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Aborto in Brasile: la lotta per un diritto negato in “Incompatible with Life”

Incompatible with Life è un documentario  diretto dalla regista brasiliana Eliza Capai. Il film racconta l’esperienza di gravidanza della regista. È il maggio 2020, e durante il lockdown le proteste contro il presidente Jair Bolsonaro si fanno sempre più accese. Capai cerca di combattere le ansie e le paure causate dalla pandemia documentando la sua maternità, ma durante un’ecografia di controllo si trova a ricevere una diagnosi di malformazione fetale “incompatibile con la vita”. Il documentario parte dall’esperienza personale dell’autrice per poi dispiegarsi in un coro che invita a riflettere.

Nel documentario di Capai la voce della regista va a intersecarsi con quella di altre donne brasiliane che hanno vissuto esperienze simili, mettendo in luce le difficoltà affrontate dalle gestanti in queste circostanze a causa della natura restrittiva delle politiche riproduttive brasiliane.

In Brasile, l’aborto è consentito solo in tre casi specifici: in caso di gravidanza conseguente a stupro, se la vita della donna è in pericolo o in presenza di gravi malformazioni fetali. Ma anche in queste circostanze è difficile che l’interruzione di gravidanza venga approvata, come viene sottolineato nel documentario. Al di fuori di queste casistiche inoltre, la legge lo vieta categoricamente. Questo contesto normativo fa sì che molte donne ricorrano ad aborti clandestini, trovandosi a dover affrontare ripercussioni legali nel caso in cui vengano scoperte o a dover rischiare la propria vita in strutture non autorizzate.

Secondo l’articolo 124 del codice penale brasiliano, una donna che abortisce può essere condannata da uno a tre anni di carcere, mentre chi esegue l’aborto rischia fino a quattro anni di reclusione.

I dati del sistema sanitario brasiliano (DataSus) rivelano che le città di Rio de Janeiro e San Paolo sono tra le aree con il maggior numero di processi per aborto. Secondo un’indagine della Difensoria Pubblica di Rio de Janeiro spesso lo status socioeconomico influisce sulla possibilità di accedere a un aborto sicuro in Brasile. Se le donne appartenenti a classi sociali privilegiate possono permettersi procedure mediche clandestine in condizioni relativamente sicure, coloro che vivono in condizioni di povertà, spesso di origine afro-discendente o indigena, sono costrette a ricorrere a metodi ancora più rischiosi, come l’uso di infusi o farmaci abortivi non regolamentati, mettendo a rischio la propria vita. Secondo la ricerca a Rio il 60% delle donne perseguite legalmente per aver abortito appartiene a categorie socialmente svantaggiate.

Un’indagine condotta dall’Istituto di Bioetica e dall’Università di Brasilia nel 2016 evidenzia inoltre che il 20% delle donne ha ricorso almeno a un aborto illegale nel corso della propria vita. Nel 2015, si stima che circa 500mila donne abbiano abortito in clandestinità.

Secondo i dati del sistema sanitario, tra il 2009 e il 2018, 721 donne sono morte a causa di aborti non sicuri. La maggior parte delle vittime apparteneva a gruppi socialmente emarginati.

Ad oggi con il presidente Luiz Inàcio Lula da Silva al governo, la situazione in Brasile dal punto di vista dei diritti riproduttivi purtroppo non è sostanzialmente cambiata.

Il tema dell’interruzione di gravidanza suscita forti discussioni anche nel panorama politico italiano. La legge 194 del 1978 è stata introdotta per garantire un accesso sicuro e libero all’aborto, sia chirurgico che farmacologico, tuttavia, diversi fattori ne ostacolano l’effettiva applicazione, tra cui la sempre altissima percentuale di ginecologi obiettori di coscienza, che in media raggiunge il 63% e in alcune regioni arriva fino all’80%.

Oltre a “Incompatible with Life” la regista ha diretto altri documentari socialmente e politicamente impegnati, come “Your Turn” (2019), che ha ricevuto premi internazionali tra cui l’Amnesty International Film Prize e il Peace Prize al Berlinale.

“Incompatible with Life” informa e sensibilizza sull’impossibilità di accedere a un diritto fondamentale, ed è disponibile per la visione su diverse piattaforme di streaming, tra cui MUBI e Amazon Prime Video.

L’autrice: Linda Capecci è giornalista freelance

 

In apertura un ritratto di Eliza Capai

Al MAXXI, il Foro Italico e il fantasma del fascismo

Non credo di essere l’unico a provare sordo rancore ogni volta che passo davanti all’obelisco del Foro Italico. Ancora oggi, la scritta ‘Dux Mussolini’ è incisa su quel monolite, testimone imbarazzante della Roma fascista. Eppure, con un moto di civico entusiasmo, l’altro giorno ho notato che, sebbene l’obelisco resti saldo al suo posto, la scritta era sparita.
Nella notte, un braccio meccanico montato su un camion si è avvicinato al monolite, e due artigiani, con gesti rapidi e precisi, hanno riempito di resina mista a polvere di marmo di Carrara le incisioni. Un intervento pulito, quasi invisibile, fatto a regola d’arte.
Peccato sia solo un sogno, perché la realtà è un’altra: decenni di amministrazioni romane hanno lasciato intatta quella scritta, permettendo a un simbolo di dittatura e guerra di svettare impunito, mentre il paese cercava faticosamente di fare i conti con il suo passato. Ci ho pensato visitando la mostra Il Foro Italico di Enrico Del Debbio. Classicismo e modernità al MAXXI fino al 31 agosto.
Enrico del Debbio, nacque nel 1891 a Carrara (ma nessuno lo accusò di conflitto di interessi per via dell’obelisco!) ed è scomparso a Roma nel 1973. E’ stato un prominente architetto Italiano, progettista e primo preside della Facoltà di Architettura a Valle Giulia e autore del progetto completo del Foro Italico che in questa mostra è in esposizione. Dal mio punto di vista la mostra è straordinaria. Sì, è vero: ii nostri maestri Bruno Zevi e Leonardo Benevolo ci avevano educato a ignorare Del Debbio e il suo Foro Italico per le sue vene classicheggianti.
Negli anni Venti e Trenta il classicismo era il linguaggio dei professori e degli accademici – spesso strumentale agli sventramenti dei centri storici e alle speculazioni immobiliari –, e aveva senso schierarsi con i giovani architetti razionalisti, che adottavano un linguaggio astratto e dinamico mutuato dalle avanguardie e proponevano piani urbanistici funzionali e ‘democratici’. Ma ora, a quasi un secolo di distanza, sembra assurdo negare il valore di un’opera solo perché era portatrice di valori legati all’identità classica, romana e fascista che Mussolini quando gli conveniva esaltava. Lasciamo stare il dibattito Classicismo e Modernità, allora e concentriamoci su opere e mostra. Il progetto di Del Debbio è particolarmente interessante per come articola sapientemente un complesso enorme di edifici – la cosiddetta Città dello Sport – nei pressi di Ponte Milvio, nella parte settentrionale di Roma. L’architetto, che aveva approfonditamente studiato impianti sportivi in Europa, ebbe un’intuizione geniale e risolutiva: posizionare il grande stadio di calcio e atletica addossato alla collina di Montemario, con un’angolazione studiata per minimizzarne l’impatto volumetrico. Questa disposizione nasce da un approccio concreto e contestuale, seguendo una logica paesaggistica e orografica decisamente anticlassica. Del Debbio opera con la stessa tecnica degli antichi romani nei Fori o in Villa Adriana. I singoli edifici, sono sempre organizzati simmetricamente, ma si relazionano liberamente tra loro nell’impianto generale, quasi casualmente, creando a volte spazi aperti, a volte intagli architettonici, a volte semplici addossamenti. Così viene creato un asse d’ingresso (cui si allineerà il ponte costruito successivamente) che sviluppa due ali simmetriche rispetto all’asse centrale, ma che improvvisamente va quasi a sbattere contro l’angolo dello stadio in una prima ipotesi, sino a quando nasce una splendida “cerniera” di raccordo con una zona appena ribassata. Accanto al grande stadio, quello più piccolo “dei Marmi” quasi collide con il primo, ma si allinea perfettamente con il fabbricato di servizi sportivi. Montemario, con la sua vegetazione, entra continuamente nella scena architettonica: tra i volumi, attraverso i ponti che spesso raccordano gli edifici, nei grandi atri. Il complesso delle piscine, sulla sinistra, segue l’andamento del LungoTevere, mentre la zona del tennis si addossa naturalmente alla collina. Sulla destra, verso Ponte Milvio, Del Debbio progetta il complesso di edifici destinati a formare l’Università dello Sport. Fino agli anni Ottanta, il complesso si conservò sostanzialmente intatto – benché già segnato dal tempo. Era allora un giardino pubblico meraviglioso, dove si poteva vagare liberamente dall’Ostello della Gioventù a ovest fino al Foro dei Marmi e oltre, verso est. Poi arrivarono le trasformazioni radicali: l’area del tennis stravolta, lo stadio sopraelevato. Ma la ferita più profonda fu lo spossessamento degli spazi pubblici, progressivamente chiusi, ingabbiati, cancellati. Come l’Accademia di Moretti, che un tempo navigava magica nello spazio aperto e oggi appare soffocata da recinzioni.
Ma tornando all’architetto, questa mostra espone una ricca selezione di disegni originali (donati dalla famiglia all’archivio del MAXXI e ora pubblicati nel catalogo curato da Claudia Torrini, con interventi delle curatrici Ariane Varela Braga e Carla Zhara Buda e di altri studiosi). L’allestimento nell’ampolla progettata da Hadid valorizza magnificamente i materiali: dagli schizzi preliminari che catturano il germe dell’idea, alle grandi prospettive a tempera, fino ai disegni tecnici di straordinaria fattura – quasi commoventi per chi è di una generazione che è stata forse l’ultima a realizzarli ancora in questo modo. Tra i molti documenti esposti, particolarmente interessanti sono le foto che documentano il trasporto (dalle Alpi Apuane, lungo il Tirreno e poi a risalire Tevere) del famoso obelisco in marmo di Carrara. No, non va abbattuto. Secondo me, basterebbe cancellarne le incisioni, eliminarne l’onta.

L’autore: Antonino Saggio, architetto, è docente ordinario alla Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma. Tra i suoi libri Lo Specchio di Caravaggio (Vita nostra edizioni)

Sulla Palestina l’opposizione c’è. Il governo no

“Questo non è solo l’ennesimo attacco al multilateralismo da parte di Trump, ma anche la conferma del suo sostegno al piano criminale di Netanyahu in Palestina, che Albanese ha sempre denunciato con forza. E trovo vergognoso che il governo italiano non abbia detto una parola in difesa di una cittadina italiana che svolge un incarico così delicato”.

Ieri la segretaria del Partito Democratico non ha scelto equilibrismi: il partito perno del centrosinistra (e del campo largo che forse sarà) ha tirato le fila dell’opposizione contro la vigliaccheria del governo del “prima gli italiani” — tranne quelli che non piacciono a Trump e Netanyahu.

Abbiamo sottolineato le timidezze del Pd ogni volta che si è attorcigliato sulle pretestuose rimostranze della sua minoranza. Abbiamo detto e scritto di un partito che, per dimensioni e organizzazione, troppe volte è apparso smussato e lento.

La presa di posizione di Schlein ci dice però almeno due cose: difendere questo governo di Israele significa essere evidentemente dalla parte sbagliata della storia, e il lavoro di Francesca Albanese ha toccato i nervi scoperti di chi vorrebbe nascondere il genocidio di oggi e l’apartheid degli ultimi anni.

Tra le poche buone notizie di questi mesi c’è un’opposizione che si mostra compatta e svelta nella difesa del diritto internazionale, al di là degli interessi personali. Se c’è da costruire un’unità di intenti nella politica estera, forse questo è un buon punto da cui partire.

Buon venerdì.

Milano, specchio d’Italia

Qualche anno fa, ero in giro per Milano con Mario Calabresi (le nostre figlie sono amiche), quando mi è scappato di dirgli: «A me piazza Fontana mi ha cambiato la vita. Mio papà ha sentito il botto e ha pensato che non era una città in cui crescere una bambina appena nata. Così siamo andati a vivere in Toscana, dove sono rimasta fino ai 19 anni».

Lui si è limitato a un cenno, e in quell’attimo ho capito di aver parlato troppo. Come avevo potuto dire una cosa del genere proprio a lui, a cui la strage del 12 dicembre 1969 aveva sconvolta la vita in modo infinitamente più drammatico?

Eppure proprio quel momento ha contribuito a darmi l’idea di una nuova storia da raccontare, quella della famiglia Monteleone, al centro di due volumi, pubblicati da Baldini+Castoldi: I Monteleone e Le stagioni della verità.

Lo spunto è semplice: narrare la storia di una famiglia e in parallelo quella del nostro Paese. Se volessi cercare dei modelli cinematografici e puntare in alto, potrei menzionare il film di Marco Tullio Giordana La meglio gioventù e, a livello internazionale, il Forrest Gump con Tom Hanks.

Dal Fascismo a Toscanini

Ho scelto una famiglia meneghina non a caso. Certo, Milano è la mia città e la ritengo alla stregua più di un personaggio che di un mero fondale. Però è anche vero che proprio in questa città si sono svolti capitoli epocali della storia che poi hanno finito per avere un impatto in tutto il Paese.

Pensiamo al Fascismo. Proprio a Milano, in piazza San Sepolcro, nel 1919, viene fondato il Movimento dei Fasci italiani di combattimento. Ma a Milano si sviluppa anche una forte ribellione al regime, nascono i gruppi di azione patriottica (Gap), si svolgono i primi scioperi. Tutto ciò vale a Milano la nomina a “capitale della Resistenza”. In piazzale Loreto, poi, vengono esposti i cadaveri di Claretta Petacci e Benito Mussolini. È il 29 aprile del 1945. Il luogo non è scelto a caso: qui l’anno precedente 15 partigiani erano stati prima giustiziati e poi lasciati esposti come monito alla popolazione.

Una città martoriata, bombardata, ostaggio del Fascismo. Ma anche una città che ha saputo ribellarsi, combattere e rialzarsi. Nel mio romanzo, racconto in particolare la rinascita del Teatro alla Scala. E cito le parole dello scenografo Nicola Benois, a proposito dei bombardamenti che nell’agosto del 1943 avevano devastato il teatro: «Non potemmo che piangere. Dall’inizio della guerra facevamo spettacoli per militari e feriti, da quel momento il nuovo grande ferito era la Scala». E nella narrazione entra l’inaugurazione del teatro rinnovato, l’11 maggio del 1946, a pochi giorni dallo storico referendum che avrebbe portato il Paese, e le donne per la prima volta al voto, a decidere tra Repubblica e Monarchia. Sul palco salgono un Arturo Toscanini quasi ottantenne con in mano una bacchetta dal manico tricolore. E una Renata Tebaldi ancora giovane, ma già dal talento luminoso.

Dagli anni di Piombo al Covid

La famiglia Monteleone vive gli anni entusiasmanti della ricostruzione e del Boom economico. Ma la tragedia incombe. Amedeo, classe 1933, è un magistrato integerrimo, che sta indagando sull’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura e su altri avvenimenti ancora poco chiari della scena criminale e politica italiana. Ha ricevuto delle minacce e sa di rischiare. Il giudice Ferdinando Imposimato, che nella fiction ho immaginato lavorare con lui, gli consiglia di cambiare aria, ma lui rifiuta. «Non scappo». E così la profezia si avvera: il 3 giugno 1976 viene ucciso in un agguato. Amedeo Monteleone è un personaggio di fantasia, ma i magistrati uccisi dal Terrorismo purtroppo sono una tragica realtà e in molti hanno pagato con la vita solo per aver fatto con coscienza il proprio lavoro.

Le storie della famiglia Monteleone si intersecano in più momenti con la grande Storia vissuta dal nostro Paese. E Milano, anno dopo anno, conferma la propria centralità.

La Milano da Bere, negli anni Ottanta, prende il nome da una celebre campagna pubblicitaria, quella dell’Amaro Ramazzotti. E rappresenta il trionfo di ottimismo, gioia di vivere e di uno stile di vita opulento. Uomini simbolo a Milano: Silvio Berlusconi e Bettino Craxi.

Il personaggio dei Monteleone che meglio interpreta lo spirito di quegli anni è Roberto. Classe 1944, playboy, giocatore, amante del lusso e della bella vita. Attraversa tempi scintillanti e pericolosi, finché la resa dei conti arriva. Per lui, Milano, l’Italia tutta.

A un certo punto, infatti, il sistema implode mostrando tutte le sue crepe. Sempre a Milano infatti scoppia, nel 1992, lo scandalo di Mani Pulite che vedrà al centro le indagini di Antonio Di Pietro e decreterà il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un passaggio che non è certo indolore. Tra i lutti di quegli anni, si ricordano i suicidi del manager Gabriele Cagliari a San Vittore e, pochi giorni dopo, quello di Raul Gardini, a Palazzo Belgioioso.

Nel rilancio del nostro Paese a livello internazionale Milano dice la sua con Expo 2015. Le polemiche non mancano ma alla fine il bilancio, almeno quello reputazionale, è ampiamente in attivo.

La città si guadagna un ruolo centrale, a cui avrebbe rinunciato volentieri, anche durante la pandemia. I primi focolai sono proprio in Lombardia, che alla fine risulta la regione più colpita.

“Andrà tutto bene” e “Ne usciremo migliori” ripetevamo in quei tragici mesi. Forse si era un po’ troppo ottimisti. Ma comunque ne siamo usciti. E Milano, in quella occasione come molte altre, si è fatta apripista, dimostrando forza, coraggio e resilienza (parola passata un po’ di moda, ma concetto sempre valido).

L’autrice: Lucia Tilde Ingrosso è autrice di molti volumi ed è nota anche per la sua fortunata serie di gialli dell’ispettore Rizzo. Da poco sono usciti per Baldini e Castoldi I Monteleone e Le stagioni della verità. Nel 2022 ha pubblicato il romanzo biografico Anna Politkovskaja. Per left ha scritto Lo sguardo lungo di Anna Politkovskaja

Trump inasprisce il blocco economico contro Cuba

L’attuale presidente statunitense ha sempre mostrato una forte ostilità verso Cuba, sin dal suo primo mandato cominciato nel gennaio 2017. Allora, durante un meeting a Miami e in piena campagna elettorale aveva promesso che se fosse stato eletto, avrebbe rovesciato la politica di apertura degli Stati Uniti verso Cuba in nome dell’affermazione di “libertà religiose e politiche” nell’isola. Inoltre, aveva detto che si sarebbe allineato “con i cubani in lotta contro l’oppressione comunista”. Trump non è mai stato d’accordo con la politica estera del suo predecessore Obama e con le concessioni fatte al governo cubano. Lo storico incontro tra Barack Obama e Raúl Castro il 17 dicembre del 2014 aveva posto le basi per ristabilire le relazioni diplomatiche tra i due Paesi fino alla normalizzazione dei vincoli bilateriali.

Il progetto di riavvicinamento Usa – Cuba si interruppe il 17 giugno 2017 con la firma di Trump del primo Memorandum presidenziale di sicurezza nazionale con l’obiettivo di rafforzare la politica estera degli Usa anticubana. Tra l’altro, la scelta del luogo e delle presenze a quell’atto pubblico non furono per niente casuali. L’evento si tenne presso il teatro Manuel Artime della Pequeña Habana, che porta il nome del capo della brigata mercenaria 2506 sconfitta sulle spiagge di Playa Girón nell’aprile del 1961. Le persone attorno alla scrivania del presidente statunitense appartenevano a un ridotto gruppo di mercenari e sbirri della dittatura di Fulgencio Batista. In questo scenario Trump compì con la sua promessa elettorale dando soddisfazione ai legislatori e alle lobby anti-cubane dello stato della Florida che lo avevano votato in maggioranza (55% contro il 45% a favore di H. Clinton).

Dal 2017 al 2021 Trump ha imposto ben 242 sanzioni unilaterali contro Cuba e il suo popolo in un periodo tra l’altro in cui il mondo soffriva le conseguenze del confinamiento forzato per la pandemia. Con queste misure Trump aveva inasprito l’embargo economico e commerciale e aveva proibito i viaggi delle navi da crociera, i voli regolari e charter a tutto il paese, fatta eccezione per l’Avana. Inoltre avevo reso impossibile le rimesse dall’estero attraverso le compagnie cubane Fincimez e American International Services, i principali canali formali per realizzare transazioni verso l’isola.
Il nuovo ciclo di sanzioni con l’emendamento al Memorando presidenziale n°5
Dal 30 giugno fino al 30 luglio, i ministri dell’amministrazione Trump hanno avuto l’incarico di analizzare la politica estera degli Stati Uniti verso l’isola caraibica con l’obiettivo di rafforzare le sanzioni in ogni settore della società.

Nell’aggiornamento al Memorandum si stabiliscono una serie di misure dirette a inasprire il blocco economico e a provocare maggiori mancanze al popolo cubano, con l’obiettivo – più volte fallito – di impadronirsi del Paese e riscrivere il suo destino. Le nuove e reiterate sanzioni si applicano in conformità alla legge Helms – Burton dell’anno 1996. Tra gli obiettivi c’è quello di debilitare ulteriormente il settore del turismo che già registra una riduzione importante di turisti pari a -28% rispetto allo stesso periodo precedente, secondo dati emanati dall’Istituto nazionale di statistica e informazione (Onei). Il settore turistico che, nell’anno 2018 raggiunse il picco con l’arrivo di circa 5 milioni di visitatori, nel 2024 ha registrato una presenza di appena 2 milioni di visitatori. Si registra un calo di turisti dal Canada (-29%), dalla Russia (-45%) ed un’ altra riduzione importante di turisti proviene dagli Stati Uniti, dalla Francia, dall’ Italia, dalla Germania e dall’ Argentina, tra gli altri.

Di fronte alla nuova aggressione statunitense, Bruno Rodríguez ministro delle Relazioni estere del governo cubano ha dichiarato che la politica ostile di Trump viola il diritto internazionale e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite. Cerca di giustificare l’uso della coercizione economica come arma di aggressione contro un paese sovrano, con l’obiettivo di spezzare la volontà politica dell’intera nazione e sottometterla alla dittatura egemonica degli Stati Uniti. Non è un caso che, dal 1992, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite abbia chiesto quasi all’unanimità la fine del blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba. I governanti e i politici degli Stati Uniti hanno l’audacia nel dichiarare di agire in questo modo per il bene del popolo cubano. Le sfide che Cuba deve affrontare sono grandi, soprattutto considerando gli sforzi degli Stati Uniti nel distruggere il progetto nazionale che noi cubani abbiamo costruito nel pieno esercizio dei nostri diritti sovrani, incluso il diritto all’autodeterminazione. Al governo degli Stati Uniti non importa che Cuba sia un paese pacifico, stabile e solidale, con relazioni amichevoli praticamente con il mondo intero. La politica che persegue risponde agli interessi ristretti di una cricca corrotta e anticubana che ha fatto dell’aggressione, contro i suoi vicini, uno stile di vita e un business molto redditizio.

Le nuove sanzioni imposte dagli Usa contro Cuba hanno generato reazioni a livello regionale e internazionale. Tra gli organismi ad esprimersi contro c’è l’Alba (Alleanza bolivariana per i popoli di nostra America) che condanna le nuove misure criminali adottate dal governo statunitense contro il popolo cubano. I Paesi membri condannano energicamente l’inasprimento di questa nuova aggressione che cerca di colpire gravemente tutti i settori della società cubana, come il turismo, la salute, i processi migratori, gli scambi culturali, accademici e scientifici, l’accesso alla tecnologia e dichiarare apertamente l’inasprimento del blocco economico e l’imposizione di un cambiamento di regime, tra gli altri punti.

Il governo nicaraguense di Daniel Ortega ha denunciato la continuità del blocco economico contro il popolo cubano che è stato, e continua ad essere, un esempio di forza per i popoli del mondo. Nell’inasprire l’inumano e criminale blocco economico contro Cuba, il governo degli Stati Uniti pone in evidenza la sua malsana ed odiosa intenzione di distruggere il Paese.
Il presidente della Repubblica plurinazionale di Bolivia, Luis Arce ha dichiarato che il Memorandum presidenziale emesso dall’amministrazione Trump degli Stati Uniti rappresenta un nuovo atto di aggressione contro il popolo e il governo cubano, in palese disprezzo per i principi di autodeterminazione e non ingerenza. Rafforza inoltre, la violazione dei diritti umani di una popolazione che ha subito un criminale e obsoleto blocco economico, finanziario e commerciale da parte dell’imperialismo yankee per oltre sei decenni. Dichiara di sottoscrivere l’appello della maggior parte dei Paesi del mondo, ripetutamente espresso all’Assamblea generale delle Nazioni Unite e ignorato dagli Stati Uniti, che chiede la revoca inmediata e incondizionata del blocco.
Anche la presidentessa di Messico Claudia Sheinbaum si unisce alle condanne contro l’applicazione del nuovo Memorandum presidenziale di Trump riaffermando la solidarietà del governo messicano al governo cubano.

L’autore: Davide Matrone è docente all’Universitad politecnica salesiana

Foto Di Trump di Gage Skidmore

Una cittadina italiana aggredita da due governi. E il nostro governo dov’è?

Nel giro di pochi giorni Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, è diventata il bersaglio ufficiale della macchina del fango israeliana e della rappresaglia diplomatica statunitense. E mentre Tel Aviv paga Google Ads per manipolare le ricerche online con pagine diffamatorie, e Washington impone sanzioni personali contro una cittadina italiana colpevole solo di aver denunciato crimini di guerra e il “business del genocidio”, il governo Meloni tace. Vigliaccamente.

Non una parola dal ministro degli Esteri, non un appoggio ufficiale, non un richiamo alle responsabilità verso una propria concittadina investita di un mandato internazionale. E dire che basterebbe leggere il rapporto che ha provocato l’ira della Casa Bianca: Albanese vi elenca con rigore giuridico i nomi delle aziende – tra cui Amazon, Alphabet, Palantir – che traggono profitto dall’economia di guerra israeliana. Nomi troppo influenti, evidentemente, perché qualcuno in Italia trovi il coraggio di difenderla.

Israele, da parte sua, ha alzato il livello della propaganda. Non solo accuse infondate di legami con Hamas, ma vere e proprie operazioni di disinformazione pianificate: video falsi creati con l’intelligenza artificiale, campagne su YouTube, pagine sponsorizzate che oscurano ogni traccia neutra di informazione. E Francesca Albanese diventa così il capro espiatorio perfetto: donna, italiana, e troppo libera per essere controllabile.

In un Paese serio, il Parlamento si sarebbe già mobilitato, e il ministro Tajani avrebbe almeno chiesto chiarimenti agli “alleati” americani. Invece no: silenzio, sottomissione, ignavia. Eppure Francesca Albanese non è una militante, ma una giurista di altissimo profilo nominata dalle Nazioni Unite. La sua unica colpa è fare ciò che la comunità internazionale dovrebbe fare da tempo: chiamare le cose con il loro nome. Anche quando il prezzo è l’isolamento. Anche quando il governo del proprio Paese si gira dall’altra parte.

Buon giovedì.

 

Il ritratto di Francesca Albanese è tratto da Wikipedia

Öcalan scommette sulla pace: il PKK depone le armi e difende il confederalismo democratico

manifestazione per la liberazione di Ocalan

Il leader Abdullah Öcalan ha lanciato un appello ai militanti del PKK a deporre le armi e l’11 e 12 luglio è prevista una cerimonia simbolica di disarmo di una ventina – trenta attivisti del PKK a Sulaymaniyah (Iraq), come primo gesto concreto della rinuncia alla lotta armata.

Il presidente Öcalan, con la sua iniziativa di pace, ha compiuto un coraggioso azzardo storico: ha proposto una rivoluzione democratica , scommettendo sulla pace possibile. Dovrà ora decidere il governo turco, uscendo dalle ambiguità. Il primo atto dovrà essere la libertà per Öcalan e tutti i detenuti di pensiero e politici. Quale è l’anomala grandezza della proposta di Öcalan? In un Medio Oriente sconvolto da bombardamenti e annientamento di popoli, in un mondo che corre verso un riarmo bellicista, che militarizza anche l’immaginario collettivo verso sovranismi e nazionalismi, Öcalan propone pace e pratica disarmo. Il suo partito, il PKK, che proviene da una lotta armata durissima, da una guerra civile devastante, in un congresso drammatico e dai contenuti molto elevati, sceglie l’abbandono della lotta armata, la riconversione in un percorso di liberazione civile dal colonialismo. Questo processo è la proiezione politica della grande concezione teorica e sociale del “confederalismo democratico”, che si caratterizza per il superamento dell’idea dello “Stato nazione”, del sovranismo nazionalistico.

Ritengo che il “l’autodifesa confederalismo democratico” non riguardi solo il processo di liberazione del popolo curdo; esso è un paradigma democratico che dovremmo anche noi elaborare e sperimentare, in una Unione Europea che veleggia veloce verso le autocrazie nazionaliste. E’ un progetto di rivoluzione politico, geopolitico, anche sociale. Che fonda sulla liberazione delle donne, sull’ecologismo, sulla democrazia dal basso, sull’autodifesa popolare. Il percorso di liberazione attraversa i villaggi; esso non riguarda solo le comunità curde, ma quelle arabe, assire, ezide, circasse, turkmene.

Il “confederalismo democratico” non è un progetto separatista, secessionista. Esso sfida l’intera Turchia ad attuare radicali riforme democratiche, a migliorare la qualità della democrazia in un Paese sempre più oligarchico. Questo disegno è certamente complesso, di difficile realizzazione. È un azzardo, appunto; ma ha già costruito una rete di movimenti femministi, ecologisti, internazionalisti. Ne abbiamo discusso, giorni fa, in un incontro coordinato da Simona Maggiorelli, direttrice di Left nella sede del Senato italiano (con interventi di Yilmaz Orkan, Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia, Piero Bernocchi  portavoce nazionale della Confederazione Cobas, Francesca Ghirra, Deputata AVS e altri ndr).

Perché è essenziale coinvolgere il Parlamento italiano in una iniziativa democratica e di pace  che è, oggi, unica in un mondo devastato dal bellicismo.

 

Qui il video della conferenza stampa 

l’autore: Giovanni Russo Spena, già parlamentare, è giurista e costituzionalista e , Portavoce Comitato Libertà per Öcalan.

Romanzo Viminale

Chissà se in Libia ieri c’è stato uno sbirresco ministro dell’Interno, o similare, che ha usato l’account social istituzionale scrivendo: “Respinto italiano di mezza età alla frontiera che clandestinamente cercava di intrufolarsi nel suolo libero. I clandestini a casa!”. Il tutto accompagnato dalla faccia contrita e cadente del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ieri ha provato sulla propria pelle (meglio, sulla nostra, perché la credibilità nazionale sarebbe patrimonio di tutti) cosa significhi essere improvvisamente dalla parte sbagliata del mondo.

A Piantedosi – nonostante la figura barbina che entrerà negli annali delle pagliaccerie di Stato – è andata comunque bene. Avrebbero potuto sbatterlo in un CPR a mangiare e farsi mangiare dagli scarafaggi in attesa dell’imbarco verso Roma, additato come criminale da qualche esponente politico libico che avrebbe incassato applausi per aver difeso le sue donne dal pericoloso italiano.

Oppure avrebbe potuto essere imbarcato su una nave libica (meglio, italiana, perché sono quasi tutte nostre le navi da quelle parti) per sorbirsi un viaggetto fino all’Albania, dove sarebbe stato usato come scalpo per fomentare la foga securitaria europea.

Niente di tutto questo. A Piantedosi rimane solo l’essere diventato interprete del più tragicomico contrappasso dei sovranisti di quest’epoca. È passato in qualche secondo da ministro oggetto di cerimoniale a straniero bersaglio di contumelie. Tutto questo solo perché quel confine gli è stato usato contro come frusta. Caro ministro, le è andata bene: noi buonisti siamo dalla sua parte.

Buon mercoledì.

Contro l’industria dell’algoritmo, il Premio BIG rilancia la musica come bene comune

In un tempo in cui la musica si sviluppa in molte direzioni, tra linguaggi digitali, nuove tecnologie e forme espressive sempre più ibride, c’è chi sceglie di riportare al centro l’esperienza collettiva, l’ascolto reciproco, la dimensione della band come luogo di incontro creativo. Con questo spirito nasce il Premio BIG – Francesco Di Giacomo, un progetto culturale e umano che prende forma a dieci anni dalla scomparsa della voce storica del Banco del Mutuo Soccorso e che culmina l’11 e il 12 luglio a Zagarolo.
La direzione artistica è affidata ad Andrea Satta, cantante dei Têtes de Bois, legato a Di Giacomo da un’amicizia profonda e da anni di sperimentazioni artistiche condivise. Al suo fianco, nell’ideazione e nella realizzazione del premio, c’è Antonella Caspoli, compagna di una vita di Francesco, attiva in ambito istituzionale e culturale nel comune di Zagarolo, produttrice musicale e artista orafa, con alle spalle partecipazioni a mostre e convegni in tutta Italia.

Antonella, l’idea di questo premio è nata da un’intuizione tua ma anche da un tempo interiore che non è sempre facile da raccontare, soprattutto quando arriva dopo una perdita. Raccontaci come si è trasformata questa idea, da pensiero a progetto reale.
L’idea era lì da un po’, ma i tempi del lutto sono ovattati e dilatati. Non mi consentivano di renderla concreta. Poi mi sono resa conto che oggi non è più così diffusa la possibilità per le band di suonare nei locali o fare un disco. C’è una tendenza all’individualismo, anche a una certa difficoltà nel costruire relazioni.
Ne parlai con Andrea Satta, che per me è famiglia. E come diceva sempre Francesco: “Andrea le cose le fa”. Così, con l’aiuto di tanti amici, abbiamo dato le gambe a questo sogno.

Andrea, tu con Francesco hai condiviso non solo il palco, ma anche esperimenti artistici poetici e visionari. Che tipo di linguaggio avevate insieme? E cosa c’era, secondo te, nel modo in cui Francesco si metteva in gioco?
Francesco è stato una delle mie “vittime” preferite. Gli ho fatto fare di tutto: lo misi su un bidone su una ferrovia abbandonata a leggere Calvino, lo imbracai dentro una cesta di mongolfiera per raccontare la periferia romana dall’alto, lo feci camminare – con fatica – su un ponte tibetano per un film. Lui un po’ mi amava, un po’ mi malediceva. Ma era sempre con me. Quella che avevamo era una complicità profonda, da fratelli. E ogni volta pensavamo insieme a come sorprendere, come stupire il pubblico e noi stessi.

Questo è un premio dedicato alle band. Una scelta forte, oggi, in un contesto musicale che sembra invece privilegiare sempre più la produzione solitaria. Cosa significa, oggi, credere ancora nella forza creativa di un gruppo?
La band è l’officina dei sentimenti, come dico spesso. È il luogo dove si creano relazioni, dove si litiga, si sbaglia, ci si salva. È una risposta a questa tendenza alla creazione solitaria davanti a uno schermo. Noi parliamo di intelligenza artigianale, come contrappunto – non rifiuto – a quella artificiale. Niente di nostalgico, ma un modo per dire che le canzoni nascono da tensioni vere. E per farle, serve un altro essere umano davanti.

Antonella, il tuo rapporto con la musica è stato profondo ma quotidiano, domestico, pieno di ascolto e vicinanza. Come è cambiato nel tempo, soprattutto ora che la musica è anche un ponte con un’assenza?
Lo so che potrebbe sembrare strano, ma oggi preferisco il silenzio.
Anni fa, mentre lavoravo a un gioiello, c’era sempre un disco o un CD che girava. Ricordo un ciondolo nato ascoltando Romeo e Giulietta di Prokofiev, lo chiamai Giu-Ro. Ma ora non riesco più ad ascoltare musica come sottofondo. Voglio farlo da seduta, con attenzione. Non nei locali, non con i rumori intorno. È cambiato qualcosa. Forse sono cambiata io. Ora la musica deve arrivare quando la chiamo. Altrimenti, resto nel silenzio.

 Andrea, oggi si parla molto di strumenti tecnologici che aiutano nella composizione, dell’uso dell’intelligenza artificiale anche nella scrittura di testi o melodie. Come ti poni rispetto a questo scenario, tu che hai sempre dato importanza alla dimensione collettiva e artigianale della musica?
Io non sono contrario alla tecnologia. Ma credo che vada sciolta dentro una visione umana.
L’AI può elaborare testi, suoni, stimoli. Ma la band ti costringe al limite, al confronto. Ti fa inciampare e rialzare. È lì che nasce l’arte. È la band che ti fa capire cosa sei disposto a cedere e cosa no. È una scuola di vita, oltre che di suono.

Antonella, mettere in piedi un progetto pubblico come questo, dedicato a una persona che è anche parte della tua intimità, richiede una forza particolare. Come vivi questo passaggio tra l’interno e l’esterno, tra il ricordo privato e il racconto condiviso?
Per ora il mio progetto sono proprio le serate finali del Premio BIG. Voglio che siano autentiche, dense, vere. Non so cosa verrà dopo. Questo era il sogno e adesso prende forma. Non ho bisogno di altro, se non di ascoltare e fare con cura. Il resto, verrà se dovrà venire.

 Andrea, tu hai detto più volte che questo premio non vuole essere un ricordo nostalgico ma un racconto…
È una differenza enorme. Ricordare è tornare indietro. Raccontare è rendere vivo. Francesco non è una reliquia. Era una voce viva, piena, concreta. Non veniva da un contesto colto. Era figlio della gente vera, del pane condiviso. Ma aveva un’eleganza che stava nell’aria, non nei vestiti. Parlava con tutti. Questo premio serve a farlo parlare ancora.

Avete ricevuto molte adesioni e manifestazioni di interesse da parte di band emergenti. Che impressioni avete avuto finora da chi vi scrive, vi ascolta, vuole partecipare?
Sì, le iscrizioni stanno arrivando da tutta Italia. Sono soprattutto band giovani. Questo ci sorprende e ci fa ben sperare. Perché significa che c’è ancora bisogno di stare insieme per fare musica. Essere selezionati sarà già un riconoscimento. E per la band vincitrice ci sarà una produzione. Ma più del premio, conta la relazione.

Le serate del premio non sono “solo”eventi musicali, ma momenti di scambio, di condivisione, di racconto. Come le avete immaginate? Che tipo di energia sperate di costruire con chi salirà sul palco, ma anche con chi sarà in ascolto?
Nelle due serate dell’ 11 e 12  luglio non ci sarà solo una gara. Ma una festa, un rito collettivo, con immagini, racconti, video, parole. Vogliamo che sia un racconto continuo, non una commemorazione. Francesco era popolare nel senso più nobile. Apriva la porta, ti offriva da bere, ti diceva: “mettiti dove vuoi”. Questa è l’atmosfera che vogliamo.

 Quale eredità secondo voi lascia Francesco Di Giacomo oggi?
Andrea: L’eredità di Francesco non è fatta solo di canzoni ma è un immaginario fatto di una varietà di linguaggi, ironie, intuizioni. Era uno che si raccontava anche sul palco, mentre suonava. E questo è quello che proviamo a fare anche noi oggi: non ricordare, ma continuare a raccontarlo.
Antonella: L’ascolto… era la persona che diceva “entra, siediti, ti porto qualcosa”. Non chiedeva chi eri. Ti ascoltava. Credo che la sua grandezza fosse anche lì.

 

L’autrice: Giuliana Vitali è giornalista e scrittrice. E’ appena uscito il suo “Nata dall’acqua sporca” (Giulio Perrone editore)

In apertura un ritratto di Francesco Di Giacomo

L’onorevole Lisei mente sui Cpr. E lo fa con metodo

Marco Lisei, senatore di Fratelli d’Italia, dice che “i peggiori criminali stranieri vengono trattenuti nei Cpr nel tentativo di rimpatriarli con ogni mezzo possibile”. Sa benissimo di mentire. I Cpr non sono carceri, ma strutture amministrative dove vengono rinchiusi migranti irregolari, spesso senza alcun reato alle spalle. La loro “colpa” è non avere i documenti in regola, non un passato criminale. Eppure Lisei insiste a confondere la clandestinità con la delinquenza, sapendo che è una semplificazione velenosa utile solo a spaventare.

Poi aggiunge che “il governo Meloni si impegna a fondo per allontanare questi soggetti”. Anche qui, la realtà dice altro: nel 2023 solo il 10% degli ordini di espulsione ha portato a un rimpatrio. Non per colpa dei giudici, ma per l’incapacità di questo governo di firmare accordi bilaterali e costruire strumenti legali funzionanti.

Lisei se la prende con la magistratura, accusandola di usare “codicilli e cavilli” per liberare i trattenuti. Ma ciò che chiama cavilli sono diritti costituzionali. La libertà personale è tutelata dalla Carta. Il giudice non sabota, controlla. E meno male.

Che a dire queste cose sia un avvocato rende tutto più grave. È la solita operazione della destra meloniana: agita i fantasmi, costruisce nemici, e intanto si nasconde dietro un patriottismo a comando. L’Italia sicura, per questi, è un’enorme distesa di servi e di quelli che servono. Solo quelli. 

Buon martedì. 

 

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