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Se il Mezzogiorno viene di nuovo “dimenticato”

View of the marina of Tropea Calabria Italy

Le politiche dei governi dell’ultimo ventennio hanno prodotto, anno dopo anno, frutti avvelenati, fra cui un aumento sempre maggiore della povertà assoluta della popolazione oggi arrivata al record di 5,6 milioni di cittadini, in larga maggioranza nel Mezzogiorno, la macroarea più povera di tutto il continente, con Sicilia e Campania da tempo ai primi due posti per rischio povertà della classifica Eurostat.

Sembra impossibile, eppure a pochi giorni dalla diffusione dei dati Istat è arrivata la proposta di Matteo Renzi di un referendum sul reddito di cittadinanza (Rdc). L’idea di ricorrere ad un referendum fa pensare che Renzi non intenda correggere il Rdc, magari migliorarlo, ma semplicemente cancellarlo, lasciando così le persone in difficoltà senza un sostegno e in balia del ricatto occupazionale da parte di chi ricerca manovalanza a basso costo e senza diritti.

Dopo le dichiarazioni di Renzi sono arrivate, a rinforzo, quelle di Carlo Calenda per il quale, a proposito della situazione di Roma, i percettori del Rdc andrebbero trasformati in spazzini. A questo punto non si capisce perché non chiedere, senza ledere la dignità di nessuno e per ripagare l’aiuto della collettività, a tutti gli imprenditori che hanno percepito sussidi per la loro attività, beneficiato di condoni, saldo e stralcio o supporto ai dipendenti con Cig, di andare anche loro a spazzare i marciapiedi!

In questa direzione classista va anche il recente sblocco dei licenziamenti preteso e ottenuto da Confindustria; sblocco che in questi giorni sta già producendo i suoi effetti disastrosi sull’occupazione con licenziamenti, alcuni addirittura via email, che hanno suscitato le rimostranze anche del ministro Giancarlo Giorgetti, che non ha trovato niente di meglio da dichiarare che «licenziare è inevitabile, ma non vogliamo il Far-West»; in estrema sintesi, licenziate pure ma fatelo con garbo…

A smentire questi tesi iperliberiste alcuni giorni dopo queste polemiche sono arrivati i dati del Rapporto Inps 2020 che, con la fredda logica dei numeri, ha confermato che senza sussidi, Rdc e senza il blocco dei licenziamenti, l’Italia sarebbe andata incontro ad una vera e propria catastrofe sociale, con la diseguaglianza, che già era altissima, che sarebbe addirittura raddoppiata.

A proposito di diseguaglianza è doveroso ricordare la situazione che sta vivendo il Mezzogiorno, che già prima della crisi Covid era in enorme difficoltà.
Leggendo il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si è scoperto, grazie all’economista Gianfranco Viesti, che in realtà solo 35 miliardi, degli 82 miliardi annunciati dal governo, sono effettivamente allocati nel Mezzogiorno, mentre dei restanti 47 miliardi nel testo ufficiale inviato in Europa, controllando misura per misura, non c’è traccia. Di fronte alle polemiche sorte la ministra per il Sud, Mara Carfagna, ha risposto dalle pagine del Mattino, che…


L’articolo prosegue su Left del 23-29 luglio 2021

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Gli invisibili senza residenza né diritti

Vivere in uno stato di attesa e di incertezza, privati dei diritti fondamentali: non avere diritto al medico di base, essere discriminati nell’accesso ai vaccini, avere problemi per la mensa scolastica e per il bonus libri dei propri figli, affrontare difficoltà per accedere ai sussidi, ai buoni spesa Covid e all’assistenza sociale, non votare, spesso non poter rinnovare il permesso di soggiorno, essere costretti a registrarsi come senza fissa dimora. È quanto sperimenta un numero imprecisato di persone italiane e migranti in Italia, oltre 300mila stimati solo quelle di origine straniera (Dati Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità), che resta escluso dall’anagrafe.

Uno scenario approssimativo che non consente una stima certa a causa dell’assenza di dati verificabili da parte delle istituzioni, che non permettono di conoscere l’ampiezza reale di una importante parte della popolazione effettivamente presente sul nostro territorio, ma nei fatti tagliata fuori dai servizi e dai diritti essenziali. Storie e racconti che ricorrono in due dossier realizzati da ActionAid a Roma nel quartiere del Quarticciolo e a Napoli nei quartieri di Soccavo e Pianura, e dalle testimonianze raccolte grazie alle associazioni partner a Bologna, Carmagnola (Torino) e Catania.

Nei giorni in cui si celebra la digitalizzazione dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), ActionAid lancia la campagna #DirittiInGiacenza per denunciare che troppo spesso nel nostro Paese l’esclusione dalla residenza è discrezionale, illegittima e discriminatoria verso le persone più fragili. Soltanto chi è iscritto nei registri anagrafici, infatti, è “visibile” dal punto di vista amministrativo e, quindi, è parte della popolazione per la quale le istituzioni pensano le politiche ed erogano la spesa sociale. Sono le persone più fragili, costrette o indotte a vivere in condizioni di irregolarità contrattuale o in immobili non congrui – molto spesso perché povere o impoverite - ad essere doppiamente penalizzate ed escluse, spesso illegittimamente, dalla registrazione della residenza.

Perché si viene esclusi dall’anagrafe? L’art. 43 del codice civile stabilisce che «la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale». Si tratta di una definizione molto chiara e semplice. Non può essere di ostacolo alla iscrizione anagrafica la natura dell’alloggio, quale ad esempio un fabbricato privo di licenza di abitabilità ovvero non conforme a prescrizioni urbanistiche, grotte, alloggi in roulottes, né la presenza o meno di un contratto regolare di proprietà o di locazione. Nonostante questo, il legislatore negli anni ha escluso dall’anagrafe specifici gruppi sociali con finalità “punitive” (ad esempio i richiedenti asilo con i decreti Sicurezza del primo governo Conte), prima ancora l’art. 5 del “Piano casa” del 2014, nato per contrastare le occupazioni abusive, ha di fatto posto delle barriere insormontabili anche a migliaia di persone impossibilitate a dimostrare presso gli uffici dell’anagrafe un titolo di possesso dell’immobile ritenuto valido. Per le persone straniere la situazione è ancora più grave: molti uffici non registrano le dichiarazioni di residenza presentate dai cittadini stranieri con il permesso di soggiorno in fase di rinnovo, conversione o rilascio: è una procedura illegittima molto diffusa. Inoltre, sono numerosi i casi di errori burocratici che rendono impossibile arrivare a chiudere positivamente la richiesta di iscrizione. Per sfuggire all’invisibilità chi è escluso dalla residenza per potersi registrare nel Comune dove vive è costretto a ricorrere alla cosiddetta iscrizione fittizia, cioè iscriversi come senza fissa dimora. Una soluzione difficile e che toglie dignità alle persone perché richiede un colloquio preliminare con i servizi sociali e ha tempi di gestione lunghissimi.

Mariza è una donna peruviana di 38 anni. Da quindici anni vive in Italia, con il marito Ramos e i due figli di 15 e 9 anni. Dal 2016 vive in un appartamento fatiscente senza contratto delle case popolari al Quarticciolo a Roma, lavora come addetta alle pulizie in una cooperativa, si impegna con il Comitato di quartiere per avere l’assegnazione di un alloggio popolare dignitoso. Durante l’emergenza Covid Ramos, suo marito ha perso il lavoro, ha contratto il virus ed è stato ricoverato in ospedale per complicazioni. Ma il rinnovo del permesso di soggiorno è bloccato in Questura, non è riuscito ad ottenere la residenza come senza fissa dimora e la pratica non va avanti. È senza medico di base e tessera sanitaria. «L’hanno ricoverato all’ospedale San Giovanni. Dicono che il Covid ha svegliato una malattia che lui aveva già quando era giovane. Adesso deve stare in trattamento in ospedale per una settimana/dieci giorni. I dottori mi hanno detto che devo andare all’Asl a fare il medico di famiglia: senza, il trattamento che deve fare costerebbe mille euro al giorno. Sono rimasta allibita. Ma come faccio, dove li prendo diecimila euro?» racconta Mariza. Grazie al Comitato e all’assistente sociale coinvolta Mariza è riuscita ad ottenere il tesserino per Stranieri temporaneamente presenti (Stp) che ha permesso a Ramos di essere curato in ospedale. Sta però ancora aspettando la registrazione come senza dimora all’anagrafe.

I numeri crescenti delle persone senza iscrizione anagrafica hanno creato anche il “mercato delle residenze”, non di rado infatti si è costretti ad acquistare la possibilità di essere registrati presso un appartamento nel quale non si vive. Pierre è il presidente di un’associazione senegalese a Napoli che organizza attività culturali e soprattutto assistenza per i propri connazionali. La diffusissima pratica di non stipulare regolari contratti d’affitto da parte dei proprietari ha gravissime conseguenze sulle vite delle persone. «I senegalesi – dice Pierre – affittano le case anche in nero perché il proprietario spesso non vuole fargli il contratto, non vuole pagare le tasse. Molti proprietari non danno alternativa: o prendi o lasci; tanto troveranno sempre qualcuno. La conseguenza è che i ragazzi sono costretti a dichiarare la propria residenza dove non dormono, dove non vivono, o addirittura comprano la residenza attraverso intermediari, sia italiani che stranieri». Senza ricevute di pagamento dell’affitto si è esposti a ogni forma di ricatto. Come nel caso seguito da Pierre di una donna senegalese che, rientrata a Napoli nella sua casa dopo un soggiorno in Senegal, ha trovato la porta dell’abitazione, dove viveva da cinque anni, chiusa con un catenaccio. Non le viene data nemmeno la possibilità di ritirare le sue cose. Il proprietario sostiene che non paga l’affitto, mentre la donna dice che lui non le ha mai rilasciato ricevute. L’avvocato della donna ha fatto un esposto, mentre i carabinieri dicono che la donna non può fare la denuncia perché non esiste un contratto d’affitto.

In questo labirinto burocratico il ruolo delle associazioni sul territorio è cruciale. ActionAid è attiva a Napoli con uno sportello sul diritto all’abitare che fornisce anche assistenza alle persone straniere che hanno bisogno di conseguire l’iscrizione all’anagrafe per avere accesso ai diritti. Barriere linguistiche, difficoltà nelle pratiche, mancato dialogo tra le diverse istituzioni, discrezionalità e discriminazioni, sono le cause principali che senza l’intervento diretto e la presa in carico delle associazioni non sarebbero superati. Un dato e un problema che accomunano Nord, Centro e Sud Italia dove emerge chiaramente la difficoltà di assistenza per i lavoratori e i braccianti agricoli. Nelle comunità dove non sono presenti Ong, associazioni e sindacati non c’è infatti nessuna forma di sostegno e orientamento legale e le persone sono abbandonate a loro stesse. Siamo di fronte ad un problema enorme e sommerso e la politica e le istituzioni se ne devono fare carico e invertire la rotta. Noi crediamo che sia necessario garantire anche alle persone senza residenza i diritti fondamentali. ActionAid è in prima linea in questa battaglia perché crediamo che tutti abbiano diritto ad avere una vita dignitosa.

Per contrastare le violazioni del diritto alla residenza, ActionAid si è mobilitata a Roma, insieme ad altre organizzazioni, ricercatori e attivisti, affinché sia superata ogni procedura illegittima applicata negli uffici anagrafici e per la cancellazione dell’articolo 5 del decreto Lupi. A Napoli ActionAid, attraverso la collaborazione con le associazioni della diaspora e con il protagonismo dei diretti interessati, partecipa alle attività del progetto Yalla! Social community services, che ha come capofila il Comune di Napoli. L’obiettivo dell’iniziativa è migliorare il livello di efficienza del sistema dei servizi socio-assistenziali rivolto a cittadini di Paesi terzi, con particolare attenzione ai nuclei familiari con minori in disagio abitativo, sperimentando modelli innovativi di inclusione scolastica e socio lavorativa, accoglienza e accesso ai servizi. Lo sportello sul diritto all’abitare gestito da ActionAid nell’ambito del progetto fornisce tra altre cose assistenza alle persone straniere che hanno bisogno di conseguire l’iscrizione all’anagrafe per accedere ai diritti.

*-*
L’autrice: Katia Scannavini è vice Segretaria Generale di ActionAid Italia

(nella foto il flash-mob a Montecitorio a Roma per il lancio della campagna #DirittiInGiacenza il 22 luglio)

Qui il dossier su Roma e su Napoli

The Last 20, il mondo visto dal basso e la sfida ai G20

«Solo se guardi il mondo dalla prospettiva dei Paesi più fragili e dei loro cittadini capisci veramente quali dinamiche lo muovano». È il limpido ragionamento di Tonino Perna, professore di economia, una vita da attivista e oggi vice-sindaco di Reggio Calabria. Le pronuncia proprio nella sua città durante la conferenza stampa di apertura di “The Last 20”, un evento culturale e politico visionario che propone di guardare la realtà – appunto – con gli occhi degli ultimi 20 Paesi del Pianeta. Attenzione, Paesi non “poveri”, ma “impoveriti” da conflitti etnici, guerre, sfruttamento senza limiti delle loro risorse umane e naturali. The Last 20 arriva nel momento giusto: quest’anno l’Italia ha assunto il ruolo di presidente del G20, il forum internazionale dei Paesi più ricchi e potenti del mondo, che rappresentano quasi il 90% del Pil mondiale e contano il 65% della popolazione. «È evidente – spiegano gli organizzatori di The Last 20 – che una larga fetta, circa il 35% della popolazione mondiale, quella che vive le peggiori condizioni di povertà ed emarginazione, non viene presa in considerazione. Noi pensiamo che questo non solo non sia giusto, ma impedisca di affrontare e risolvere le grandi sfide del nostro tempo: la fame, le crescenti disuguaglianze tra i molto ricchi e i tantissimi poveri, i danni provocati dal mutamento climatico, la riduzione delle risorse naturali essenziali, il proliferare di guerre locali e la corsa agli armamenti delle grandi potenze».

Ed è questo lo spirito di The Last 20. Dice Perna: «The Last 20 vuole misurare la temperatura sociale, economica e ambientale del Pianeta, visto come un organismo vivente, e analizza proprio i punti più sensibili della Terra, scoprendo i mutamenti che stiamo attraversando. Solo così si può andare alla radice dei problemi e delle contraddizioni del nostro tempo». L’obiettivo principale di The Last 20, anche se non nasce in contrapposizione o in alternativa al G20, è quindi squisitamente politico: affermare che i Last 20 esistono e soprattutto che “Last 20 matter” – per parafrasare “Black lives matter” – e non possono essere dimenticati. «È necessario – prosegue Perna – un riequilibrio sia territoriale sia sociale, una convergenza che superi le attuali, crescenti, diseguaglianze, un riequilibrio nel rapporto tra la società umana e la natura, per ripristinare il patrimonio naturale ereditato, un riequilibrio nel rapporto tra economia reale e finanza».

La sfida allora è questa: Il mondo si può cambiare dal basso?

*

Per capirlo ci si incontra fino al 25 luglio al Parco Ecolandia di Reggio Calabria, un terrazzo sullo Stretto, in un bene confiscato alla criminalità organizzata. I lavori di questa tre giorni vertono sul tema delle migrazioni e dei migranti: il programma prevede ospiti autorevoli, giornalisti, studiosi, politici, sindaci, attivisti, sindacalisti, rifugiati, rappresentanti della Federazione delle Diaspore Africane. A parlare di viaggi dei migranti, modelli di accoglienza, cooperazione internazionale, corridoi umanitari, ruolo degli enti locali e delle comunità ci saranno tra gli altri Maurizio Ambrosini, Mimmo Lucano, Abdou Babakar, Gianni Silvestrini solo per citarne alcuni.

“The Last 20” continuerà poi con altre tappe tematiche a settembre e ottobre 2021. Dal 10 al 12 settembre a Roma, con un focus sulla questione della lotta alla fame e alla povertà, dal 17 al 21 settembre in Abruzzo e Molise, sui temi del dialogo interreligioso e della pace, dal 22 al 26 settembre a Milano, dove si parlerà di sanità, impatto del mutamento climatico, resilienza. E si concluderà a Santa Maria di Leuca il 2-3 ottobre con la stesura di un documento comune da presentare nelle sedi internazionali e ai media, il precipitato di queste e delle successive giornate.
Per la cronaca “The Last 20” si è aperto con la scopertura di una targa per dedicare il ponte del waterfront di Reggio Calabria all’ambasciatore Luca Attanasio e alla sua scorta. Una commossa Zakia Seddiki, moglie di Luca Attanasio ha detto: «Ogni volta che passeremo sul ponte ricorderemo Luca e il carabiniere Vittorio Iacovacci ma anche l’autista Mustapha Milambo». Perché non bisogna dimenticare le persone e i popoli che subiscono ingiustizie. Chi invece ha fatto orecchie da mercante è stato il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale che non ha trovato di meglio che mandare un formale messaggio firmato Luigi Di Maio.

I Paesi L20 sono questi: Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea Bissau, Libano, Liberia, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan e Yemen.
I promotori: Comune e Città metropolitana di Reggio Calabria, Federazione delle diaspore africane in Italia, Focsiv, Fondazione Terre des Hommes (Italia), ITRIA (Itinerari turistico-religiosi interculturali accessibili), Mediterranean Hope, Re.Co.Sol. (Rete Comuni solidali), Rete azione TerraE, Fondazione Casa della Carità (Milano), Parco Ludico Tecnologico Ecolandia, Net Scarl. Sul sito le numerose collaborazioni e adesioni e il programma completo.
Info https://thelast20.org

No, la difesa non è sempre legittima

Provando a volare per qualche minuto un po’ più alti del letamaio giuridico, morale e politico che si sta riversando sul cadavere di Youns El Boussetaoui si potrebbe una volta per tutte ribadire un concetto che l’ignoranza e la propaganda sta offuscando da anni, in nome di una rincorsa alle armi e alla violenza come unici ingredienti di una sicurezza davvero sicura: no, la difesa non è sempre legittima. Se negli ultimi anni sono fioccati assessori alla sicurezza in giro, non solo nelle giunte di destra, significa che l’idea stessa di sicurezza è stata regalata alla più ignorante propaganda anche dalla fiacchezza di chi avrebbe dovuto proteggerne il senso.

La retorica di Salvini e della Lega è da sempre quella del tifo organizzato, una posizione fideistica che ogni volta, tutte le volte, produce come riflesso incondizionato la difesa dell’uccisore. Va trattata per quello che è: una “bambinesca” presa di posizione per rassicurare i propri elettori con una visione semplicistica del mondo diviso in bianco e nero, buoni e cattivi, italiani e stranieri, settentrionali e terroni. Recuperare il gusto per la complessità e la capacità di farne uno strumento politico per leggere la realtà è il primo passo per rimettere Salvini al suo posto, lì nel cassetto dei cretini provocatori. Non è un caso che quando il 28 novembre del 2018 Fredy Pacini, un gommista di Arezzo che sparò a due rapinatori moldavi uccidendone uno, Salvini cavalcò l’onda per mettere mano alla legge sulla legittima difesa (con l’aiuto del Movimento 5 Stelle e di Giuseppe Conte, perché le cose vanno ricordate per bene) e la frase migliore la disse proprio il gommista alla fine dell’iter processuale che lo vide prosciolto: «Aveva 29 anni, non volevo ucciderlo. Non potrà più accadermi una cosa simile perché non avrò mai più una pistola e quella che avevo non voglio più vederla in vita mia». La legittima difesa è già prevista nel nostro ordinamento e spesso proscioglie gli autori riconoscendone lo stato di pericolo e il turbamento. Non è vero, come ciancia Salvini, che non esista nessun tipo di impunità. I processi non sono una condanna e, come scrive il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, «la verità processuale si conquista lentamente, con fatica, con il rispetto delle garanzie degli imputati, affidandosi a un complesso apparato probatorio. Ogni difesa d’ufficio è inappropriata e irriguardosa della norma predetta, così come lo sarebbe stata una tesi colpevolista indimostrata».

La differenza è tra la difesa legittima e la vendetta ed è su quel crinale che si misura la maturità di una democrazia. Per questo pensare che uomini delle istituzioni come certi ceffi di destra giochino con la vendetta li rende di fatto mandanti morali di ogni violenza eccessiva. Loro si offendano, si offendano pure. Vale la pena ricordare che nei Paesi di tutto il mondo regolati da leggi democratiche la difesa non è sempre legittima: c’è scritto nei codici e nelle costituzioni. Tocca citare ancora Gonnella quando dice che «il refrain che la difesa è sempre legittima non tiene conto del principio, costituzionalmente avallato, secondo cui mai può valere quale causa di giustificazione per proteggere un bene di rilievo inferiore. Per chiarirci non si può mai privare una persona della vita per evitare la sottrazione di un bene di proprietà. Non c’è formulazione legislativa che possa mai legittimare la negazione del principio di proporzionalità, che a sua volta è strettamente connesso con quello di legalità penale in senso stretto».

Per questo le figure di sindaci o ministri dell’interno che si trasformano in sceriffi (nelle parole o nelle azioni o nelle intenzioni) sono una stortura della democrazia: la sicurezza si garantisce dando reddito e lavoro, offrendo i servizi essenziali, offrendo protezione e cure alle categorie più vulnerabili, costruendo una città in cui ognuno con dedizione e onore stia nel proprio ruolo (il sindaco fa il sindaco, la polizia locale si occupa di mobilità, gli assessori contribuiscono all’amministrazione della città e solo le forze dell’ordine si occupano dell’ordine pubblico).

È un campo che è stato completamente abbandonato dalla politica, anche da quella considerata lontana dalla destra, che ha lasciato spazio libero alla destra per costruire la propria propaganda. Ci sono responsabilità da tutte le parti se oggi siamo arrivati a vivere e ad ascoltare prodromi del fascismo scambiandoli per dibattito politico.
Buon venerdì.

Cuba, nei media non stat virtus

In fondo Cuba continuerà a pagare pegno per essere un vessillo e come tutti i vessilli rischia di finire schiacciata da chi la usa semplicemente come clava contro il suo avversario oppure come inno sterile per le proprie convinzioni. In parte c’è una buona notizia: Cuba è viva, l’idea che si porta dietro con la sua storia è qualcosa ancora in grado di spaccare e di fare discutere e come tutti i progetti dalle aspirazioni rivoluzionarie riesce a evidenziare l’ipocrisia e lo snobismo di chi lo affronta con l’ideologia avversa. Le proteste di Cuba sono state utilissime per vedere riaffiorare quel sentimento anticubano che altro non è che una (ignorante) avversione al comunismo, superficialmente sparso in giro come se la storia non facesse il proprio corso.

A gennaio di quest’anno (per citare un esempio paradigmatico) fu il celebre Burioni a dare un fulgido esempio della superficialità in cui in questo Paese si parla di Cuba. È significativo che proprio Burioni, quello che da mesi professa il dovere di parlare delle cose solo con una base di competenza decente, si sia esibito in cotanta arrogante superficialità: «A me va benissimo anche il vaccino cubano, a patto che venga sperimentato in un luogo dove uno scienziato che dice che non funziona non viene messo in galera. In altre parole, in una bella democrazia occidentale», scrisse Burioni a gennaio in un tweet con tanto di faccina sorridente al seguito, quella che si pone alla fine della frase con la disperata speranza di risultare simpatico. Cuba come simbolo di mancanza di libertà è un concetto che si pensava superato almeno dopo avere frequentato le scuole medie e invece evidentemente funziona ancora.

In quel caso fu Fabrizio Chiodo, professore di Chimica all’Avana e ricercatore dal 2014 presso l’Insituto Finlay dove ha collaborato alla sperimentazione di Soberana 01 e 02, a confutare le affermazioni di Burioni (e uno smacco ulteriore è arrivato a fine primavera quando Soberana 02 ha superato gli standard richiesti dall’Oms per essere dichiarato un vaccino) Finita? No, no. Burioni affonda ancora il colpo: «Non voglio entrare in diatribe politiche, ma nessun farmaco è stato sviluppato a Cuba negli ultimi 50 anni». 

È falso e la frase ci torna utilissima per raccontare della strumentalizzazione di Cuba nel dibattito pubblico: c’è dentro la finzione maldestra di non voler fare nessun discorso politico nonostante il pregiudizio sia tutto politico e c’è la disinformazione che serve per descrivere un’isola arretrata.

I bambini di tutto il mondo curati con vaccini cubani, i pazienti da tutto il mondo curati con prodotti unici della Biotech Cubana (pubblica) a Burioni sfuggono: vuoi mettere la soddisfazione di delegittimare Cuba? Tanto, come sempre succede, la voce amplificata è sempre quella del più forte, del più potente. È successo con il mediatico virologo ma il meccanismo è sempre lo stesso: l’accusa (falsa) fa il giro del mondo e la difesa rimane sterile tra i soliti noti.

Qualche giorno fa, sempre a proposito delle proteste a Cuba, hanno fatto il giro del mondo le immagini trasmesse da Fox news, il gigantesco network conservatore Usa visibile in tutto il pianeta, che mostra le proteste ritoccando il video e coprendo le scritte dei cartelli in mano ai manifestanti. Sapete cosa dicevano quei cartelli? Il primo cartello dice: “Le strade sono dei rivoluzionari”, la frase pronunciata dal presidente cubano Díaz-Canel pochi giorni fa, il secondo cartello dice: “Viva la Rivoluzione Cubana”. Non vi basta? Roberto Saviano pubblica la foto di una donna urlante scrivendo: “Cuba finalmente insorge contro la dittatura del partito comunista cubano e contro l’embargo. Cuba merita democrazia e la conquisterà”. Tutto giusto, per carità, peccato che quella donna sia Betty Pairol, sostenitrice del governo e attivista, che ha intimato ai social di correggere l’evidente manipolazione. Ovviamente non ha ottenuto risposta.

Ma gli esempi di disinformazione e bufale sono svariati, come ricostruisce Leonardo Filippi in queste pagine: immagini delle proteste in Egitto nel 2011 spacciate per foto di Cuba dieci anni dopo; immagini di cortei a Miami trasformate in foto di manifestazioni a L’Avana; immagini di manganellate in altre nazioni attribuite a Cuba; la folla del Primo Maggio cubano scambiata per manifestazione contro il governo; bandiere del movimento filo-castrista 26 luglio confuse con vessilli di associazione anti-castriste. Allora prima di esprimere qualsiasi giudizio e approfondire con le giuste analisi sarebbe il caso di trovare il coraggio di svestirsi una volta per tutte di questi pregiudizi tossici sulla pelle dei cubani. Mica solo per loro ma anche per noi, per rispetto della nostra intelligenza.


L’editoriale è tratto da Left del 23-29 luglio 2021

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I giorni della rivolta

Cubans take part in a rally calling for the end of the US blockade against Cuba, in Havana, March 28, 2021 (Photo by YAMIL LAGE / AFP) (Photo by YAMIL LAGE/AFP via Getty Images)

«Se prendi a sassate la polizia e fai un video ti mando 100 dollari e se colpisci un bambino e fai vedere la ferita in un video ti mando 200 dollari». Messaggi come questo arrivavano da Miami sui cellulari delle persone che vivono a Cuba durante la protesta dell’11 luglio scorso. Cubani americani – i principali artefici delle pressioni su Washington affinché mantenga il criminale embargo nei confronti dell’Avana – esortavano parenti e conoscenti rimasti sull’isola a scendere in strada e unirsi alle proteste, in cambio di denaro, per poter diffondere i video sui social e alimentare la campagna mediatica anti-cubana che a colpi di fake news, come vedremo, era stata pianificata con qualche giorno d’anticipo.

Ciò non toglie che la protesta c’è stata, che migliaia di cittadini cubani sono scesi in strada in diverse città del Paese e che un evento simile non accadeva dal 1994 quando l’isola, in seguito alla caduta dell’Unione sovietica e fiaccata da oltre 30 anni di embargo Usa, era attanagliata da una gravissima crisi economica. Perché protestano? Cosa sta accadendo a Cuba? Se, per dirla con Gianni Minà, vogliamo davvero aiutare i cubani «per aiutarci a restare umani» è più che mai doveroso ricostruire laicamente e correttamente il contesto in cui la protesta è nata e si è sviluppata, rimettendo a posto i tasselli scombinati da vagonate di false notizie che pure i media mainstream italiani hanno contribuito a diffondere impunemente, come ci ricorda anche Leonardo Filippi nelle pagine seguenti. Andiamo per ordine.

Per un’economia già in difficoltà e basata sul turismo come quella cubana, la riapertura delle frontiere nel maggio scorso è…


L’articolo prosegue su Left del 23-29 luglio 2021

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Il processo breve (secondo Salvini)

Volete spiare dal buco della serratura che Paese sarebbe questo con Salvini al governo? Eccolo qua: l’assessore leghista Massimo Adriatici che a Voghera ha la delega alla “sicurezza” ieri ha sparato e ucciso Youns El Boussetaoui, un 39enne marocchino. La nazionalità ci tocca metterla perché quando si tratta di leghisti purtroppo ci tocca sempre insozzarci del loro mondo diviso tra italiani e stranieri. Me ne scuso subito con i lettori.

«Stavo passeggiando in piazza Meardi quando ho notato quell’uomo infastidire i clienti di un bar», ha dichiarato Adriatici, ex funzionario di polizia, parlando al magistrato. «Mi sono avvicinato, l’ho redarguito invitandolo ad andarsene e a quel punto ho chiamato la polizia – ha aggiunto – Sentendo la mia telefonata, mi ha spinto facendomi cadere. È stato a quel punto che dalla pistola già impugnata è partito il colpo».

I fatti finora accertati dicono che l’uomo ucciso fosse probabilmente alterato dall’alcol e che sia stato colpito in pieno petto.

«Lo chiamavamo sceriffo per l’atteggiamento, che non era quello di un assessore. Il primo atto che ha fatto in comune è stato il Daspo a una persona che chiedeva l’elemosina», ha detto ieri il coordinatore del partito La buona destra di Voghera, Giampiero Santamaria. Tra le voci raccolte in paese c’è chi descrive la vittima come “non certo un delinquente, non era pericoloso. Era seguito dai servizi sociali e dalla Caritas”, “una persona problematica, non un aggressore. Era più da manicomio”. Poi c’è anche chi racconta che l’assessore leghista fosse abituato “a scendere per strada con la pistola”.

Ora arriva lo schifo vero. Matteo Salvini riesce a superarsi pubblicando un video in cui descrive Adriatici come la «vittima di una aggressione» che «ha risposto e accidentalmente è partito un colpo». Punta sul fatto che il presunto aggressore fosse straniero e riesce a rivittimizzare la vittima descrivendolo come un violento. Sul suo assessore invece dice che bisogna aspettare. Capito? Lo straniero è sicuramente colpevole perché “lo dicono gli abitanti di Voghera” mentre il suo assessore è un povero aggredito. Ma il vero capolavoro è la legittima difesa avvenuta con un colpo accidentale: un ragionamento talmente stupido che tremano le dita anche solo a riportarlo. Del resto, dai, diciamocelo, chi di noi non va al bar con in tasca una pistola con un colpo in canna e senza sicura che cadendo fa partire un colpo? È sempre la schifosa legittima difesa di Salvini: se sei bianco (meglio ancora settentrionale) e di fronte hai un disperato (meglio ancora straniero) hai sempre ragione. L’idea di giustizia è questa cosa qui. Sotto sotto c’è il messaggio che Salvini non dice ma che molti leghisti mettono nei commenti: “Il mio assessore è un figo e quell’altro è solo un marocchino in meno”. Un razzismo incondizionato che sta dietro a qualsiasi tentativo di ragionamento.

Eppure dovrebbe fare schifo anche solo un uomo delle istituzioni che spara durante una lite. Ma anche questo è esattamente il pensiero leghista: libera arma in libero Stato con libera impunità per il più forte. Ora chiudete gli occhi e immaginate il video di Salvini se a sparare “accidentalmente” fosse stato il marocchino: ecco spiegato tutto. Se volete provare ancora più nausea potete rileggervi le parole dell’eurodeputato leghista Angelo Ciocca: «Se non fosse stato per un assessore leghista, intervenuto a difesa di una donna molestata, ora staremmo parlando di violenza su una donna innocente. La morte è sempre da scongiurare, ma la dinamica è di #legittimadifesa».

Rimangono in sospeso alcune domande: come possono Pd e Leu continuare a restare al governo con uno così? Come può uno storico partito come i Radicali promuovere una raccolta firme per un referendum sulla giustizia con uno così?

Ieri avete assistito al “processo breve” secondo Salvini: “se è uno dei nostri è sicuramente innocente e ha fatto bene”.

Buon giovedì.

Primo, non licenziare

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 18 Giugno 2021 Roma (Italia) Cronaca Manifestazione dei lavoratori della Whirpool parte dalla stazione Termini e raggiunge il MISE Nella Foto : i lavoratori davanti al MISE Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse June 18 , 2021 Roma (Italy) News Whirlpool workers demonstration starts from Termini station and reaches the economic development ministry In the pic : Whirpool workers in from of Economic Development Ministry

Secondo i dati Eurostat l’Italia ha avuto nel 2020 uno dei cali più forti in Europa del monte salari, pari al 7,47%, per 39,2 miliardi. Si è scesi da 525,732 miliardi nel 2019 a 486,459 miliardi. La Francia nello stesso anno ha perso 32 miliardi, che sono però il 3,4 in meno di un monte salari ben più ampio di quello italiano. In Francia si è scesi da 930 a 898. Ancora più ridotta la perdita in Germania: “solo” 13 miliardi su oltre 1500, con un meno 0,87%. In Italia per altro la fascia dei lavoratori tra i 30 e i 49 anni è pagata meno della media. E i giovani sono stati i più espulsi dal mondo del lavoro. Dunque le minori tutele, fortemente e trasversalmente imposte in questi anni, rispetto a quelle che ancora “aiutano” i più grandi non hanno determinato più lavoro ma più espulsioni e meno salario. Facile immaginare che ora si voglia riprendere a colpire i più tutelati “usando” la transizione per ristrutturare e arrivare a sostituirli con lavoratori meno tutelati. Togliere le persone per togliere le tutele. A vedere quanti sms per licenziamenti collettivi per ristrutturazione stanno partendo, questa è ancora una volta una questione cruciale per decidere da che parte si va.

“Se posso licenziare vuol dire che comando. Se comando, posso licenziare”. Nel decalogo della «lotta di classe rovesciata» come l’ha battezzata Luciano Gallino, questo motto sta sicuramente ai primi posti. Non a caso Thatcher e Reagan iniziarono così a ristabilire l’ordine. Thatcher piegò i minatori che si ostinavano a non farsi rottamare. In ballo c’era anche allora una “transizione ecologica”, dal carbone inquinante. Ma, soprattutto, il potere sindacale che per la teorica della «società non esiste, esistono individui (e imprese)» andava smantellato. Valeva anche per i controllori di volo in sciopero licenziati da Reagan che non erano obsoleti (e di limitare gli inquinantissimi aerei non si parlava e non si parla proprio) ma non si piegavano. Per stare da noi, in Italia, i 40mila licenziati alla Fiat di inizio anni 80 servivano a ristabilire precisamente il comando e a liberarsi di troppi operai indocili.

Se veniamo ad oggi troviamo i licenziati via sms e per ragioni di ristrutturazione, il foglio di via al sindacalista che organizza picchetti e chi al picchetto ci muore. A dire che questa durezza tornata in auge con la restaurazione di 40 anni fa è poi rimasta. Naturalmente ci vogliono anche delle forme e delle “spieghe” che rendano motivabile che ci si trovi licenziati dopo la pandemia, che è ancora in corso, e la barca di soldi che va alle imprese. Eccola la “distruzione creatrice” o, meglio, la “transizione”, parola divenuta religiosa. “Tu ti devi sacrificare perché dal tuo sacrificio viene il futuro. E noi ti sacrifichiamo”. E cosa più della transizione ecologica, e digitale, vale il sacrificio? Ma è proprio così? Sbandierata come novità assoluta, la transizione ecologica in realtà riempie la “pianificazione” europea da più di un decennio. E sì, perché anche la Ue procede per piani, invece che quinquennali, decennali. Il millennio si aprì con la Strategia di Lisbona. Dal 2010 prende il via Europa 2020. Ora c’è Next generation Eu. Se si vanno a rileggere gli obiettivi molto dettagliati di Europa 2020 si trova che già allora il cuore, o meglio il core business, per stare alla “natura” della pianificazione europea che è il mercato, si trova contato alle unità di posti di lavoro “verdi” che dovevano sostituire quelli bruciati perché “vecchi”. Risultati?

Chi legge Left li conosce perché ne abbiamo scritto. In realtà i rendiconti della Ue assomigliano a quelli dei comitati centrali del vecchio socialismo reale in cui tutto torna tranne la realtà. Pure nelle carte che si pubblicano in Europa, e che Left riferisce, si documenta che nel 2018, a dieci anni dalla crisi finanziaria che ha visto la Ue spendere migliaia di miliardi di euro per salvare banche indebitando gli Stati e poi colpendoli con l’austerità, e a otto dal progetto Europa 2020, la condizione del lavoro in Europa era peggiorata da tutti i punti di vista. Solo la Germania aveva recuperato le ore lavorate prima della crisi ma con lavoro più precario. L’Italia restava sotto di miliardi di ore con un aumento massiccio dei contratti a termine ed una esasperazione di tutte le distorsioni del lavoro. Bassissimo tasso di occupazione. Discriminazione verso donne, giovani e Sud. Lavoro precario e nero insieme. Lavoro pubblico sotto la media europea e percentualmente la metà di quello svedese, con occupati anziani e mal pagati. Altissima percentuale di scoraggiati che non lavorano, non studiano e non cercano un’occupazione. Ma il quadro europeo è tutto negativo. Le disuguaglianze tra Paesi, aree, generazioni, sessi sono cresciute. Il salario medio va dagli oltre 4mila euro della Danimarca a poco più di 400 euro della Bulgaria, alla faccia della armonizzazione.

Qualcuno si degna di spiegare perché? Eppure sarebbe indispensabile prima di fare il bis con Next generation, riempiendo le casse di multinazionali che già hanno fatto profitti enormi facendoci convivere con la pandemia (Big pharma, imprese high tech) e lasciandole libere di licenziare per continuare a ristrutturarsi.
Le spiegazioni arrivano sotto forma di bollettini di vittoria del comitato centrale, pardon della Commissione europea che dice che nuovi passi avanti sono stati fatti verso la società più innovativa, competitiva, ecologica ecc. Questo è il mantra che comincia da Maastricht. Scrivere, come dicevano Thatcher e Reagan, che esistono solo individui e imprese era troppo viste le Costituzioni europee fondate sul lavoro. Ecco che viene fuori la “economia sociale di mercato” per essere i più competitivi ecc. Solo che il sociale è puramente di servizio al vero soggetto che è il mercato e ai suoi interpreti che sono le imprese. A completare il catechismo neoliberale di Maastricht il commercio e la finanza. Basta vedere come la Ue si è comportata a proposito dei vaccini, ossequiando brevetti e borsa, per vedere a che punto si è arrivati.

Al punto che l’impresa comanda, profitta e licenzia, il lavoro obbedisce.
In realtà si sono rovesciate le fondamenta della Europa sociale che veniva dal disastro delle guerre mondiali. Cioè l’idea della piena occupazione come diritto e premessa e non come ipotetica risultante delle magnifiche sorti e progressive del mercato. Che non ci sono. La piena occupazione era il punto di contatto anche con il socialismo. Poi quello reale l’ha affidata al produttivismo burocratico. Ma l’attuale Europa reale l’ha abbandonata consegnando al mercato il dominio sulla impiegabilità delle persone. Con gli esiti nefasti che viviamo.

Allora, che fare? La lotta contro la “libertà” di licenziare è oggi quella che decide veramente il segno della Next generation della Europa. E può vincere se ripropone il punto fondante della modernità e cioè il lavoro come diritto, libero e per tutti. La piena occupazione come premessa e condizione di una buona società. Così andrebbe scritto un vero Next generation per un futuro diverso: “Nessuno deve essere licenziato e a tutti va garantito il lavoro”. Sono talmente tante le cose che servono, come ha mostrato la pandemia, che un tale proposito è la cosa più concreta da fare.

Peggio come previsto /3

La discussione sul ddl Zan continua, anche se l’attenzione che ci sta intorno sembra un po’ calata perché sostanzialmente della legge (così come di tutto il resto) interessa parlarne solo quando serve a macinare un po’ di propaganda.

La giornata di ieri è stata significativa perché ha svelato per l’ennesima volta le reali intenzioni, i modi e gli interessi dei partiti in campo. Vale la pena farne un riassunto.

Partiamo dalle dichiarazioni: Renzi dice che in Senato “non ci sono i voti” continuando a dimenticare che i voti che mancano sono i suoi e l’altro Matteo (Salvini) annuncia di incontrare «alcune realtà del mondo gay» (probabilmente citofonando a qualcuno indicato da qualche suo elettore) augurandosi una giornata che metta «la parola fine allo scontro, con il dialogo». Dice Salvini: «Il dialogo è doveroso, lo chiede il Santo Padre, lo chiedono gli italiani».

Com’è andato il “dialogo” di Salvini? La Lega ha presentato 672 emendamenti, oltre a una ventina del presidente del Senato Calderoli (eh sì, Calderoli alla presidenza del Senato, ve lo eravate dimenticato siamo messi così). Ha perfettamente ragione Monica Cirinnà quando dice: «672 emendamenti solo dalla Lega . Concordati con Orbán? Ecco il dialogo auspicato da alcuni. Non abbiamo mai avuto dubbi. Condizioni politiche per mediazioni non ci sono mai state. Basta con la tattica. Basta insulti alla dignità delle persone. Ddl Zan subito e senza modifiche». Il dialogo è solo fuffa politica buttata lì per affossare tutto. Ora dovrebbe essere chiaro. 

Italia Viva aveva promesso di non presentare emendamenti e invece ne presenta quattro: due sono sottoscritti dal senatore Giuseppe Cucca insieme al capogruppo di Iv, Davide Faraone e altri due firmati da Cucca insieme al socialista Riccardo Nencini. Sempre a proposito di coerenza e di promesse labili.

In totale gli emendamenti superano quota mille per un testo di legge composto da nove articoli. Capite di cosa stiamo parlando?

Poi c’è la solita retorica. Totaro di Fratelli d’Italia dice «gli omosessuali sono specchietto per allodole da utilizzare per raggiungere determinati ambienti anche estremisti a cui si strizza l’occhio» facendo anche un po’ di revisionismo storico («Noi non accettiamo lezioni da Enrico Letta, da tutto quel mondo che rappresenta della sinistra perché abbiamo vissuto sulla nostra pelle la discriminazione dei vostri padri politici che discriminavano chi non la pensava come loro»).

Secondo il meloniano Iannone, il ddl Zan «vuole introdurre il gender in tutte le scuole di ogni ordine e grado». Aimi di Forza Italia ci illumina dicendo che «l’educazione appartiene al papà e alla mamma non deve entrare a scuola». La senatrice leghista Faggi (che ancora non ha imparato a coprirsi il naso con la mascherina) ci illumina dicendo: «Io ho fatto il sindaco venivo chiamata sindaca e dicevo no, sindaco perché non è un ruolo di genere ma di testa, di cuore» raccontandoci di avere «cresciuto una figlia da sola perché un uomo, mio marito mi ha lasciato dopo averla concepita. E sono riuscita da sola con il mio sesso, da donna» (sì, lo so, vi state chiedendo cosa c’entri con il ddl Zan: niente). Sul tavolo delle banalità e delle sciocchezze politiche si siede ovviamente di gran lena Daniela Santanchè che mette insieme tutte le banalità della destra: «Il ddl Zan serve a introdurre di fatto nel nostro ordinamento giuridico una fattispecie di reato cioè di opinione. Questa legge la vuole chi è schiavo del politicamente corretto. Il pensiero unico».

Ma l’apice lo raggiunge il leghista Borghi (che mica per niente è diventato noto per le sconclusionate cretinate che gli hanno fatto meritare qualche ritaglio di giornale) che twitta: «Terzo giornalista che chiama per sapere se sono vaccinato. Finora sono stato gentile, al prossimo parte il vaffanculo e la cancellazione dalla lista dei contatti. Perché questi eroi la prossima volta che intervistano un Lgbt non gli chiedono se è sieropositivo e se fa profilassi?”. Che l’Hiv fosse “la peste gay” e che le persone sieropositive siano da evidenziare con la linea viola intorno (ve la ricordate quella orrenda pubblicità?) era un’idea decaduta già negli anni 90. L’assonanza Lgbt=Hiv è qualcosa di bestiale da qualche decina d’anni ma Borghi, da buon leghista, riesce sempre a essere fuori dal tempo. Questi sono quelli con cui si dovrebbe mediare. Ognuno tiri le proprie conclusioni.

Buon mercoledì.

 

Le dittature che dovremmo temere

Siamo in un tempo in cui molti scorgono una dittatura al giorno. Funziona così, purtroppo: a furia di coltivare consenso facendo leva su un presunto pericolo ci si è ritrovati ad avere bisogno di un pericolo al giorno, che sia un pericolo basico, qualcosa che si possa spiegare in poche righe o che possa essere contenuto nei pochi caratteri dei social, qualcosa che accenda indignazione ma che non richieda particolare coraggio alle forze politiche. Ne è venuto fuori un mondo che appare ogni giorno sotto attacco come se finisse il mondo ma poi le vite di tutti scorrono tranquillamente fino al giorno successivo, nulla cambia, si rimane in attesa soltanto del prossimo pericolo.

Ieri su Twitter spopolava l’hashtag #vienegiututto, per dire, a proposito dei vaccini. Poi c’è la dittatura sanitaria, l’immancabile straniero che contagia e che delinque, il politicamente corretto che vi brucerà tutti i dvd che avete in casa, il gender che vi insozzerà i figli, le tasse che vi ritrovereste a pagare nel caso diventiate ricchissimi e via così.

In tutto questo frastuono è uscita una notizia che è passata sotto traccia, una di quelle che invece richiederebbe alla politica competenza e capacità di diplomazia, un fatto su cui sarebbe stato utile e sano sentire i pareri della nostra classe dirigente, assistere alla costruzione di possibili soluzioni e contribuire al racconto di ciò che accade: secondo un’indagine che ha riguardato 50.000 utenze telefoniche divenute pubbliche e oggetto di potenziale sorveglianza – tra cui quelle di capi di stato, attivisti, giornalisti e i familiari di Jamal Khashoggi -, lo spyware “Pegasus” dell’azienda israeliana NSO Group è usato per facilitare violazioni dei diritti umani a livello globale e su scala massiccia. Lo racconta “Pegasus Project”: un progetto nato dalla collaborazione tra oltre 80 giornalisti di 17 mezzi d’informazione di 10 paesi, sotto il coordinamento di Forbidden Stories, un organismo senza scopo di lucro che ha sede a Parigi, con l’assistenza tecnica di Amnesty International, che ha analizzato i telefoni cellulari per identificare le tracce dello spyware. Si è dovuto attendere l’inchiesta pubblicata su 16 testate tra cui Le Monde, The Guardian, The Washington Post e Süddeutsche Zeitung per provocare una reazione vera.

Da una parte c’è la difesa poco credibile dell’azienda israeliana che si proclama innocente: «Vendiamo i nostri prodotti solo a governi riconosciuti, con un processo che abbiamo descritto in piena trasparenza» ha scritto in un comunicato, ripetendo la versione ben nota che «la nostra tecnologia previene atti di terrorismo, pedofilia, traffico di stupefacenti e aiuta nella ricerca di persone scomparse. La nostra società salva vite umane». In pratica sarebbe addirittura un ente benefico, colpa nostra che ci permettiamo di parlarne.

Durante l’indagine, nonostante i costanti dinieghi della NSO Group, sono emerse prove secondo le quali la famiglia del giornalista saudita Jamal Khashoggi è stata presa di mira dallo spyware Pegasus prima e dopo la morte di quest’ultimo, il 2 ottobre 2018, a Istanbul ad opera di agenti dello stato saudita. Il Security Lab di Amnesty International ha verificato che lo spyware Pegasus si era installato sul telefono di Hatice Cengiz, la fidanzata di Khashoggi, quattro giorni prima del suo assassinio. Erano stati sorvegliati anche la moglie di Khashoggi, Hanan Elatr, tra settembre 2017 e aprile 2018, il figlio Adallah e altri familiari in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti.

L’indagine ha finora individuato almeno 180 giornalisti in 20 stati – tra cui Azerbaigian, India, Marocco e Ungheria, dove la repressione contro il giornalismo indipendente è in aumento – potenziali bersagli dello spyware della NSO Group tra il 2016 e giugno 2021.

L’indagine evidenzia i pericoli globali causati dalla sorveglianza illegale: in Messico, il telefono del giornalista Cecilio Pineda era stato infettato dallo spyware Pegasus poche settimane prima del suo omicidio. Il “Pegasus Project” ha individuato almeno 25 giornalisti messicani presi di mira in poco più di due anni. La NSO Group ha dichiarato che, anche se il telefono di Pineda fosse stato infettato, le informazioni raccolte dallo spyware non avrebbero potuto contribuire alla sua morte; in Azerbaigian, uno stato dove riescono ancora a operare ben pochi organi d’informazione indipendenti, sono stati spiati oltre 40 giornalisti. Il Security Lab di Amnesty International ha verificato che il telefono di Sevinc Vaqifqizi, una freelance della tv indipendente Meydan, è stato infettato per due anni fino al maggio 2021; in India, almeno 40 giornalisti di praticamente tutti i principali mezzi d’informazione sono stati spiati tra il 2017 e il 2021. I telefoni di Siddharth Varadarajan e MK Venu, cofondatori dell’organo d’informazione indipendente The Wire, sono stati spiati anche nel giugno 2021; sono stati scelti come potenziali bersagli dello spyware Pegasus giornalisti di grandi testate internazionali, come Associated Press, CNN, The New York Times e Reuters. Tra i giornalisti di più alto livello figura Roula Khalaf, direttrice del Financial Times.

I fatti parlano chiaro. Pegasus quando s’installa subdolamente sul telefono della vittima consente di accedere ai messaggi, ai contenuti media, alle mail, al microfono, alla telecamera, alle chiamate e ai contatti. L’ideale contro gli oppositori e gli attivisti dei diritti umani.

Mi pare un rischio così ampio, così verificato, che interessa così tanto la politica e i diritti umani che forse meriterebbe un’attenzione generale. Perché altrimenti accade sempre la stessa cosa: siamo circondati da pericoli immaginari e intanto ci perdiamo quelli reali che riescono a non farsi notare. Che poi è proprio la strategia dei poteri che vogliono confondere per poter continuare ad agire illecitamente. Pensa che mondo sarebbe se ce ne accorgessimo per tempo.

Buon martedì.