un Paese che purtroppo oggi ha il più altro tasso di Neet in Europa, percentuali altissime di dispersione scolastica e vede oltre un milione e trecentomila di minori in povertà assoluta (fonte Istat).
Parliamo di nuove politiche per la ricerca che, dopo tante controriforme liberiste come quella firmata da Gelmini, non obblighino più i giovani ricercatori ad andare per forza all’estero o a rinunciare. Parliamo di sanità pubblica e di come rilanciare servizi, mettendo al centro un’idea di salute che non è solo assenza di malattia ma benessere psicofisico della persona e della collettività. Parliamo di una riforma fiscale equa basata sul principio costituzionale di progressività e di quanto danno possono fare i “tassapiattisti”. Parliamo di giustizia giusta e di riforma del sistema carcerario sulla base di esempi concreti che ci sono già come il “carcere aperto” di Bollate.
Parliamo di una legge sulla cittadinanza che vada ben oltre il timido ius scholae, per dare finalmente risposta a un milione di giovani italiani senza diritti. Parliamo di abolizione della legge Bossi Fini che ha istituito il reato di clandestinità, di abolizione dei decreti Sicurezza voluti da Salvini e varati dal governo Conte I ma anche dello scellerato memorandum con la Libia siglato dal governo Gentiloni. Parliamo dell’importanza essenziale della cultura, di diritto universale di accesso al patrimonio artistico, della funzione che potrebbero avere i musei non più solo come luogo di conservazione ma come centri di ricerca, ricordando quanto sarebbe rivoluzionario applicare pienamente l’articolo 9 della Carta e l’articolo 3 che affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.
Parliamo – ed è un punto cardine per noi – di pieno riconoscimento dell’identità delle donne che ancora non c’è nonostante tante conquiste sociali (e che oggi sono di nuovo messe in pericolo). «La sinistra deve occuparsi della realtà psichica e di ciò che è trasformativo e creativo» scrive la psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti su questo numero di Left. «La sinistra deve occuparsi della realtà psichica e di ciò che è trasformativo e creativo. Non si possono accettare compromessi con una cultura basata sulla violenza e la sopraffazione e sull’annullamento del diverso». Facciamo nostre le sue parole.
I putiniani che hanno fatto finta di non vedere
Ieri Silvio Berlusconi ha gettato la maschera. O forse la maschera gliel’hanno retta per mesi gli altri, quelli a cui faceva comodo la narrazione che “gli amici di Putin” fossero a sinistra (sono sempre loro, i bellicisti che usano la guerra per fare politica, in tutti i sensi) cogliendo l’occasione per attaccare Anpi, Emergency e tutti gli altri.
Invece è bastato mettere un microfono sotto la bocca di Berlusconi per sentirlo dire, ieri sera a Porta a Porta, che Vladimir Putin è stato trascinato alla guerra dalle pressioni interne e il suo obiettivo era «sostituire il governo di Zelensky con un governo di persone perbene». Del resto è lo stesso Berlusconi che qualche tempo fa ci spiegò che la Russia era entrata in guerra “per colpa di comunisti”.
«Sono andati – dice Berlusconi – da lui in delegazione dicendo “Zelensky ha aumentato gli attacchi delle sue forze contro di noi ed i nostri confini, siamo arrivati a 16mila morti, difendici perché se non lo fai tu non sappiamo dove potremo arrivare”». Quindi, prosegue Berlusconi, «Putin è stato spinto dalla popolazione russa, dal suo partito e dai suoi ministri ad inventarsi questa operazione speciale».
«Per cui – prosegue il racconto di Berlusconi a Porta a Porta – le truppe russe dovevano entrare, in una settimana raggiungere Kiev, sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky ed in una settimana tornare indietro. Invece hanno trovato una resistenza imprevista che poi è stata foraggiata con armi di tutti i tipi dall’Occidente». Qui il leader di Forza Italia sfocia anche nell’analisi militare e aggiunge: «Non ho capito perché le truppe russe si sono espanse in giro per l’Ucraina, mentre secondo me dovevano soltanto fermarsi intorno a Kiev». Ad oggi «la guerra dura da più di 200 giorni, la situazione è diventata molto difficile, io mi sento male quando sento parlare dei morti perché ho sempre ritenuto la guerra la follia delle follie», conclude Berlusconi.
Non serve che Giorgia Meloni e Matteo Salvini continuino a inscenare questo triste spettacolino degli atlantisti dell’ultima ora se sul più “moderato” della coalizione poi non trattiene la verità. Rimane una domanda: non provano vergogna quelli del Partito unico bellicista per avere perseverato in un furioso strabismo?
Buon venerdì.
Nella foto: Berlusconi e Putin al vertice Nato Russia a Pratica di Mare, Roma, 28 maggio 2002
I Fridays for future: Basta chiacchiere sul clima
Trasporti pubblici gratuiti, comunità energetiche in ogni comune, stop ai jet privati, efficientamento energetico di scuole e case popolari e introduzione del salario minimo.
Sono queste le principali rivendicazioni dei Fridays for future, i giovani ambientalisti che oggi, in occasione dello Sciopero globale per il clima, scendono in piazza in tutto il Pianeta, in un momento molto delicato per il mondo intero e per il nostro Paese – mancano infatti solo due giorni alle elezioni politiche.
I ragazzi e le ragazze che seguono le orme di Greta Thunberg sfilano in oltre 70 città italiane, urlando gli slogan “Quale voto senza rappresentanza” e “Basta chiacchiere sul clima”: sullo sfondo, oltre alla crisi energetica innescata dall’escalation del conflitto in Ucraina, c’è l’accelerazione della crisi climatica, come testimoniano gli eventi metereologici, ultimo in ordine di tempo l’alluvione nelle Marche.
Ma in tutto questo come si sta comportando la politica nell’affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici? Secondo uno dei portavoce nazionali, Filippo Sotgiu, 21 anni, sardo d’origine e trasferitosi a Roma per studiare al conservatorio, al di là dei numeri, le misure intraprese dall’Italia sono evidentemente insufficienti sotto diversi punti di vista, dagli ostacoli che ancora sussistono all’installazione di energie rinnovabili e le comunità energetiche (che infatti procedono estremamente a rilento) alla mancanza di piani seri per un potenziamento del trasporto pubblico locale (urbano e regionale).
«La politica ha di fatto ignorato la crisi climatica, che è rimasta ai margini della campagna elettorale, e molti partiti hanno taciuto sulle misure più efficaci che si sarebbero potute mettere in pratica per ridurre le emissioni e al tempo stesso aiutare le persone in difficoltà a causa della crisi energetica» afferma Filippo, che afferma senza mezzi termini che «la politica non riesce a rappresentarci».
Certo, il distinguo tra la sinistra e la destra è abbastanza netto: almeno a grandi linee i programmi della sinistra contengono effettivamente molte delle misure che il movimento ritiene necessarie, e hanno il pregio di prevedere politiche che affrontino le disuguaglianze climatiche. Viceversa, un governo e una maggioranza guidati dalla destra, che si dichiara, a suo dire, avversario del movimento ambientalista «rischia indubbiamente di rendere il nostro lavoro più difficile».
Ma il giudizio del giovane ambientalista nei confronti dei progressisti italiani è duro, le loro proposte «poco ambiziose» e prive di coraggio.
La principale colpa del Partito democratico e dei suoi alleati, per Filippo, è quello di non riuscire «a trasmettere alla gente il messaggio fondamentale che affrontare la crisi climatica vuol dire anche affrontare i tanti problemi sociali che affliggono il nostro Paese, e che una transizione ecologica giusta non lascia indietro nessuno».
Ancora più dura è Laura Vallaro, un’altra portavoce dei Fridays italiani, piemontese, studentessa di Scienze forestali all’Università di Torino: per la giovane, i politici hanno preferito «nascondere la testa sotto la sabbia» nonostante gli scienziati ci avessero messo in guardia per farci cambiare rotta.
«Nell’attuale sistema politico non troviamo e non troveremo le risposte alla crisi climatica». Per Laura è impossibile attuare e rispettare l’Accordo di Parigi sul clima siglato nel 2015: per farlo, secondo la giovane attivista «è necessario strappare contratti e bloccare progetti legati ai combustibili fossili, e dentro a questo sistema non è possibile. Ci sono molti modi per fare politica e partecipare alla vita democratica, e in questo momento più che mai è necessario essere persone attive, per difendere il clima e la democrazia. Quindi dato che la politica ha fallito nel dare le risposte noi vogliamo creare un altro tipo di politica che sia davvero democratica».
Mancano solo due giorni alle elezioni politiche italiane, e negli ultimi sondaggi rilevati la destra è saldamente in testa. Nel frattempo, la crisi energetica e quella climatica incombono, e nello stesso tempo il conflitto in Ucraina sembra volgere sempre più al peggio.
Ma come potrà incidere su questi scenari lo Sciopero globale per il clima? I due giovanissimi portavoce mi lasciano con una nota di ottimismo. Qualunque sia l’esito delle elezioni, ragionano Laura e Filippo, il nuovo governo non potrà ignorare il fatto che la crisi climatica rimane una delle principali preoccupazioni dei cittadini. Infatti, se c’è abbastanza pressione pubblica, chiunque vinca le elezioni deve considerare le persone che sono scese in piazza per chiedere protezione del clima.
Insomma, se nessuno ci rappresenterà nel prossimo parlamento, chi meglio di questi ragazzi può rappresentarci?
Nella foto: Fridays for future in corteo “Join the fight! Time is now”, Torino, 29 luglio 2022
Braccio teso e poco coraggio
Al funerale di Alberto Stabilini, noto esponente dell’estrema destra milanese e in passato membro del Fronte della gioventù, c’era anche l’assessore alla Sicurezza di regione Lombardia Romano La Russa, fratello meno celebre di Ignazio. Nel momento in cui è stato invocato il nome del defunto tutti hanno risposto «presente!» con il solito braccio teso. Non si è sottratto – figurarsi – l’assessore La Russa, soprattutto in un momento come questo in cui si intravede lo sdoganamento di una certa cultura.
L’opposizione in Regione ha chiesto al presidente Fontana di intervenire e censurare. Figurarsi: Attilio Fontana è appeso a un filo e i rapporti di forza si sono invertiti con la Lega che ormai è una succursale dei meloniani.
Ma l’elemento significativo è la risposta del partito di Fratelli d’Italia che scrive: «Emerge con chiarezza – si legge nella nota diffusa alla stampa – che il movimento del braccio di Romano non ha nulla a che fare col saluto fascista, ma al contrario testimonia il suo invito ai presenti ad astenersi dal saluto. Basta verificare il movimento del suo braccio, peraltro assente durante le chiamate consecutive che comunque la Cassazione ha sancito non essere reato se effettuato in un funerale». Quindi il partito cerca di giustificare La Russa dicendo che «era stato chiesto in vita dal defunto Alberto Stabilini», di cui Romano La Russa era cognato e amico da sempre, l’estremo saluto immortalato in un video che sta diventando virale sul web. Siamo, come dice Mario Lavia, al Var del fascismo.
Riccardo De Corato, candidato per Fratelli d’Italia, ha il coraggio di dire: «Chi vuol confondere il rito del presente con il saluto fascista è ignorante, nel senso che ignora una tradizione militare che vige da secoli». Eccola, la loro natura. Braccio teso e poco, pochissimo, coraggio.
Buon giovedì.
Enrico Letta: Lavoro, giustizia sociale, diritti delle donne. Così li difendiamo dagli attacchi delle destre
«Il Jobs act è figlio di un’altra epoca, anche del Pd». Il segretario dem Enrico Letta non usa mezzi termini nell’esibire l’intenzione di “rottamare” l’era renziana delle riforme neoliberali del lavoro. Così come è netto nel giudicare l’alternanza scuola-lavoro, da «riformare radicalmente», e la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, «una sciagura». A pochi giorni dal voto che rischia di creare le condizioni per la nascita di un governo trainato dall’ultradestra, gli abbiamo chiesto di prendere posizione su alcuni dei temi che la nostra rivista ha maggiormente a cuore.
Pochi giorni fa, a Noventa di Piave, Giuliano De Seta è morto schiacciato da una lastra di metallo di un paio di tonnellate. Aveva 18 anni e stava partecipando ad un progetto di alternanza scuola-lavoro. Per Zingaretti questi progetti vanno «sospesi e rifondati», ma a metterli a regime è stato proprio il Pd di Renzi e nel vostro programma elettorale non vengono nominati. Cosa intendete fare su questo fronte?
Morire sul lavoro è sempre inaccettabile, ma quando succede a un ragazzo di 18 anni nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro lascia senza fiato. Da padre so che qualunque parola è inutile, è solo retorica. Non lo è un’azione decisa. L’alternanza scuola-lavoro, come gli stage, si è trasformata spesso in sfruttamento. I giovani dovevano entrare nelle aziende per imparare a lavorare, non per lavorare gratis, senza tutor e senza tutele. Noi vogliamo radicalmente riformare l’alternanza e abbiamo detto basta agli stage extracurriculari non retribuiti.
Come intendete migliorare, più in generale, i controlli sulla sicurezza sul lavoro?
Il pallino del ministro Orlando in questi anni è stata la sicurezza sul lavoro, che sappiamo essere una vera emergenza. Abbiamo aumentato l’organico dell’Ispettorato nazionale del lavoro: tra amministrativi e nuovi ispettori abbiamo assunto o previsto di assumere nel prossimo anno 2.100 persone. Abbiamo raddoppiato, in alcuni settori triplicato, i controlli. Ma soprattutto con il Rapporto 2021 dell’Ispettorato nazionale del lavoro abbiamo squarciato il velo. Basta alibi: non sono incidenti. Il lavoro più è precario, intermittente e instabile e più è insicuro, perché anche la sicurezza dipende dall’esperienza, oltre che dai protocolli. Anche per questo vogliamo superare il Jobs act e incentivare il lavoro a tempo indeterminato.
Rispetto al Jobs act, sulle nostre pagine Susanna Camusso ne ha invocato l’abolizione, mentre Cesare Damiano ha ricordato che il Pd deve riconquistare la fiducia dei lavoratori. Lei al Manifesto ha detto di voler di superare il Jobs act «sul modello di quanto fatto in Spagna contro il precariato». In che modo intendete procedere concretamente?
Innanzitutto, il Jobs act è stato già oggetto di revisione da parte della Corte costituzionale con sentenze in favore dei lavoratori, contro i licenziamenti. Ora si tratta di applicare le indicazioni della Corte stessa sull’Articolo 18 e andare avanti in una logica di forte sostegno al lavoro stabile, come hanno fatto in Spagna. Non c’è un motivo al mondo per non cambiare se non l’ossessione di Renzi e Maria Elena Boschi per i feticci della loro nouvelle vague a Palazzo Chigi. Bisogna voltare pagina, avere il coraggio di dire dove abbiamo sbagliato e ricominciare a fare politiche di sinistra sul lavoro, senza paura di entrare nei luoghi del conflitto. Noi vogliamo incentivare il contratto a tempo indeterminato attraverso un massiccio taglio ai contributi a carico del datore del lavoro. E comunque il lavoro stabile deve diventare più conveniente e quindi di nuovo centrale nel mondo del lavoro. Come si può anche solo progettare il proprio futuro se le prospettive di stabilità sono a tre o sei mesi? Come si può pensare di metter su casa o famiglia senza un minimo di protezione e sicurezza?
Invocare un voto per sbarrare la strada alle destre senza prima aver fatto di tutto per costruire una alleanza col M5s, che gli ultimi sondaggi pubblicabili davano in crescita, pare ai più una pretesa difficile da comprendere, date le poche chance di vincere divisi. Perché non vi siete battuti sino in fondo per un patto con Conte?
Guardi, cito solo tre misure e mi dica lei se sono di destra o di sinistra: salario minimo, ius scholae, stipendi più pesanti. Se Conte non avesse innescato la miccia che ha permesso alla destra di far cadere il governo Draghi, a quest’ora avremmo già quelle leggi, e non solo quelle, ma anche la riforma del catasto e del fisco, quella sul consenso per cui se una donna dice “no” è “no”, la legge sulle molestie nei luoghi di lavoro. E le lavoratrici e i lavoratori avrebbero stipendi e salari più pesanti con cui fronteggiare l’inflazione, subito. Conte ha fatto tutto da solo e lo ha fatto per interessi personali, per racimolare consenso, come si vede anche dalla campagna elettorale tutta contro di noi. Ognuno si assuma le proprie responsabilità, il Pd ha cercato di allargare il campo del centrosinistra, fino all’ultimo, non ho rimpianti.
Il tema principale dell’agenda politica dei prossimi mesi sarà l’inflazione. In attesa di un tetto europeo ai prezzi dell’energia, in Spagna e in Portogallo hanno già pensato ad un tetto nazionale. Perché in Italia non è stato fatto?
Noi lo abbiamo proposto. Così come abbiamo proposto prezzi calmierati per dodici mesi, la bolletta luce sociale per le piccole e medie imprese e per le famiglie a basso reddito, il raddoppio del credito di imposta per non far chiudere le aziende. Per affrontare l’inflazione ci vogliono redditi più alti, noi vogliamo un taglio del cuneo fiscale radicale con una mensilità in più all’anno, anche per i pensionati.
Per quanto riguarda l’immigrazione, nel vostro programma dite di voler “abolire la Bossi-Fini”. E per quanto riguarda i migranti intrappolati in Libia, esseri umani innocenti trattenuti in condizioni disumane nei vari lager del Paese?
La legge Bossi-Fini è una sciagura all’origine di molti dei problemi legati all’immigrazione. Vogliamo abrogarla e vogliamo una legge sull’immigrazione che preveda corridoi umanitari e flussi per l’ingresso delle persone migranti con un regolare permesso di lavoro. Ricordo a tutti che è stato il Pd a condurre un’aspra battaglia perché i decreti Sicurezza voluti da Salvini, approvati dal governo gialloverde, venissero finalmente abrogati. Ci siamo riusciti definitivamente il 18 dicembre 2020, con l’approvazione della legge che, tra l’altro, ha reintrodotto il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Sappiamo bene cosa accade nei lager libici, per noi ogni collaborazione con la Libia passa per il rispetto dei diritti umani. Lo abbiamo provato chiedendo al governo Draghi con un emendamento di rivedere i rapporti dell’Italia con la Guardia costiera libica. Ciò non è avvenuto, non abbiamo votato il rifinanziamento. Della Libia ci dobbiamo occupare tutti, l’Onu in primis.
Nel suo discorso da primo ministro al Parlamento nel 2013 aveva subito parlato della necessità di una “convenzione” per la riforma della Costituzione. Oggi invece dice che se il centrosinistra andrà al governo non stravolgerà la Carta e che occorre fare di tutto per fermare ogni possibile sua manomissione da parte di Meloni. Perché gli elettori dovrebbero fidarsi della vostra promessa?
Perché abbiamo di fronte la peggiore destra retrograda e oscurantista di sempre e noi siamo gli unici che possiamo fermarla e facciamo sul serio. Altro che riforme condivise, Meloni, Salvini e Berlusconi vogliono stravolgere la Costituzione a colpi di maggioranza. Fratelli d’Italia vuole il presidenzialismo perché vuole la donna forte al comando, che non è diversa dall’uomo solo al comando. È un pericolo che l’Italia non può correre.
Le parole d’ordine delle destre sulla libertà e i diritti delle donne fanno paura. Crede che con Meloni al governo il diritto all’aborto sia a rischio?
È già così. Nelle regioni governate da Fratelli d’Italia, come le Marche, è diventato già più difficile ricorrere a un’interruzione volontaria di gravidanza, mentre la pillola abortiva autorizzata dal ministero della Salute è di fatto vietata. Il diritto a non abortire di cui parla Meloni è già garantito dalla legge 194 che garantisce una gravidanza consapevole e sicura. L’aborto è sempre una scelta difficile, colpevolizzare le donne è disumano. La verità è che Giorgia Meloni comanda dentro il suo partito perché non mette in discussione le regole del patriarcato. Si comporterebbe allo stesso modo anche da premier. Dio, patria e famiglia significa donne a casa a fare figli, con meno diritti. Credo che sia abbastanza. Votare Pd serve a non riportare indietro l’Italia al dopoguerra.
Damiano Coletta: Se la destra voterà la sfiducia sarà un danno per Latina
Damiano Coletta a Latina ha battuto la coalizione di destra per la terza volta dal 2016. È accaduto il 4 settembre nelle elezioni suppletive che si sono svolte in 22 sezioni, imposte a luglio scorso dal Tar che aveva riscontrato irregolarità nel precedente turno elettorale del 2021. Allora Coletta aveva battuto il suo avversario Vincenzo Zaccheo ribaltando il risultato del primo turno in cui la coalizione di centrodestra aveva sfiorato la vittoria. Ma si è verificata la situazione della cosiddetta “anatra zoppa”. A Latina è successo così che un sindaco venisse eletto al ballottaggio, con la maggioranza dei cittadini che lo aveva scelto a guidare l’amministrazione, ma senza avere i numeri per governare. È quella che Damiano Coletta definisce una “anomalia legislativa” che dovrebbe essere superata, sottolinea. Perché al vincitore del ballottaggio non viene concessa una minima maggioranza per poter governare.
Ora, mentre tutti guardano al voto nazionale, Latina è in una situazione di stallo, con un sindaco che vuole completare l’opera iniziata fin dal primo mandato, quando, eletto con la lista civica Latina bene comune aveva rappresentato una cesura netta con la storia politica e culturale di una città sempre dominata dalle destre. La coalizione di Zaccheo, che di fatto ha la maggioranza in consiglio comunale, ha annunciato che voterà la sfiducia al sindaco. Intanto Coletta si è insediato l’8 settembre. In attesa del primo consiglio comunale che si terrà il 28 settembre, dopo quindi il voto del 25, nell’attuale frangente politico così polarizzato, abbiamo cercato di comprendere cosa sta accadendo a Latina, anche perché è evidente che sul centro pontino si sta giocando una partita che è non solo locale.
Sindaco Coletta, come ha vissuto questa improvvisa campagna elettorale estiva che ha coinciso anche con quella, altrettanto improvvisa, a livello nazionale?
Intanto la sentenza del Tar è stata abbastanza inaspettata. È stata una campagna elettorale molto anomala, in pieno agosto. Per i miei avversari era l’ultima chance, per cui questa volta, rispetto al precedente primo turno, ho trovato tutta la destra compatta. Quindi ero sfavorito nei pronostici. Però poi alla fine, anche se c’è stato un lieve incremento del mio avversario, il risultato è stato sostanzialmente sovrapponibile al precedente. Abbiamo tenuto, e non era semplice. Loro hanno utilizzato una campagna molto avvelenata, le irregolarità sono state attribuite a brogli, è stata attivata una macchina del fango nei miei riguardi. Ma alla fine ho vinto, grazie alla mia storia e a quello che ho fatto in questi anni.
Una campagna difficile anche per il clima che si è respirato a livello nazionale?
Sì, sottolineiamo anche il contesto nazionale. Si sono spostati anche tutti gli equilibri, che ha riguardato anche chi era in maggioranza, come Forza Italia – per questa anomalia legislativa dell’”anatra zoppa” per cui anche se avevo vinto nettamente al ballottaggio poi non avevo i numeri per governare, così come non ce li ho adesso. Certo, il contesto nazionale ha influenzato.
Veniamo allora al problema della governance: l’opposizione ha 19 consiglieri, la sua lista 13. La coalizione di destra ha comunicato di voler votare la sfiducia. Cosa potrebbe accadere? Arriverà il commissariamento? Con quali conseguenze per la città?
La possibilità di sfiducia c’è, perché, ripeto, adesso siamo sotto elezioni nazionali. Mi sembra che in vista del 25 settembre ci sia una strategia, un tatticismo da parte della destra. Avrebbero già dichiarato che voteranno la sfiducia e sarebbe un atto di grave irresponsabilità nei confronti della città che ha fatto una scelta precisa. Quindi sarebbe anche una mancanza di rispetto per le scelte dei cittadini. Il loro sindaco l’hanno scelto per la terza volta: io sto ai risultati del ballottaggio in cui ho vinto in maniera inequivocabile. Quando sei sindaco, io ci tengo a dirlo, sei sindaco di tutti. C’è una città che non aspetta altro che un governo stabile, perché ci sono importanti scadenze, atti da realizzare in cui serve la politica, perché il commissariamento diventa una gestione che riguarda l’ordinario. Latina non può permettersi uno stallo di ulteriori 8-9 mesi in un momento così delicato della storia sia a livello nazionale che a livello europeo ma anche a livello locale. Non ci dobbiamo dimenticare che abbiamo dovuto gestire una pandemia – e io penso di averla gestita bene – e la città aspetta di andare avanti. Le risorse stanno arrivando con il Pnrr e serve una guida stabile per ripartire. Sarebbe quindi davvero irresponsabile una scelta di questo genere. La politica in certi momenti deve saper andare oltre le differenze ideologiche perché prima di tutto ci sono il bene comune e la comunità che si deve rappresentare .
Che cosa pensa di fare?
Io cerco di muovermi sempre nel rispetto dei ruoli, quindi ci sono dei passaggi istituzionali da fare. In questo momento ho intenzione di incontrare tutti i partiti che fanno parte del consiglio comunale mettendo sul tavolo dei punti programmatici chiari, non tanti, ma magari quei cinque punti da fissare e su cui poter lavorare insieme, dandoci un tempo. Credo che sia una proposta che va nella direzione del rispetto dei cittadini. È ovvio che in questa situazione sembra che tutto sia in funzione di quello che accadrà il 25 settembre, considerando che il consiglio comunale sarà convocato per il 28 settembre.
L’opposizione guarda più a Roma che non a Latina?
Certo, il vento è in quella direzione. La mia esperienza però racconta che ho vinto tre volte e le ultime due contro i favori del pronostico, quindi vorrei dire che i risultati non possono mai essere dati tutti per scontati.
E allora, ci racconti, come ha fatto a battere la destra a Latina?
Credo che abbia pesato sempre il fatto che comunque ho cercato di rappresentare innanzitutto il concetto di bene comune, il che ha cambiato un po’ il vocabolario, la cultura della città, entrando nella grammatica della politica di Latina. Che significa aver lavorato quindi in questo senso, aver favorito processi partecipativi, lavorando sulla sostenibilità, sui diritti, sul contrasto anche alla diseguaglianza sociale. Ecco, dopo aver gestito l’emergenza della pandemia, credo che la gente abbia percepito il fatto di avere un sindaco che aveva una sua trasparenza anche in virtù di una storia che è conosciuta in città (Coletta è stato calciatore e cardiologo a Latina ndr). Nella scelta del ballottaggio penso che abbia prevalso la mia figura per come è stata la mia storia e per come è stata percepita durante la mia attività amministrativa condotta con un approccio ad un metodo anche rigoroso – che costa anche consenso – e con l’intento di spiegarlo anche alla testa delle persone, non tanto alla pancia. Ecco, credo che poi tutto questo alla fine ti premia. Ed essere riusciti a fare un risultato tale in una realtà come Latina, significa che questo processo di cambiamento si sta attivando, anche se ci vuole comunque tempo.
Come si può cambiare una situazione in cui dal punto di vista ideologico ci sono schieramenti sclerotizzati, anche originati da eredità del passato? Occorre un’operazione a livello culturale, ma come?
Questa operazione culturale ci deve essere. Io stavo tentando di fare una pacificazione della storia nel senso che da una parte, l’area progressista nella storia di questa città ha avuto certi passaggi che non possono essere negati e allo stesso tempo dall’altra parte non si può sempre guardare in modo nostalgico indietro rivendicando un’origine che deve essere perpetua nel tempo. Bisogna guardare avanti. Io ho avuto consenso da parte dei giovani. Ricordo che nella prima consiliatura mi sono aperto molto al rapporto con l’università, La Sapienza sta investendo sul polo pontino. Questo significa cercare di aprirsi al futuro, perché se investi sull’università investi sui giovani e di conseguenza devi investire sull’innovazione digitale e tutto ciò che rappresenta il mondo giovanile. Latina è una città giovane che va verso il centenario. Io credo che il lavoro che ho fatto con molta pazienza sia stato un lavoro sul “motore”, però mi fa piacere che sia cambiato il linguaggio della politica. Questo è un processo culturale che si è attivato. Certo, c’è chi chiede giustamente più attenzione alle strade, agli aspetti del decoro urbano, ma non dobbiamo dimenticare che questa città purtroppo aveva situazioni molto complesse che rischiavano proprio di mandarla in default, per cui il mio lavoro nella prima parte dell’amministrazione è stato quella di metterla in sicurezza. Spesso questo lavoro, ripeto, porta a perdere consensi. Ma non si possono sempre promettere “ricchi premi e cotillons”. Io credo che l’onestà di fondo – sarò un idealista – alla fine deve pagare.
Cosa significa amministrare e quanto conta lavorare sulla partecipazione dei cittadini?
In questi sei anni mi sono chiesto tante volte quale sia il ruolo del sindaco. Per me è il prendersi cura della comunità, che, va detto, non è curare. Prendersi cura significa avere attenzione per tutta la comunità, soprattutto nei confronti di quella parte della popolazione più fragile, che sta nelle periferie. Tutti questi temi per me sono molto più urgenti di altri. Come abbiamo visto anche nell’emergenza pandemica, vengono colpiti sempre i più deboli. La prova provata l’ho avuta proprio durante la pandemia, quando il sindaco era il punto di riferimento, doveva dare delle risposte e creare le condizioni per aiutare chi in quel momento stava nello stato di maggiore sofferenza. Anche la mia esperienza e il mio vissuto di medico mi porta a pensare in questa maniera. L’altro aspetto è mettere al centro la persona, che è il lavoro che abbiamo fatto anche con i servizi sociali: abbiamo puntato molto sul welfare. Mettere al centro la persona e passare da una visione meramente assistenzialistica a una visione che comprenda la presa in carico della persona, nel suo insieme, non solo dal punto di vista materiale: ecco, questo concetto credo di essere riuscito un po’ a farlo passare. Anche se è difficile, perché quando si amministra una città si guarda sempre al risultato oggettivo: asfaltare una strada, fare un’opera pubblica. Ma un sindaco deve avere anche questa sensibilità di fondo.
Un’ultima domanda: come si sente adesso?
Io mi sento a posto con la coscienza. L’ho detto anche durante quest’ultima campagna elettorale che è stata, ripeto, molto sui generis. È chiaro che riguardando indietro, forse avrei fatto alcune scelte diverse, ma mi viene da dire che solo chi non fa non sbaglia. Credo che la percezione, comunque, da parte dei cittadini sia questa, che mi abbia riconosciuto il fatto di essere una persona che può aver commesso anche degli errori ma che non aveva secondi fini, ho sempre agito con la massima trasparenza e onestà. Adesso, però, è un momento molto difficile dal punto di vista politico perché il tuo destino non dipende solo da te ma dipende anche dalle scelte degli altri e siccome ci tengo molto a completare l’opera, proprio perché è un momento delicato, proprio perché servono dieci anni per un cambiamento della città, mi sento in una situazione in cui vorrei tornare a lavorare per Latina. Non vedo l’ora di poterlo fare.










