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Raphaël e Mafai: l’arte come un’altra forma d’amore

Nel silenzio quasi irreale di Villa Torlonia, a pochi passi da via Nomentana, una delle arterie più trafficate di Roma, il Casino dei Principi ospita una mostra dedicata a una coppia artistica del Novecento italiano, Mario Mafai e Antonietta Raphaël. La mostra ripercorre la vita e il lavoro dei due artisti, esponendo le loro opere in un percorso comune, fatto di continui rimandi iconografici. È il racconto del profondo legame tra i due artisti, iniziato in quella che lo storico dell’arte Roberto Longhi, nel 1929, definì «la scuola di via Cavour», riferendosi proprio all’indirizzo della casa dove abitavano i due. La mostra racconta una vita vissuta l’uno accanto all’altra, tra scambi e sfide reciproche, accordi, disaccordi e tre figlie.

Raphael, donna che si pettina

L’arte, fin dal titolo della retrospettiva, viene presentata come «un’altra forma di amore». In realtà, verrebbe da dire che non serve l’uno per raccontare l’altra, anche perché non è la prima mostra dedicata a entrambi contemporaneamente (se ne tennero già nel 1985 a Torino, poi nel 1994 a Roma e nel 2005 a Brescia). E, in fin dei conti, come non vedere che per le donne artiste, la coppia ha finito spesso per trasformarsi in una gabbia. Pensate a Camille Claudel, svilita dal rapporto tossico con il maestro e amante Rodin. O a Gabriele Munter, perennemente nel cono d’ombra di Kandinsky. Benedetta Cappa sotto lo smisurato ego di Marinetti. La fragile

Tracey Emin, senza perdere la tenerezza

La mostra Sex and solitude che Tracey Emin ha realizzato nelle sale di Palazzo Strozzi a Firenze, è una occasione da non perdere (è aperta fino al 20 luglio) perché l’artista inglese con grande onestà e coraggio si mette a nudo, offrendo un confronto senza filtri sulla vulnerabilità umana, mettendo al centro la femminilità in tutta la sua dirompente differenza.

Al cuore del lavoro che Emin crea con mezzi espressivi molto diversi fra loro (disegno, pittura, installazioni, scultura, fotografia, ricamo, poesia ecc.) c’è il rapporto uomo-donna; c’è il tema della sessualità umana che chiede di mettere in gioco psiche e corpo in una dialettica profondissima, anche se talora sanguinosa.

Tracey Emin

Curata dal direttore di Palazzo Strozzi Arturo Galansino, l’esposizione raccoglie oltre sessanta opere che attraversano tutto il percorso di Tracey Emin, da quando negli anni Novanta era la vitale ribelle del gruppo degli Young british artists patrocinati dal gallerista Saatchi, a quando è diventata insegnante di disegno alla Royal Academy (una delle due uniche insegnanti donne di questa prestigiosa istituzione che ha cento anni di storia) per arrivare a tempi recenti in cui è tornata a vivere a Margate, la cittadina britannica di periferia dove

Srebrenica, l’ultimo atto di un genocidio

L’atto finale di un genocidio è la sua negazione. La deformazione strumentale del ricordo degli orrori subiti da parte dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime, di chi è stato torturato, seviziato, violentato, come se si trattasse di un’allucinazione perversa della propria immaginazione e non di fatti realmente accaduti. La manipolazione ideologica degli eventi che nega ai vinti la possibilità non tanto di aspirare a una giustizia che non si può ottenere, quanto di rivendicare un rispetto nel dolore che restituisce dignità alla vita. La rimozione dalla coscienza delle persone traumatizzate delle origini del trauma, svuotando il male di ogni suo significato e lasciando le ferite aperte senza un perché. In questi giorni, 30 anni fa, accadeva Srebrenica, uno dei capitoli più tragici della storia europea, ma c’è ancora chi nega che quel genocidio sia mai avvenuto.

Cominciò l’11 luglio del 1995 il massacro dei bosgnacchi e, nel giro di alcuni giorni, oltre 8mila uomini e ragazzi bosniaci musulmani vennero trucidati a Srebrenica e nei dintorni, con l’obiettivo di creare una regione etnicamente omogenea da annettere facilmente alla Serbia. Srebrenica, situata nella parte orientale della Bosnia, era un’enclave musulmana nel territorio della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Srpska). Molti bosgnacchi si erano rifugiati lì durante la guerra, da cui si difendevano dagli attacchi dei serbi che circondavano l’area. Nell’aprile del 1993 Srebrenica venne però demilitarizzata e dichiarata una “safe zone”, sotto la tutela di Unprofor (United nations protection force), le forze di protezione dell’Onu per la ex Jugoslavia, che aveva inviato lì un contingente olandese per garantire che non vi fossero attacchi armati.

La città era sotto assedio dal 1992, cioè da quando la Bosnia ed Erzegovina aveva proclamato la sua indipendenza dalla ex Jugoslavia e Radovan Karadžić, leader del Partito democratico serbo, aveva istituito, senza alcun fondamento giuridico e contro la costituzione vigente, la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. Da quel momento cominciarono le famose pulizie etniche, cioè il tentativo di eliminare fisicamente i musulmani dal territorio serbo-bosniaco, in modo da realizzare il progetto di una “Grande Serbia”. I Serbi

L’obiettore israeliano Yuval Dag: Fermiamo il genocidio di Gaza

Da bambino sapevo che un giorno avrei imbracciato un’arma. È il destino di ogni israeliano, ci viene insegnato fin da piccoli. Poi crescendo qualcosa si è rotto. Ho detto: no, non posso essere complice». Yuval Dag è un ragazzo israeliano di 22 anni, attivista di Mesarvot, una rete israeliana che offre supporto legale, tutoraggio e gestione mediatica a giovani che scelgono l’obiezione di coscienza. Il suo rifiuto ad arruolarsi gli è costato 70 giorni di carcere ed isolamento sociale. Il mese scorso ha attraversato l’Italia all’interno di un “tour nonviolento” organizzato dalle Donne in Nero. A supportare Yuval Dag anche il Refuser Solidarity Network, una rete israeliana costruita da obiettori di coscienza il cui motto è «ending the occupation, one soldier at a time». Partiamo dall’inizio. Dag, lei è cresciuto e si è formato in Israele. La mia famiglia fa parte di un moshav, cioè una comunità agricola, nel sud di Israele. Ognuno aveva il suo bestiame, tutti un pezzetto di terra. Sono cresciuto come un sionista, con l’idea di espandere e proteggere Israele.

Yuval Dag

Quando dice “come un sionista” cosa intende?

Fin da bambini ci hanno insegnato che il nostro popolo era minacciato, che dovevamo proteggerci e che per farlo eravamo autorizzati ad usare anche la forza. Questo perché Israele era sempre nel giusto. Il concetto di sicurezza è sempre stato al centro della nostra educazione.

Come veniva spiegato a voi bambini il concetto di sicurezza secondo Israele?

Ricordo che una volta all’anno la comunità si ritrovava per onorare i militari del nostro villaggio impegnati in operazioni militari, ci mostravano le loro foto in uniforme e mentre imbracciavano fucili. Dovevamo applaudire.

Gaza, la strage dei giornalisti e l’informazione che resiste alle bombe di Israele

Oltre che quello dell’umanità Gaza è diventata il più grande cimitero dei giornalisti della storia. In un mondo che sempre più sceglie la deriva degli autoritarismi, del razzismo e della cancellazione dei diritti, delle armi al posto della diplomazia, ogni speranza di cambiamento si è inabissata in Palestina.

Una guerra nella guerra. Con metodo mafioso, di uno Stato mafioso: come nelle stragi di mafia un boss sanguinario, Benjamin Netanyahu, comanda di far saltare l’“autostrada”, ovvero un ospedale, una scuola, un quartiere, ovunque cioè si trovino i nostri colleghi, e i suoi killer premono il pulsante assassinando chi documenta il genocidio.

Un numero spaventoso, impensabile, il più grave, sistematico attacco contro donne e uomini della stampa e della televisione nella storia dell’umanità: intorno ai 237 morti. Un numero provvisorio, naturalmente. Mai così in nessun conflitto. Un rapporto inserito nel progetto “Cost of War” del Watson institute for international and public affairs evidenzia come, a partire dal 7 ottobre 2023, siano stati uccisi a Gaza più giornalisti che durante le due guerre mondiali, e in Vietnam, ex Jugoslavia e Afghanistan. Un genocidio nel grande genocidio, l’olocausto dell’informazione, della voce e della parola scritta, della testimonianza sui crimini di guerra. In un quadro indicibile, inasprito dalla sporca strategia dell’affamare e dell’assetare, il racconto dei sopravvissuti è stato, ed è, dolorosissimo. Almeno quello che potevamo ricevere prima del taglio della rete internet, bombardata a metà giugno scorso per spingere i gazawi in una voragine di buio e silenzio. E per chiudere la bocca a quanti riferivano al mondo dell’orrore in atto. Netanyahu adotta una tecnica feroce, da criminale planetario, come è stato definito. Da boss mafioso

Angelo d’Orsi e la catastrofe trionfante chiamata Neoliberismo

Con passione intellettuale e il rigore dello storico, Angelo d’Orsi ci propone, in un pamphlet lucido e illuminante, una narrazione degli ultimi decenni, caratterizzati dal trionfo del neoliberismo, che si è imposto a livello globale come sistema non solo economico, ma anche sociale e culturale. Il libro si intitola Catastrofe neoliberista. Il regime che ha devastato le nostre vite ed è stato pubblicato da Lad edizioni. La data periodizzante da cui comincia questo percorso, è quella simbolica del 9 novembre 1989, quando il mondo assiste con intensa empatia, alla “caduta del muro di Berlino” a cui segue, due anni dopo, lo sgretolamento dell’Unione Sovietica, che chiude l’epoca dell’equilibrio del terrore che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda; qualcuno teorizzò, allora, la “fine della storia”, ossia la pacificazione del mondo occidentale guidato dall’unico attore rimasto in campo – gli Usa – che avrebbe garantito, attraverso l’affermazione della società capitalistica e del libero mercato, anche la conquista della democrazia liberale.

Nel proemio, “Fine della storia?”, d’Orsi chiarisce la metodologia di cui si avvale: facendo ricorso ai due pilastri dell’attività storiografica, la periodizzazione e la ricerca delle cause, egli intende «raccontare e analizzare la globalità del mondo nell’epoca post-1989», dominato da conflitti permanenti (un vero e proprio military-industrial complex), dall’aumento esponenziale

I meloniani e il decreto sicurezza. Forti con i deboli, al servizio dei forti

Giorgia Meloni mente. Attua una demagogia propagandistica. Nega, infatti, che il decreto “sicurezza”, emanato in palese violazione dell’ articolo 77, secondo comma, della Costituzione, criminalizzi, con sanzioni inaudite, criticate da giuristi internazionali e nazionali e da tutti gli organismi internazionali di controllo, lavoratori, studenti, precari, ecoattivisti, migranti, marginalità sociali. Imprenditori predatori ed evasori fiscali dormono sonni tranquilli. Giorgia Meloni non difende la «povera gente», come va sbandierando. Mente per coprire la verità: di fatto sta configurando, con una violenta accelerazione, uno Stato penale, del controllo, della sorveglianza. La tutela dei più deboli è lontana dalla sua volontà e dalla sua azione. È una gigantesca opera di mistificazione. Non vengono colpiti scippatori, borseggiatori, criminali (per questi reati le leggi già esistono). La sua legge è costruita per usare il pugno duro verso i critici, i dissidenti, la marginalità, verso coloro che pretendono la tutela dei beni comuni. L’emergenza criminalità viene strumentalizzata, è costruita sulle paure di una società sempre più impoverita, spaesata, ingabbiata dentro dogmi reazionari. Del resto, panpenalismo, securitarismo vengono da decenni (anche quelli del centrosinistra) nei quali il concetto di “sicurezza” viene declinato non nel significato storico di sicurezza sociale ma solo in termini di aumento di reati e sanzioni. Non mi meraviglio che, dopo decenni in cui i governi hanno lottato contro le culture garantiste, oggi la destra della presidente del Consiglio riscuota consenso varando una legge totalmente repressiva che viene sbandierata come l’illusoria ancora di salvezza. Solo una società con più diritti, invece, sarebbe più sicura. Vanno costruiti, sul territorio, a partire dai quartieri metropolitani, presìdi di socialità, centri sociali, centri per anziani, sedi femministe di Non una di meno, non delegando la sicurezza ad interventi militar e di polizia. Pur in questa difficile situazione sta crescendo un movimento, soprattutto giovanile, di opposizione alla concezione securitaria. C’è una mobilitazione diffusa, plurale, trasversale, giuridica ma anche ecologista e sindacale. Ci opporremo alla legge truffa nei tribunali e sollevando questioni di legittimità costituzionale. Stiamo

Il lavoro invisibile di chi fa spettacolo

Chi recita, chi canta, chi suona, chi balla. Chi dirige, chi trucca e chi “parrucca”. Chi monta le scene, chi fa le luci, chi l’audio. Chi fa il montaggio e chi fa il doppiaggio. Chi fa il casting, chi fa la scenografia, chi la fotografia, chi la coreografia. Chi fa i costumi, chi fa cabaret, chi “funambola”, chi presenta. Chi fa la comparsa, chi lo stuntman, chi la maschera. Insomma, tutti e tutte coloro che lavorano nel settore del cine-audiovisivo e dello spettacolo dal vivo.

È a tutte e tutti loro che è rivolto il questionario online promosso da Slc-Cgil insieme a Fondazione Giuseppe Di Vittorio. L’obiettivo è “accendere i riflettori” sulle condizioni di lavoro di un settore tanto bello quanto complesso e fragile, di cui si parla poco dal punto di vista del lavoro.

Il nostro patrimonio culturale e artistico è unico al mondo, una fonte inesauribile di ricchezza, bellezza e talenti. Il settore del cine-audiovisivo e del live è un bene comune, riconosciuto anche dall’articolo 9 della Costituzione, su cui, però, il Paese, da tempo, investe poco e male e con ricadute minime su quello che invece dovrebbe essere un tema centrale: cioè la valorizzazione delle tante e diverse competenze di chi lavora, i loro diritti e la garanzia di un livello di welfare, che tuttora manca, in grado di rispondere ai bisogni di questo mondo, strutturalmente condizionato dalla discontinuità del lavoro. I dati sulla spesa pubblica sullo spettacolo (contributi diretti a cine-audiovisvo e live) sono disarmanti, inesorabilmente in diminuzione in rapporto al Pil da 40 anni: nel 2023, la somma dei fondi del Fus (il Fondo unico per lo spettacolo) e dei contributi diretti del Cine-audiovisivo sono stati soltanto lo 0,025% del Pil (niente in confronto all’1,57% speso in armi nello stesso anno… ci pensate che bello se nel mondo intero si facessero più spettacoli e meno guerre!).

Pochi investimenti pubblici, quindi, poche tutele per chi lavora nel settore. Ma quanti sono i lavoratori e le lavoratrici coinvolte? E soprattutto, come lavorano? Cosa c’è dietro la patina dorata di questo mondo del lavoro che nell’immaginario collettivo spesso si fatica a percepire come tale?

Molti problemi esplosero in modo emergenziale nel 2020, ma esistevano da sempre e chi lavorava nel settore lo sapeva bene: i contratti discontinui, le prove non pagate, la formazione non garantita, la difficoltà di

Come si esce dalla trappola della precarietà

La precarietà sembra essere diventata parte strutturale del mondo lavorativo. E in Italia, come è emerso anche in occasione del referendum di giugno, ci sono diverse categorie di lavoratori che si sono organizzate per rivendicare maggiori tutele lavorative e garanzie contrattuali. Ognuno di questi gruppi fa i conti con le proprie specificità e rivendicazioni, seppur muovendosi all’interno di un mercato che segue una tendenza costante in tutto il Paese. Nel contesto italiano, il Pil per abitante ad oggi è di 31.000 euro l’anno, poco più alto rispetto al 2000.

Dal rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo) emerge che la perdita del salario reale è dell’8,7% rispetto al 2008, dato che fa dell’Italia il Paese con l’andamento peggiore nei G20. Inoltre, come riporta una ricerca svolta dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, ormai i contratti part-time e a termine riguardano quasi il 30% delle persone occupate, mentre gli occupati “standard”, con contratto full-time indeterminato, sono diminuiti dal 78% al 72% negli ultimi venti anni. Salari bassi e contratti a scadenza sono due dei molti aspetti affrontati durante le mobilitazioni di ricercatori, operatori sociali e lavoratori del mondo dei beni culturali negli ultimi anni. Specie in seguito all’introduzione del Jobs act.

Venendo a tempi più recenti, nel mondo della ricerca l’annuncio della “riforma Bernini” ha spinto molti giovani ad organizzare forme di resistenza sindacale nelle diverse città universitarie d’Italia, e in molti atenei sono nate le Assemblee precarie universitarie (Apu). Dopo il lieve miglioramento vissuto nel 2022, con l’introduzione

Uccidere una donna è anche un crimine politico

Il femminicidio di Martina Carbonaro, 14 anni, uccisa il 26 maggio ad Afragola dal suo ex fidanzato di 19 anni, è una tragedia che scuote profondamente l’Italia e impone una riflessione urgente su dinamiche culturali e relazionali preoccupanti. Martina aveva solo 14 anni, ed era entrata in una relazione con un ragazzo più grande quando ne aveva 12. Una relazione così precoce andava accompagnata, osservata, compresa. Non si tratta di colpevolizzare chi era intorno a lei, ma di chiederci: la scuola offriva spazi di educazione affettiva? Lei e i suoi coetanei sapevano riconoscere segnali di possesso o manipolazione? Aveva strumenti interiori o esterni per chiedere aiuto? Un’educazione sull’affettività e libertà nei rapporti avrebbe potuto renderla (e rendere Alessio) più consapevole. Il femminicidio di Martina, l’ennesimo nella cronaca mediatica, ci colpisce per la giovane età e ci pone una riflessione su quanto sia radicata la cultura patriarcale anche nelle giovani generazioni. La reazione è sempre la stessa, sembra una coazione a ripetere senza altra possibilità. È un’impotenza insita nella cultura patriarcale non avere la capacità di immaginare un nuovo modo di rapportarsi alle donne che non sia il controllo e quando questo non è sufficiente, agire l’annullamento fino alla soppressione. L’omicidio di Martina è l’uccisione di una donna in quanto donna, un omicidio di genere. Non si tratta solo di un delitto individuale, ma di un fenomeno strutturale e sociale. Il vocabolario Treccani definisce il femminicidio come «uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale». Questa definizione sottolinea come, oltre alla morte fisica, vi sia un annientamento simbolico della donna in quanto soggetto sociale.

In altre parole, il femminicidio rappresenta