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Su neonazismo e fascismo la vergogna non basta

Quando la destra svedese decide di chiedere scusa per i suoi legami con il neonazismo, lo fa con un libro bianco di 900 pagine. È la quantità, non la qualità, a raccontare l’ingombro. Un’operazione di “trasparenza” che puzza di marketing elettorale, nel momento esatto in cui i Democratici Svedesi si preparano a rivendicare un posto stabile al governo. Le parole del leader Akesson sono precise: parla di “malessere”, non di colpa; si dichiara “disgustato”, ma non responsabile. Si scusa, ma non si dimette.

E allora il punto è proprio questo: se la vergogna arriva quando conviene, non è vergogna, è strategia. Se i conti con il passato si fanno in pubblico ma si mantengono inalterati i pregiudizi verso le minoranze — come denuncia il Comitato per la lotta all’antisemitismo — si sta solo riciclando il proprio profilo, senza toccare il cuore ideologico. L’antisemitismo, i rapporti con i gruppi come “Resistenza bianca ariana”, l’odio sottile e selettivo verso gli altri: tutto questo non sparisce con una dichiarazione, né con un rapporto storico. Si cancella solo cambiando rotta, non aggiustando la narrazione.

Il problema, però, non riguarda solo la Svezia. Riguarda ogni forza politica che cerca la rispettabilità indossando il lutto. Riguarda chi tenta di scavalcare la propria storia con una conferenza stampa. E riguarda noi, che troppo spesso accettiamo le scuse senza verificare cosa resta dopo averle pronunciate.

Buon lunedì.

Barberi racconta la Sicilia che resiste

La scrittura è forse la cosa più indispensabile per chi ha visto scorrere davanti ai suoi occhi storie che rischiavano altrimenti di rimanere senza parole, senza testimoni, senza futuro. A maggior ragione in luoghi dispersi, lontani, di frontiera, perché è dalle ridotte più isolate che partono, spesso, i segnali dei cambiamenti, ben prima che vengano riconosciuti nei centri del progresso culturale e politico di un Paese. Ce lo hanno insegnato i nostri maestri, scrittori e intellettuali che proprio dalle periferie hanno scrutato, come veggenti, cosa stava succedendo, con decenni di anticipo sui tempi. Superfluo fare i nomi, li conosciamo bene.

Le Edizioni Sicilia Punto L hanno pubblicato un importante libro di Angelo Barberi, Contrada Ulmo e altri racconti, un testo che, meglio specificarlo subito, è come un insieme di rilevazioni, oserei dire di triangolazioni, messe in atto per descrivere la topografia umana, politica e sociale degli ultimi decenni in Sicilia e in Italia.

L’autore ripercorre con il suo sguardo lucido e duro ma nello stesso tempo denso di pietas, battaglie e visioni, collettive e solitarie, ma sempre figlie di un periodo, forse l’ultimo della nostra storia recente, in cui la condizione invincibile di solitudine ha trovato uno spiraglio di soluzione nella solidarietà tra le persone.

Barberi, con gli strumenti dell’indagine che parte dalla cronaca ma, nel contempo, con la profondità critica e stilistica di chi guarda dentro l’uomo, riesce a rintracciare, anche da sparute tracce, le azioni le idee e i progetti di donne e uomini capaci di affrontare le malattie del nuovo mondo postmoderno, spesso, come dicevamo, dai primissimi sintomi: il ritorno della guerra e degli armamenti più o meno tecnologici come unica prospettiva storica, il controllo dei bisogni come strumento di torsione privatistica dello stato sociale, la trasformazione del lavoro in nuovo servaggio, senza diritti, senza garanzie, senza reale progresso.

Da questo punto di vista, il racconto che dà il titolo alla raccolta, è esemplare: con precisione e quasi distacco di storico ma con l’emozionante partecipazione di chi quei fatti li ha visti e ha contribuito a farli crescere, narra delle proteste contro l’installazione del grande centro di controllo militare noto come MUOS, a Niscemi, in contrada Ulmo appunto; si riconoscono volti, storie, intenti, sconfitte. Sì, perché leggendo questo libro, bisogna fin da subito abituarsi al sapore della sconfitta, che però è un sapore necessario: conta infatti di più il motivo delle scelte, in quanto il cammino da compiere è più importante del traguardo, se si vuole costruire il senso di un’esistenza. I protagonisti dei racconti di Barberi, di fronte ad ogni bivio, è come se scegliessero sempre la strada più impervia, ingombra di ostacoli: la vita va guadagnata, sembra essere questa la loro idea originaria, la vita va sofferta per essere vita (solo chi soffre sa, dicevano i tragici greci).

Mi piace pensare, da questo punto di vista, al racconto Rita, dove la lotta spesso solitaria per far valere la propria dignità di cittadina diventa poco a poco una lotta per la propria stessa sopravvivenza, la malattia essendo la forma massima di solitudine. Malattia che torna più volte, in tutto il libro, anzi è protagonista di interi racconti (Vita di Anselmo, Il Dottor S.): la malattia che dà al potere la possibilità di trasformarsi, di ingannare, di svendere il diritto alla salute a favore della privatizzazione del dolore, della mercificazione della sofferenza. Il potere, dice subito l’autore, è proteiforme, ci irretisce, priva dello stesso spirito di cittadinanza e di partecipazione, e infine ci accompagna dolcemente verso la morte.

Eppure, suggerisce Barberi, non saremo mai veramente soli di fronte alle ingiustizie se avremo la forza di credere nella nostra stessa umanità, se ci affideremo agli altri per vedere di più, per capire di più.

Tutti i racconti, in definitiva, aprono degli squarci nella tela, strappano appunto le nostre piccole sicurezze di individui, ci terrorizzano in parte. Ma questa terra guasta è pur sempre tutto ciò che abbiamo, ed è dovere di un’umanità memore, difenderla, sottrarla alla spirale di violenza verso cui la spinge il potere. E allora nessuno può davvero sentirsi sconfitto, se la sconfitta è l’esito di una vita spesa nella difesa delle donne e degli uomini, dell’ambiente, della terra. Già, la terra delle aree interne del sud, mondi destinati al silenzio, alla diaspora dei pochi abitanti rimasti, come ormai suggeriscono esplicitamente i massimi esponenti delle classi dirigenti. E c’è nelle descrizioni dei paesaggi, dei borghi, la tenera voce di chi ha comunque deciso di vivere fino in fondo i propri luoghi, di non lasciarli nonostante tutto. E ritorna l’eco delle parole, e delle idee, dei grandi maestri della letteratura siciliana del secondo Novecento, Sciascia e più ancora Consolo. Barberi non solo racconta, non solo testimonia, ma illumina gli angoli più bui con la luce della memoria, una memoria che serva per le generazioni che verranno, non certo per cullare di malinconia le attuali. Per far questo, trova il giusto ordine nelle cose, costruisce una tassonomia, ricorda i rapporti di causalità, per evitare che i fatti raccontati siano appunto semplicemente storie, seppure siano in ogni caso storie, liriche, coinvolgenti, enigmatiche, ricche.

L’autore sente la necessità di fissare lo sguardo su chi ha avuto il coraggio di guardare più in là e spesso in direzione obliqua, e dà spazio a chi ha fatto fatica a trovare il proprio, di spazio: e lo fa tra le pagine di uno stile aspro ma accogliente, inesorato ma sensibile, uno stile che concede niente alle spesso esotiche tendenze letterarie della narrativa isolana.

Le cose che accadono, troppo facilmente vengono ignorate o travisate, a favore di una trasmissione di idee e visioni utili solo ad addormentarci. Questo libro, come dovrebbe fare sempre la vera letteratura, ci tiene svegli, quasi insonni.

E’ un libro che parla di tante cose, e tutte dovevano essere dette, e scritte.

In apertura Muos satellite a Niscemi

La Kefiah arancione, bandiera di Palestina

Trascinarono Ahmad. Allah ti protegga, pensò Loai. I soldati si guardarono soddisfatti, avevano appena avuto la conferma che cercavano: era proprio quello il fidai’i a cui stavano dando la caccia. Perché un fidai’i che consegna a qualcuno la propria kefiah è come un re che consegna ai propri sudditi la corona, come uno scrittore che consegna ai lettori il calamo, come un marinaio che consegna agli avi la propria barca. Era lui il fidai’i e aveva appena consegnato la sua kefiah ai posteri».

È un passaggio chiave de Il ragazzo con la kefiah arancione (Ponte alle grazie) di Alae Al Said, scrittrice nata a Roma di origini palestinesi. Chiave perché ci parla del passaggio di un testimone, dalla vita alla morte, dalla certezza all’oblio, dal terrestre all’eterno.

La parola fidai’i traduce “combattente per la libertà, partigiano”, e il suo plurale, più noto da noi, è fidayyin. Ma questo romanzo non è affatto, ovvero, non è soltanto la storia di chi fa guerriglia. Non è, o non è solo un romanzo di guerra. È, invece, una grande storia di amicizia e di affetto, ambientata in scenari che di rado hanno, negli ultimi decenni, visto la pace.

La storia, raccontata in gran parte in flashback, è quella che narra Loai Qasrawi a un giornalista americano il quale, si scoprirà poi, ha legami importanti proprio col suo passato. Legami di cui, però, al momento dell’incontro tra i due, nessuno è ancora consapevole.

Siamo a Hebron nei primi anni Sessanta. Loai è un giovane intelligente, sensibile e dotato di una memoria vivace, figlio prediletto di una famiglia benestante produttrice di kefiah. Ha i capelli arancioni, e questa caratteristica inusuale lo fa cadere vittima di pesanti atti di bullismo. Loai diventa il bersaglio preferito di tre compagni crudeli a scuola. Avrà, però, un amico Ahmad, povero e solo, un ragazzo abituato alla vita di strada. Della loro amicizia la famiglia di Loai non è affatto entusiasta. Loai viene spedito lontano, a Nablus. Qui, durante il suo percorso di crescita, troverà nella cultura, nella politica (tra cui l’attivismo giovanile legato all’Olp e ad Arafat) e nello studio, una nuova strada di riscatto.

Loai e Ahmad si incontreranno di nuovo dopo qualche anno, a Hebron, ma lo scenario ora è quello della Guerra dei Sei Giorni e della brutale occupazione israeliana. Prima di essere arrestato come sovversivo, l’abbiamo letto, Ahmad consegnerà a Loai la Kefiah arancione simbolo della sua personale resistenza.

La kefiah, legame con le radici e simbolo di un’intera generazione, assumerà per lui significati sempre più stratificati: sarà memoria ma anche vessillo. Sarà bandiera.

Questo romanzo importante, attraverso la parola profonda della letteratura, punta i fari su vicende di grande umanità che vengono spesso relegate ai margini delle narrazioni contemporanee. Il che vale soprattutto in tempi recenti nei quali il massacro dei palestinesi sembra passare sempre in secondo piano, per via di interessi economici e geopolitici nell’inseguimento dei quali anche chi si crede assolto sarà per sempre coinvolto.

È una storia collettiva e personale che parla di identità e di accettazione del sé e delle proprie diversità, con riferimenti al bullismo e alle violenze in ambienti scolastici. È però anche il racconto di una tradizione, quella palestinese, fatta di memoria e di resistenza. Una tradizione simboleggiata, nel testo, da un indumento che ha assunto un valore transnazionale: la kefiah, oggi prodotta principalmente in Cina, malgrado l’unica fabbrica palestinese ancora in attività a cui il romanzo rende a suo modo omaggio.

È quindi al contempo una storia di occupazione, di resistenza e di martirio, e una vicenda dai contorni familiari. Importantissimo risulta, infatti, il ruolo della madre di Loai, Randa, che lo aiuta ad accettarsi, inizialmente. Lo stesso vale per la professoressa, Halima, che sebbene giovane e inesperta, sa reagire con fermezza alle ingiustizie subite dal ragazzo. Il ragazzo con la kefiah arancione è, però, principalmente la storia di un sentimento universale che sopravvive a tutto, alla violenza come anche alla morte. Tutti questi temi hanno, nel romanzo, un radicamento negli oggetti e nelle persone, quasi a indicare una simbiosi tra animato e inanimato, tra superficie e simbolo profondo.

È una simbiosi di resistenza, fatta di parole ma anche di fatti. Il che capita spesso nella letteratura palestinese dei nostri giorni, quella di Gaza soprattutto, che vede tanti giovani testimoniare, anche soltanto con qualche frammento di verso, la propria volontà di vivere, di resistere, e di riesistere. Importante in questo romanzo è la non autoreferenzialità, tratto tipico di una letteratura che non può essere ricondotta a semplici formule. La Palestina di cui si parla non è quella di oggi, bersaglio di brutali bombardamenti giornalieri e di una pulizia etnica che soltanto chi non vuol vedere ha il coraggio di negare. È la Palestina del passato, del radicarsi dell’occupazione illegale israeliana, e della repressione capillare del dissenso.

Ma il passato di questa terra, i suoi trascorsi di cui leggiamo nel romanzo, altro non sono se non uno specchio in grado di riflettere e di farci riflettere sul presente: sull’isolamento di una popolazione soggetta ad apartheid da un governo e un esercito terroristi, sul silenzio complice dell’occidente e di un’Europa che, con eccezioni illustri quali l’Irlanda, non si vuole sporcare le mani e che prosegue con la sua retorica stantia, proponendo soluzioni ideali al conflitto, difficilmente realizzabili allo stato delle cose. Soprattutto, la parola letteraria di Alae Al Said e la storia di ieri e di oggi che racconta, sono un monito contro la creazione di stereotipi consolatori. Come l’autrice stessa ha più volte affermato, la questione coloniale e quella religiosa vanno di pari passo in Palestina, e non si può capire l’una se non si capisce l’altra. L’attaccamento alla propria storia e alla propria cultura non è negoziabile, per un popolo abituato a resistere e intenzionato a farlo negli anni e nei decenni a venire.

Questa singolarità palestinese, non compresa o relegata al silenzio dai grandi media, dalla politica internazionale e dalla falsa coscienza, vive per farci vivere, per ricordarci che la storia non si cambia, non si vende al miglior offerente. Di questo rapporto con l’esterno, ossia con il fuori della vicenda palestinese, è quasi involontariamente testimone e protagonista, nel libro, il giornalista americano, interessato sì alla storia materiale della produzione di kefiah nel paese, ma anche al suo valore simbolico, collettivo e personale.

La sua funzione è quella di ascoltare, anche un’intera notte, pronto a scrivere «fino a domani mattina, anche un intero libro». È però, egli, pure un ponte tra mondi: tra chi ha vissuto la sofferenza e chi può raccontarla. In ciò, diviene infine il simbolo dei tanti giornalisti a cui oggi la voce viene negata dalle autorità israeliane, divenendo spesso bersaglio di brutali uccisioni mirate.

Il giornalista è, nel romanzo, un testimone occidentale, e quindi è in un certo senso anche tutti noi. Noi se siamo pronti ad ascoltare, noi se abbiamo davvero la voglia di aprire gli occhi e vedere.

Il vescovo Romero, assassinato da sicari delle squadracce fasciste a El Salvador, una volta disse: «Gli occhi che hanno pianto sono in grado di vedere tante più cose». I palestinesi piangono e continuano a piangere, e per questo vedono e continuano a vedere di più. Il romanzo di Alae Al Said ci invita a piangere per poter vedere di più. Per vedere, un giorno, anche la bandiera della libertà sventolare sulla terra del massacro. Come la bandiera piantata, alla fine del libro, nel luogo in cui per sempre ricorderemo Loai: «L’asta si piantò in quel terreno dorato come se non avesse aspettato altro. E la bandiera cominciò a sventolare mossa dalla brezza che soffiava su quella luna.

Una luna più luminosa, più bella, cento, mille volte rispetto a quella appesa nel primo cielo della vita terrena. Nessuna città della Palestina poté vedere il trionfo che accadeva in cielo, la bandiera che ondeggiava alta, orgogliosa».

L’autore: Enrico Terrinoni è accademico, traduttore e saggista. Professore ordinario di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, ha pubblicato, tra gli altri, James Joyce e la fine del romanzo (Carocci) e Su tutti i vivi e i morti. Joyce a Roma (Feltrinelli)

L’8 luglio Il ragazzo con la kefiah arancione (Ponte alle grazie) viene presentato nella biblioteca comunale di Trani, come anteprima dei Dialoghi di Trani

Donna, vita, libertà

L’operazione militare speciale di Netanyahu e di Trump apparentemente ha avuto successo. Così ci viene raccontato l’attacco all’Iran, inaspettato e misterioso nei suoi obiettivi, compiuto dagli israeliani con l’aiuto degli Stati Uniti.

In realtà non sappiamo quasi nulla dei motivi reali dell’attacco. Si dice sia per l’uranio arricchito al 60% che sarebbe ciò che serve per fare una bomba atomica. Ma in realtà gli esperti della materia dicono che questa evenienza non vuol dire affatto che l’Iran stia in effetti costruendo una bomba o che sia in grado di farla in tempi brevi. Anche l’attacco americano al laboratorio segreto sotto una montagna avrebbe avuto successo ma anche di questo non sappiamo nulla se non che sono state usate le fantomatiche bombe “bunker buster” e ci sono le foto satellitari di 3 buchi nella montagna.

Certamente alcune importanti cariche militari e scientifiche iraniane sono state uccise dagli israeliani. Ma sappiamo anche che i missili iraniani sono riusciti a penetrare l’impenetrabile Iron dome, lo scudo antimissile di fabbricazione israeliana. La verità è che non sappiamo veramente dire chi sia il vincitore e chi il vinto. Probabilmente non c’è nessun vincitore e nessun vinto e questo significa che il vero sconfitto è Netanyahu. La tregua annunciata con parole degne di un grande show da Trump sembra un gioco delle parti in cui Trump si intesta un risultato che evidentemente è stato ottenuto imponendo ai due belligeranti di fermarsi: possiamo supporre Trump con Netanyahu e dall’altra parte i Paesi del Golfo Persico con l’Iran. Questa guerra non conveniva a nessuno. Probabilmente gli israeliani avevano prospettato risultati molto più eclatanti a Trump, come un nuovo regime amico in Iran nel giro di qualche giorno o l’uccisione di Khamenei, obiettivi che non sono stati raggiunti.

Era evidente a chiunque che una prosecuzione di questa guerra tra i due Paesi non confinanti sarebbe stata un dispendio disastroso di risorse e un problema enorme per tutto il mondo visto che dal Golfo Persico passa la gran parte del commercio di petrolio.

Quello che appare come un successo di Trump a me viene da pensare che sia in realtà un completo fallimento delle due superpotenze internazionali, Usa, Russia e anche delle potenze regionali Iran e Israele. È la dimostrazione che il mondo non è più ciò che era stato deciso con Yalta e con 45 anni di guerra fredda. Gli Usa hanno certamente dimostrato di avere una tecnologia militare potentissima, ma allo stesso tempo hanno detto con molta chiarezza che non sono più disposti a farsi trascinare direttamente in conflitti che vogliono opporsi ai cambiamenti geopolitici in corso. Trump voleva dimostrare di avere ancora la capacità di colpire chiunque e dovunque con grande potenza, ma forse ora c’è la consapevolezza, anche per effetto della terribile guerra in Ucraina, che le superpotenza americana non è poi così super come ce la immaginiamo o come ci è stata raccontata nei tanti film di guerra hollywoodiani.

La Russia, che compra dall’Iran droni e missili con cui attacca quotidianamente le città ucraine, è impantanata in un conflitto d’attrito che si rifiuta di chiamare guerra e che la sta logorando pesantemente, se non in termini economici sicuramente in termini di perdite di vite umane e quindi di consenso. È evidente che Putin abbia detto molto chiaramente all’Iran di non poter intervenire in suo aiuto. E probabilmente è anche questo un motivo per l’accettazione della tregua da parte iraniana. D’altro canto, sappiamo che Trump sta concedendo tempo a Putin per chiudere la guerra in Ucraina ma questo episodio dello scontro Israele – Iran, risoltosi in maniera così rapida, penso avrà un effetto anche sulla Russia. È evidente quanto la Russia sia in difficoltà e quanto voglia uscire dal pantano in cui si trova ma non può farlo per non ammettere di non essere più una super potenza. Forse il fatto che gli Usa di fatto lo ammettano rinunciando ad un escalation potrebbe aprire una possibilità che la Russia conceda una tregua all’Ucraina.

Israele ne esce fortemente sconfitto: Netanyahu da due anni si accanisce contro la popolazione inerme di Gaza. È riuscito in qualche modo a convincere Trump della pericolosità dei palestinesi e quindi ad avviare un vero e proprio assedio che ha portato alla fame 2 milioni di persone. La residua reputazione di Israele come Paese democratico e civile ormai è perduta. La necessità di trovare una via d’uscita dall’angolo in cui si è messo ha portato Netanyahu ad attaccare senza preavviso un nemico che si trova a 3000 km di distanza. Una apparente dimostrazione di forza che in realtà vuole nascondere le sue enormi debolezze. Netanyahu sa che dovrà rispondere delle sue decisioni e cerca di buttare la palla in tribuna iniziando una nuova guerra che, evidentemente nelle sue previsioni doveva durare anni, con il fondamentale contributo degli Usa. Ma non è più il tempo delle escalation infinite. Il mondo ormai è cambiato.

L’Iran è stato messo in grande difficoltà ma in qualche modo le forze moderate sono riuscite a prevalere, a non avviare un escalation che evidentemente avrebbe avuto conseguenze nefaste. Ecco io penso che proprio questa mancata risposta iraniana vada in realtà letta come un grande successo delle forze interne all’Iran che si oppongono al regime religioso. In particolare, la straordinaria resistenza del movimento Donna Vita Libertà che con coraggio e tenacia, pur sottoposto ad una terribile repressione, sta lentamente ma inesorabilmente rovesciando il regime degli Ayatollah. Un movimento democratico e laico, iniziato da donne che è per la liberazione di tutti. Ed è interessante leggere le tante donne iraniane che qui in Italia hanno scritto e detto come una guerra potesse essere un grande favore al regime degli ayatollah e un rallentamento verso una liberazione che impiegherà del tempo per avvenire ma è inevitabile. Chissà che in verità non fosse proprio questo l’obiettivo non dichiarato di Netanyahu, dare un motivo, una scusa, al regime religioso iraniano di aumentare la repressione verso i movimenti di ribellione culturale e democratica che sono presenti in Iran.

Le grandi religioni monoteistiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, sono state nella storia motivo di guerre terribili che hanno fatto milioni di morti. Stranamente, pur avendo tutte un unico Dio che viene riconosciuto essere proprio lo stesso Dio (la Bibbia ebraica è anche quella cristiana e l’islam riconosce l’esistenza di Cristo come di un profeta nonché la Bibbia come libro rivelato da Dio) lo scontro religioso è stato giustificazione di massacri terribili, sia tra diverse fedi ma anche negli scontri tra diversi gruppi della stessa fede religiosa. Allora si potrebbe pensare che l’attacco di Israele all’Iran sia in realtà per togliere forza ai movimenti di ribellione democratica che ci sono nel Paese e in particolare proprio quel movimento delle donne Donna Vita Libertà, che mette al centro dell’azione politica un pensiero del tutto nuovo, in particolare nell’occidente ebraico-cristiano, per cui le donne non sono la costola di Adamo e quindi inferiori, non sono le responsabili del peccato originale, quella colpa infinita e inemendabile per aver voluto aprire gli occhi, aver voluto distinguere il bene dal male mangiando la mela, il frutto della conoscenza. La storia del peccato originale dice che è la donna che permette di aprire gli occhi e ribellarsi al dio disumano che vuole accecarci, non farci distinguere e sapere cosa è buono e cosa è cattivo.

È il rapporto con la donna che permette di vedere. Le donne iraniane sono la nuova Eva dell’umanità, ci fanno aprire gli occhi e ci dicono di liberarci da duemila e più anni di annullamento della loro realtà di esseri umani operato dai maschi che si realizzano razionali e ciechi quando sanno solo pensare al vantaggio economico e all’uso della forza per dirimere le inevitabili controversie. Le donne iraniane ci stanno mandando un messaggio, di una possibilità di liberazione culturale e politica dal giogo di un pensiero religioso millenario che ci impedisce di essere noi stessi e di vedere e sapere ciò che è buono e ciò che è cattivo. La possibilità di aprire gli occhi. Sarà anche per questo che il regime iraniano le acceca materialmente? Il mondo ormai è multipolare, le grandi super potenze non sono più super. Questa è la nuova realtà che si dispiegherà nel tempo e con cui ci troveremo a convivere. Gli stati e le potenze non hanno più la possibilità, economica e di consenso, di imbarcarsi in una nuova guerra di religione che sarebbe stata l’ennesima guerra contro le donne.

Foto AS

Chi ha paura degli adolescenti

In un momento drammatico in cui si moltiplicano gli scenari di guerra – e a Gaza sono soprattutto i bambini e i giovani a pagarne le più dure conseguenze – abbiamo pensato che fosse importante tornare a parlare di adolescenza, l’età del cambiamento più dirompente, dello sviluppo, delle possibilità e insieme, proprio per questo, età di crisi.

Una stagione della vita impossibile da vivere nei territori di guerra, come a Gaza, dove i più giovani, se scampano le bombe di Netanyahu, diventano target dell’esercito israeliano. Difficile da vivere in Iran dove il regime teocratico impicca i sostenitori del movimento Donna vita libertà, mentre Netanyahu e Trump li bombardano.

Da noi in Italia chi si è alzato per primo in piedi contro il genocidio in atto a Gaza sono stati proprio i giovanissimi. Ma sono stati manganellati dalle forze dell’ordine e tacciati di antisemitismo. Per fortuna qui da noi gli adolescenti non rischiano la vita, non sono sotto le bombe come i loro coetanei con i quali solidarizzano con grande sensibilità. Nonostante ciò non potremmo dire che abbiano la vita facile, come invece viene detto da politici, ex ministri e “intellettuali”, che li descrivono come bamboccioni o sdraiati sul divano. In un Paese come l’Italia dove gli over 65 hanno superato di gran lunga i diciottenni, dove la gerontocrazia impera, sui media mainstream si parla di adolescenti quasi esclusivamente quando accade un fatto tragico: un suicidio, un’aggressione di una baby gang, un femminicidio. I titoli si rincorrono tra allarmi e giudizi, parlano di crisi educativa, dipendenza da smartphone, perdita di valori. Ma raramente ci si ferma ad ascoltare davvero cosa accade nelle vite quotidiane di milioni di ragazze e ragazzi. Raramente si restituisce spazio alla loro complessità.

Con questo numero di Left torniamo a farlo affidandoci sia ai massimi esperti di indagine demografica e sociologica, sia a psichiatri e psicoterapeuti che hanno una lunga e valida esperienza con gli adolescenti, nelle scuole e nei gruppi di terapia. Contrariamente alle reprimende e ai provvedimenti all’olio di ricino del ministro dell’Istruzione e del merito Valditara che ha ripristinato il voto in condotta come giudizio morale, l’adolescenza non è un “problema da correggere”, ma un tempo cruciale della vita umana, di emozioni a mille, di crisi trasformativa, di sviluppo fisico e psichico, di cotte spaziali, di ricerca di identità, di scoperta della sessualità. Un periodo dunque pieno di cambiamenti, di nuove possibilità, ma anche di vulnerabilità come emerge dalle testimonianze raccolte da Lorenzo Fargnoli nel suo articolo. Secondo l’Oms, come ci ricorda la psicoterapeuta Arianna Grimaldi, l’adolescenza va dai 10 ai 19 anni, ma sempre più esperti propongono di estendere la soglia fino ai 24, riconoscendo che tappe come l’autonomia economica, il lavoro o la genitorialità in Occidente si sono spostate in avanti.

Oggi nel mondo ci sono oltre 1,3 miliardi di adolescenti: una quota in crescita, che potrebbe rappresentare – secondo la Lancet Commission on Adolescent Health – «la più grande opportunità per il futuro dell’umanità». Ma solo se ascoltata, sostenuta, rispettata. Purtroppo in tante parti del mondo non accade. E con tutta evidenza non accade neanche in Italia nonostante la retorica meloniana sulla maternità. Il suo governo ha partorito il decreto Caivano che tratta problemi sociali alla stregua di problemi di ordine pubblico. Il risultato? È aumentato enormemente il numero dei minori che finiscono in carcere, luogo per eccellenza criminogeno. Intanto l’avvocata Buongiorno (Lega) torna a proporre di abbassare l’imputabilità a 12 anni. Il Decreto sicurezza prevede anni di carcere per i giovani attivisti che denunciano con azioni nonviolente i rischi del climate change. Li chiamano eco-vandali e li condannano senza appello, quando tutti dovremmo essere loro grati per l’impegno. In questo contesto così ostile ci siamo chiesti: come stanno davvero i ragazzi?

Cosa chiedono? I dati delle indagini sociologiche ci dicono di una generazione che si scopre sola, stretta tra pressioni sociali, precarietà e forte competizione. L’Oms segnala che il suicidio è oggi la prima causa di morte tra i 15 e i 19 anni. Ansia, depressione, attacchi di panico, autolesionismo e disturbi del comportamento alimentare crescono anche tra gli under 16. Come osserva lo psichiatra Beniamino Gigli, chi lavora nei servizi territoriali incontra sempre più spesso «genitori in fila per la presa in carico di figli violenti, depressi, isolati». Ma come accennavamo la risposta politico istituzionale sembra andare in direzione opposta: non prevenire, ma reprimere. Non comprendere, ma punire.

A scuola si parla sempre più spesso di divieti, sanzioni, misure disciplinari. Vedi anche l’ultima circolare ministeriale che vieta l’uso degli smartphone nelle scuole superiori, estendendo un provvedimento già attivo nei gradi precedenti. Misura che si vuole “educativa”, ma che in realtà rischia di colpire il sintomo e non la causa. Perché, vietare lo smartphone non aiuta a capire come mai un adolescente vi si rifugia. Non affronta la solitudine, l’insicurezza, la mancanza di riconoscimento. Il rischio è di ridurre la crisi adolescenziale a una questione di cattiva condotta. Rinunciando a ogni lettura affettiva, relazionale, psicologica. Ma è proprio lì che occorre guardare.

Come segnala Francesca Fagioli, psichiatra e psicoterapeuta con oltre vent’anni di esperienza anche negli sportelli scolastici, c’è un importante cambiamento culturale in atto: «Gli adolescenti chiedono di parlare di salute mentale, vogliono capire il perché ci si ammala nel pensiero e negli affetti e vogliono affrontare i loro eventuali problemi psicologici senza paura. Non c’è più vergogna, anzi: cercare un colloquio è spesso un segno di consapevolezza, di forza». Il problema semmai sono gli adulti, che, osserva Fagioli, sono sempre più riluttanti a mettersi in discussione. Preferiscono etichettare, generalizzare, marginalizzare. E proprio nella marginalizzazione si annidano le derive più drammatiche. Il pensiero corre a Martina Carbonaro, uccisa a 14 anni ad Afragola dal suo ex fidanzato di 19. Come scrive Maria Gabriella Gatti, «non si tratta di un delitto individuale, ma di un fenomeno strutturale». Il femminicidio non nasce da un raptus, ma da una cultura patriarcale ancora profondamente radicata, talora, anche nei giovanissimi. Una cultura che non riconosce piena soggettività alle donne, e che educa alla relazione come controllo e dominio. Una cultura che, troppo spesso, trova appoggio nei silenzi della scuola, della famiglia, dei media.

È quindi più che mai urgente ripartire dall’ascolto dei ragazzi. Non servono programmi disciplinari basati sull’educazione affettiva, intesa come formula standardizzata, ma una scuola attenta al benessere e alla realtà psichica degli studenti. Che comprenda – come sottolinea la psicoterapeuta – che il disagio non nasce da un deficit di controllo razionale, ma da relazioni interrotte, affetti negati, immagini di sé e dell’altro impoverite o distorte. Come quelle proposte anche dalla serie tv Adolescence, che racconta un femminicidio come se fosse il ritratto di un’intera generazione. «Un’operazione dannosa», scrive Grimaldi, che confonde una gravissima patologia con la normalità. Non per questo vanno sottovalutati gli episodi di severa ansia, autolesionismo ecc. In tutti i casi serve una risposta terapeutica valida, scientificamente fondata e accessibile a tutti. Una risposta di psicoterapia per la cura e la guarigione, che è tanto più possibile se si interviene precocemente. Serve una proposta valida di prevenzione, sostenendo le istanze dei tanti ragazzi che si interrogano, che protestano, che chiedono giustizia, che riempiono le piazze per il clima, contro la guerra, per la libertà. Non dobbiamo “dare voce” agli adolescenti, ma riconoscere quella che già hanno. I giovani sono i costruttori del futuro. Ma per farlo hanno bisogno di non essere invisibili ai nostri occhi.

Illustrazione di Chiara Melchionna

Poveri ma fuori moda: il dramma sociale che non buca lo schermo

Di povertà si parla poco. Non perché manchino i poveri, ma perché mancano i riflettori. E quando arrivano i numeri, come quelli dell’Istat o della Caritas, sembrano più fastidiosi che allarmanti. L’Italia dei due stipendi che non bastano più è ormai diventata una normalità imbarazzante. La povertà non fa notizia, perché non è più eccezione: è struttura.

Il potere d’acquisto è crollato del 10,5% in cinque anni, i salari reali sono tra i peggiori del G20, eppure il dibattito politico resta impigliato tra bonus effimeri e bandierine ideologiche. Intanto, milioni di italiani rinunciano a curarsi, saltano le vacanze, tirano avanti con part-time involontari, si stringono nei margini invisibili di un ceto medio che non esiste più. E chi ne parla viene subito archiviato tra i “piagnoni”, come se la fame fosse una colpa e non un fallimento collettivo.

Il 62% degli italiani pensa che il governo non stia facendo abbastanza. Ma il vero dramma è che nessuno sembra più aspettarsi risposte. La povertà, come la precarietà, è diventata un dato ambientale. Non spaventa, non mobilita, non commuove. È passata di moda.

Si finge che basti lavorare per salvarsi, ma il lavoro oggi non salva. La Cgil lo denuncia da anni: si è poveri anche da occupati, specie se giovani, specie se donne. Contratti brevi, salari bassi, mutui ingestibili, città disuguali. I dati parlano di 5,7 milioni di persone in povertà assoluta. Ma il numero è sterile se nessuno lo guarda negli occhi.

La povertà è scomoda perché impone di scegliere: chi proteggere, chi ascoltare, dove investire. Ed è per questo che viene nascosta. Non è solo un problema economico. È una questione di giustizia. E di verità.

Buon venerdì.

Foto AS

Strage di Lampedusa, il coraggio di non voltarsi dall’altra parte

Una delle prime immagini del subacqueo che per ordine della Guardia costiera dovette girare le immagini del peschereccio affondato a largo di Lampedusa dove erano stipati i 540 immigrati eritrei partiti da Misurata in Libia, erano i cadaveri di una coppia abbracciata con il capo rivolto verso il cielo. La salvezza non l’hanno trovata nonostante lo sguardo fosse indirizzato verso una via d’uscita che non ci fu.

Il 3 ottobre 2013 è stata una tragedia, una tragedia di donne, bambini e uomini, tutti giovanissimi. L’ultima isola di Davide Lomma è il docufilm che racconta questa storia di morte attraverso un racconto di solidarietà e amicizia. La straordinaria storia di otto amici che si ritrovano casualmente coinvolti in uno dei più drammatici naufragi di migranti avvenuto sull’isola di Lampedusa. Ma è anche la narrazione di quanto possa essere semplice la fratellanza. E di quanto l’amore verso gli altri essere umani, verso la vita, e non solo la nostra, possa essere più grande di ogni definizione.

Il mare ha le sue leggi. E la legge più importante è anche la più semplice: se qualcuno è in difficoltà bisogna soccorrerlo. La noncuranza, l’indifferenza di una parte dello Stato che durante quella notte non l’ha rispettata, ha fatto in modo che per 368 di loro l’alba non sia mai arrivata.

Degli 80, tra mamme e bambini che erano sul tetto della cabina di pilotaggio, dei 150 in coperta, dei 120 sotto coperta e del restante nelle stanze senza finestre dove di solito

Don Chisciotte scende in piazza: il teatro come atto di resistenza

La rivisitazione del Teatro dei Venti del Don Chisciotte di Cervantes è una storia senza tempo, una messinscena spettacolare e visionaria che si pone in dialogo costante con il presente. Attori, musicisti e sorprendenti macchine teatrali danno vita a un’esperienza collettiva unica: un invito a partecipare, a porsi in prima linea dinanzi agli eventi, a interrogarli con coraggio e con rinnovata umanità. Ne abbiamo parlato con il regista e drammaturgo Stefano Tè, già premio Ubu, con Dino Serra e Massimo Zanelli, per Moby Dick, nel 2019.

Don Chisciotte fa tappa il 12 luglio a Cotignola (Ravenna), il 19 luglio a Rionero in Volture (Pz) e poi andrà in Danimarca ad agosto

«Per un mondo più giusto bisogna farsi eroi», dice il narratore nell’incipit dello spettacolo. Cosa vuol dire, oggi, diventare eroi?

Sono parole che dice anche il personaggio di Sancho, quando afferma che tutti dovremmo agire da eroi. Perché Don Chisciotte è dentro di noi, e dobbiamo soltanto riacquistare quel coraggio, saper dire “no”. Ma non solo, bisogna creare trambusto, creare movimento, mobilitazione, che non vuol dire solamente prendere una bandiera e andare a manifestare, vuol dire soprattutto creare gruppo. Io non sento più parlare, nemmeno i politici, di obiettivi collettivi, di bene comune, di qualcosa che appartiene a tutti.

Alla fine dello spettacolo (che abbiamo visto nella sua versione itinerante in Parco Ducale di Parma) hai preso la parola affermando che «il teatro non basta più». Quanto è importante lasciarsi ancora sorprendere e saper stare insieme in un modo nuovo?

Noi siamo particolarmente fortunati perché abbiamo

Blonde Redhead, ritorno al futuro

Storico gruppo italo-giappo-newyorkese, i Blonde Redhead (Makino e i gemelli Pace) dal 1993 a oggi hanno attraversato un’evoluzione sonora che li ha portati dal noise rock al dream pop e shoegaze (sonorità, con melodie sospese e texture sonore fluttuanti) fino alla maturità di oggi. In occasione dell’uscita del loro nuovo Ep e del concerto al Bonsai Garden di Bologna del primo luglio abbiamo intervistato Amedeo Pace. Ecco cosa ci ha detto.

Il nuovo Ep The Shadow of the Guest sembra un’opera sospesa tra sogno e inquietudine, dove il tempo viene rielaborato. Come nasce il desiderio di tornare su SitDown for Dinner e riplasmarne il materiale?

Da quando l’album è stato registrato il desiderio di Kazu è sempre stato quello di avere un coro di bambini sul brano “Before”. Siamo riusciti a realizzare il suo sogno e ad aggiungere anche “Via Savona”, “Coda” e “Rest of her life”. È stata una bella esperienza e un’importante fonte di ispirazione per noi, trovarsi circondati da questi piccoli umani così straordinari e  molto coinvolti in questo lavoro.

Il titolo evoca una presenza forse invisibile. Chi è, per voi, “l’ospite nell’ombra”? È una figura reale, simbolica, politica?

È un qualcosa di legato in qualche modo al simbolismo della resistenza.

Qual è il confine tra rielaborazione e riscrittura? Cosa resta e cosa cambia quando si torna a lavorare su qualcosa di già compiuto?

Dipende. Se

Pane, rose e operaie ribelli

Maria Rosa Cutrufelli è scrittrice da sempre particolarmente interessata ad affrontare le tematiche legate alla condizione della donna. Narratrice, critica letteraria, curatrice di antologie di racconti, sceneggiatrice di radiodrammi per la Rai, insegnante di scrittura creativa presso l’Università La Sapienza di Roma, Maria Rosa Cutrufelli nel suo ultimo romanzo Il cuore affamato delle ragazze (Mondadori), ambientato tra New York e Philadelphia agli inizi del secolo scorso, narra la drammatica vicenda dell’incendio che distrusse i locali della fabbrica Triangle e che costò la vita a centocinquanta giovani operaie, molte delle quali emigrate dalle zone più povere dell’Italia. La potente colla che tiene insieme il racconto è però la capacità delle donne – al di là del singolo, tragico episodio – di solidarizzare e di impegnarsi anima e corpo in una forma nuova di lotta, la creazione di un sindacato per la difesa di una categoria sin lì senza tutele e senza diritti. A scandire lo storico periodo, le vicende di Etta, americanizzazione decurtata di Marietta, una giovane figlia di immigrati italiani, il cui padre è un esule politico di solide radici socialiste. Una volta tagliato il cordone ombelicale con la famiglia, la protagonista si getta a capofitto nell’impegno politico, scoprendo il valore dell’amicizia, della solidarietà, della lotta e anche dell’amore per una sua compagna.

Maria Rosa Cutrufelli

Dunque, Maria Rosa, partirei dalla fine, e cioè da una particolarità che riporti nelle note a fine romanzo. Cito: «…Vorrei rispondere a una domanda che mi viene fatta spesso: Perché, nei tuoi libri, scrivi tanto di donne?». Come i tuoi lettori sanno, al centro dei tuoi romanzi – mi limito agli ultimi in ordine di tempo, I bambini della Ginestra, Il giudice delle donne, L’isola delle madri, la bellissima biografia di Maria Giudice – c’è sempre una figura femminile, o un gruppo di donne, a movimentare l’azione narrativa. Da dove e quando nasce questa sorta di tua “missione” letteraria?

A dire il vero non è una “missione”, ma qualcosa, un impulso, che mi viene naturale. Sono una donna… E questo in realtà vuol dire poco, perciò devo specificare: sono una donna attenta al mondo in cui vive. Un mondo