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Riccardo Noury: Ma quanto è cauto il governo italiano…

https://eipr.org/en/licensed-under-creative-commons-license https://archivio.lapresse.it/2-portal/galleria_foto_dettaglio.php?id_photo=11049343 © Egyptian Initiative for Personal Rights, eipr.org

Dieci milioni. Secondo l’associazione umanitaria Amnesty international, sarebbe questo il numero dei prigionieri di coscienza nel mondo. Uomini e donne innocenti accomunati dallo stesso destino: imprigionati per avere avuto il coraggio di esprimere pubblicamente la propria opinione. Un “crimine” che viene mal tollerato dai regimi autoritari – come l’Egitto, la Cina e la Turchia – i quali tendono a silenziare e a reprimere queste voci ricorrendo al carcere duro spesso senza passare per un regolare processo.

è questo il caso di Patrick Zaki. Il giovane attivista egiziano, studente e ricercatore presso l’Università di Bologna, che dal 7 febbraio 2020 è detenuto nel carcere di Tora, alla periferia sud del Cairo. Zaki era rientrato nel proprio Paese per far visita ai parenti ed è stato arrestato. La sua unica colpa? Avrebbe osato criticare sui social il presidente al-Sisi. Per questo motivo da oltre un anno si trova trattenuto in custodia cautelare mentre attende la sentenza di un processo le cui udienze vengono continuamente rimandate (v. art. a pag. 8, ndr). Non avendo la possibilità di vedere i suoi familiari ed essendo soggetto a frequenti soprusi delle guardie penitenziarie, le condizioni di Patrick destano ovviamente grande preoccupazione.

Ne parliamo con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia che sin da subito si è impegnata per la liberazione dello studente lanciando la campagna #FreePatrickZaki (firma qui per sostenerla).

Cosa ne pensa dell’atteggiamento delle istituzioni italiane riguardo questa vicenda. Ritiene che siano state fatte sufficienti pressioni sul governo egiziano?Noi di Amnesty vorremmo che la Farnesina si attivasse per mandare dei segnali al governo egiziano in modo da fargli capire che le cose così come stanno “non vanno bene” ma sfortunatamente l’ultimo segnale inviato dal governo italiano è stato quello di autorizzare la partenza della seconda fregata militare del nostro Paese verso l’Egitto, quindi direi che non ci siamo.

Il Senato ha approvato l’attivazione delle procedure per il riconoscimento della cittadinanza italiana a Patrick Zaki. Una mossa dall’alto valore simbolico ma che potrebbe anche essere propedeutica a una richiesta di liberazione. Ma due giorni dopo Draghi ha detto che si tratta di «un’iniziativa parlamentare priva del coinvolgimento del governo».
Quella di Draghi


L’articolo prosegue su Left del 23-29 aprile 2021

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Hate speech, perché non è libertà di pensiero

L’hate speech consiste in quelle espressioni che «diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza inclusa l’intolleranza espressa dal nazionalismo aggressivo e dall’etnocentrismo, la discriminazione e l’ostilità verso le minoranze, i migranti e le persone di origine straniera» (Raccomandazione n. 20 del 1997 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa).

Perché ci sia hate speech è necessario che concorrano tre elementi: la manifesta volontà di incitare odio, un incitamento che sia idoneo a causare atti di odio e violenza, e il rischio che tali atti si verifichino. Come noto, i social network e i messaggi d’odio in essi contenuti si rivolgono ad una platea pressoché indefinita e proprio per questo sono particolarmente pericolosi.

Come ha posto in evidenza il progetto La Mappa dell’intolleranza n. 5 dell’associazione Vox-Osservatorio italiano sui diritti, di cui sono fondatrice insieme alla dottoressa Silvia Brena, è proprio in contesti, come quello attuale, in cui le discriminazioni emergono con forza e in cui aumenta il rischio concreto dell’inasprimento di forme di odio.

La velocità e la forza di diffusione del discorso dell’odio online hanno spinto il legislatore italiano a predisporre strumenti normativi ad hoc, anche sulla scorta delle esperienze di alcuni importanti Stati europei. Tale predisposizione stimola in prima battuta il costituzionalista a condurre una profonda riflessione sui limiti consentiti alla libertà di manifestazione del pensiero, di cui all’articolo 21 della Costituzione: la Carta può tollerare i discorsi d’odio? La risposta è di segno negativo: la Costituzione, infatti, pur garantendo la libertà di manifestazione del pensiero, non può in alcun modo legittimare l’odio.

Come noto, la Costituzione è nata con l’intento di reagire ad un drammatico passato di violenza e discriminazione. È infatti nel principio di uguaglianza e nella tutela dei diritti inviolabili dell’uomo che…


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Intanto, in Sardegna…

Nel pieno della pandemia, con una campagna vaccinale da spingere il più possibile per provare a ripartire, con i ristori che sono pochi e che non arrivano e con le attività che non riusciranno più a riaprire la politica decide quali sono le priorità. In Sardegna, ad esempio, il presidente Solinas (fiore all’occhiello del centrodestra nazionale) ha pensato bene di concentrarsi sul disegno di legge 107 che che pensa a un nuovo staff di 65 persone assunte su nomina squisitamente politica, come avveniva in tempi di vacche grasse e di favori elettorali.

La stragrande maggioranza dei 65 nuovi collaboratori sarebbe direttamente alle dipendenze di Solinas (curioso, eh?) e immagina al vertice un segretario generale della Regione che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto guadagnare 285mila euro lordi all’anno, circa 100mila euro in più di quanto guadagna il Presidente della Repubblica, tanto per dare un’idea. Spesa totale della brillante idea di Solinas? 6 milioni di euro all’anno, in tempo di Covid, in questo tempo. Ognuno ne può trarre le sue conclusioni.

Il disegno di legge tra l’altro è stato scritto talmente male che si sono dimenticati della norma che fissa un tetto di 240mila euro annui come massimo stipendio per un incarico pubblico e così Solinas, proprio lui in persona, si è impegnato in un’intervista all’Ansa di presentare un emendamento per correggere una sua legge. Roba da avanspettacolo.

Sempre a proposito di stipendi ci sono tre capi Dipartimento che fanno riferimento alla presidenza (733mila euro annui lordi), tre consulenti (402mila) e sei esperti (805mila) per l’ufficio di staff, cinque esperti per il Comitato per la legislazione (671mila), quindi tre addetti di Gabinetto (180mila), due addetti al cerimoniale (120mila), un nuovo autista (60mila) mentre per gli assessorati sono previsti cinque consulenti (671mila) e la bellezza di trentasei addetti di gabinetto (per una spesa annua lorda di 2,1 milioni) destinati agli assessorati. Facendo la somma si contano 6 milioni e 90mila euro in tutto.

A chi serve tutto questo? Il consigliere regionale Massimo Zedda dice: «Serve all’apparato digerente, non dirigente, del centrodestra per soddisfare appetiti di poltrone e di posti di sottogoverno. Con uno spreco di oltre 6 milioni di euro l’anno mentre imprese, famiglie, lavoratrici e lavoratori sono in gravissima difficoltà».

Buon venerdì.

Il potere della resistenza

Antifascismo quotidiano è il titolo di un bel libro curato dal partigiano Carlo Smuraglia e uscito per le edizioni Bordeaux.

Di quel libro sulle pagine di Left si è già è occupato Filippo La Porta, ma vogliamo tornare a suggerirne la lettura perché tratta di strumenti istituzionali per il contrasto a neofascismi e razzismi e perché reclama un urgente salto di paradigma culturale, per sradicare una volta per tutte stereotipi violenti, pregiudizi e rimasugli di una mentalità fascista che avvelenano ancora una parte dell’opinione pubblica, della politica, della stampa.

Il video di Beppe Grillo che si è scagliato contro la ragazza che ha denunciato per stupro suo figlio e altri suoi amici ne è una agghiacciante rappresentazione plastica. Come un pater familias appare imbufalito perché la ragazza ha osato ribellarsi al potere maschile. È stata solo una «notte brava», una goliardata, ha detto il comico e fondatore del M5s.

Ciò che ha subito la ragazza e il suo dolore non esistono. Poi ha provato a mettere in dubbio le sue parole, insinuando che avrebbe mentito dal momento che ha sporto denuncia 8 giorni dopo. La legge, come è noto, prevede un anno di tempo. E forse è anche troppo poco, perché gli psichiatri dicono che le persone che hanno subito un trauma spesso non riescono a parlarne anche per molti anni. Maschilismo violento, misoginia, azione squadrista, di branco, prendendo la vittima per i capelli dopo averla fatta bere.

Quante volte abbiamo sentito una storia del genere? Se non è fascismo criminale tutto questo cos’è?

Non stiamo giudicando. Chiunque è innocente fino a sentenza definitiva e qui non c’è ancora nemmeno un processo. Stiamo dicendo che chiunque derubrichi una possibile violenza a divertimento estivo di quattro coglioni esprime un pensiero violentissimo, che legittima e sdogana la violenza agita. Se poi si tratta di un politico e personaggio pubblico molto popolare e con una grande possibilità di accesso ai media il danno culturale è enorme.

E quel che colpisce è anche che blasonati giornalisti si accodino. Lo ha fatto per esempio l’ateo devoto Giuliano Ferrara discettando sulle presunte differenze fra la «denuncia immediata delle ragazze ubriachelle di Firenze contro due carabinieri» e il «risveglio tardivo e strano di pulsioni d’accusa in un dopodiscoteca», per poi dire che con la «copertura dell’anonimato e delle garanzie a senso unico per le vittime si riparano forse torti storici ma con una vendetta sociale». Sic.

Che differenza c’è con i discorsi che ha fatto Erdoğan per giustificare l’uscita della Turchia dalla convenzione di Istanbul? L’autocrate che tiene in prigione il politico di origine curda Demirtas e tiene il leader curdo Ocalan (che ha scritto di liberazione delle donne) su un’isola remota e in regime carcerario di assoluto isolamento, è lo stesso che si erge a difesa della famiglia religiosa e patriarcale e rende impunita la violenza domestica sulle donne.

Lui, come al-Sisi che tiene in carcere da un anno lo studente Patrick Zaki (a cui dedichiamo la copertina tornando a chiederne l’immediata liberazione), e come il principe Bin Salman che gli Usa accusano di essere il mandante del feroce omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, sono i “dittatori utili” con cui l’Europa e l’Italia inaccettabilmente continuano a fare affari, vendendo armi, chiudendo tutti e due gli occhi sulla violazione dei diritti umani.

La stampa, come è noto, si è detta inorridita di fronte allo sgarbo subito dalla presidente del Parlamento europeo Ursula von der Leyen perché Erdoğan non le ha offerto una sedia, come invece ha fatto con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Ma non è insorta altrettanto contro l’europeissimo Michel che non si è alzato per offrirgli la sua.

Moltissimo c’è da fare anche in Occidente non solo contro la violenza agita che dall’hate speech arriva fino allo stupro e al femminicidio.

Moltissimo c’è da fare contro la violenza psicologica e “invisibile” che denigra la vittima, la colpevolizza, la nega, l’annulla derubricando lo stupro a “ragazzi che si stanno divertendo”, con buona pace di chi ne ha ricavato ferite fisiche e psichiche profonde e difficili da curare.

Moltissimo c’è da fare per conoscere in profondità questi gravissimi e persistenti fenomeni, per capirne le radici culturali e contrastare il pensiero violento che c’è dietro. Anche per questo siamo molto grati alla senatrice a vita Liliana Segre, vittima delle legge razziali e sopravvissuta al lager, per il suo straordinario impegno di testimonianza, per la sua denuncia di ogni forma di violenza.

La senatrice che la scorsa settimana ha voluto essere in Aula per votare la richiesta della cittadinanza italiana per Zaki, su Left spiega l’intento della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio che lei ha promosso e ha accettato di presiedere. Siamo onorati di darle la parola.

Nella foto, Patrick Zaki, immagine dalla pagina Facebook Patrick libero


L’editoriale è tratto da Left del 23-29 aprile 2021

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I “migliori” dittatori

Abbiamo bisogno dei dittatori. Anzi, «con questi chiamiamoli dittatori bisogna essere franchi nell’espressione della visione della società ma pronti a cooperare per gli interessi del Paese. Bisogna trovare l’equilibrio giusto». Lo ha detto sornione in conferenza stampa il presidente del Consiglio Mario Draghi, con la levità con cui si potrebbe parlare di un bilancio aziendale o dei tassi d’interesse di un prestito che si sta contrattando. Del resto la nuova politica, anche quella dei “migliori” che stanno al governo, ritiene i diritti una delle componenti che concorrono all’economia, sono riusciti a derubricare principi che dovrebbero essere il prerequisito di ogni democrazia – almeno una volta qualcuno aveva il coraggio di dire che doveva essere così – a uno dei capitoli di bilancio che concorrono all’affidabilità economica di uno Stato.

La chiamano realpolitik e la rivendono come illuminazione necessaria per riuscire a stare nello scacchiere internazionale, ma se riuscissimo a svestire questa bieca mentalità da tutte le sovrastrutture ne rimarrebbe semplicemente la vigliaccheria di chi ritiene la libertà e la democrazia due narrazioni da rimpolpare con dichiarazioni e con buone intenzioni. Tutto qui.

E infatti notatelo: rispetto all’avventatezza con cui Salvini o Meloni addirittura professano il proprio appoggio al dittatore di turno indicandolo come alto esempio di sovranismo, Mario Draghi è sempre pronto a condannare, a parole, mettendoci perfino un po’ di sdegno simulato ma senza nessuna concessione ai soldi che non devono essere condizionati, mai.

Non c’è differenza tra il “realismo” di Draghi rispetto al “buon senso” di Matteo Salvini, sono entrambi rifugi dove potere appoggiare una visione di mondo senza sentirsi in dovere di spiegarla.

Forse è anche per questo che per giorni si è discusso dell’…

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“Zaki”, illustrazione di Clara Imperiale, Officina B5


L’articolo prosegue su Left del 23-29 aprile 2021

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Non reggono la maschera

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 19-01-2021 Roma Politica Senato - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla situazione politica Nella foto Matteo Renzi, Davide Faraone Photo Roberto Monaldo / LaPresse 19-01-2021 Rome (Italy) Senato - Communications by Prime Minister Giuseppe Conte on the political situation In the pic Matteo Renzi, Davide Faraone

Tra le frasi ripetute dai (pochi) renziani rimasti ogni volta che devono fingere di non essere di destra (perché loro sono di un centrosinistra tutto loro, che esiste solo nella loro testa, che usa i diritti da usare come abbellimento, come l’oliva su un bicchiere per l’aperitivo) c’è la tiritera di Renzi difensore dei diritti civili. È una grancassa ripetuta allo stremo, anche alla faccia del principe saudita che le donne le usa come soprammobili, eppure per loro è un Rinascimento.

Ieri in Senato Italia viva non è però riuscita a reggere troppo la finzione della sua postura e ha dato il meglio di sé. Solo un dato, tanto per inquadrare lo spessore della sua azione politica: è riuscita a incassare gli applausi e i sorrisi di Lega e Fratelli d’Italia, basterebbe questo per capire.

Davide Faraone, senatore di Italia viva che ha il grande merito di essere molto amico di Matteo Renzi, ha detto che il ddl Zan  (quello che la destra da mesi sta cercando di boicottare in tutti i modi) è da «modificare». Avete letto bene: l’hanno votato alla Camera ma poi ci hanno ripensato, del resto loro sui ripensamenti si giocano tutta la poca credibilità elettorale per racimolare qualche voto in più della decina che hanno in tutto. In sostanza sono riusciti ad affossarlo visto che per arrivare al punto in cui siamo sono serviti più di mille giorni e visto che rimandare il tutto indietro significa di fatto non arrivare mai a una conclusione.

Ma il vero capolavoro di ipocrisia è la motivazione che hanno avanzato: il disegno di legge non va bene, dicono, per il video di Grillo e perché se Grillo sostiene questo disegno di legge allora significa che va modificato. In fondo gli serviva solo una scusa, come al solito, come quando dissero che bisognava discutere in Parlamento il Pnrr da presentare all’Europa per i soldi post Covid e ora invece stanno zitti nonostante non ci sia nessuna bozza. Loro cercano solo appigli (immaginari) per costruire propaganda. E incassano applausi da destra. Che poi non incassino nemmeno mezzo voto fanno molta fatica a comprenderlo, ma anche questa è la loro natura.

La vera domanda rimane quella che ha scritto ieri Simone Alliva, che su questa legge sta facendo da mesi un enorme lavoro di informazione: «Perché il #ddlZan che avete votato alla Camera (quindi andava bene alla Camera) adesso non vi va più bene al Senato?».

Oppure, volendo fare politica in modo intellettualmente onesto, si poteva discutere quel testo e, in assenza di accordo, affidarne la sorte al voto, come si fa in una democrazia parlamentare. Ma i renziani avrebbero avuto paura di essere scoperti. Come se non fossero già evidenti ora.

Buon giovedì.

 

L’agente che ha ucciso Floyd è colpevole: il senso di una sentenza storica

Giustizia è fatta. Dopo quasi un anno di proteste che hanno infuocato gli Stati Uniti al grido di «Black lives matter», nel pomeriggio del 20 aprile (le ore 23 in Italia) l’ex poliziotto Derek Chauvin, accusato di aver ucciso George Floyd soffocandolo con il suo ginocchio mentre era in servizio, è stato dichiarato colpevole per tutti i capi di accusa. Ora rischia fino a 75 anni di carcere per omicidio preterintenzionale di secondo grado, omicidio di terzo grado e omicidio colposo. Le ultime parole di Floyd, afroamericano di 46 anni fermato a Minneapolis dalla polizia perché sospettato di aver pagato un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari falsa, sono state «I can’t breath», «Non riesco a respirare», una frase che ha fatto il giro del mondo dal 25 maggio scorso ad oggi.

La sentenza sulla colpevolezza di Chauvin rappresenta un momento storico per la lotta alla discriminazione razziale negli Stati Uniti, una decisione così critica da aver richiesto la protezione totale dei giurati popolari che hanno deciso non solo delle sorti di Chauvin, ma di tutti gli States. Mentre le strade di Minneapolis si riempivano di persone in attesa del verdetto, la giuria si riuniva per deliberare in un luogo segreto e senza mai essere apparsa in aula. Era necessario raggiungere una decisione unanime, una clausola che aveva fatto temere addirittura che si potesse palesare l’eventualità di un secondo processo, ma non è stato questo il caso. Sono serviti solo due giorni e 11 ore di seduta per dichiarare Chauvin colpevole e mandare un segnale chiaro, ribadito anche dal presidente Joe Biden subito dopo la lettura della sentenza: nessuno, negli Stati Uniti, è al di sopra della legge. Biden è tornato anche a parlare di una possibile riforma della polizia «per combattere il razzismo sistemico all’interno delle forze dell’ordine», una delle richieste più forti del movimento Black lives matter.

L’abuso di potere della polizia è un grosso problema negli Stati Uniti, soprattutto nei confronti della minoranza afroamericana. Solo l’11 aprile scorso, sempre a Minneapolis, il ventiduenne Daunte Wright è stato ucciso da una degli agenti che lo aveva fermato perché la sua targa risultava scaduta. La poliziotta ha dichiarato che non voleva sparare per uccidere, ma che ha scambiato inavvertitamente la pistola con il taser, il dissuasore elettrico utilizzato per immobilizzare in caso di necessità. Una storia a cui è ben difficile credere, visto che Kimberly Potter, ora dimessasi, era in servizio da 26 anni.

È assai raro che un poliziotto venga dichiarato colpevole in aula per azioni abusanti compiute durante il servizio, per questo la sentenza di ieri è così importante. La morte di Floyd è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso colmo di 400 anni di razzismo sistemico, un vaso che ha iniziato a riempirsi nel 1619, quando con l’arrivo dei primi africani in America la schiavitù ha acquisito una connotazione prettamente etnica.

Se oggi possiamo festeggiare il trionfare della giustizia, però, è soprattutto grazie al coraggio di chi non ha mai abbassato la testa in questi lunghi mesi, dalla famiglia e dagli amici di Floyd fino alle migliaia di manifestanti che hanno occupato le strade di tutto il mondo inginocchiandosi e urlando il suo nome. Ma l’atto di coraggio più importante è stato quello di Darnella Frazier, una ragazza afroamericana di 17 anni (al momento dell’omicidio) che ha deciso di fermarsi a filmare l’aggressione mentre era a passeggio con sua cugina di 9 anni. Dopo averlo messo al sicuro in un negozio, Darnella è tornata per la strada e ha filmato con il suo cellulare i 9 minuti e 29 secondi di inumanità e anaffettività estrema che hanno portato George Floyd alla morte. Poco incline ad apparire in pubblico, la ragazza ha dichiarato più volte che ha deciso di riprendere perché «quello che stava accadendo era chiaramente ingiusto». Il suo video è stata la prova schiacciante della violenza di Chauvin, senza la sua decisione di restare su quel marciapiede con lo smartphone in mano le cose sarebbero andate di certo diversamente.

La transizione ecologica o è globale o non è

In this Friday, April 24, 2020 file photo, activists place thousands of protest placards in front of the Reichstag building, home of the german federal parliament, Bundestag, during a protest rally of the 'Fridays for Future' movement in Berlin, Germany. World leaders breathed an audible sigh of relief that the United States under President Joe Biden is rejoining the global effort to curb climate change, a cause that his predecessor had shunned. (AP Photo/Michael Sohn, File)

Fra pochi giorni conosceremo il piano che il governo Draghi presenterà all’Europa. Appena la Commissione europea lo approverà cominceranno ad arrivare al nostro disastrato Paese circa 200 miliardi di euro, scaglionati in cinque anni. Se saranno sufficienti per uscire dai terribili guai sociali in cui la pandemia, e la crisi ambientale ad essa connessa, hanno fatto precipitare non solo l’Italia, ma l’intero mondo è prematuro stabilirlo ora, così come lo è esprimere un giudizio compiuto del progetto, del quale per altro si sa veramente molto poco.

La sua elaborazione sembra più criptica e oscura di quella che tentò di fare il precedente governo Conte, prima che l’affarista Renzi e la sua combriccola di Italia viva lo affondasse, sentendosi troppo lontana dai centri di spesa dei soldi europei. Per ora non si va oltre i soliti titoli, continuando a ripetere al Paese esausto che useremo quei soldi per costruire un’Italia più digitale e più verde. Intanto va fatta una considerazione, al di là dei contenuti del piano, sul senso dell’agire locale: interrogarsi cioè su quanto una azione locale sia riuscita a rimanere collegata a un pensare globale.

Provo per esempio a connettere il mio tentativo di creare una comunità energetica in un quartiere di Roma con i dati sconvolgenti sulla pandemia che arrivano dal Brasile, oppure con l’impegno che servirebbe per avviare la transizione ecologica auspicata. Avverto l’azzardo e la sproporzione di questo tentativo fra il mio agire locale e il mio pensiero globale, al punto di domandarmi che senso abbia il mio progetto da avviare nel quartiere, se poi alla fine sulla terra prevale il coronavirus o se desertificazione e altri eventi estremi renderanno, non solo il quartiere, ma il pianeta tutto inabitabile. Per capire che il nesso fra l’agire locale e il pensiero globale si è perso basta sapere che appena il Consiglio europeo ha deciso di rispondere alla crisi con il Next Generation Ue, ogni Paese ha preparato il proprio progettino. Anche ogni forza della cosiddetta società civile ha ragionato dimensionando le proposte solo ed esclusivamente su scala nazionale.

È stato così per la Spagna, che ha presentato solennemente nei giorni scorsi il proprio programma, ma si è ben guardata dal coordinarlo con gli altri Paesi del sud europeo, come invece fece quando insieme all’Italia e al Portogallo spinse l’Europa a incamminarsi sulla strada del Next Generation Ue. È vero, ci sono le linee guida della Commissione europea, ma come sempre sono a maglie larghissime, e quindi ogni Stato, a seconda della forza reale che esprime, le interpreta a suo piacere. La stessa soffocante dimensione nazionale si è avuta sul come fronteggiare la pandemia. Da una parte si afferma che non c’è possibilità di sconfiggere il virus se non si dà una risposta globale, ma poi un’azione coordinata a livello mondiale è inesistente, infischiandosene così dei tremila decessi al giorno del Brasile.

Sarà forse solo il retropensiero di un inguaribile vecchio comunista quale sono, per giunta anche ambientalista, ma mi chiedo come sia possibile dare credibilità alle sanzioni verso questo o quel dittatore, sudamericano o asiatico che sia, quando chi le propone, a occidente, non pensa minimamente a come rimuovere Bolsonaro e fermare il vero e proprio genocidio a cui sottopone il suo popolo. La risposta a questo banale interrogativo è semplice: non basta indignarsi e denunciare le nefandezze dei decisori politici, ma occorre interrogarsi anche sull’inadeguatezza della cosiddetta società civile. Così come è giusto, ma un poco tardivo, denunciare i brevetti sui vaccini, dopo che sono stati scoperti e realizzati dalla ricerca privata finanziata con tanti soldi pubblici. È cioè già troppo tardi per riuscire a impedire che la campagna vaccinale sia affidata al mercato che ha ormai scatenato una guerra commerciale fra ditte farmaceutiche. Nel frattempo il virus continua a mutare e a sterminare la popolazione, anche giovane, di larghe parti di quello che ancora chiamiamo impropriamente mondo sottosviluppato, né si riesce a proteggere la popolazione anziana dei Paesi più o meno ricchi. Se un vaccino è sottoposto a queste regole, figuriamoci le politiche che puntano a prevenire e a intervenire sulle cause che hanno determinato questa pandemia.

In fondo è la stessa logica con cui si è faticosamente avviata la lotta al cambiamento climatico. Anche sulla transizione ecologica, di cui si parla e spesso si straparla, stenta a farsi strada una necessaria, perché sia efficace, risposta globale. Si ferma alle solenni assemblee dell’Onu, come l’ultima di Parigi, dove si fanno accordi e poi ognuno si organizza come vuole o come può. Dopo oltre trent’anni di conferenze intergovernative e di impegni dichiarati per far diminuire le emissioni c’è voluto un malefico virus per ridurle davvero, un virus che ha obbligato a fermare almeno una parte delle attività che generano gas serra.

Recuperare il nesso fra l’agire locale e il pensiero globale è lavoro di lunga lena, da iniziare subito. Non avrebbe alcuna credibilità la transizione ecologica che vuole promuovere l’Europa, se poi la sua Commissione e lo stesso Parlamento europeo e gli Stati che lo compongono non provano a far nulla per impedire ai giapponesi di sversare in oceano oltre una tonnellata di acqua radiottativa. Cambio climatico, virus e conseguente crescita di disuguaglianze impongono alla nostra riflessione due questioni: prendere atto dell’inconsistenza dell’Onu, della sua incapacità a decidere alcunché, e quindi la riproposizione di una mobilitazione sociale per la sua rifondazione. Qualcuno ricorda i Social forum, i grandi appuntamenti globali di Porto Alegre? L’ambizione dell’agire locale per essere efficace deve riaquisire quella dimensione. Quel movimento globale nacque per impedire che la guerra fosse lo strumento per dare soluzione ai conflitti. Certo non ci riuscimmo, ma quella dimensione è l’unica ancora in grado di dare efficacia alla lotta ai cambiamenti climatici.

Che oggi siamo distanti da questo modo di concepire l’azione è evidente, così come è chiaro che diversi sono i soggetti che possono promuoverla. Prima di chiudersi in una discussione sterile sull’esigenza di dar vita a un nuovo soggetto della sinistra, sociale o politico, partito o movimento che sia, forse sarebbe il caso di trarre ispirazione e misurarsi con due movimenti sociali, che hanno già acquisito una dimensione globale: quello femminista e quello ecologista del Fridays for Future. Loro producono già quel nesso fra l’azione locale e il pensiero globale e da qui che potrebbe partire una nuova stagione di forum sociali, riportando al centro di un’azione politica collettiva la possibilità e necessità di quel mondo diverso che era proprio lo slogan di Porto Alegre.

(nella foto manifestazione dei Fridays for Future, Berlino, 24 aprile 2020)

Sì vuol dire sì. Proposta per una modifica del codice penale in materia di reati “sessuali”

Violence against women concept

Il concetto sul quale deve ruotare tutta la legislazione sui diritti sessuali è il “consenso”.
Presupporre che ci sia un valido consenso quando la vittima è stata indotta a bere alcolici o è stata drogata, va contro ogni logica, prima ancora che contro il diritto.

Il consenso, in sede civile, ad esempio, si ritiene che sia viziato rispetto alla sottoscrizione di un contratto se non è stata sufficientemente esplicitata una clausola.
In sede penale, in relazione ai reati sessuali, invece, c’è una legislazione che deve essere modificata perché lascia spazio a troppe aberrazioni.

Eppure non tutte le legislazioni si sono evolute in relazione al consenso, e per molte, perché possa concretizzarsi un reato sessuale, si ritiene che sia necessaria la materializzazione di atti di violenza o di minaccia.

Nella legislazione italiana il presupposto della violenza e della minaccia è il criterio centrale per qualificare il reato di violenza sessuale, e da questa impostazione deriva che le manifestazioni di dissenso da parte della vittima, se espresse con una insufficiente determinazione ovvero in presenza di una incapacità totale o parziale a esternare pienamente il dissenso, conducono finanche ad attribuire alla vittima parte della colpa.

Diversamente dai modelli normativi basati sulla violenza o sulla minaccia, come quello italiano, ci sono i modelli incentrati sul consenso per cui se la vittima non ha espresso validamente il suo beneplacito c’è sempre il reato di violenza sessuale.
Esiste una terza ipotesi di modello legislativo, che pone nella centralità del reato il consenso limitato, nel senso che – sarebbe più corretto dire – il reato si compie nel dissenso, ovvero si richiede una valida espressione della volontà contraria all’atto sessuale.

Se la legislazione italiana si è articolata su una qualificazione del reato basato sulla violenza e sulla minaccia, si è comunque avuta una giurisprudenza che ha espresso una maggiore attenzione verso le manifestazioni di dissenso, ad onta di alcune pronunce che hanno fatto il verso all’inquisizione medievale.

La Cassazione, con la sentenza n.4532/2008, ha statuito in maniera assai innovativa rispetto alle qualificazioni del consenso e del dissenso, ma il potere legislativo, supino ad una cultura retrograda, non ne ha colto il portato qualificante ed emancipatorio.
Nella richiamata sentenza i giudici della Cassazione hanno sostenuto che il consenso al rapporto sessuale debba essere pacifico e ininterrotto, trattandosi di una sfera soggettiva in cui sono tutelati, nella loro massima ampiezza, la dignità e la libertà, sia fisica che psichica della persona.

Secondo la Corte non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione dei delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi all’inizio della condotta antigiuridica, e ciò vuol dire che anche quando il rapporto sessuale è iniziato con un consenso del partner, se è intervenuto un dissenso e l’imputato non ne ha tenuto conto, non può invocare a sua discolpa il consenso iniziale.

La valutazione del consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, e se il consenso originariamente prestato viene meno per un ripensamento, la prosecuzione dell’atto sessuale integra il reato di violenza sessuale.

La sentenza della Cassazione, tuttavia, contiene una ulteriore ipotesi qualificante in relazione al consenso che, secondo la Corte, deve riguardare anche la condivisione “delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso” e ciò significa che se il consenso è stato espresso senza prevedere la eiaculazione nella vagina, o se è stato espresso con l’uso del profilattico e poi il profilattico è stato tolto, si consuma il reato di violenza sessuale.

Il consenso deve essere espresso non solo in riferimento all’atto sessuale, ma deve essere espresso anche in relazione al concepimento.
Il mancato uso del profilattico quando determina una gravidanza indesiderata, deve costituire specifica ipotesi del reato di violenza sessuale.

Biologicamente la fecondazione è subita e non è attiva, è lo spermatozoo che feconda mentre è l’ovulo che è fecondato, dunque il consenso alla gravidanza deve essere equiparato al consenso all’atto sessuale, e ove non sia stato validamente espresso, deve essere sanzionato penalmente.

Una riforma del codice penale in tale direzione si rende urgente anche in considerazione della pratica, sempre più diffusa, chiamata stealthing, che consiste nel togliere il preservativo all’insaputa della partner per indurre una coercizione riproduttiva.
Viene esercitata anche da uomini su altri uomini, con lo scopo di stabilire una supremazia maschile, incuranti dei rischi e sfidando la possibilità di contagio da malattie sessualmente trasmissibili.

Ci sono finanche comunità di uomini ideologicamente protesi a “difendere” il “diritto a diffondere il seme” e disposti perfino ad elargire consigli su come fare per imporre il loro seme a partner non consenzienti.

L’assenza del preservativo senza il consenso della partner, trasforma il rapporto sessuale consensuale in rapporto sessuale non consensuale.
Se non c’è consenso all’atto sessuale è stupro.
Se non c’è consenso alla gravidanza indesiderata, è stupro.

In Inghilterra nel Sexual Offences Act tra le ipotesi di reato c’è quella di togliersi il preservativo o bucarlo senza il consenso della partner, mentre in Australia sotto un profilo normativo, la fattispecie non è ancora specificamente prevista nel Crimen Act (la legge penale di Vittoria), ma le Organizzazioni governative sulla pianificazione familiare hanno già reso pubblici gli esiti delle loro ricerche, sostenendo che il vuoto legislativo debba essere al più presto colmato, soprattutto in difesa delle sex-workers che più subiscono la coercizione riproduttiva, e dunque il rapporto sessuale senza espresso consenso all’assenza del preservativo deve essere considerato reato sessuale.

Tornando al codice penale italiano, l’attuale formulazione dell’art.609 bis c.p. è la seguente:
“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”

Dovrebbe essere modificato come segue:
“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali, O A SUBIRE UNA GRAVIDANZA INDESIDERATA:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona;
3) CONTRO LA VOLONTÀ RICONOSCIBILE DELLA VITTIMA.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”
Una formulazione che sollevi la donna dalla responsabilità della gravidanza indesiderata, spostandola sul fecondatore, avrebbe come prevedibile effetto immediato e conseguente quello di modificare lo stigma che colpevolizza socialmente la donna che “si è fatta mettere incinta”.

Non solo si deve superare la qualificazione del reato attraverso la violenza e la minaccia, non solo si deve superare il ricorso al valido dissenso, ma occorre fare un ulteriore salto qualitativo e impostare la legislazione penale sulla cultura del consenso.

Non si può pensare ad un atto sessuale come qualcosa da cui difendersi, ed è ciò che lascia intendere lo slogan “no vuol dire no”, perché diventa la risposta ad una cultura che si dà per scontato che sia violenta.

Si deve ribaltare il paradigma della difesa per impostare la regola dell’accettazione che si riassume, piuttosto, nel consenso validamente espresso per cui “sì vuol dire sì”.

*L’autrice: L’avvocato Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo*

Niente padri e madri della vittima?

Nel gran rito collettivo della difesa del leader da due giorni si sta consumando un’inaspettata empatia per l’accusato nonostante da anni in molti abbiano provato a convincerci che fosse una postura immorale, sospettosa, perfino colpevole. Solo che questa volta il “padre” con cui solidarizzare è il simbolo di un partito politico e quindi molti si sentono in dovere di farlo. Quando si dice “politicizzare” le vicende giudiziarie si intende proprio questo: qualcuno con un grande seguito che usa vicende penali (che dovrebbero essere personali) come paradigma di un clima politico. È la stessa cosa di Berlusconi che si dichiara perseguitato per via giudiziaria dai suoi avversari politici, è lo stesso di Salvini che ci vorrebbe convincere che la “sinistra” lo manda a processo. Uguale uguale. Pensateci.

Poi ci sono i soliti ingredienti che intossicano tutte le volte le presunte vittime di stupro: un uomo potente (e con il potere di parlare a molti) che urlaccia e vittimizza la presunta vittima un’altra volta. Incredibile la discussione sulle ore che servono a denunciare uno stupro: una bassezza da fallocrati davanti allo spritz che viene rivenduta ancora una volta su tutti i media nazionali. Beppe Grillo è riuscito a condensare in pochi minuti tutta la cultura dello stupro: un giudizio personale che vorrebbe valere come Cassazione, una discussione spostata sulle presunte colpe della presunta vittima e noi dei presunti colpevoli e perfino quel “lo dico da padre” che ci ha fatto incazzare per mesi quando pronunciato da Salvini.

Non solo. Grillo ha pubblicamente dato della bugiarda alla vittima. Come scrive giustamente Giulia Blasi per Valigia Blu: «Ogni volta che ci domandiamo come mai in Italia sia così difficile parlare di abusi sessuali, ricordiamoci questo: che il capo di un partito politico può tentare di immischiarsi nel procedimento giudiziario a carico di suo figlio e aggredire verbalmente la donna che lo accusa, senza che ci siano conseguenze immediate, che il partito stesso se ne dissoci e lo costringa a farsi da parte (“dimettersi” sarebbe impossibile, data la natura liquida del ruolo di Grillo, che rimane tecnicamente un privato cittadino). La vita, la sicurezza e l’integrità fisica delle donne contano così poco, di fronte alla necessità di mantenere il quieto vivere».

Tutti pronti a mettersi nei panni del padre e della madre del presunto colpevole e nessuno in quelli della presunta vittima. Annusate l’aria che c’è in giro in questi giorni e avrete la dimostrazione plastica del perché per una donna sia così difficile denunciare.

È stato un gesto sconclusionato e pessimo e al Movimento 5 stelle conviene dirlo forte e chiaro per non essere invischiato. A meno che non si voglia votare in Parlamento che quella fosse la figlia di Mubarak, visto che ci sarebbero perfino i numeri per farlo.

Buon mercoledì.