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Andrea Filippi (Fp Cgil): Alla riconquista del Servizio sanitario nazionale

Nonostante le crepe messe in luce dalla pandemia da tempo ormai è del tutto carente il dibattito pubblico sul valore della salute nella società, e del Servizio sanitario nazionale chiamato a promuoverla. E anche anche nella recente campagna elettorale le proposte dei partiti a proposito della sanità hanno finito spesso col rientrare nell’orbita dell’economia, della digitalizzazione e dello sviluppo tecnologico. Secondo Andrea Filippi, psichiatra e segretario nazionale Fp Cgil medici e dirigenti Ssn, per intervenire sulla sanità con lo scopo di migliorare il benessere delle persone bisognerebbe ripartire, invece, proprio da una profonda riscoperta del Servizio sanitario e dalla sua piena attuazione.

Dottor Filippi, la legge 833 del 1978 instaurò il Servizio sanitario nazionale e segnò una svolta per il diritto alla salute in Italia. Quali condizioni resero possibile una riforma di quel tipo?

Tasse, il grande imbroglio

L’osservazione del sistema tributario di un Paese può di quel Paese dirci molte cose, di alcuni aspetti di fondo della società che ospita, dei valori e degli atteggiamenti collettivi che ne sono alla base. Ci può indicare quale sia la disponibilità a rinunciare a consumi privati a favore di un uso collettivo delle risorse, quale la propensione a combattere la diseguaglianza, quale il peso attribuito alla famiglia, rispetto ai singoli individui, quale la considerazione dell’infanzia e della gioventù, e volendo molto altro ancora. Ancor più si potrà cercare di capire se, anziché al solo sistema tributario, si guarda all’intero sistema di finanza pubblica, che comprende la spesa e la sua articolazione per livelli di governo: per quanto riguarda la diseguaglianza, per esempio, essa può essere combattuta anche con strumenti diversi da quelli tributari, e per molti versi possibilmente anche più efficaci (si pensi alla spesa pubblica per l’istruzione, la sanità, il sostegno del reddito ecc.).

Quella politica che odia le donne

Violenza di genere, stereotipi a cui sottrarsi, leggi sull’aborto in pericolo: quali sono le sfide che si prospettano per le giovani donne nell’Italia di oggi? Ne abbiamo parlato con il collettivo Marielle dell’Università Roma Tre e con la consigliera Marwa Mahmoud eletta a Reggio Emilia con il Partito democratico, per cercare di spiegare cosa significa essere una giovane donna nell’Italia di oggi. Il nome del collettivo “Marielle” è stato scelto in memoria dell’attivista brasiliana nera, queer e favelada Marielle Franco, uccisa in un agguato nel 2018.

Identità delle donne e sinistra

Se guardiamo indietro nel tempo, la condizione femminile attuale non è essenzialmente cambiata. Per tutto il secolo scorso le donne hanno avuto scarsissimo accesso all’istruzione di base e all’istruzione superiore. Solo negli ultimi decenni, per la prima volta nella storia, e non solo nei Paesi sviluppati, secondo i dati dell’Unesco, l’educazione secondaria e terziaria delle donne eguaglia e supera spesso il livello di educazione maschile. È una rivoluzione silenziosa, che cambia logiche e costumi consolidati. È una discontinuità con il passato, un cambio di paradigma, un mutamento rapido e irreversibile che, consolidandosi, potrebbe portare ad una radicale trasformazione culturale e sociale. Questo cambiamento potrebbe modificare non solo la struttura delle società che fino ad ora hanno affidato agli uomini e alle donne ruoli culturalmente prestabiliti da millenni, ma il senso dei rapporti fra gli esseri umani.

Tutta la nostra cultura, infatti, discende da un’eredità che risente fortemente del controllo maschile. Per questo motivo, per sbarazzarsi del pensiero che è stato a lungo dominante, bisogna ricostruire storicamente i passaggi da cui deriva la nostra formazione sociale e intellettuale che si origina dalla cultura greco-romana. Il fine è abbattere un modello che per troppi secoli è rimasto invariato: la donna passiva e subalterna, il cui ruolo principale è quello di essere madre oppure oggetto di piacere. Platone era ambivalente e ambiguo nei riguardi delle donne: nel V libro della Repubblica considera la donna pari all’uomo per le potenzialità intellettive, nell’opera le Leggi la considera un essere inferiore adatta a generare figli e condannata ad essere subalterna al marito.

Per Aristotele «il maschio rispetto alla femmina è tale che per natura l’uno è migliore, l’altra peggiore, e l’uno comanda, l’altra è comandata», «l’uomo è un essere umano completo, la donna è un essere umano imperfetto». Anche nella procreazione è «l’uomo a imprimere la forma, il movimento, l’anima, mentre la femmina fornisce la materia inerte, paragonabile alla cera, o al legno, che tocca all’artigiano plasmare». La visione di Aristotele ha influenzato per secoli la storia. La riscoperta dei suoi scritti nel Medioevo avrà una grandissima influenza sulla concezione della donna, contribuendo alla ricomparsa di pregiudizi e odio e diventando agli occhi degli uomini medievali una figura demoniaca. Infatti la filosofia greca adottata nel Cristianesimo fu quella che riteneva le donne inferiori agli uomini secondo natura. La cultura greca aveva relegato la donna all’interno del matrimonio al solo ruolo di procreatrice di figli legittimi: dopo le cure dei primi anni di vita da parte delle madri essi venivano affidati per l’educazione ai padri e agli amanti adulti.

Questo era il destino dei figli maschi, mentre le femmine non ricevevano alcuna educazione e non avevano alcun diritto di ereditare il patrimonio paterno, ma di ricevere una dote se spose: matrimoni combinati già in tenera età. I mariti potevano avere all’interno della casa concubine e figli illegittimi e un giovane amante, l’adulterio della moglie veniva punito con la vita. Le donne greche non solo erano prive di alcun diritto in famiglia e nella società, ma attraverso la paideia veniva cancellata l’identità femminile e la possibilità che potesse emergere negli adolescenti il rapporto uomo-donna. La pederastia era d’obbligo sia a Sparta che ad Atene. I greci temevano la realtà psichica delle donne e di conseguenza la loro sessualità: per loro era «l’inconoscibile».

La cultura romana fu influenzata da quella greca, ma fin dal suo nascere si era confrontata con quella etrusca le cui donne erano più libere. La società romana era sostanzialmente centrata sulla figura maschile «il pater familias» al quale erano garantiti sia i diritti civili che politici. In età arcaica e repubblicana il posto riservato alle donne era quello della domus cioè delle mansioni domestiche e dell’educazione dei figli alla «mos maiorum» cioè la morale romana. Un ruolo che alle donne greche non veniva neanche riconosciuto in quanto i figli le venivano tolti dopo la prima infanzia e affidati ad educatori. Nel primo e secondo secolo a.C., in epoca imperiale, alle donne romane di ceto elevato era consentita l’istruzione e ereditavano il patrimonio al pari dei maschi. Nonostante ciò non potevano rivestire ruoli pubblici e qualunque atto giuridico dovessero intraprendere, era necessaria la tutela maschile. Le figure femminili a noi note sono ricordate con la denominazione della gens di origine e non con il prenome.

Le interpretazioni sono molteplici, ma probabilmente quella più realistica è che esse pubblicamente assumevano la sola identità della famiglia e non ne avevano alcuna individuale. I romani consideravano le donne non adatte a rivestire ruoli decisionali e di responsabilità. L’emancipazione ottenuta in epoca imperiale era il prezzo di compromessi che non alteravano il predominio maschile che si basava su un’etica costruita sulla razionalità, che prendeva origine dalla filosofia greca e si proponeva come legge universale. Le donne accettavano e si identificavano con quella cultura del dominio e della sopraffazione e nell’epoca imperiale alcune donne di potere si comportarono con la stessa violenza degli uomini.

I Padri della Chiesa prima e successivamente la Scolastica considerarono il cristianesimo una conseguenza naturale della filosofia greca. I tentativi maldestri di ribellione delle donne romane in epoca imperiale furono completamente debellati poi dalla funesta alleanza tra fede e ragione che continuò l’annullamento delle donne, che molte volte arrivava fino all’annientamento fisico. È doveroso a questo punto chiederci quale sia la causa di tanta violenza pluri-millenaria che si è perpetuata fino ai giorni nostri e che viene liquidata dalla cultura attuale come un evento ineluttabile, al quale non si riesce a porre rimedio. Le donne oggi hanno conquistato un livello di istruzione pari agli uomini e ottengono risultati importanti sia nella ricerca scientifica che nelle arti, anche se i risultati vengono loro riconosciuti con difficoltà a livello di ruoli istituzionali.

Le donne non devono ripetere gli errori del passato e accettare per sopravvivere compromessi e identificazioni con una cultura violenta che per millenni ha negato e annullato la loro identità. Ma non è nella vita pubblica che si esplica la massima violenza, ma nel privato, nel rapporto uomo-donna. Per la cultura greca le donne appartenevano ad una categoria a parte «inconoscibile», e per secoli è stata temuta e annullata la loro realtà umana. La ragione astratta non ha immaginazione, non comprende la realtà dell’uguaglianza dell’uomo e della donna e la possibilità di un rapporto reale. Se non si riconosce nell’essere umano una realtà psichica e in particolar modo non si accetta la realtà della donna questo rapporto sarà sempre violento. Chi appartiene al genere femminile in virtù della diversità della propria realtà psichica rappresenta per il pensiero razionale il pericolo di perdere il dominio violento dell’uomo sull’uomo. Annullare per millenni la donna ha significato precludersi la ricerca sulla dimensione psichica umana e il raggiungimento di quella conoscenza che rende il rapporto stesso trasformativo e creativo.

Il controllo e il cambiamento della realtà materiale operato dalla ragione e dalla coscienza può avvenire senza che emerga nessun contenuto nuovo nell’ambito delle relazioni sociali in genere e in quello del rapporto uomo donna in particolare. Il progresso tecnologico può avvenire, come vediamo nella storia attuale, senza che ad esso corrisponda un rispetto dei fondamentali diritti umani. Non sono peraltro sufficienti istruzione, lavoro, e indipendenza economica: essi fanno parte di un processo di emancipazione della donna mentre l’obiettivo è raggiungere la liberazione di tutte le sue potenzialità oltre gli stereotipi culturali della mentalità maschile.

È necessario il coraggio di pensare e immaginare un modo nuovo di vivere il rapporto uomo donna che sia il punto di partenza di una trasformazione delle istituzioni e della società. La sinistra deve occuparsi della realtà psichica e di ciò che è trasformativo e creativo. Non si possono accettare compromessi con una cultura basata sulla violenza e la sopraffazione e sull’annullamento del diverso. La sinistra sarà effettivamente tale se proporrà una politica improntata ad un cambiamento radicale che liberi le donne da un’oppressione millenaria e sia in grado di far emergere un nuovo modo di pensare e di vivere le relazioni personali.

L’autrice: Maria Gabriella Gatti è psicoterapeuta e docente della scuola Bios Psychè 

L’idea della donna nuova

Alla fine dell’Ottocento, sull’onda lunga delle correnti rivoluzionarie della prima metà del secolo, le donne entrano di prepotenza nella storia e diventano protagoniste di nuove realtà culturali e politiche. Combattenti solitarie come Olympe De Gouges o Mary Wollstonecraft si moltiplicano in un vasto movimento di rivolta contro l’oppressione patriarcale che non cede. Si rivendicano diritti politici e civili uguali a quelli degli uomini, diritto all’istruzione e alla conoscenza; ci si oppone al matrimonio come istituzione che vede la donna prigioniera di condizioni umilianti di possesso e schiavitù.

Nuovi italiani. Vecchie discriminazioni

Con la caduta del governo Draghi l’ennesimo tentativo di varare una riforma della legge sulla cittadinanza è andato in fumo. La proposta sullo ius scholae firmata dall’onorevole Giuseppe Brescia del Movimento 5 stelle, presidente della commissione Affari costituzionali, avrebbe facilitato l’ottenimento della cittadinanza, estendendo la possibilità di ottenerla ai bambini e alle bambine nati in Italia o arrivati prima di avere compiuto 12 anni, dopo aver frequentato le scuole per un ciclo di 5 anni. L’approvazione della riforma, in realtà, era tutt’altro che scontata. Forse è stato addirittura un bene che l’iter si sia interrotto, perché l’introduzione dello ius scholae non avrebbe intaccato l’impianto normativo dell’attuale legge, ma solo inserito un’eccezione rivolta a un bacino molto ristretto di aventi diritto. Sulla scarsa efficacia della riforma si sono espressi anche quei movimenti della società civile che l’hanno sostenuta, come “Dalla parte giusta della storia” e “Noi siamo pronti, e voi?”.

Ilaria Cucchi: Una giustizia giusta, per i tanti Stefano

«La giustizia deve essere garantita per tutti, nella stessa maniera. Soprattutto per gli ultimi. Ad oggi, i processi non sono a misura di persona poco abbiente. Perché gli avvocati costano, i medici legali costano, i periti costano. E non tutti abbiamo le stesse possibilità». L’incipit della nostra intervista a Ilaria Cucchi è già un manifesto politico. Dopo aver portato a termine la sfida più importante della propria vita lo scorso aprile, vincendo una battaglia legale durata 13 anni – dopo 150 udienze e 15 gradi di giudizio – che ha sancito che la morte di suo fratello Stefano è stata frutto di un omicidio preterintenzionale commesso da membri delle forze dell’ordine, Cucchi ha deciso di candidarsi alle politiche nelle liste dell’Alleanza verdi e sinistra. L’obiettivo? «Dare voce a tutti gli altri Stefano, partire da ciò che è successo a mio fratello e dalla nostra conseguente esperienza, nelle aule di giustizia e fuori, quando ci siamo trovati, e ci troviamo, a scontrarci contro l’ignoranza e la violenza verbale e metterlo a disposizione dell’intera collettività. È la mia ragione di vita».

Quanto pesa il Concordato

Non si parla granché di laicità. Anzi, se ne parla sempre meno, si è notato anche durante la campagna elettorale. Sarebbe fantastico se accadesse che, in quanto supremo principio costituzionale, la laicità fosse considerata da tutti i partiti un dato acquisito. E invece non è così: anzi, è esattamente il contrario. È un principio costituzionale che quasi nessuno sembra voler rivendicare. Non lo fa la destra, che rivendica ossessivamente le radici cristiane della nostra società, che esibisce ostentatamente la sua identità cattolica e che a livello internazionale è alleata con i partiti della destra religiosa più estremista. Ma non lo fa nemmeno gran parte della sinistra che, come le tre scimmiette, non vede, non sente e non parla quando Bergoglio definisce «sicario» chi abortisce o «nazista» la legalizzazione dell’eutanasia. La laicità è da anni un tema che fa venire il mal di pancia alla gauche papiste.

Il senso di Gramsci per la sinistra

Nel maggio 1789, adunatisi gli Stati generali, i membri del Terzo Stato si spartirono l’emiciclo: i conservatori si accomodarono a destra, i radicali e i rivoluzionari a sinistra. Il centro, spazio indistinto e senza identità, fu chiamato “palude”. Nasceva quel giorno a Parigi, con la Rivoluzione francese, la sinistra. Ad agosto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamava, sotto gli auspici dell’Essere supremo, i diritti naturali di tutti. Ma il biblico dissidio tra Caino e Abele, per la persistente matrice religiosa della Ragione, passò alla sinistra nelle forme di uno scissionismo irriducibile. Dalla mortale dialettica tra Robespierre e Danton, ghigliottinato come controrivoluzionario, il tragico scontro si è trasmesso fino ai pallidi epigoni odierni. Nella Russia prerivoluzionaria dei bolscevichi alimentò l’aspro conflitto che divise Lenin dall’ex amico Aleksandr Bogdanov sulle opposte sponde, economicista e culturale, dell’interpretazione di Marx.

La lungimiranza di Solženicyn

Aleksandr Solženicyn fu non soltanto un testimone degli orrori dell’esperimento sovietico, ma un lucido analista del mondo di poi, della “Grande catastrofe russa” post-1989. Vedremo subito come la lungimiranza e profondità della sua analisi sia ancor oggi di sconcertante attualità.

Nonostante il senso di liberazione per la caduta del regime comunista, Solženicyn fu da subito un critico inflessibile della “nuova Russia” di Putin. Raccolse le sue considerazioni in un saggio del 1994 (La “questione russa” alla fine del XX secolo, Torino, Einaudi, 1995), anno del rientro in Russia dall’esilio. Il premio Nobel era convinto che settanta anni di regime comunista avessero intaccato la fibra profonda del Paese, ipotecando anche il futuro: «Soltanto a voler fare del sarcasmo, a mo’ di scherno, si può chiamare democrazia, vale a dire potere del popolo, il potere esercitato nel nostro Paese nel 1991». Dunque dopo il comunismo nessuna democrazia. Ma neanche “libero mercato”: «Stiamo creando una società spietata, feroce e criminale, di gran lunga peggiore dei modelli occidentali che cerchiamo di copiare». E ancora: «Profitto! Profitto a qualunque prezzo! Sia pure con l’inganno, con la corruzione, con lo stupro, con la vendita dei beni della propria madre (la patria)! Il “profitto” è divenuto la nuova (e del tutto insignificante) Ideologia».