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Minori e crimini, cambiare prospettiva

Napoli, baby gang picchia una donna al supermercato e poi va a fare merenda: i minori erano stati rimproverati per aver saltato la fila». Titoli come questo purtroppo sono ormai sempre più frequenti e generalmente ci si domanda: cosa è successo ai giovani? Sono davvero cambiati e ci troviamo davanti ad una generazione violenta? Dalla ricerca di una risposta a queste domande è nato il nostro libro, scritto insieme a Laura Castaldo, Giovani autori di reato. Delinquenti non si nasce.

Ci siamo quindi ritrovati a indagare il tema della delinquenza giovanile dal punto di vista culturale, sociale e giuridico, evidenziando le criticità che potrebbero trasformarsi in possibilità di cambiamento, necessario per risolvere il problema alle radici, e partendo dal presupposto che delinquenti non si nasce, perché sebbene questo pensiero abbia mosso la cultura anche giuridica dei secoli trascorsi, siamo convinti che oggi deve rifiutarsi con forza l’idea che vi sia uno stato di cattiveria e delinquenza connaturato all’essere umano. Dopo un excursus storico siamo giunti alla conclusione che i sistemi penali, per gli adulti e per i minori, sono il frutto della cultura e del pensiero del tempo. E nelle diverse applicazioni è possibile notare come convivano spinte punitive con spinte rieducative. Con l’avvento della nostra Costituzione ed in generale dei principi internazionali di rispetto della dignità dei condannati e di recupero degli stessi si è compiuto un grande passo avanti. Oggi invece, in Italia, come in altri Paesi, assistiamo all’aggravarsi delle pene come soluzione. Pensiamo

La cultura delle emozioni che dimentica gli affetti

Ora tra le criticità che affliggono il nostro sistema sociale un posto di rilievo è occupato oggi dal mondo degli adolescenti. Questo è ciò che riportano sondaggi, inchieste e articoli di cronaca che quotidianamente offrono la fotografia di un’adolescenza allo sbando, incapace di contenere le oscillazioni umorali e le intemperanze comportamentali entro i limiti di ciò che dovrebbe configurare la cosiddetta “crisi fisiologica” dell’età. Si va oltre. Come ci indicano i dati relativi allo stato di salute mentale degli adolescenti, siamo in presenza di un ampio corollario di disagi psicologici, dove primeggiano stress e ansia pervasiva. Se la maggior parte degli adolescenti riesce a reggere gli scossoni e gli inevitabili urti del faticoso percorso di crescita, per altri, per chi ha meno risorse, per chi non è supportato adeguatamente, è facile cadere. E a cadere sono in tanti. Fenomeno questo che sta delineando una emergenza socio-sanitaria, la cui gravità può spesso essere segnata da risvolti anche tragici: i dati Oms segnalano in modo chiaro come il suicidio, rappresenti la prima causa di morte in giovani di età tra i 15 e i 19 anni. Un dato che deve far riflettere rappresentando il comportamento suicidario la punta di un iceberg alimentato di giorno in giorno dalla sorda disperazione di chi non riesce a trovare una via d’uscita dal proprio malessere.

Chi lavora nei servizi sanitari territoriali ha modo di constatare ogni giorno l’assalto di schiere di genitori in fila per la presa in carico di figli divenuti violenti, depressi, dediti

“Adolescence”, sulla pelle degli adolescenti

L’Organizzazione mondiale della sanità definisce l’adolescenza come la seconda decade della vita umana, collocata tra i 10 e i 19 anni di età. In base a questa definizione, l’Institute for health metrics and evaluation riporta che gli adolescenti nel mondo sono un miliardo e trecento milioni, pari al 16% della popolazione globale. Una quota in crescita, secondo gli esperti della Second Lancet Commission on adolescent health and wellbeing, per cui nel 2030 gli adolescenti saranno il 25% della popolazione mondiale. Un potenziale umano straordinario di «creatori e custodi del futuro» da tutelare e sostenere in via prioritaria – scrive la Commissione nella Call to action 2025 – per «salvaguardare il nostro futuro collettivo, garantire una società più giusta e creare un pianeta più sano e produttivo».

«L’adolescenza – prosegue ancora la Commissione – è una fase chiave dello sviluppo in cui la crescita biologica e la maturazione psicologica hanno il potenziale, se alimentate e sostenute, di liberare le capacità dei giovani di essere gli innovatori, gli educatori, i promotori e i leader dei prossimi 50 anni».

Premettiamo che la letteratura è concorde nel considerare che, nell’attualità, un’età di 10-24 anni potrebbe risultare più coerente ad indicare questa fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta, in quanto numerose tappe esistenziali e sociali si sono spostate in avanti, ad esempio il completamento degli studi, l’inserimento nel mondo del lavoro, il raggiungimento dell’indipendenza economica, l’esperienza della genitorialità.

Proprio su questa fascia di età – inclusiva dei cosiddetti Giovani adulti (19-24 anni) – si concentrano gli allarmi degli esperti, in quanto essa costituisce la fase di vita più a rischio di sviluppare una malattia mentale. Negli Stati Uniti, uno studio su una popolazione clinica di adulti con disturbi mentali ha rivelato

«Ho paura che la terra diventi solo un deserto»

In un periodo segnato da guerre, tensioni sociali e da una nuova ondata politica di destra, il disagio delle nuove generazioni si fa sempre più visibile. Non è solo una questione economica o ambientale: è diventato un problema esistenziale. Un malessere giovanile a doppia faccia – l’ansia per il futuro del pianeta e quella per un’esistenza lavorativa precaria – accompagna ormai milioni di ragazze e ragazzi in ogni scelta quotidiana. Le statistiche parlano chiaro: secondo uno studio pubblicato su The Lancet Planetary Health (Hickman et al., 2021), il 75% dei giovani intervistati in dieci Paesi considera «spaventoso» il futuro a causa della crisi climatica. In Italia, dati Unicef-YouTrend mostrano che il 70% degli adolescenti prova ansia climatica, con effetti concreti: insonnia, senso di colpa, rinuncia a immaginare un futuro genitoriale o familiare. Ma per comprendere davvero la profondità di questo disagio, bisogna ascoltare le parole dei diretti interessati. È nelle piattaforme digitali come Reddit – un grande forum online globale, suddiviso in comunità tematiche – che emergono le emozioni più autentiche, non filtrate da codici accademici o linguaggi istituzionali. Reddit è una piazza pubblica virtuale dove migliaia di giovani si raccontano, si sfogano e cercano confronto. È qui che si misura il peso reale del presente, e si percepisce quanto sia difficile, per molti, pensare al domani.

«Soffro di una grave eco-ansia… Vivo nel sud Italia, ma ho paura di fare un errore, di prendere una decisione sbagliata, e che questa terra diventi solo un deserto», scrive un utente. La paura

Alessandro Rosina: Gli adolescenti smarriti per l’assenza degli adulti

È uscito nelle scorse settimane il Rapporto Giovani 2025 dell’Osservatorio giovani Istituto Toniolo. Il volume, edito dal Mulino, è curato dal professor Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano. Rosina è anche l’autore di uno dei saggi del Rapporto Aisp sulla popolazione curato da Daniele Vignoli e Anna Paterno, appena uscito sempre per Il Mulino, nel quale si occupa della condizione giovanile in Italia. A lui abbiamo rivolto alcune domande in particolare rispetto alla condizione degli adolescenti.

Alessandro Rosina

Professore, cosa emerge dalle indagini svolte?
L’aspetto più evidente e preoccupante è che tra gli adolescenti c’è un fortissimo disagio e una fragilità diffusa dovuti alle disuguaglianze di partenza che la scuola fa fatica a compensare.

L’adolescenza è l’età delle incertezze. Dov’è che la scuola dovrebbe intervenire?Quando si chiede ai ragazzi, sia delle medie, sia delle superiori, se la scuola che frequentano oltre a guardare alla performance del voto sappia essere inclusiva, quello che in tanti dicono è di non aver trovato un contesto scolastico che li ha sostenuti e aiutati a superare le fragilità da cui partivano. Cioè è mancato un percorso anche formativo ed educativo in grado di rafforzarli, di renderli più solidi e consapevoli per evitare una condizione che come ben

Gustavo De Santis: Il conto demografico lo pagano i ragazzi

Italia invecchia e il welfare è sempre più sbilanciato verso pensioni e sanità a scapito di istruzione, lavoro e futuro delle nuove generazioni. Si può invertire questa tendenza? Ne parliamo con Gustavo De Santis, ordinario di Demografia all’Università di Firenze e membro delle principali associazioni di demografia, nazionali e internazionali tra cui il centro studi Neodemos e autore del libro “Nati con la pensione” In uscita il 29 agosto per i tipi de Il Mulino

Il demografo Gustavo De Santis – foto da Neodemos.info

Professor De Santis, l’ultimo annuario Istat pubblicato a dicembre 2024 rileva che in Italia circa il 24% della popolazione ha più di 65 anni e che gli under 15 sono solo il 12%. Da anni ormai il saldo tra nascite e decessi è negativo. Detto in estrema sintesi, l’Italia invecchia molto velocemente. Ci dobbiamo preoccupare?
L’Italia sta invecchiando ma no, non è una situazione eccezionale. Tutti i Paesi del mondo stanno invecchiando, è un processo generalizzato che va avanti da molto tempo. Però è vero che l’Italia è un po’ estrema in questo, siamo quasi i più vecchi del mondo. Ce la battiamo con il Giappone, ma se continuiamo così finiremo per essere i primi.

Uno dei fattori che determinano questa situazione è rappresentato dal basso tasso di fecondità. Se le nascite tornassero ad aumentare cosa accadrebbe?
Un tempo c’erano tante nascite ma c’erano anche tante morti. I nuovi nati colmavano i vuoti nella popolazione creati dalle pandemie, dalle guerre, dalle carestie. Progressivamente la mortalità è entrata sotto controllo e l’età media della morte, che quando si è fatta l’unità d’Italia era a 33 anni, è arrivata oggi a 83 anni. A parità di

Così il governo Meloni bullizza i giovani

In Italia c’è una generazione che fatica a decollare. I numeri parlano chiaro: oltre sei milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni vivono ancora con i genitori. È il 63% del totale, una percentuale allarmante se confrontata con quella di altri Paesi europei come la Germania (20%) o la Francia (26%). A fotografare una realtà stagnante, dove il passaggio all’età adulta è spesso rimandato per necessità più che per scelta, sono anche altri dati altrettanto eloquenti: il 15,2% dei giovani tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora e non è coinvolto in alcun percorso formativo (i cosiddetti Neet), un dato superiore alla media dell’Unione europea, che si ferma all’11%. E la disoccupazione giovanile sotto i 25 anni resta tra le più alte d’Europa: il 19,2% contro una media comunitaria del 14,8%.

Nel frattempo, cresce il fenomeno della fuga all’estero. Nel 2024 si è registrato un nuovo record: ben 93.410 giovani tra i 18 e i 39 anni hanno lasciato l’Italia, attratti da migliori opportunità all’estero. Un dato che, di per sé, rappresenta un giudizio implicito sulle politiche pubbliche italiane.

Ma cosa fa realmente il governo per aiutare i giovani? Una domanda fondamentale, che richiede di andare oltre gli annunci e valutare concretamente l’impatto delle misure in vigore.

Con l’aiuto di politologi come Marco Improta ed Elisabetta Mannoni, degli esperti dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) e dell’Osservatorio politiche giovanili della Fondazione Ries, guidato da Luciano Monti, DataRoom del Corriere della Sera ha realizzato un’analisi delle principali politiche attive per le nuove generazioni.

Il quadro che emerge è fatto di misure frammentate, investimenti limitati e, soprattutto, assenza di una visione strategica di lungo periodo.

Tra gli strumenti in vigore, uno dei più utilizzati è il Fondo di garanzia per la prima casa: permette ai giovani sotto i 36 anni di ottenere mutui coperti fino all’80% del valore dell’immobile (fino a 250mila euro). Nel 2024 hanno

La psichiatra Francesca Fagioli: Impariamo ad ascoltare gli adolescenti

Professoressa Francesca Fagioli nella sua esperienza di psichiatra e psicoterapeuta, e alla luce di più di vent’anni di esperienza di sportelli scolastici, quali sono le richieste più frequenti degli adolescenti?
Lo sportello scolastico accoglie studenti, docenti, genitori e operatori. È un luogo che ha in sé stesso un tempo di ascolto, ma non è una visita psichiatrica e non è una seduta di psicoterapia. Offre la possibilità di poter parlare con un professionista che dovrebbe essere in grado di dare delle risposte. Le richieste, da parte degli studenti, sono apparentemente le più varie: un consiglio su una lite tra amici, un aiuto nel rapporto con i professori, capire cosa sta accadendo nella relazione affettiva che stanno vivendo. Alcune volte non hanno alcun quesito specifico, sono solo curiosi, vogliono conoscere e sapere come si può parlare di affetti, emozioni, sensazioni strane che emergono alla pubertà e che non si riescono a comprendere, a collocare in una situazione ben definita.

La psichiatra Francesca Fagioli

Gli sportelli scolastici sono strumenti di prevenzione?
Indubbiamente lo sportello di ascolto è anche un importante strumento di prevenzione in ambito scolastico, perché permette di individuare segni e sintomi di condizioni psicopatologiche latenti che, se individuate in tempo, possono essere affrontate. Talvolta emergono casi più drammatici nell’ambito del rapporto tra pari o in famiglia. Allora il colloquio diventa fondamentale per dare un messaggio che anche quello che ora sembra essere senza speranza di cambiamento, in realtà può essere affrontato. Importante sottolineare un’evoluzione culturale: solo alcuni anni

La potenza di un no. Fermiamo lo sterminio a Gaza

Disegno di Marilena Nardi

Nei giorni scorsi circa sessanta docenti del liceo Machiavelli hanno firmato e pubblicato un appello contro la guerra, mossi dalla necessità profonda di non continuare a rimanere in silenzio di fronte alle atrocità che vediamo accadere ogni giorno, di dire no a una situazione a cui ormai tutti, volenti o nolenti, ci stiamo abituando.
Questa presa di posizione appare significativa su più livelli, primo tra tutti quello della coscienza individuale. Ognuno dei docenti che ha sottoscritto tale lettera ha deciso di rompere un silenzio, di spezzare questo clima di indifferenza generale che sembra averci fatti calare come in una nebbia.
Oggi ci troviamo a reagire con indifferenza alle immagini di morte che vediamo scorrere ogni giorno sui nostri schermi, un po’ come Meursault, protagonista dell’opera “Lo straniero” di Albert Camus che commenta la morte della madre dicendo senza emozione «Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so». Tuttavia, mentre in Camus l’indifferenza di Meursault rappresentava una sfida scioccante e un tradimento verso il codice morale condiviso, oggi questa stessa indifferenza sembra essere diventata la reazione predefinita di fronte alla valanga di notizie di morte e sofferenza che ci investono quotidianamente. Il paradosso è evidente: ciò che un tempo era un’anomalia inquietante è ora quasi la norma, una sorta di anestesia collettiva che ci rende impermeabili all’orrore. In quest’ottica prendere una decisione, schierarsi, esprimere le proprie idee diventa fondamentale, nella consapevolezza che ogni coscienza che si muove, ogni libertà che si implica in una scelta è il primo motore del cambiamento.
In secondo luogo questa lettera esprime un preciso modo di intendere la scuola e il ruolo del docente: la scuola può essere il luogo dove passato e presente si incontrano, dove la ragione fiorisce, dove il senso critico si forma. Essa può essere un luogo in cui docenti e studenti dialogano scambiandosi idee, dove i docenti mettono a disposizione le loro conoscenze e competenze e nel contempo si lasciano muovere dal fuoco dei giovani che hanno davanti. Questo NO alla guerra ha dentro il desiderio che le nostre classi siano fucine di cultura, che la scuola costituisca, come si dice nel documento, “una zona di resistenza, refrattaria e impermeabile, ai vari tentativi di allineamento, normalizzazione, oscuramento”. D’altra parte troppo spesso i docenti si accontentano di ricoprire un ruolo culturalmente marginale, di non incidere, di non esporsi. È necessario che i docenti stessi siano consapevoli della portata del loro ruolo, che decidano volontariamente di fare cultura nelle aule delle nostre scuole. Se essi per primi abdicano al loro compito, sarà difficile pensare che la scuola possa diventare davvero un luogo di formazione per cittadini liberi e pensanti.
Infine, dire NO significa anche condividere una posizione che sia in grado di stimolare le coscienze altrui a un simile passo di consapevolezza. Il NO alla guerra dei docenti del Machiavelli, nato dalle esigenze dei singoli, è diventato in questi giorni un possibile catalizzatore per un più ampio movimento di collaborazione tra scuole. Il desiderio espresso da docenti di altri istituti di unirsi a questa voce, redigendo documenti analoghi, è la prova che dare un giudizio chiaro sul presente che ci circonda può ancora avere un effetto significativo. Se ogni docente decidesse di uscire da questa nebbia di indifferenza, se le scuole decidessero di fare sistema e di agire congiuntamente, rafforzando la loro missione educativa al di là delle mura della singola aula, si creerebbe una zona di resistenza ancora più forte. Vale la pena allora impegnarsi nella costruire una collaborazione concreta tra docenti di scuole diverse, perché questa unione di intenti e di consapevolezza possa davvero fare la differenza.
Che si tratti di battersi per la pace, per i diritti civili, o per la rivalutazione della figura professionale del docente, la condivisione trasforma l’azione isolata in un coro potente, capace di fare una differenza reale. Per questa ragione invitiamo chi vuole aderire a scrivere numero di adesioni e nome della scuola al seguente indirizzo email: [email protected]

Ecco il testo integrale dell’appello, firmato da più di sessanta docenti del liceo Machiavelli e di altre scuole di Firenze
Un appello contro la guerra: diciamo NO

Siamo docenti del Liceo Machiavelli di Firenze, educatori ed educatrici: non possiamo più tacere, pena contraddire la nostra identità e il nostro ruolo, di fronte all’immane massacro che si compie ogni giorno nella striscia di Gaza e all’escalation bellica che sembra paventare una terza guerra atomica mondiale. Tutto ciò tocca profondamente le nostre coscienze umane, civili e professionali.
La scuola ha come compito primario la formazione dei giovani come cittadini liberi e pensanti. A tal fine ogni giorno li abituiamo a mettere in relazione il passato con il presente, a creare connessioni, a ragionare sulle trame complesse, i progressi e i regressi che l’umanità ha compiuto; sembra un esercizio innocuo e neutro, ma invece è lo strumento più potente che abbiamo e che possiamo trasmettere: mettere insieme i fatti, secondo un nesso di causa ed effetto, rendere e renderci più consapevoli di fronte ai processi storici, restituisce concretezza alla realtà e ci consente di vivere il presente non come destino ineluttabile, ma come insieme di eventi su cui è possibile incidere, tentando sempre di modificare, nel proprio piccolo, e non solo, ciò che non va. Creando un dialogo fra passato-presente-futuro si può trasmettere l’idea che le cose possono cambiare, che un mondo diverso è possibile. Forse è proprio questo il senso rivoluzionario della scuola: insegnare ai giovani il valore della memoria raccontando loro da dove proveniamo. In questo senso essa costituisce una zona di resistenza, refrattaria e impermeabile ai vari tentativi di allineamento, normalizzazione, oscuramento. Essa resta oggi quasi sola a richiamare l’art.11 della nostra Costituzione, ripudiando la guerra in un mondo che, invece, sembra assuefarvisi.
Nella tensione tra passato e futuro – “la scuola siede tra passato e futuro”, scriveva don Lorenzo Milani – si gioca l’equilibrio della didattica e la lotta quotidiana ai tentativi di appiattirci a un presente che non lascia margini di speranza di incidere su di esso e sul futuro. Restituire invece l’idea che sempre è possibile cambiare sé stessi e il mondo facendo tesoro delle esperienze e degli errori del passato rappresenta uno degli obiettivi principali della costruzione conoscitiva e culturale degli esseri umani.
Oggi, di fronte a ciò che sta accadendo a Gaza e in Medio Oriente, sembra di assistere a un punto di non ritorno.
Tanto è l’oltraggio dell’umano che ci chiediamo se ancora una volta dovremo individuare un “unicum” per intensità e sistematicità delle violenze inflitte. Al tempo stesso però, proprio perché immersi nella storia, nelle storie, nelle scienze, nelle arti e in tutto ciò che di “spirituale” sono capaci di produrre uomini e donne, ci rifiutiamo di accettare un simile orrore come “Il Male inspiegabile”, ma ci sforziamo, come siamo soliti fare ogni giorno nelle nostre classi, di riflettere sulle cause più lontane e più vicine.
Verrà un giorno in cui i nostri manuali si chiederanno dove era l’umanità quando succedeva tutto questo e come abbiamo potuto accettare che accadesse. Ci sono dei momenti in cui indignazione, rifiuto e disobbedienza diventano fondamentali, soprattutto quando politica, cultura e informazione restano a guardare in un ossequioso silenzio o in un rumore che confonde e distorce.
Dire di NO alla violenza, dire di NO alla guerra, affinché esse cessino di entrare nei libri di storia.
Hannah Arendt ci aveva già ammonito: a Norimberga e a Gerusalemme si denunciava un crimine nuovo del Novecento: la volontà di far sparire un intero popolo dalla faccia della terra. Camus, in piena guerra fredda, nel 1957, richiamava il valore dell’intellettuale nel combattere, con la propria arte, l’ostinazione dell’istinto di morte sempre pronto a rinascere nella storia.
Noi tutti, oggi, nel 2025, dobbiamo insorgere contro guerre e devastazioni che non ascoltano più nemmeno la voce dei Tribunali Internazionali e osano mettere in atto potenze nucleari molto più devastanti di quelle ideate negli anni Cinquanta e Sessanta. Come insegnanti, mettiamo mano a tutto il nostro sapere per dire NO all’orrore cui ormai assistiamo quotidianamente nel silenzio assordante di tutte le potenze mondiali. Ci appelliamo ai valori di convivenza, pluralismo e dialogo che insegniamo per non fare del nostro mondo un “mondo di carta” che ignora il mondo in “carne, ossa e sangue” che sta là fuori.

L’autrice: Ester Volpetti è una docente

Storytelling diversi: chi comanda, chi tace, chi paga

Come previsto, i giornali piccoli, medi e grandi si sono buttati a pesce sul ministro della Cultura Alessandro Giuli, che molto scenograficamente annuncia con largo anticipo la sua assenza alla serata finale del Premio Strega. La polemica prêt-à-porter punta sulla presunta lamentela del ministro, che non avrebbe ricevuto i libri finalisti. La battuta del ministro che vorrebbe i “libri gratis” è un calcio di rigore a porta vuota. Forse avremmo potuto discutere di una classe di governo che pretende di essere adulata, protagonista nelle occasioni in cui presenzia, rispondendo con un connaturato revanscismo a chi non si inchina.

Eppure una notizia di cui discutere ci sarebbe, già cotta per un dibattito culturale vero, quello che interroga sull’industria editoriale italiana e il suo indotto. Un’ex allieva della Scuola Holden di Torino ha raccontato la sua esperienza e i suoi ventimila euro investiti (meglio, spesi) per un corso di storytelling che le ha lasciato più ferite che esperienze. Le reazioni che ha suscitato sono uno zibaldone di generi letterari contemporanei, dallo snobismo dei rabdomanti di invidia, al paternalismo sminuente (viene facile, è pure femmina), passando per gli strumentalizzatori che vorrebbero usarla come clava contro la parte politica avversaria.

L’accademia di storytelling ha risposto con un imbarazzante video, scomparso per il disagio che colava tra i commenti. Sarebbe stato un dibattito sulle “dinamiche di selezione elitarie, informali, opache” ma le riflessioni sono sulla testimone e non sulla testimonianza: il più elementare errore di chi si prende cura delle storie. Un’altra occasione persa.

Buon giovedì.

Il ritratto del ministro Alessandro Giuli è tratta da wikipedia commons