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Carlo, Federico e Stefano, uccisi dallo Stato

19-22 luglio 2001. Genova. Una mobilitazione internazionale per l’umanità e la Terra trasformata in tragedia. La scuola Diaz, la caserma di Bolzaneto e, soprattutto, Carlo Giuliani.

Una giovane vita distrutta e il corpo di un ragazzo violentato. La verità su quanto accaduto si saprà grazie alle inchieste dal basso e, tanto tempo dopo, all’opera di un magistrato vero, un Pm come si deve: Enrico Zucca. Ma verità e giustizia non coincideranno a causa di un sistema malato. Carlo Giuliani non avrà né l’una, né l’altra. L’opinione pubblica è importante, sempre. Fa la differenza nel restituire o calpestare la dignità già rubata alle vittime insieme al loro sangue. Assassina è stata, in tal senso, la narrazione di quegli eventi fatta dai media dominanti. Le vittime della Diaz e di Bolzaneto sono state associate, in Tv, alle devastazioni perpetrate dai black bloc. Un’associazione che ha avuto, come punto di caduta narrativo, la…


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La strategia della mattanza

Con lucida e cinica consapevolezza, vent’anni fa, prima a Napoli e, poi, a Genova, il potere decise di sospendere la democrazia. Fu uno spartiacque storico nella storia post bellica della democrazia costituzionale e dello Stato di diritto che, nel Paese di Beccaria e Calamandrei, ha sempre considerato l’habeas corpus del praetor romano il fondamento primo: il potere statuale, che ha il monopolio della violenza, regolamentato da Costituzione e leggi, ha il dovere di tutelare il corpo delle persone che detiene nelle proprie mani. La mattanza della scuola Diaz, le torture di Bolzaneto disvelano la violenza criminale del rapporto tra potere e cittadini. Come fu la strage di Stato di Milano del 12 dicembre 1969. Stragi di Stato, depistaggi di Stato, consapevolezza di immunità ed impunità: cellule fasciste organizzate dal potere politico all’interno dello Stato.

Ma perché quella mattanza? Perché il movimento non era solo una relazione tra politica e società, ma precisamente un’altra idea della politica. Si apriva un ciclo nuovo della soggettività delle lotte: l’ultimo grande ciclo internazionalista di lotta di massa. Erano lotte per la liberazione articolate, coinvolgenti, creative. Il movimento New global metteva in crisi anche il modello “sviluppista” della socialdemocrazia. Si qualificava per una ricerca sul campo sull’idea di “altersviluppo”, di sviluppo alternativo.

Come scrisse Michael Hardt: «Il…

 

* Un’immagine tratta da un video delle violenze subite da alcuni detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, pubblicato dal quotidiano Domani a fine giugno


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Gli eroi senza coraggio

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 14-12-2020 Roma Politica Il centrodestra presenta gli emendamenti alla legge di Bilancio Nella foto Matteo Salvini, Giorgia Meloni Photo Roberto Monaldo / LaPresse 14-12-2020 Rome (Italy) The center-right coalition presents amendments to the budget law In the pic Matteo Salvini, Giorgia Meloni

Non è difficile essere Matteo Salvini o Giorgia Meloni, basta intestarsi al meglio tutte le battaglie fuori dal governo senza però mai spendersi per proporre delle soluzioni. Facile facile. Piuttosto irresponsabile, certo ma in termini di voti funziona eccome.

C’è una parte del Paese che, seguendo la scienza, è convinta che la campagna vaccinale sia la più veloce e possibile soluzione per uscire dal virus. Per chi non se ne fosse accorto è anche la posizione del governo Draghi che, fin dall’inizio, ha parlato di «rischio ragionato» (e quanto sia stato ragionato ce lo diranno le prossime settimane) senza mai prescindere dalla campagna vaccinale.

Dall’altra parte ci sono quelli che, spesso appellandosi a tesi piuttosto squinternate, credono che il vaccino non possa essere l’elemento imprescindibile per uscire dalla pandemia e rivendicano la libertà di scelta.

Poi c’è una terza parte che invece non vale la pena nemmeno prendere sul serio che ipotizza 5G, complotti internazionali e altre cretinerie varie.

I secondi e i terzi di questo terzetto nazionale sono elettori in gran parte di Salvini e Meloni, sono quelli che hanno additato Speranza come artefice di tutti i mali e che rivendicano la libertà di ammalarsi e sostanzialmente di rimando anche il diritto di fare ammalare gli altri.

Salvini e Meloni, con ben poco coraggio, navigano nelle acque dei dubbiosi e dei contrari senza nemmeno la dignità di prendersene la responsabilità, come succede spesso su diversi argomenti. Ieri il capogruppo Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia (nonché cognato di Giorgia Meloni, sempre a proposito di merito e di familismo) in una mostruosa intervista a Repubblica dice: «Sì, mi sono vaccinato, con Johnson, dopo avere preso il Covid. Ma non consiglierei a nessuno sotto i 40 anni di farlo, perché la letalità è inesistente», dimostrando di non avere capito nulla della funzione dei vaccini per impedire l’eccessiva circolazione del virus e il comparire di altre varianti.

Salvini è sulla stessa scia. Ha detto ieri: «Mi rifiuto di vedere qualcuno che insegue mio figlio che ha 18 anni con un tampone o con una siringa. Prudenti sì, terrorizzati no». Eppure sono proprio i più giovani quelli da mettere in sicurezza.

A proposito: Giorgia Meloni un mese fa ha detto di avere prenotato il vaccino ma poi non si hanno più avuto notizie. Matteo Salvini invece non è riuscito per mesi a prenotare la vaccinazione (ma guarda un po’) e ora ci avvisa che la farà ad agosto. Però, dice Salvini, niente foto sui social. Avete letto bene: l’uomo che fotografa tutto quello che mangia, ci dice che non fotograferà il vaccino.

Ora sorge spontanea una domanda: se Salvini e Meloni sono contrari alle chiusure, sono contrari al Green pass, sono contrari ai vaccini, esattamente come pensano di poter uscire dalla pandemia? È una domanda semplice semplice. Credono che non ci sia nessuna pandemia? Perfetto, con coraggio ce lo dicano. Siamo qui ad aspettare con il taccuino aperto.

Buon lunedì.

I suoni di una generazione piena di sogni

Genova 2001 non è finita. Da vent’anni è incompiuta. Incompiuti i desideri che vi trovarono spazio. Da vent’anni vediamo Genova infinita – ripetuta, seriale. Nelle sue immagini iterate. Nell’eco della violenza. Nel riaffermarsi, ogni volta che se ne parla, di un gioco di simboli, di ruoli. Di potere – dominio.

Di solito venti anni sono abbastanza per prendere misure, guadagnare distanze. Per vedere meglio. Nel 2001 il 1981 sembrava davvero lontano. Oggi il 2001 appare passato prossimo. Sembra quasi che il tempo in mezzo non sia stato pieno. Che non sia stato lavorato insieme. Eppure è stato un tempo di vita: molte hanno disegnato progetti, viaggiato, migrato, molti hanno condiviso il precariato, alcune hanno fatto figli. Dov’è finita la materia cruda e politica del tempo di mezzo, che pure c’è stato?

Dovremmo chiederci il perché di questa impressione di quasi-vuoto, di eventi diradati, di cesure collettive quasi nulle dopo Genova. E di strana continuità. Non solo quella ovvia di noi come persone che da quell’esperienza sono state plasmate, ma continuità politica, che ricorre a quella memoria come spiegazione di ciò che è accaduto dopo. Eppure una gigantesca violenza di Stato perpetrata per giorni non spiega da sola i venti anni successivi. Non basta a dire perché gli stessi schemi mediatici scattano a ogni segnale di conflittualità sociale. Non determina il mancato coordinarsi di lotte, di persone nei decenni. Non la deriva del Paese in mille destre né la scomparsa della sinistra politica.

Eppure quei giorni sono collosi. Restano attaccati. Non ricordo mai nulla, ma ricordo a perfezione dov’ero la mattina del 20 luglio, dove alle 17.26, dove il pomeriggio del sabato e poi la sera. E i giorni successivi, le manifestazioni, i dibattiti, poi chino sui giornali di carta tutta l’estate fino a settembre e al suo undici che ha inghiottito quasi tutto.

Tutta l’estate dopo Genova, per settimane, nelle discussioni e negli articoli da più parti si usò la vecchia storia degli infiltrati come chiave di lettura dell’episodio che avrebbe estromesso un’intera generazione dalla politica. Poliziotti vestiti di nero come spiegazione finale della violenza perpetrata: reazione ad azione studiata a tavolino. Si rispolverò per mesi la… [L’articolo prosegue su Left del 16-22 luglio 2021]

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Happy Diaz a Genova e Roma
Massimo Palma presenterà i suoi libri Happy Diaz – nella foto in alto – e Movimento e stasi (Industria & Letteratura) a Roma, Casetta Rossa il 20 luglio (ore 18) e il 21 (17.30) a Genova, per Music for peace. Palma è scrittore, traduttore e ricercatore. Ha scritto libri su Walter Benjamin, Eric Weil, Alexandre Kojève. Come narratore ha pubblicato Berlino Zoo Station (Cooper, 2012) e Nico e le maree (Castelvecchi, 2019). Happy Diaz. Sette giorni di gioia e divisione a Genova 2001, è uscito in una nuova edizione firmata da Castelvecchi e Left. Nel libro ci sono tredici ritratti di Tuono Pettinato, il fumettista e disegnatore scomparso il 14 giugno scorso. Il volume è acquistabile sul sito


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Vita da perseguitati, la storia dei bambini Jenisch

«Si parla di memoria solo perché non esiste più» afferma lo storico francese Pierre Nora nel suo celebre saggio Les Lieux de mémoire, evidenziando il rischio che paradossalmente si corre nell’ufficializzare e istituzionalizzare gli eventi del passato: l’atrofizzazione della storia, l’impossibilità di mantenere un legame con il presente e di parlare alle nuove generazioni. Ma nel caso della Svizzera è forse piuttosto il tentativo di non perdere gli ultimi brandelli di un’eredità scomoda che ha portato alla richiesta di un memoriale ufficiale per le vittime del nazifascismo per merito di una mozione adottata dal Consiglio degli Stati – la Camera dei Cantoni – lo scorso 8 giugno. «Il memoriale avrà lo scopo di mantenere viva la memoria e di aumentare la consapevolezza dell’importanza della democrazia e dello Stato di diritto, soprattutto tra i giovani» recita il testo depositato.

La proposta, sostenuta dal senatore del Partito socialista Daniel Jositsch, è figlia di una petizione del 25 maggio inviata al Consiglio federale da parte di 150 personalità e 30 organizzazioni, ed è il segno che, dopo lunghi anni di silenzio e omissioni, la consapevolezza storica del Paese sta cambiando segno di marcia. A partire dalla fine degli anni Novanta la convinzione di una sostanziale neutralità e, anzi, di una “certa protezione” destinata a chi nella Seconda guerra mondiale fuggiva dal pericolo, è iniziata a crollare. Sia per una sorta di adeguamento alle politiche internazionali sulla memoria, sia per le scoperte ad opera di ricerche storiche più approfondite che, invece, denunciavano un profilo incerto – tra accoglienze e respingimenti – rispetto alle minoranze perseguitate. Ebrei, omosessuali, esponenti politici e membri della resistenza, rom e sinti.

La Svizzera comincia, dunque, a fare i conti con un passato che ha a lungo riposto in soffitta, ma a ben vedere i bauli contengono ancora molti scheletri: tra questi il progetto eugenetico nei confronti dei cosiddetti “Kinder der Landstrasse”, “I bambini della strada”.
Dal 1926 al 1972 la Svizzera, attraverso la fondazione Pro Juventute ancora attiva ai giorni nostri, ha infatti appoggiato una campagna che a scopo benefico si impegnava formalmente a rieducare i minori delle famiglie jenisch – la terza maggiore popolazione nomade europea -, ma che di fatto ha significato persecuzione e repressione.

«Si è trattato di sottrarre i bambini della popolazione jenisch con la convinzione che fosse necessario rieducarli, in quanto asociali e nomadi, con sistemi molto violenti – spiega Luca Bravi, ricercatore presso l’Università di Firenze – perché spesso venivano portati via di notte e gli veniva cambiato nome e cognome per renderli irrintracciabili». Allo scopo di combattere il presunto carattere nomade del gruppo, i bambini venivano così consegnati a…


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Appello ai giornalisti: entriamo tutti nei Cpr

Negli ultimi tempi varie Prefetture hanno negato a diversi giornalisti la possibilità di entrare in visita nei Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio); questi dinieghi hanno anche interessato il redattore milanese di Pressenza Andrea de Lotto, ma si tratta di un dettaglio.

La verità è che, senza motivazioni di alcun genere, si impedisce ai giornalisti di fare il loro mestiere, che è quello di raccontare tutti gli aspetti della vita sociale. E dunque anche quell’aspetto chiamato “immigrazione”, che genera così tanti conflitti e così tanti morti, oltre a violazioni palesi dei diritti umani, sofferenza, illegalità e ingiustizia.

Invitiamo i colleghi giornalisti di tutte le testate a chiedere di entrare nel Cpr più vicino a casa loro – che sia a Milano, Torino, Gradisca di Isonzo (Gorizia), Roma, Brindisi, Bari, Caltanissetta, Macomer (Nuoro), Trapani e Palazzo San Gervasio (Potenza) – per constatare se i diritti umani vengono rispettati, le leggi applicate, le persone trattate con quella dignità a cui ha diritto ogni essere umano, semplicemente per il fatto di vivere.

Chi aderisce alla campagna dovrebbe comunicarlo alla mail [email protected] e fare al più presto richiesta all’Ufficio di Gabinetto della Prefettura di competenza per entrare nel Cpr che ritiene più idoneo il 15 settembre.

Prime adesioni (associazioni e giornalisti):

Daniele Barbieri – La Bottega del Barbieri
Alessandro Graziadei – Unimondo
Alessandra Montesanto – Associazione per i diritti umani
Stefano Galieni – Left
Patrizia Cecconi – Oltre il mare
Stefano Corradino – Articolo 21
Rete Antirazzista di Firenze
Roberta Ferruti – Rete dei Comuni Solidali
Gianluca Carmosino – Comune-info
Stephen Ogongo – Cara Italia
La Città invisibile, perunaltracittà – Firenze
Rodrigo Andrea Rivas, giornalista in pensione
Maria Teresa Messidoro – Associazione Lisangà culture in movimento, Val Susa
Anna Mieli – Cospe
Checchino Antonini – Popoff
Yasmine Accardo – LasciateCIEntrare
Giansandro Merli – Il Manifesto

Per approfondire:

Info qui–> https://left.it/libri/#12

Le pasionarie della Comune

All’alba del 18 marzo 1871 dal quartiere proletario di Belleville a Montmartre, interponendosi tra i parigini in armi della Guardia nazionale e le truppe del governo Thiers mandate a impadronirsi dei cannoni, le donne impedirono con i loro corpi lo scontro frontale. Come Pentesilea e le Amazzoni nell’antico mito, le donne sfidavano le regole della società borghese, innescando la sovversione. Nasceva la Comune, un evento storico assolutamente originale, sulle cui implicazioni è ancora utile riflettere. È questo l’invito dell’avvincente libro di Federica Castelli Comunarde. Storie di donne sulle barricate (Armillaria), che intrecciando in tutta scioltezza filosofia, storia, attualità e riflessioni personali restituisce, al di là della vulgata, corpo e sangue ad un’esperienza con la quale rivoluzionari come Marx e Lenin dovettero comunque fare i conti.
L’evento fu unico per la coralità della rivolta spontanea e la feroce violenza con cui dopo 72 giorni fu stroncato nel sangue, ma soprattutto per la rilevanza del contributo delle donne, a dispetto della diffidenza da parte degli stessi compagni di lotta e delle deformazioni della storiografia successiva.

Fu rivoluzione o rivolta? L’autrice ci invita a riflettere, sottolineando che nella Comune per la prima volta la centralità politica non fu prerogativa del cittadino lavoratore, come nel 1848, ma nasceva dall’azione comune. Federativa, repubblicana e universale, la Comune rifiutava innanzitutto l’idea di Stato con la relativa macchina burocratica. E metteva al centro la libertà di ogni uomo e, inaudito, di ogni donna. Per il rifiuto delle diseguaglianze, per la volontà di autodeterminazione e di emancipazione, le comunarde furono femministe ante litteram. Avevano imparato dalla Rivoluzione del 1789 che la lotta di classe non risolve la questione del rapporto tra i sessi, e che la conquista dei diritti non è né sufficiente né irreversibile.

Il movimento, nato senza un’ideologia uniformante e dunque senza una gerarchia militarizzata, lasciava spazio ai peggiori luoghi comuni sulla femminilità, che imperversavano nella stampa parigina tra satira e feroci caricature.
Tra la demonizzazione, che vedeva ovunque fanatiche incendiarie, e la speculare idealizzazione, che le voleva vergini come la Madonna e Giovanna d’Arco, fu cancellata la novità storica della…

(Illustrazione di Vittorio Giacopini)


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Più forti dei pregiudizi

TO GO WITH AFP STORY BY LAURE BRUMONT Roma children play in front of their caravan on September 1, 2011 at the Solidarity-based Lodging Area (Espace Solidaire d'Hébergement in French) opened in the Belle de Mai district, in the French southern city of Marseille, on associations' initiative such as Fondation Abbé Pierre, to facilitate their employment and the schooling of their children, after living for years in squats. Within these ten Romanian families, some of their children will start a new school year next Monday. AFP PHOTO / ANNE-CHRISTINE POUJOULAT (Photo by Anne-Christine POUJOULAT / AFP) (Photo by ANNE-CHRISTINE POUJOULAT/AFP via Getty Images)

La storia della popolazione romaní costituita da rom/roma, sinti, calé/kale, manouches e romanichals è sempre stata scritta dai non-rom, ossia dagli “altri”, con il difetto di essersi interessati in particolar modo ai soggetti emarginati e quasi mai a quelli integrati, onesti e produttivi. Una visuale molto parziale e spesso di parte. Questo ha prodotto uno strabismo che condiziona ancora oggi l’opinione pubblica e genera o rafforza stereotipi funzionali. Le società europee hanno preferito perseguitare le comunità romanès più che integrarle o interagire con loro. Spesso il razzismo ha avuto carattere istituzionale. Si è imposto un gioco di potere da cui la popolazione romaní non si è mai realmente liberata. E chi detiene il potere fa l’uso che vuole della minoranza etnica soggiogata e la rappresenta come meglio conviene. Nulla accade casualmente e tutto segue la logica funzionale al gioco politico. Del mondo romanó l’opinione pubblica ancora oggi ha un’idea parziale. Spetta ai membri delle comunità romanès fornire la parte che manca. Quest’opera va in tale direzione. È un dovere, ma anche un diritto, che spesso viene negato. Difatti, non sempre i romanès sono gli interlocutori; anzi, spesso sono il motivo di discussione.

La diffusa disinformazione sul mondo romanó rientra in una precisa strategia amministrativa. Le comunità romanès sono fortemente controllate dalle istituzioni per mezzo di associazioni di riferimento che esercitano un controllo sociale attraverso un assistenzialismo becero. Anche da qui nascono i numerosi e diffusi stereotipi negativi. Le società europee, in ogni epoca dal Rinascimento a oggi, hanno attuato politiche persecutorie precedute da propagande romfobiche.

Anche nell’attualità si compiono politiche discriminatorie e non si fa nulla per valorizzare una grande ricchezza linguistica, artistica e culturale che è patrimonio dell’umanità. Quasi tutti i progetti promossi in nome e per conto delle comunità romanès hanno carattere sociale. Alla cultura si destina pochissimo, quasi nulla. Anche per questo i diversi gruppi che formano la popolazione romaní sono percepiti dall’opinione pubblica come un “grande problema sociale”. In realtà con una seria e oculata politica di inclusione, coinvolgendo le stesse comunità e chi ha le giuste competenze, il fenomeno sarebbe assorbito facilmente. Non mancano le risorse ma la volontà politica di risolvere le difficoltà che quotidianamente diventano sempre più complesse e insormontabili.

Come si possono risolvere i problemi se chi li affronta ha tutto l’interesse economico e politico che esistano e che tutto rimanga uguale? È come mettere la pecorella in bocca al lupo. Chi si occupa per “mestiere” delle comunità romanès, attraverso progetti finanziati da enti pubblici locali o internazionali e da società o fondazioni, non ha alcun interesse dunque a cambiare la situazione. Sono sempre i non-rom e i sedicenti “rappresentanti” o “esperti” ad…


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Anche un libro può cambiare la vita di un rifugiato

C’è una biblioteca ad Atene che non è come le altre. Ha quattro ruote, copre tutta la penisola dell’Attica e al suo interno non si trovano manuali universitari. Si chiama Echo (Education community hope opportunity) e ogni giorno da cinque anni consegna libri ai rifugiati che vivono nei campi profughi della Grecia. Ferma durante l’ultimo anno a causa della pandemia, la biblioteca ha ripreso le sue attività da alcune settimane; quindi ho colto l’occasione per fare un paio di domande a Giulio D’Errico, uno dei responsabili del progetto, per saperne un po’ di più e avere qualche aggiornamento sulle condizioni di vita nei campi.

Com’è nata Echo?
Il progetto è stato avviato nel 2016 a Salonicco da un gruppo di volontari internazionali, per spostarsi poi ad Atene nel 2017. Qui il progetto si è espanso notevolmente: dalla capitale fino all’intera Attica. In questo modo è stato possibile raggiungere le persone meno integrate nella società, cioè chi vive nei campi, sostanzialmente. In una settimana visitiamo 10 campi diversi, da Corinto (a nord-ovest di Atene) fino a Capo Sunio (la punta in fondo all’Attica). Così almeno è stato fino all’inizio del lockdown, ora stiamo cercando di adeguarci alle misure che di volta in volta vengono predisposte dal governo. In questi cinque anni abbiamo sviluppato un catalogo il più possibile mirato alle comunità con cui collaboriamo: abbiamo libri in lingua farsi, araba, urdu, turca, curda, pashtu, bengali; ma anche testi in inglese, greco, francese e tedesco.

Come ricevete tutti questi libri?
Principalmente tramite donazioni; oppure, quando riusciamo a ottenere dei fondi specifici per i libri, li ordiniamo. A volte sfruttiamo anche i viaggi: se sappiamo che qualcuno deve andare in un determinato Paese, cerchiamo di farlo tornare indietro con la valigia piena. Diciamo che non ci limitiamo a distribuire saggi e romanzi, ma cerchiamo di costruire una sorta di ponte di comunità. Negli ultimi cinque anni, da quando sono arrivato in Grecia – anche se allora sembrava impossibile da dire -, i campi sono peggiorati, sempre più emarginati e separati dal resto della società; quindi, quello che cerchiamo di fare, è portare un po’ di “città”nei campi. A seconda delle richieste poi, teniamo delle lezioni informali di inglese e di greco, così da favorire l’integrazione linguistica; abbiamo anche una sessione per i bimbi.

Questo progetto, molto originale, viene accolto bene dai migranti?
Altroché! Uno dei momenti più belli è quando vediamo che settimana dopo settimana c’è gente che aspetta la biblioteca perché ha finito il libro e ne vuole subito cominciare un altro. Diversi rifugiati hanno già letto tutto quello che abbiamo! Il fatto di mantenere un contatto con la propria lingua d’origine è…


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Sulla lista nera dei talebani

Afghans refugees have just arrived, extremely tired, in the area of the bus station in the city of Tatvan, some kilometers beyound the city of Van, Turkey, after walking down from the mountains, and directed towards Istanbul

Ogni giorno il copione si ripete. Sono centinaia i rifugiati provenienti dall’Afghanistan che raggiungono a piedi la città di Tatvan, situata ai piedi del lago di Van, nella zona del Kurdistan turco. Sono quasi tutti ragazzi, molti di loro minorenni, in fuga da un Paese martoriato da un conflitto senza fine. Viaggiano con zaini leggeri, con pochissime cose al loro interno. Farhod, 16 anni, mi mostra al cellulare il luogo dove si è svegliato all’alba. Nel video sorride, insieme ai suoi compagni di ventura, su una zona montuosa dove sono accampate un centinaio di persone, che si disperderanno poi in piccoli gruppi. Sono stanchi, esausti, non hanno abiti di ricambio. Una volta arrivati nei pressi della stazione, i ragazzi si distendono sotto un albero all’ombra, scherzano un po’, senza perdere il buon umore, poi si lasciano andare al sonno. Nel pomeriggio cercheranno di salire su un autobus verso qualche altra città turca: molti di loro vogliono raggiungere Istanbul. Il lago di Van, situato a un centinaio di chilometri dalla frontiera con l’Iran, è la loro prima sosta in Turchia.

I ragazzi ci arrivano dopo aver attraversato un confine estremamente sorvegliato, sia per il contrabbando di materie prime che per i movimenti dei militanti curdi del Pkk. Un confine dove è stato anche costruito un muro di 81 km, nella provincia di Agri, a coprire una parte dei 534 km di frontiera con la Repubblica Islamica. Sono misure di sicurezza che secondo l’avvocato di Van, Mahmut Kaçan, servono a bloccare il transito dei rifugiati, seppur spesso la polizia turca chiuda un occhio, perché, in fondo, queste persone alla Turchia servono, essendo sfruttate sia come manodopera a basso costo, sia come “arma diplomatica” da usare contro l’Europa. Eppure sono pochi i ragazzi che immaginano il Vecchio Continente come destinazione, coscienti di quanto sia diventato difficile, se non impossibile, penetrare nella Fortezza Europa.

La maggior parte di loro vorrebbe semplicemente trovare un lavoro temporaneo in Turchia, sperando di poter tornare presto a casa. Finora hanno pagato ai trafficanti una cifra intorno ai mille euro per uscire dall’Afghanistan ed entrare nell’Anatolia orientale, attraversando aride montagne abitate da lupi, con passaggi difficili e strapiombi, nei quali ogni tanto qualcuno di loro scivola, senza rialzarsi più. Rotte che nelle ultime settimane sono state percorse da…


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