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Così il personale del Consiglio nazionale delle ricerche si organizza per l’obiezione attiva alla guerra

Le elevate competenze intellettuali e scientifiche sono parte essenziale – al punto da diventare bersagli – delle azioni belliche: dal know-how tecnico sulle armi fino alla costruzione ideologica e retorica di una “cultura della guerra”. All’interno del Consiglio Nazionale delle Ricerche si è andata consolidando la condanna per l’estendersi delle azioni belliche, delle pratiche di sterminio in atto a Gaza e della normalizzazione del conflitto armato. Centinaia di lavoratrici e lavoratori del più grande Ente di ricerca italiano si dichiarano non disponibili a mettere i propri saperi al servizio della pratica e della cultura della guerra. All’opposto, si impegnano a contrastare con azioni concrete la deriva bellicista e a mettere le loro competenze al servizio della ricerca e dello sviluppo di approcci alla risoluzione delle controversie internazionali fondati sul diritto e sul dialogo.

Il testo completo del “manifesto” con le firme in aggiornamento è disponibile qui

Democrazia, diritti e resistenza nell’America di Trump: Ani DiFranco suona la sveglia agli Usa

La democrazia è in pericolo negli Usa, avverte Ani DiFranco. «Non dobbiamo arrenderci, non dobbiamo accettare passivamente di essere defraudati dei nostri diritti fondamentali», dice la compositrice e cantante chiamando alla resistenza contro le illiberali e aggressive politiche di Trump. In occasione del suo tour in Italia le abbiamo rivolto qualche domanda.

Ani, il titolo del tuo nuovo album, Unprecedented Shit, è piuttosto provocatorio. Cosa significa per te nel contesto attuale?
Oh, può assumere più di un significato, immagino. Al momento, qui in America, stiamo andando in direzioni mai viste prima. La nostra democrazia sembra realmente in pericolo. Molte cose hanno preso una piega molto pericolosa, e noi non siamo ancora attrezzati per saperla gestire. Il titolo della canzone è diventato il titolo dell’album perché penso che rappresenti lo stato attuale delle cose da tanti punti di vista.

foto di Chaira Lucarelli

Foto di Chiara Lucarelli

Nel corso della tua carriera ti sei sempre espressa apertamente su questioni politiche. Dato l’attuale clima negli Stati Uniti, dalle minacce alla democrazia agli attacchi ai diritti delle donne, quale pensi debba essere adesso il ruolo degli artisti nella resistenza e nell’attivismo?
È di fondamentale importanza, innanzitutto, non arrendersi e non accettare passivamente di venire defraudati dei nostri diritti fondamentali. Lo vediamo accadere quotidianamente, specialmente per grandi imprese e industrie che si piegano al volere Trump ed al suo regime. Improvvisamente Trump dichiara che il Golfo del Messico non si chiama più così ma Golfo d’America e il giorno successivo su Google appare la denominazione Golfo d’America. È incredibile vedere quanto velocemente possano accadere cose simili, ed è dunque è particolarmente importante che ci sia chi invece resiste. Non mi riferisco solo agli artisti, ma alla società nella sua interezza. In questo momento sentiamo continuamente storie di persone immigrate rastrellate in stile Gestapo, arrestate e deportate, rinchiuse in prigione e detenute illegalmente. Sono questi arresti ad essere illegali, perché quelle persone si trovano in America legittimamente. Penso a chi si piega, mettendo in atto le direttive incostituzionali del governo, e vorrei tanto che invece si credesse un po’ di più nel proprio potere di resistere. È tutto davvero orribile. Spero che gli artisti riescano ad ispirare le persone a resistere. Dopotutto non siamo altro che persone come tante altre, senza alcun superpotere, tranne forse quello di poter convincere le persone a credere nella possibilità di resistere.

Foto di Chiara Lucarelli

Foto di Chiara Lucarelli

Questo disco sembra più che mai vivo, urgente e profondamente personale. Puoi parlarmi un po’ del processo creativo che c’è dietro e di cosa l’ha ispirato?
Credo ci sia dietro solo una riflessione sul vivere più consapevolmente quello che accade in questo mondo in rapido mutamento. Dietro ciascun brano ci sono tematiche personali ma allo stesso tempo figlie del momento storico che sta vivendo il mio Paese. Affronto il tema della libertà riproduttiva ad esempio, così come quelli di un sistema giudiziario alla deriva, del razzismo o dell’accentramento del potere di governo nella classe ricca. Parlo anche di cambiamento climatico, e del disastro che ci aspetta. L’album inizia con “Spinning Room”, un brano nato dalla riflessione su come percepiamo ed affrontiamo un disagio, una patologia di qualunque tipo, dalle patologie più gravi come il cancro fino ai disturbi come l’insonnia. Per come la vedo io, non tutto è un problema individuale. Piuttosto è un segnale del nostro appartenere tutti alla natura. Facciamo parte di un ecosistema che stiamo uccidendo, stiamo distruggendo l’ambiente, stiamo distruggendo noi stessi, se la terra non respira, neppure noi respiriamo. Credo, ad esempio, che studiare le varie forme di ansia, trovare dei farmaci ad hoc, significhi continuare a ignorare il fatto che l’ansia proviene da un problema reale. Quando la nostra realtà psichica e fisica sente che stiamo tutti affondando, ovviamente esprime ansia. Non si tratta di un problema individuale, è un problema globale. Le canzoni di questo album nascono unicamente dalle riflessioni di chi cerca di vivere nel mondo moderno confrontandosi con ciò che sta accadendo.Dal punto di vista del sound invece sembra che tu abbia sperimentato nuove sonorità e distorsioni in alcuni brani. Credi che il processo di produzione abbia rispecchiato le tematiche dell’album?
All’interno del panorama musicale moderno, i musicisti che suonano i propri strumenti e basta, come io ho fatto per lungo tempo, sono diventati ormai un’eccezione. Rappresentano la mosca bianca in un mondo dominato da tecnologie come l’auto tune che arrivano a manipolare perfino la voce umana. Adesso però, forse perché le macchine sono connesse ad ogni aspetto della nostra vita, mi è sembrato strano che non entrassero anche nella mia musica. Così ho deciso quindi di coinvolgere BJ Burton, come produttore. Finora mi sono sempre autoprodotta, ma volevo qualcuno giovane, che avesse familiarità con le nuove tecnologie, e potesse portarle nel disco.

Foto di Chiara Lucarelli

In passato hai anche provato a sperimentare da sola.
Sì ma non sono stata in grado di ottenere l’effetto che volevo perché non ho sufficiente familiarità con le nuove attrezzature. Con l’arrivo di BJ, l’album si è trasformato in una sorta di studio sul contrasto. Per gran parte è costituito da pezzi scarni, essenziali: voce e chitarra o solo voce e un suono sfocato, affiancati però a brani in stile molto moderno. Adoro il contrasto e gli elementi nuovi che BJ ha portato, erano esattamente quello che cercavo. Vivendo in Stati diversi, abbiamo collaborato a distanza. Io registravo le canzoni e quasi tutti i suoni, poi gliele inviavo e lui giocava con le sonorità. Abbiamo continuato a lavorare così per tutto il tempo, come se fossimo solo noi due, ciascuno racchiuso all’interno del suo piccolo mondo, è stato molto interessante a livello creativo.

Foto di Chiara Lucarelli

La pandemia ha cambiato il modo in cui molti artisti creano, vanno in tour e si connettono con il pubblico. Ha influenzato il tuo approccio alla musica e live?
Per me in realtà è stata una pausa davvero necessaria. Ho dei figli, sai, due, ed è stato difficile passare così tanti mesi, per tanti anni, in tour lontano da casa. Quando poi ho ripreso, dopo la pandemia, beh, all’inizio è stato molto difficile perché, se ci pensi, chi può dire quando sia finita esattamente la pandemia? Nessuno può dirlo con esattezza. Facevamo i concerti con le mascherine e lungo la strada qualcuno prendeva il Covid e si tornava a casa. Per parecchio tempo è stato un caos. Nel complesso, tuttavia, direi che mi ha aiutata a tornare sul palco più riposata e felice di essere di nuovo là fuori. Felice di essere tornata a suonare davanti a un pubblico, ma anche del fatto che avevo avuto del tempo da passare con i miei figli.

Foto di Chiara Lucarelli

Ultimamente invece sei stata molto impegnata a Broadway con lo spettacolo Hadestown di Anaïs Mitchell, in cui interpreti il ruolo di Persefone. Dopo così tanto tempo passato in teatro, come ti senti tornare in tour con la tua band?
Benissimo. Quest’esperienza mi ha fatta crescere moltissimo. Recitare a Broadway è molto differente da quando sono solo io sul palco con la mia musica. Nei miei concerti c’è molta improvvisazione e mi affido tanto al mood del momento. Mi chiedo sempre: “Che energia mi arriva dalla sala?” “Che tipo di pubblico c’è, com’è l’atmosfera?”.

Foto di Chiara Lucarelli

A Broadway questo è possibile?
Lì non conta quale sia l’energia nella sala, se è un sabato sera e le persone sono cariche di vibrazioni positive, o se è un mercoledì pomeriggio totalmente fiacco, in entrambi i casi lo spettacolo deve andare in scena esattamente allo stesso modo. Si tratta quindi non di improvvisare, ma di esibirsi di fronte ad un’audience senza sapere come reagirà, una modalità del tutto nuova per me e molto impegnativa. Oltretutto altri elementi legati alla performance, come la danza e la recitazione erano per me del tutto nuovi, ed è stato fantastico trovarmi ad affrontare nuove sfide a questo punto della mia vita. Mi sento come se avessi continuato ad imparare cose nuove fino all’ultima replica di Hadestown, migliorandomi ed arrivando sempre più in profondità. Sono molto felice di essermi lanciata in questa nuova e lunghissima avventura. Siamo andati in scena per sei mesi di fila e questa esperienza mi ha arricchita.

Foto di Chiara Lucarelli

Ancora riguardo al tour in partenza, ma anche a quelli passati: C’è un brano in particolare che fa sempre parte della tua scaletta? E se sì, quale?
Adesso sto suonando le canzoni del nuovo album ogni sera, perché ovviamente sono le mie canzoni del momento, ma ci sono anche alcuni vecchi brani che funzionano sempre e che il pubblico ama. Per molto tempo ho chiuso i miei concerti con “Gravel” o “Shameless” pezzi super energici della mia discografia passata, perfetti per concludere la serata. Recentemente, parlando con i membri della mia band, stavo tuttavia riflettendo su nuovi modi per iniziare e finire un concerto. Cerco sempre di variare il più possibile includendo però alcuni dei brani più cari al pubblico. Fortunatamente, ne ho una manciata tra cui scegliere, non solo uno o due, quindi posso creare ogni volta un nuovo viaggio musicale.

La tua musica ha sempre parlato dell’empowerment femminile e ci sono brani come “Baby Roe” e “You Forgot to Speak” nel nuovo album che testimoniano una continuità in questo senso. Pensi che le conversazioni su tematiche di genere e sul potere patriarcale si siano evolute in maniera significativa rispetto a quando hai iniziato oppure no?
Si sono evolute e spesso anche involute. Sembra di fare un passo in avanti per poi deragliare e tornare indietro. Penso che questa deriva a destra che stiamo vedendo sia in America che in Europa e nel resto del mondo, rappresenti un patriarcato che sta diventando sempre più estremo. Il maschio onnipotente, il padre onnipotente, il dittatore, il leader. Questa è la direzione verso cui ci porta il patriarcato, almeno fino a quando non prenderemo sul serio il femminismo e capiremo che non riguarda solamente le donne, non è fondamentale soltanto per la liberazione della donna, ma per liberare l’umanità nella sua interezza. Fino a quando le donne non avranno potere, continueremo a vedere un netto peggioramento di tutte le malattie sociali nate dal patriarcato. Perciò chiamatemi pure femminista, ma io credo che liberare e dare potere alle donne a livello globale sia un primo passo necessario per poi risolvere problematiche come il razzismo, il classismo e il cambiamento climatico. Saremo in grado di affrontare tutto soltanto una volta che avremo creato un equilibrio tra i sessi all’interno della società, del governo, della cultura.

foto di Chiara Lucarelli

Grazie mille ancora del tuo tempo e della tua disponibilità.
Non vedevo l’ora di tornare a suonare in Italia e a Roma.

L’autrice: Chiara Lucarelli è docente universitaria a contratto, fotografa e giornalista freelance. Le immagini di questo articolo sono sue; le ha realizzate al concerto alla Casa del jazz di Roma il 14 giugno 2025

Articolo pubblicato su Left 5/25

Bologna fu strage fascista. Ora dite “fascista”

L’Italia ha impiegato quarantacinque anni per scrivere, con sentenza definitiva, che la strage del 2 agosto 1980 fu un massacro fascista e di Stato. L’ergastolo a Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, chiude l’ultimo processo agli esecutori ma apre la pagina più rovinosa di una Repubblica che per decenni ha protetto i carnefici e ostacolato la verità. La bomba alla stazione di Bologna – 85 morti, oltre 200 feriti – non fu gesto isolato ma parte di un disegno eversivo preciso: finanziato dalla P2, favorito dai depistaggi dei servizi, nutrito da silenzi e impunità.

Bellini era la “primula nera”, poi infiltrato in Cosa Nostra, confidente e assassino, doppio e triplo giochista. Ma la sua identificazione arriva solo nel 2019, da un vecchio video amatoriale. Un ritardo che pesa come una colpa: le prove c’erano, ma serviva il coraggio. La Cassazione ha confermato che quella strage fu ideologica, armata e coperta. Una strage di potere. E mentre gli esecutori venivano processati a rate, gli ispiratori morivano in pace, intoccabili.

Oggi, la sentenza scrive ciò che la politica ha taciuto per anni. È verità giudiziaria, sì, ma anche verità storica. E se questa ferita può guarire, lo farà solo con una piena assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni. Perché finché chi governa avrà paura delle bombe giuste, le bombe sbagliate continueranno a pulsare sotto la pelle della Repubblica.

Ora dalle parti del governo possono smettere di balbettare, spremere le meningi, sforzarsi di articolare la parola fascismo in tutta la sua orribile pienezza. E valutare la consistenza morale dei nostalgici di quei tempi infilati in posizioni di comando dal partito della presidente del Consiglio. 

Buon mercoledì.

Il decreto flussi è un algoritmo di sfruttamento

Aumentano le quote, resta il trucco. Il nuovo decreto flussi promette mezzo milione di lavoratori stranieri entro il 2028 ma conserva intatto l’inganno strutturale: il famigerato “clic day”, che trasforma la migrazione per lavoro in una lotteria digitale. Nessun correttivo, nessuna riforma del sistema che nel 2024 ha funzionato solo per il 7,8% dei richiedenti. Il resto è precarietà, invisibilità, lavoro nero.

Il governo annuncia trionfante le nuove soglie, ma le cifre raccontano un’altra storia: solo 9.331 domande andate a buon fine su quasi 120mila quote assegnate. Il meccanismo è lo stesso: burocrazia opaca, attese infinite, contratti che non arrivano mai. È un dispositivo costruito per generare irregolarità, per produrre manodopera ricattabile, docile e silenziosa.

Le quote saranno distribuite nel triennio tra stagionali, autonomi, colf e badanti. Ma i numeri sono funzionali a un racconto propagandistico: si espone la vetrina, mentre nei magazzini resta il caporalato. Nessuna garanzia di continuità, nessun permesso temporaneo per chi si ritrova sospeso tra una chiamata mancata e un rimpatrio automatico. Si parla di “lavoratori ad alta qualifica” dai Paesi partner nei rimpatri, come se un accordo con una dittatura bastasse a garantire diritti.

Persino Coldiretti chiede di superare il clic day. Ma il governo, sordo, blinda il meccanismo. Non lo riforma perché gli serve così com’è: un bacino di lavoratori regolari sulla carta, ma facilmente trasformabili in irregolari da sfruttare. Nel decreto non c’è futuro: c’è solo gestione, controllo, sfruttamento. I migranti restano merce: strumento di propaganda in tempo di pace, carne da lavoro in tempo di raccolta.

Così Giovanni Mininni, segretario generale Flai Cgil:

«Il nuovo decreto Flussi, purtroppo, non risolve i numerosi problemi che vivono sulla propria pelle i lavoratori immigrati dell’agroalimentare, come da anni continuiamo a denunciare. Sono ancora troppi i casi di truffe da parte di aziende agricole fittizie a danni di lavoratori stranieri che pagano per ottenere il nulla osta e poi si trovano senza lavoro né documenti. Così come sono troppi i lavoratori che iniziano l’iter e poi non arrivano ad ottenere i documenti, a causa di burocrazia e lungaggini».Lo dichiara Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil, commentando il via libera del Consiglio dei ministri al dl Flussi. «Inoltre, come sappiamo, spesso attraverso le quote vengono regolarizzati lavoratori immigrati già presenti nel nostro Paese. Ma non è sufficiente – prosegue Mininni -. I lavoratori irregolari nell’agricoltura italiana sono circa 200mila, come ha censito il nostro osservatorio Placido Rizzotto. Per questo serve superare la logica repressiva della Bossi-Fini, promuovendo una nuova legislazione inclusiva sul tema dell’immigrazione, partendo con la regolarizzazione di coloro che vivono e lavorano qui».

 

Illegittimo a norma di legge

Dopo il decreto di sicurezza, l’Albania. Le leggi si piegano, ma la realtà resiste. La nuova relazione della Cassazione sul protocollo Italia-Albania è un avvertimento secco: il progetto di deportare migranti oltre Adriatico è giuridicamente instabile, potenzialmente incostituzionale e incompatibile con il diritto europeo. Un’analisi tecnica, non un’opinione politica, che smonta l’impianto di una delle leggi bandiera del governo Meloni. E che conferma ciò che molti giuristi ripetono da mesi: l’arbitrio non è governance.

La relazione del Massimario non è vincolante ma ha un peso enorme. Segnala come il protocollo violi l’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza, l’articolo 10 sul diritto d’asilo, l’articolo 13 sulla libertà personale e l’articolo 24 sul diritto di difesa. Descrive detenzioni arbitrarie, accesso limitato agli avvocati, trasferimenti privi di base legale e assenza di garanzie fondamentali. E mentre la Corte di giustizia Ue valuta la legittimità del progetto, la dottrina giuridica maggioritaria boccia senza appello la sua coerenza col diritto dell’Unione.

Il paradosso è che tutto questo era già evidente prima delle deportazioni. Ma il governo ha tirato dritto, ben sapendo di camminare sul filo. Ora che anche la Cassazione alza la voce, la risposta della politica non può essere il silenzio o, peggio, la propaganda. Perché quando la legge diventa opaca, il potere non si rafforza: si rivela. Spaccare la costituzione per avere margini di manovra per comandare rimane un pericoloso segnale di inettitudine. 

Buon lunedì. 

Giordania, la piazza si accende per Gaza: sfida alla censura e alla “neutralità” del governo

Amman- Dalla notte del dodici giugno ad Amman si respira un’aria di lenta attesa.
Il traffico è meno caotico del solito e il viavai dei bazar di downtown sembra essere ancora imbrigliato nel tempo dilatato delle giornate di festa in famiglia dell’Eid Al-Adha conclusa da poco. Il vociare di strada pare diradare in un cicaleccio ovattato e nei caffè dei quartieri più modaioli di Webde e Jabal Amman pochi ciuffi di persone si lasciano andare agli sbuffi di fumo dello shisha tra i tavolini dei marciapiedi. A rompere il tempo appeso a un filo riecheggiano i rombi ciclici delle sirene di allarme antiaereo fatte suonare dal gabinetto di sicurezza per segnalare il pericolo dei contrattacchi iraniani ai raid di Israele.
Fin dal primo intervento pilotato dal Mossad al cuore del potere di Teheran, le incursioni aeree dei Pasdaran verso Tel Aviv si sono fatte più o meno quotidiane e la maggior parte dei droni e missili sono stati puntualmente intercettati sullo spazio aereo del regno hashemita, dove la presenza delle forze armate statunitensi garantisce uno scudo per lo Stato ebraico. Ad oggi, i detriti delle intercettazioni balistiche hanno causato almeno cinque feriti nelle zone nord di Irbid, al confine con la Siria, e ovest tra le pianure di Azraq, a pochi chilometri dall’Arabia Saudita.
Nonostante la recente tregua tra Israele e Iran mediata da Washington la situazione in Giordania, come in tutta la regione, rimane estremamente tesa.
Circa il 30% della popolazione del Paese arabo è di origine palestinese, figlia della Nakba del ‘48 e dell’esodo derivante dall’occupazione israeliana del ‘67.
Nonostante il lassismo del governo di Amman di fronte all’imbarbarimento del fuoco su Gaza, fino ad oggi la stabilità del Paese è stata mantenuta grazie ad un intreccio di astuzia politica del re Abdullah II, formalmente a favore della causa palestinese e disposto a concedere spazi di protesta alla minoranza nel Paese, e di capacità di deterrenza data dalla situazione socioeconomica dei Paesi levantini circostanti, Libano e Siria in primis, sopraffatti dal potere militare di Israele.


Ad Amman le manifestazioni del venerdì dopo la preghiera di mezzogiorno hanno rappresentato per mesi una valvola di sfogo per centinaia di attivisti e attiviste della capitale strette nei lacci corti di una democrazia monarchica che sotto la superficie filo-occidentale nasconde uno dei sistemi di controllo politico più repressivi del Medio Oriente. (Dall’8 ottobre 2023, ogni settimana la moschea Hussein del centro città è diventata il ritrovo per centinaia di palestinesi-giordani costretti a vivere l’apice della violenza a Gaza e in Cisgiordania a distanza, schiacciati dalla consapevolezza di una rabbia sociale a cui non ha fatto da contrappunto alcuna soluzione concreta a livello istituzionale.

Senza bisogno di grandi proclami e chiamate alla piazza, formazioni diametralmente diverse riconducibili all’esodo palestinese, dal partito comunista ai movimenti islamici panarabi, hanno utilizzato la strada come cassa di risonanza per un malcontento ogni giorno crescente.

Almeno fino all’aprile 2025, quando è stato imposto il divieto di qualsiasi attività riconducibile ai Fratelli musulmani, il principale movimento conservatore di unità araba e braccio politico del primo partito di opposizione, il Fronte di azione islamico, accusato di pianificare attentati terroristici di destabilizzazione nel paese con il supporto di attori esterni, tra cui Hezbollah. Quest’azione, giunta al termine di una serie di indagini della Direzione per la pubblica sicurezza giordana, ha azzoppato la guida e il coordinamento dei gruppi di protesta. Da allora le marce del venerdì ad Amman sono state sospese e le iniziative di sostegno a Gaza represse duramente dai servizi di intelligence del Mukhabarat con l’accusa di affiliazione al movimento fondamentalista. Oggi questa situazione sembra cambiare.

Davanti all’ennesimo attacco verso un Paese terzo dell’esercito di Tel Aviv e l’inasprimento delle condizioni umanitarie nella Striscia di Gaza, il Forum nazionale per sostenere la resistenza e proteggere la patria ha indetto una nuova manifestazione a cui lo scorso 13 giugno hanno preso parte centinaia di attivisti e membri della comunità palestinese con la richiesta netta di un immediato intervento di Amman e dei Paesi arabi per fermare Netanyahu. Il ritorno in piazza dopo più di un mese di stop ha rappresentato il simbolo di una nuova rabbia, il sentore divenuto azione di una misura colma e pronta a esplodere. Ad accompagnare l’azione di strada, numerosi leader delle principali autorità tradizionali, specialmente nel sud del paese, hanno rilasciato dichiarazioni sui social media invitando il governo giordano a prendere una scelta finalmente chiara di solidarietà verso la popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania, sfidando il bavaglio digitale che impedisce qualsiasi critica online alla corona secondo la legge sul cyber crime del 2024.

Uno dei pericoli maggiori per la stabilità del Paese è costituito dalla potenziale riemersione di cellule eversive ‘dormienti’ affiliate allo Stato islamico presenti all’interno del territorio, capaci di sfruttare il supporto popolare con atti mirati di guerriglia armata come accaduto da ultimo nel dicembre del 2016 nella cittadina di Al-Karak.

Questo panorama interno estremamente instabile ha sicuramente inciso sui toni del discorso del re hashemita Abdallah II al Parlamento Europeo, segnato da una particolare decisione nella condanna all’imperialismo israeliano ed estremamente netto nel richiedere un immediato intervento coordinato per fermare Netanyahu.
“Se la nostra comunità globale non agisce con decisione, diventiamo complici della riscrittura di ciò che significa essere umanì” ha dichiarato il leader giordano nel discorso a braccio davanti al Parlamento di Strasburgo. “Perché se i bulldozer israeliani continuano a demolire illegalmente le case (…) anche i parapetti che definiscono la condotta morale verranno abbattuti. E ora, con l’espansione dell’offensiva israeliana all’Iran, non si sa dove finiranno i confini di questo campo di battaglia. Questa, amici miei, è una minaccia per le persone di tutto il mondo”.


Nelle parole di rinnovata durezza della corona giordana potrebbero nascondersi i semi di una nuova posizione del Paese all’interno dello scacchiere della regione. E, probabilmente, una delle poche possibilità concrete di contenere l’espansionismo di Tel Aviv, ora più che mai galvanizzato dal supporto incondizionato di Washington.

L’autore: Guglielmo Rapino è attivista culturale e per i diritti umani

Foto della protesta pro Palesttina ad Amman di Guglielmo Rapino

L’amicizia con La Capria e l’amore per Napoli. Il nuovo romanzo di Rasy

Elisabetta Rasy, scrittrice e saggista, è nella dozzina finalista del Premio Strega 2025 con il libro Perduto è questo mare, pubblicato da Rizzoli. Seguendo i percorsi della memoria, Rasy ricompone la storia del suo rapporto con il padre e della sua lunga amicizia con lo scrittore Raffaele La Capria, sullo sfondo di una Napoli luminosa, caduta in rovina nel dopoguerra, luogo amato e abbandonato.

Perduto è questo mare è un libro sulle separazioni, sugli incontri e sui legami profondi e misteriosi che accompagnano una vita, sulla perdita e sulla distanza come tensione malinconica ma anche come spazio necessario al ritrovarsi. La genesi del libro è legata a un sogno. “Nel libro racconto questo sogno in cui scappo da un luogo imprecisato portando sulle spalle un caro amico molto più grande di me, lo scrittore Raffaele La Capria- racconta la scrittice-. Il richiamo all’iconografia di Enea che procede sotto il peso del padre Anchise, così come rappresentato nell’antica pittura vascolare e nelle opere di Bernini o di Raffaello, è immediato. Lo raccontai a un amico psicanalista che lo definì un sogno poco femminile. Il commento mi dispiacque, così intrappolato in una logica di genere, senza contare che la mitologia e la letteratura sono piene di figure femminili che si fanno carico del padre, da Antigone, che prende su di sé la maledizione di Edipo, a Louisa May Alcott, che neanche ventenne mantiene l’intera famiglia. Così ho continuato a ragionarci per conto mio. Ho riletto i primi sei libri dell’Eneide, in cui Virgilio racconta la fuga di Enea da Troia e la discesa negli inferi”. Virgilio è un poeta elegiaco, malinconico, è il poeta delle separazioni, degli amori infelici, racconta Rasy. ” Se Didone tocca il cuore di tutti, la mia coscienza femminista è catturata dalla storia di Creusa, la sposa disposta a distanza (longe) nell’anatomia della fuga, e perciò perduta”. L’altro testo citato nel libro è la Lettera al padre di Kafka, “un’analisi spietata del patriarcato, in cui il mea culpa del figlio si trasforma in atto di accusa al padre ipocrita e volgare. Mi sono poi arrivate le immagini legate a Napoli, la città di Raffaele e mia, da entrambi abbandonata ad un certo punto delle nostre vite. Il crollo del palazzo nelle scene iniziali del film Le mani sulla città di Francesco Rosi, scritto assieme a La Capria, a rappresentare la rovina nel dopoguerra, tra speculazione edilizia e corruzione”.

Elisabetta Rasy questo romanzo a comporre il racconto è la memoria?
Ci tengo a chiarire che Perduto è questo mare non è un libro di ricordi, né un’autobiografia. È un libro su come agisce la memoria, che cancella alcuni avvenimenti e ne inventa altri, ricuce storie, crea identità. I protagonisti sono gli altri – il padre e lo scrittore – non “la ragazzina”, alla quale mi riferisco in terza persona proprio perché la distanza è tale da escludere un’identificazione. Qui il sé, che pure è presente, non è in ascolto di sé stesso, ma degli altri e delle loro storie. Rimbaud diceva: «Je est un autre» (Io è un altro).

La narrazione presuppone sempre una distanza?
Personalmente, non sono un’appassionata della scrittura in presa diretta. Senza distanza non c’è messa a fuoco, dunque la narrazione non può che essere un’appendice dell’attualità. E l’attualità è sempre un po’ invisibile. Nel mio libro è molto presente il tema della separazione. Come strappo fatale – tra Enea e Creusa, tra la ragazzina e il padre, tra i vivi e i morti – ma anche come distanza che si ritrova, spazio che si apre, dando la possibilità di un ponte. Tra padre e figlia la vicinanza a un certo punto si fa insopportabile e porta al rifiuto, all’oblio. Solo quando si crea uno spazio è possibile guardare al padre in modo nuovo, raccogliere la sua eredità, infine scriverne.

Della sua amicizia con La Capria scrive “c’era tra noi la più assoluta confidenza intrecciata alla più assoluta reticenza”. Può dirci di più?
Era in effetti un’amicizia un po’ misteriosa. Intanto, tra un uomo e una donna l’amicizia non è mai facile. La mia generazione in particolare è stata attraversata da un’ideologia paritaria su cui però prendevano il sopravvento vissuti non paritari, arcaici. Questo doppio registro ha reso i rapporti spesso complicati e dolorosi. Raffaele non ha avuto nei miei confronti quella galanteria che apparteneva alle generazioni precedenti, né ha mai assunto un atteggiamento magistrale. In generale era attento a non porsi come un maestro, nonostante i crescenti riconoscimenti. Aveva molto da insegnare, ma era il suo modo di essere ad ispirare. Con me era semmai fraterno, nel senso che ci sentivamo tutti e due un po’ orfani. La Capria era un vero malinconico, e questo elemento di malinconia ci univa. Credo che sebbene mai esplicitata, la chiave della nostra amicizia fosse questa radice, questo punto cavo in comune, il “mare perduto” che è insieme Napoli, la solarità della giovinezza, l’orizzonte celeste che leopardianamente promette molto, e non restituisce.

La Capria ha influenzato la sua scrittura?
Ho sempre letto molto e disordinatamente, non ho mai avuto un maestro, la mia è una scrittura meticcia, e nello scrivere sono sempre alla ricerca della mia voce. “Ferito a morte” di La Capria mi ha colpita per ragioni autobiografiche, ma ancora di più mi ha segnata la seconda stagione della sua narrativa, da “L’armonia perduta” in poi. In questo, e ancor più nei romanzi successivi, Raffaele crea un intreccio molto stretto tra stile narrativo e materiali autobiografici. Forte di un grande rigore stilistico, si prende un’assoluta libertà di contenuti. Il suo non è uno stile ricercato, come nelle avanguardie. È anzi quello che lui chiamava “lo stile dell’anatra”, cioè una scrittura meditata ma all’apparenza piana, che non tradisce lo sforzo. Aveva sempre in mente l’immagine del tuffo perfetto: la figura che si libra nell’aria e entra in acqua lasciando lo specchio intatto. La purezza del gesto che nasconde un esercizio infinito.

Nel libro ricorrono due domande senza risposta: “Chi abbandona chi?” e “Chi hai amato di più?”. Quest’ultima, ripetutamente posta da La Capria.
La prima è più che altro una riflessione sugli abbandoni. Chi abbandona ha tutta la responsabilità o anche l’abbandonato vi prende parte? La seconda è una domanda per l’eternità, ed è senza risposta. Non a caso La Capria la poneva in continuazione. La faceva a me, ma credo la facesse a sé stesso. All’inizio non rispondevo perché non volevo, nel tempo sempre meno avrei saputo rispondere. Come dice Marguerite Yourcenar, «Il tempo, grande scultore» modella e rimodella. È il lavoro incessante della memoria, che cambia continuamente aspetto ai nostri ricordi. Dentro di noi c’è un paesaggio cangiante.

Perché ha scelto questo verso di Dagerman per l’esergo: «Tutti vogliono essere amati per quel che non hanno»?
Perché è stato per me fonte di ispirazione. Mio padre avrebbe voluto essere amato per qualità paterne che non aveva: protettività, capacità di riuscire. Raffaele si sentiva inadeguato rispetto a certi suoi amici di gioventù spavaldi con le donne, seduttori e seduttivi. Nonostante il legame con una donna bellissima, l’attrice Ilaria Occhini, il rammarico di non essere amato con quella facilità con cui erano amati quegli “oziosi pappagalli di provincia” l’ha accompagnato per tutta la vita. Ognuno di noi vorrebbe essere amato non per le qualità che possiede, ma per quelle dell’altro da sé, o di quel sé ideale che non sarà mai. Nel mio caso, per una spensieratezza, una leggerezza che non ho e a cui aspiro.

Che Guevara, tu y todos: il volto umano della rivoluzione

Ultimi giorni per vedere al Museo Civico Archeologico dell’Archiginnasio a Bologna la mostra su Ernesto che Guevara che raccoglie più di 2000 documenti e foto provenienti dall’archivio del “Centro de Estudios Che Guevara” dell’Avana, riconosciuto patrimonio di interesse “Memoria del mondo” dall’Unesco. Ideata e realizzata da Simmetrico Cultura è coprodotta da ALMA,dal centro Estudios Guevara con il supporto del dipartimento di Storia contemporanea dell’Università degli studi di Milano e dell’Università Iulm e la collaborazione del figlio Camilo Guevara March.

Documentata da una quantità impressionante di foto e scritti autografi, è corredata da un accurato catalogo acquistabile di 190 pagine, pubblicato dalla casa editrice bolognese Pendragon. Testimonianze, lettere private e pubbliche, foto d’epoca -alcune mai viste prima – che ci aiutano a ricostruire la vita inquieta, a tratti felice del rivoluzionario più citato, amato forse rimpianto del nostro secolo.

A sottolinearne la testarda vocazione alla rivolta e insieme la cura per un’affettività mai abbandonata, testimoniata dalla scritta in corsivo rosso che appare in copertina sotto al nome : “Ernesto Che Guevara, “tu y todos”, tu e tutti. E’ la frase finale di una poesia scritta alla moglie Aleida nel 1966 durante una delle ultime lunghe separazioni cui lo costringeva la pratica rivoluzionaria. “Mia unica al mondo, furtivamente ho rubato alla credenza di Hikmet questo unico verso innamorato per farti sentire l’esatta dimensione del mio amore. Eppure nel labirinto più profondo della conchiglia taciturna si incontrano e respingono i poli del mio spirito : tu e TUTTI. I Tutti che pretendono l’estremo sacrificio che la mia sola ombra oscuri il cammino”. Un conflitto che non lo abbandonerà mai per tutta la vita. Vediamo il viaggio in bicicletta del 1950,oltre 4500 km attraverso le province dell’Argentina,e il famoso viaggio in motocicletta attraverso tutta l’America Latina sulla “Poderosa II”,insieme al grande amico Alberto Granado. Ne torna profondamente scosso dal livello di povertà e ignoranza della sua gente ”quel vagare senza meta per la nostra “Maiuscola America”, scrive negli Appunti di viaggio,“mi ha cambiato più di quanto credessi” .Nel ’54 il Guatemala è sotto attacco,il presidente Arbenz si dimette denunciando gli Usa come responsabili diretti dei bombardamenti.Comincia la sua battaglia.

Foto e lettere che ci risuonano,che abbiamo ascoltato più tardi denunciate nei discorsi che infuocavano le nostre piazze,ma cosa sanno i più giovani? Quelli che di Che Guevara conoscono solo la maglietta con impresso il suo volto intenso ? Chiedi chi era Guevara, si potrebbe dire parafrasando la celebre canzone con le parole di Roversi e la musica degli Stadio. I commenti sono vari, sottovoce (figo, un vero sognatore, me lo immaginavo più vecchio…..(sic) detti, mormorati con grande rispetto e un’attenzione a vari particolari: gli strumenti, le armi di lotta, basiche, la coesione mostrata dal gruppo guerrigliero, senza retorica senza trionfalismo, i sentimenti espressi nelle lettere per l’altro, l’altra, gli altri tutti, appunto.

“Quando si entra in un archivio, lo si fa con attenzione”,dice Paola Romano, curatrice e coordinatrice dei materiali provenienti dal Centro de Estudios Che Guevara.”Abbiamo voluto dare un volto e un corpo a quanto visto solo nelle foto.” Di lui ricordiamo il celeberrimo ritratto del famoso fotografo,Alberto Korda (scattata durante i funerali delle vittime dello scoppio della nave francese Le Coubre al porto dell’Avana. Le armi che trasportava servivano di supporto alla rivoluzione cubana ndr.). Molti l’hanno tenuta in casa formato manifesto in nome di una possibile rivoluzione fatta “senza perdere la tenerezza” come diceva Guevara, anzi rivendicando sentimenti che fanno di un uomo un rivoluzionario completo.” Ma ci siamo voluti staccare – conclude Paola Romano – da quelle rappresentazioni troppo viste, che impedivano di allargare lo sguardo alla sua realtà tutta intera”.
Anche Guevara fa foto, esposte anche quelle: nel ’54 mentre era in Messico dove aveva sposato Hilda Gadea, una profuga peruviana, da cui si separerà, si era mantenuto per qualche tempo fotografando gare sportive. E proprio dal Messico, dove resta fino al ’56 scriverà “La Epica del nuestro tiempo”,frase tratta dal saggio dedicato al “Canto general” di Pablo Neruda. La rivoluzione non deve limitarsi a Cuba, l’internazionalismo lo chiama, va in Congo,d ove apprende della morte di sua madre e scrive un racconto intriso di dolore e malinconia”La piedra”, in cui evoca la carezza che sua madre gli faceva sui capelli. Andrà in Tanzania, poi a Praga dove medita e scrive sul futuro del socialismo. Più tardi, nel 1959, porterà con sé l’inseparabile macchina nel suo primo viaggio ufficiale in Giappone, scattando una foto emblematica da Hiroshima. Un paesaggio rarefatto desolato. Scrive alla moglie Aleida sottolineando l’importanza di lottare per la pace.
Daniele Zambelli, ideatore e curatore per la società Simmetrico dell’evento, dichiara che “ideare e realizzare una mostra su Ernesto Che Guevara ha richiesto due anni di lavoro. Personaggio controverso,Guevara è ancora una figura scomoda e culturalmente divisiva. Eroe per molti e cattivo maestro per altri,ha inciso l’immaginario collettivo di intere generazioni e condizionato culturalmente la nostra storia recente.” Non viene precisato di più ma assicura che l’obbiettivo della mostra non è alimentare l’epicità del personaggio ma quello di far riflettere sulla storia di un uomo fuori del comune, delle sue domande, delle sue urgenze e su un periodo storico cruciale per comprenderne l’attualità.”

Proprio per questo Luigi Bruti Liberati, docente di storia contemporanea alla Statale di Milano ha coordinato un gruppo su una sezione chiave della mostra in cui si presenta il quadro geopolitico mondiale in cui Che Guevara si muoveva. Viene esposto attraverso un percorso multimediale che immerge il visitatore nella vita di Che Guevara e nella storia della seconda metà del XX secolo. Ricorda Maria Carmen Ariet, coordinatrice scientifica del Centro de Estudios Che Guevara ”era importante definire tappe mirate ad approfondire i sogni di Guevara e le sue aspirazioni attraverso un elemento di intimità ed esperienza personale. Il risultato è il cammino verso la speranza…” “ volevamo conoscere e offrire risposte circa l’azione di un uomo che,come scrisse ai genitori nella lettera di addio, ha ambito a un gradino superiore con istinto di artista, si è addentrato in panorami complessi per raggiungere il miglioramento dell’essere umano”.

Scrive Guevara nel 1960 in un discorso al ministero della Sanità (era medico,nella mostra c’è il certificato di Laurea del 1953 con la sua foto e il tesserino di abilitazione alla professione ndr) “sognavo di diventare un famoso ricercatore…di lavorare instancabilmente per arrivare a qualcosa che potesse esser messo a disposizione dell’umanità… Ero figlio del mio ambiente,dopo la laurea percorsi la nostra America prima da studente poi da medico cominciando a stare a contatto con la fame le malattie l’impossibilità di curare un figlio per mancanza di mezzi……con l’abbrutimento da fame e castigo continuo…”.Va tra i contadini,insegna a leggere, sta con loro, li spinge a volere di più a ribellarsi, sono loro che gli dànno il nomignolo, diventa el Che.I più giovani capiranno questa scelta? La troveranno troppo romantica? legati come sono ad una concretezza semplice dettata da cellulari e IA….Nessuna intelligenza artificiale può clonare el Che, perché lui aveva il cuore dalla sua…
“C’è qualcosa di fisico nel suo affrontare la vita” scrive un altro dei curatori Flavio Andreini,docente di Storia dello spettacolo, a Lettere moderne a Firenze “ un corpo a corpo con lo scorrere del tempo.

Famelico ricercatore di verità, viaggiatore senza posa, le gravissime crisi di asma gli fanno provare già in tenera età il dolore la paura la fragilità dell’essere umano. Crescendo li riconoscerà nello sguardo degli altri. Guevara vuole che tutti sentano sulla propria pelle “lo schiaffo dato a qualunque altro uomo”, un progetto pedagogico, in cui ognuno dovrà esser maestro di sé stesso”. Ci accompagna il turbinìo di foto di viaggio (Congo, Tanzania,Praga,Parigi, Tunisia) di incontri con Mao, Kruscev,Simon De Beauvoir e Sartre,Allende,il presidente algerino Ben Bella, mentre la musica a cura di Andrea Guerra fa da colonna sonora agli scritti politici,familiari,alla figlia Hildita ( “devi sapere che sono lontano e rimarrò per molto tempo lontano non è qualcosa di straordinario,ma qualcosa la sto facendo e credo che potrai essere orgogliosa di tuo padre come io lo sono di te”).

La incontrerà a san Andres, Cuba, nel 1966,lui sotto la falsa identità di Ramon Benitez, irriconoscibile. In seguito diventerà Adolfo Mona Gonzales,per raggiungere la Bolivia e dare inizio ad una nuova lotta,non supportato dal partito comunista boliviano con il quale emergono divergenze insanabili.
La sua “Epica del nostro tiempo” continuerà drammaticamente. Scrive nel “ Diario in Bolivia”,27 marzo 1967 ” i disertori hanno parlato”e poi “siamo circondati da 2000 uomini il cerchio si stringe”. Il 7 ottobre nell’ultima pagina “oggi sono undici mesi dall’avvio della nostra guerriglia; la mattinata è trascorsa senza complicazioni bucolicamente, fino alle dodici e trenta”…..Il giorno dopo viene catturato a la Quebrada del Yuro. Il 9 ottobre del 1967 viene assassinato.

Giornalisti sorvegliati, partiti spiati: l’assuefazione è il vero scandalo

Chi ha spiato il direttore di Fanpage Francesco Cancellato, il suo collega giornalista Ciro Pellegrino e Roberto D’Agostino, direttore di Dagospia, ancora non lo sappiamo. Dalle parti del governo non sembrano particolarmente stupiti che in un Paese democratico dei giornalisti siano intercettati. La presidente del Consiglio non sente l’urgenza di difendere i giornalisti italiani, il sottosegretario Mantovano non proferisce parola. Matteo Renzi ha incalzato Giorgia Meloni in Senato senza ottenere risposta.

C’è da notare come anche una bella fetta di loro colleghi, per natura assetati di retroscena e pruriti, sia placidamente silenziosa. La strategia scelta sembra ogni giorno di più quella di lasciare posare la polvere e poi concludere con un nulla di fatto. Lasciare cadere le notizie è il modo migliore per non essere costretti a darne.

Nel frattempo però abbiamo saputo, ieri proprio da Fanpage, di un’operazione della Direzione Centrale della polizia di prevenzione, l’antiterrorismo, ai danni di un partito che si candida regolarmente alle elezioni politiche. Almeno cinque poliziotti si sarebbero infiltrati in Potere al Popolo, tra Milano, Bologna, Roma e Napoli. Uno di loro ha addirittura manifestato contro l’infiltrazione del suo collega.

Sembrano cronache provenienti dall’Egitto di Al-Sisi o dal Venezuela di Maduro, invece è l’Italia che vorrebbe insegnare la libertà e la democrazia al resto del mondo. Più dolorosa di tutto è quest’aria di assuefazione, questa stanchezza morale, questo lascivo passare alla notizia successiva.

Buon venerdì.

Immagine dall’inchiesta curata da Antonio Musella per Fanpage, sull’infiltrazione di agenti di polizia nelle fila di Potere al Popolo 

Le giuste lotte, democratiche e partecipate, per il rinnovo dei contratti

Quando il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha posto la questione di fiducia alla Camera dei Deputati sul cosiddetto “Decreto sicurezza”, che ha introdotto 14 nuovi reati e 9 aggravanti, ha affermato che “per noi questo è un provvedimento strategico per valorizzare il lavoro quotidiano delle forze dell’ordine e che contiene misure decisive per la sicurezza”. Venerdì scorso, era il 20 giugno, la pulsione repressiva del Governo Meloni espressa in tale Decreto come in altre misure, ha dovuto fare i conti con la realtà.
E questo perché i lavoratori e le lavoratrici italiani non sono teppisti. Non è costume del movimento sindacale italiano, men che mai delle sue articolazioni confederali, compiere atti scellerati o violenti.
Ma la trattativa sul rinnovo del Contratto Nazionale è iniziata il 30 maggio del 2024 ed è rimasta, da allora, di fatto, bloccata. In particolare per la distanza registrata con le organizzazioni datoriali, Federmeccanica e Assistal, sulle richieste salariali presentate da Fim, Fiom e Uilm.
Dunque, il 20 giugno del 2025, i sindacati confederali hanno indetto altre 8 ore di sciopero della categoria e manifestazioni che si sono svolte in molti luoghi del Paese. Agitazioni che hanno registrato un’adesione massiccia.
A Bologna diecimila lavoratori, per alcuni minuti, hanno bloccato parzialmente il traffico sulla tangenziale. Evento analogo a Genova, dove è stata fermata la circolazione sulla sopraelevata Aldo Moro. Ad Ancona, l’agitazione ha bloccato il porto.
Ora, fino al Decreto Piantedosi, il blocco stradale era definito come un illecito amministrativo. Nelle norme del Governo Meloni è divenuto un reato. Reato punito con un mese di carcere e una multa fino a 300 euro. Ma attenzione: la pena può arrivare fino a sei anni di reclusione se il blocco è commesso da più persone nel corso di una manifestazione.
Si potrebbe parafrasare un vecchio proverbio: “Fatta la legge, trovato il disastro”. Perché, cosa faranno ora le Procure della Repubblica competenti? Indagheranno e perseguiranno decine di migliaia di lavoratori che lottano per un rinnovo contrattuale che non fa un passo avanti da oltre un anno? E ricordiamo che si tratta di una delle principali categorie industriali di questo Paese che sta, tra l’altro, soffrendo di una grave crisi complessiva che ha colpito il settore manifatturiero.
Di fronte a questa inusitata prospettiva repressiva i sindacati dei metalmeccanici hanno affermato in un comunicato unitario: “La grande e pacifica manifestazione delle metalmeccaniche e dei metalmeccanici svolta a Bologna non può in nessun modo essere considerata un problema di ordine pubblico […]. Ci attendiamo pertanto che nessuno provvedimento giudiziale sia assunto nei confronti di chi, lavoratrici e lavoratori, rivendica pacificamente i propri diritti, nel pieno rispetto delle regole e di quanto garantito dalla Costituzione”.
Perché lo sciopero e la libera manifestazione del pensiero sono esattamente facoltà garantite dalla Costituzione repubblicana. E non a caso il ministro del Lavoro Calderone, il giorno seguente le manifestazioni, ha convocato le parti per un primo round al ministero, purtroppo al momento senza esito.
Speriamo, perciò, che le distanze vengano superate e le parti possano, finalmente, imboccare la via di un confronto che, nella tradizione della categoria, può essere duro ma, comunque, fattivo.
Sempre che, nel frattempo, una normativa mal pensata nella sua architettura e sciagurata nelle conseguenze, non trascini i lavoratori – e i loro diritti civili e contrattuali – in tribunale. Sarebbe uno scenario devastante per le fondamenta democratiche del nostro Paese.