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Il Belpaese dei 500mila esclusi

A man rides with a bicycle walk past a "Wall of Kindness", a charity work phenomenon and a kind of welfare, usually done by attaching cloth hangers from outside of buildings, encouraging people to donate miscellaneous useful things such as winter clothing for the homeless, on January 25, 2020 in Milan. (Photo by Miguel MEDINA / AFP) (Photo by MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

Dopo più di un anno di pandemia la tutela di coloro che restano più indietro di altri è diventata un’emergenza nell’emergenza. La deprivazione sta facendo venire a galla condizioni di fragilità da comportamenti sociali una volta improntati alla dignità, alla tutela dell’immagine della propria persona e della propria famiglia.
Le disuguaglianze aumentano come mai si era visto in tempi recenti. Le stime preliminari dell’Istat per il 2020 evidenziano come l’incidenza della povertà assoluta abbia raggiunto un livello mai registrato dal 2005. Sono, infatti, circa 5,6 milioni le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta, quelle che non consentono di avere condizioni di vita accettabili.

E mentre la povertà avanza e colpisce un milione di individui in più rispetto all’anno precedente, diminuisce la capacità di effettuare una serie sempre più ampia di attività: dal pagamento delle bollette e dell’affitto, al pagamento delle spese mediche fino all’acquisto di beni di primaria necessità.
«Nel 2020, l’incidenza di povertà assoluta passa dal 4,9% al 6% tra le famiglie composte solamente da italiani, dal 22% al 25,7% tra quelle con stranieri, che conoscono una diffusione del fenomeno molto più rilevante e tornano ai livelli del 2018», è quanto si legge sulle stime dell’Istat.

Sono diverse le dinamiche economiche che portano ad uno stato di povertà, assoluta o relativa per una famiglia, tuttavia l’immediata ricaduta è quella dell’esclusione sociale determinata da processi in cui interagiscono problemi socio-economici, culturali ed istituzionali.
L’esclusione sociale è legata sia a questioni economiche, che di mancato accesso a servizi e risorse di vario tipo.
Le misure di sostegno al reddito non riescono a contenere l’emergenza nell’emergenza di cui parlavamo in apertura. Quella legata alla pandemia da Covid-19, che ha generato nuovi poveri e ha spinto nell’abisso gli ultimi tra gli ultimi.

E, mentre la proposta del numero uno dell’Inps, Pasquale Tridico, di estendere il reddito di cittadinanza «alle famiglie numerose e agli immigrati», ha scatenato l’ira di chi ritiene che la fame sia più forte nello stomaco di un italiano che in quello di una persona immigrata e non vede che le implicazioni per la collettività sono le stesse, quale che sia la nazionalità dei nuovi vulnerabili che abitano il nostro Paese, aumentano quotidianamente le situazioni di profondo isolamento, di stigma e sofferenza, soprattutto in quelle case non case in cui dimora chi non ha altro che il proprio corpo da…

*-*

Gli autori: Francesco Aureli e Maura Pisciarelli, tra le diverse attività in cui sono impegnati lavorano per Sanità di frontiera, un’Associazione senza scopo di lucro che realizza interventi nei settori del contrasto alle diseguaglianze 


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Una metafora calcistica

File photo dated 13-01-2021 of Joleon Lescott and Steve McManaman (right) working as pundits for BT Sport on a temporary platform in the stands as the players warm up on the pitch before the Premier League match at the Etihad Stadium, Manchester. Issue date: Monday April 19, 2021.

Immaginate un mondo dove inevitabilmente ci si sfida. Ci si sfida perché è parte del gioco, in fondo si gioca soprattutto e vincere o perdere dipende dalla forma, da ciò che si ha a disposizione, dalla fortuna e inevitabilmente dal talento ma soprattutto dai soldi. Però ci sono regole chiare e le regole stabiliscono che chi ha bravura ma anche chi ha fantasia possa raggiungere traguardi che non erano preventivati, nemmeno immaginati e alla fine accade che anche gli sfavoriti vincano. A volte vincono una partita, a volte vincono addirittura il campionato.

Quelli invece che dovrebbero vincere per censo si arrabbiano tantissimo, strillano, se la prendono con i giudici e parlano di ingiustizia. Loro, quelli che di solito sono proprio i detentori delle redini della giustizia sociale. Però in fondo ci si affeziona mica solo per le vittorie e così si rimane fedeli alla propria idea, ci si mette dentro a una roba semplice perfino un po’ di valori. E in fondo tutte le volte che si sente un po’ di profumo di poesia è proprio quando Davide batte Golia.

Immaginate poi che in un mondo così, improvvisamente i ricchi vogliano diventare ancora più ricchi, non ci stiano a dividere con quegli altri nemmeno gli spiccioli e allora provano a pensare a un nuovo mondo in cui si entri per il merito di essere ricchi e di essere buoni amici nei circoli dei ricchi che contano, ciò che conta è essere nella cerchia giusta, nel giro giusto. Immaginate anche che la propria credibilità non venga valutata dal proprio spessore ma dalla propria popolarità. La popolarità come fine, addirittura prima della vittoria. E quella popolarità non è qualcosa che ha a che fare con il cuore, ovviamente, ma viene misurata con i soldi. Il nuovo mondo di quelli che non vogliono spartire niente con gli altri tra l’altro è un mondo magico in cui l’autopreservazione è garantita per censo, mica per risultati.

Di solito quando i ricchi vogliono stringere i cordoni della borsa per ingrassare il proprio circolino la chiamano “inevitabile modernità”, dicono che è il progresso e si inventano che il mondo è cambiato, che non ci sono più i palloni cuciti a mano o che non ci sono più i telefoni a gettoni. Quindi se l’idea non ti piace è colpa tua che sei incapace di stare al passo con i tempi o perfino invidioso.

Sei squadre di calcio inglesi (Manchester United, Manchester City, Arsenal, Chelsea, Liverpool, Tottenham), tre spagnole (Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid) e tre italiane (Juventus, Inter e Milan) hanno annunciato l’intenzione di farsi il loro campionato. Tutti ne discutono.

Eppure è una metafora così potente che andrebbe letta con attenzione, mica solo per il calcio. Alcuni lo chiamavano capitalismo ma poi il pensiero comune ha detto che è una parola così stantia, capitalismo.

Buon martedì.

 

Il mondo della cultura francese incalza Macron

PARIS, FRANCE - MARCH 16: Dancers perform in front of the Theatre de l'Odeon on March 16, 2021 in Paris, France. Workers occupy the Theatre de l'Odeon since March 4 to protest against French government's decision to close all theatres and cultural institutions since October 2020 due to the rise of coronavirus cases. France has also imposed a curfew from 6 pm to 6 am and restaurants can only offer take away food. (Photo by Pascal Le Segretain/Getty Images)

La pandemia, con tutti i suoi morti, ci ha obbligati a concentrarci sulle cose essenziali. Una sorta di “primum vivere” generale, con la rinuncia a tante cose e abitudini che caratterizzavano la nostra vita precedentemente. Abbiamo riscoperto l’essenziale, che anche il semplice  sopravvivere, fosse anche il solo stare chiusi in casa con i propri cari e con poco altro, è una cosa importante che rende caduco tanto altro che prima consideravamo importante. I governi europei ne hanno tratto la deduzione che la cultura fosse inutile, o quantomeno di secondaria importanza rispetto alle altre urgenze. Ma nella cultura vivono e lavorano migliaia di persone, di cui si è fatto finta di dimenticarsi. Persone che, in tempi normali, avevano come lavoro quello di farci riflettere sull’esistente, di trasmetterci valori del passato, di mantenere e arricchire la cultura che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti. La pandemia ha fermato tutto questo.

Oltre alla mancanza di tutto quello che il mondo della cultura apporta alla nostre vite, i lavoratori di questo settore si sono trovati senza lavoro “a tempo indeterminato”. Mentre un ristorante può aprire e chiudere secondo i vari colori, una pièce teatrale non può essere riavviata in poco tempo. I lavoratori francesi della cultura, dimenticati dal governo e senza una prospettiva per la riapertura dell’attività, hanno dato vita a un ampio movimento di protesta.

Tutto è partito da Parigi, dove a inizio marzo è stato occupato il Teatro dell’Odeon, un luogo simbolico perché nel ’68 vi si erano svolti dibattiti permanenti che coinvolgevano artisti, professori, lavoratori, studenti. Ma in poco tempo molti altri luoghi hanno seguito l’esempio dei lavoratori parigini: in poche settimane oltre cento luoghi sono stati occupati in tutta la Francia. Alcuni sono stati sgomberati (come il teatro di Bordeaux, su richiesta del neo sindaco dei Verdi) ma…


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Sono già in campagna elettorale

Il governo dei migliori incassa le bordate di alcuni scienziati, dice il professor Galli che «Draghi non ne ha azzeccata una sul virus» e dice Andrea Crisanti che «purtroppo l’Italia è ostaggio di interessi politici di breve termine, che pur di allentare le misure finiranno per rimandare la ripresa economica» definendo le riaperture una «stupidaggine epocale» ma su queste questioni ci si accorge di chi aveva ragione sempre dopo. E quindi tra qualche mese qualcuno potrà dire “l’avevo detto”.

Intanto però la maggioranza freme perché la politica, l’abbiamo ripetuto più volte anche qui, è una continua ricerca di consenso, più della responsabilità di governo e così Matteo Salvini (dopo essersi intestato il merito delle progressive aperture) ora spinge ancora di più sull’acceleratore chiedendo ancora di più. È normale, il suo elettorato gli chiede questo, per esistere lui deve fare questo: spingere, spingere, spingere e non dare il tempo di ragionare. Così ora la richiesta è di aprire anche i locali al chiuso e di togliere il coprifuoco. Sia chiaro: la discussione è legittima ma non chiedete a Salvini di dare delle indicazioni in base ai dati in nostro possesso. Il suo ragionamento non esiste e quindi la giustificazione è sempre quella del “buonsenso”. A ruota, ovviamente, ci sono i renziani che chiedono di riaprire le palestre (anche al chiuso) e gli impianti sportivi prima del termine di giugno fissato dal governo. È una guerra ad accalappiarsi ognuno il proprio settore. Avanti così.

Salvini intanto riesuma Berlusconi per parlarci del suo rinvio a giudizio sulla vicenda Open Arms: «Silvio ha dovuto affrontare 80 processi, io per ora solo 5-6 … Ma è evidente che la sinistra vuole vincere in tribunale le elezioni che perde nelle urne. In nessun Paese al mondo si mandano un processo gli avversari politici». Intanto ne approfitta per leccare un po’ anche Eni e Finmeccanica: «In Italia – dice – si fanno tante inchieste che poi finiscono nel nulla. Come quelle che hanno riguardato grandi società come Eni e Finmeccanica. Difendere gli interessi dell’Italia significa anche difendere le aziende italiane». Per lui difendere le aziende italiane significa non indagare. Chiaro, no?

Poi ha un’illuminazione: una commissione d’inchiesta sulla pandemia (che in effetti potrebbe fare luce su molte responsabilità che meritano di essere indagate) ma anche qui riesce a buttarla in caciara sparando sulle «responsabilità del ministro Speranza», come al solito trasformando tutto in guerriglia ad personam, la stessa di cui si lamenta. E a chi pensa per trovare i voti di un’operazione del genere? Lo dice lui stesso: il centrodestra e Italia Viva di Renzi. E intanto getta l’amo.

Vi ricordate quando si diceva che Draghi li avrebbe tenuti tutti in riga? La riga si è già spezzata e vedrete che basterà che si abbassino i numeri drammatici del contagio perché inizi subito la campagna elettorale. In testa, ovviamente, i due Mattei che stanno già muovendo le code sotto traccia.

Buon lunedì.

L’ecosistema in crisi è terreno di caccia per i virus

Icebergs near Ilulissat, Greenland. Climate change is having a profound effect in Greenland with glaciers and the Greenland ice cap retreating. (Photo by Ulrik Pedersen/NurPhoto via Getty Images)

Ormai siamo destinati a parlare solo di vaccini. Da mesi seguiamo passo dopo passo la loro accelerata scoperta, instabile produzione, incerta ed iniqua distribuzione. Ne centelliniamo gli effetti avversi, enfatizzati anche da ragioni geopolitiche, insinua Forbes. Ovvio, direte voi, di cosa dovremmo parlare dopo 15 mesi di pandemia? Eppure, nessuno avrebbe mai immaginato un anno fa che un ordinario strumento di salute pubblica sarebbe diventato in tempi così rapidi merce tanto agognata. Nel mezzo della tempesta, i vaccini tengono banco come la pallottola magica per sconfiggere il virus, come la strategia vincente di riconfigurazione della geopolitica, in uno scenario mondiale sempre più scheggiato nelle crepe di una comunità degli Stati irrimediabilmente priva del senso di sé e della pratica di multilateralismo, necessaria in tempo di pandemia. Lo scorso 8 aprile, la iniziativa internazionale Covax ha annunciato trionfalmente di aver inviato 38 milioni di dosi a 102 economies (sì, le chiamano così: non Paesi), l’equivalente di somministrazione per 19 milioni di persone, mentre il 90% dei vaccini è stato accaparrato dai governi in cui vive il 16% della popolazione mondiale. Non a caso, si parla ormai di apartheid dei vaccini, sancito da irremovibili monopoli della proprietà intellettuale al Wto ( World trade organization).

Dopo aver utilizzato a manetta la metafora della guerra, del nemico, della difesa e della trincea come cifra narrativa per raccontare il contagio, sarebbe una lungimirante scelta di riparazione l’utilizzo del vaccino oggi disponibile per immunizzarsi dal virus della violenza, l’uso del vaccino per fare la pace: la pace tra Israele e Palestina, o tra India e Kashmir – solo per citare due ferite purulente della storia contemporanea. Accade invece l’opposto. In Medio Oriente, gli occupanti israeliani si vaccinano senza curarsi minimamente degli occupati palestinesi. Altrove, la pandemia sociale ed economica che accompagna Sars-Cov-2 stratificando ulteriormente le disuguaglianze incalza le giovani generazioni a manifestare contro l’asfissiante autocrazia di governi corrotti che respingono con la forza ogni sussulto di riscatto e di regimi militari che sottraggono con le armi ogni possibilità di democrazia e futuro.
Ma noi parliamo solo di vaccini. Siamo sicuri che basti, che sia la cosa giusta da fare? Questa attenzione ossessiva dedicata alla soluzione farmaceutico-immunitaria, pur se comprensibile, ci dice che non abbiamo capito e che non vogliamo capire la dura ma razionale pedagogia di Sars-Cov-2. I vaccini sono importanti, evidentemente, ma l’esclusivo focus su questi strumenti allontana il ragionamento dalle cause profonde che…

*-*

L’autrice: Nicoletta Dentico, giornalista, esperta di salute globale e cooperazione internazionale è autrice di Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Emi, 2020) e con Eduardo Missoni di Geopolitica della salute. Covid-19, OMS e la sfida pandemica (Rubbettino, 2021)


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Falsi amori, vera violenza

A lady dressed in red looks at the placards with photos of the students of the Liceo Classico di Molfetta and a message, against the violence of women, on November 25th, at Corso Umberto di Molfetta. On the occasion of the international day against violence against women on November 25, the Liceo Classico di Molfetta, in front of the school at Corso Umberto di Molfetta, installed two posters with photos of some students and a message to counter and eliminate violence against women and unrolled a red cloth, a symbol of the blood shed by women affected by this violence. (Photo by Davide Pischettola/NurPhoto via Getty Images)

Quello che è successo ad Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione Ue, al vertice di Ankara il 7 aprile, è l’emblema della situazione retrograda e violenta in cui il presidente Erdogan sta trascinando la Turchia dopo il gravissimo ritiro dalla Convenzione di Istanbul. Come è noto, il presidente turco il 20 marzo ha annunciato di aver tolto la ratifica dalla convenzione del Consiglio d’Europa siglata nel 2011 proprio in Turchia, che sancisce l’uguaglianza tra uomo e donna e definisce la violenza di genere come un atto discriminatorio e una violazione dei diritti umani.

E riprovevole e ripugnante è stato, sempre ad Ankara, il comportamento di Charles Michel, presidente del Consiglio d’Europa, che non ha reagito in alcun modo a questo insulto volgare che è un chiaro messaggio indirizzato alle donne e all’Europa più progressista: anche se sei la carica più importante con potere decisionale, tu sei una donna e per me non esisti. Così come non devono esistere le donne turche e curde che stando ai dati in 4 su 10 hanno subito violenze.

Ricordiamo che in Turchia ne sono state uccise 65 nei primi 65 giorni del 2021. Erdoğan purtroppo non conduce una battaglia solitaria. Anche in Polonia, a luglio 2020, il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro aveva dichiarato di volersi dissociare dalla Convenzione, adducendo motivazioni anacronistiche e fortemente misogine e reazionarie. Se nel nostro Paese, almeno a parole, la situazione non è a questi livelli, la realtà dei fatti mostra che nonostante le buone intenzioni e i cambiamenti legislativi e culturali, le relazioni tra uomini e donne in alcuni contesti sono ancora pesantemente caratterizzate da discriminazioni, disuguaglianze e violenze.

Considerando gli ultimi dati sui femminicidi in Italia (femminicidioitalia.info), si conferma l’andamento cronico di tale fenomeno nel nostro Paese che, non dimentichiamolo mai, rappresenta solo la parte più evidente e inconfutabile di una violenza sistemica e strutturale contro le donne che è diffusa in tutto il mondo. Si confermano inoltre delle costanti che dovrebbero fornire indicazioni per una reale e non rimandabile azione politica, giuridica, sociale, di contrasto alla violenza, particolarmente per la prevenzione.
Dall’inizio dell’anno in Italia ci sono stati almeno 15 femminicidi. Tra questi vengono conteggiati due fatti ancora più terribili, se si può, che…

*-*

Gli autori: Irene Calesini è psichiatra, psicologa clinica e psicoterapeuta. Si occupa da anni di vittime di violenza domestica. Viviana Censi è psichiatra e psicoterapeuta, lavora presso una Rems e un centro Dca di una ASL di Roma. Per L’Asino d’oro ed. è coautrice anche di “Abuso di alcol. Quando bere affoga il sentire”. Massimo Ponti è psicologo clinico e psicoterapeuta. Ha lavorato per anni nelle carceri Regina Coeli e Rebibbia di Roma e ha collaborato con le Università Roma Tre e Tor Vergata. Tutti e tre gli autori collaborano con la Scuola di psicoterapia dinamica Bios Psychè


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Il trafficante di esseri umani

File- In this Tuesday, March 5, 2019 file photo, a woman peers out of her window behind a banner of Turkey's President Recep Tayyip Erdogan, following Erdogan speech at a rally of his ruling Justice and Development Party's (AKP) in Istanbul, ahead of local elections scheduled for March 31, 2019. Erdogan has been holding multiple daily rallies across the country, using highly polarising language, portraying the opposition as traitors who are supported by terrorists, blaming ills on foreign forces and stirring up nationalist and religious sentiments. (AP Photo/Lefteris Pitarakis, File)

Il “sofa-gate” come è stato battezzato (la sedia negata a Ursula von der Leyen), ha distolto l’attenzione dalle ragioni dell’incontro fra la presidente della Commissione Ue, accompagnata dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel, col presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. C’è stata una missione che ha portato le autorità Ue prima in Libia e poi in Tunisia per il contrasto all’immigrazione “illegale”. Ankara era l’ultima tappa.

Pochi giorni prima, il 25 marzo, si era riunito il Consiglio europeo chiamato a discutere soprattutto di vaccini. Ma alla fine il solo risultato ottenuto era stata l’approvazione di un accordo per una cooperazione più stretta con Erdoğan, in cambio di un impegno di Ankara a mantener fede all’impegno di risolvere le tensioni, soprattutto con la Grecia, nel Mediterraneo orientale.

Le relazioni con la Turchia, dopo gli accordi del marzo 2016 che hanno garantito 6 miliardi di euro in cambio dell’impegno a non far entrare profughi in Europa, senza sottilizzare sui mezzi utilizzati, hanno avuto momenti di forte criticità. Nell’ottobre 2019 l’invasione nel Nord est della Siria, dei cantoni sotto controllo curdo del Rojava e il tentativo di realizzare in quella fascia occupata una “sostituzione etnica”, cacciando i curdi per far posto a profughi siriani provenienti da aree diverse del Paese, avevano creato tensioni.

Non solo per il ruolo svolto dai curdi nella sconfitta dell’Isis – la gratitudine non attiene alla geopolitica – quanto perché si rischiava di far saltare il traballante equilibrio nella regione. Gli attacchi turchi in Iraq avevano amplificato il fastidio verso le mire espansionistiche di Erdoğan. Ad inizio del 2020 poi, la crisi in Libia raggiungeva il suo apice. Mentre l’Ue si cimentava in fallimentari conferenze di pace, la Turchia scendeva in campo a sostegno di al-Sarraj, premier di un governo riconosciuto a livello internazionale, portando armi e miliziani siriani comandati da ufficiali turchi.

Verso la Turchia non sono scattate sanzioni, sia per la “minaccia dei profughi” sia perché erano cessate le esplorazioni delle navi turche alla ricerca di giacimenti di gas naturale nelle acque di Grecia e Cipro. Erdoğan aveva aperto i colloqui con Atene in materia di zone economiche esclusive per lo sfruttamento marittimo.

Il quadro è cambiato fra febbraio e marzo. Il giuramento del nuovo governo libico, di unità nazionale, impone l’uscita di scena di forze militari straniere, in primis quelle turche e russe, dal Paese. Si apre una fase di mediazione in cui Erdoğan ha il coltello dalla parte del manico e ne ha immediatamente profittato per…


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Privilegi della Chiesa, rifiutare e denunciare è un dovere civico

«Poche ore fa ho perso mio padre di 86 anni a causa del Covid. Era entrato in ospedale per una lastra ai polmoni ma subito è emersa la sua positività al virus. Venti giorni di ricovero verso il baratro, senza poterlo vedere o stringergli la mano nei momenti difficili del trapasso. Ed è giusto che sia così, non contesto nulla di ciò.

Mio padre però, oltre ad avere una sordità importante era affetto da una maculopatia che gli aveva ridotto la vista quasi a zero. Quindi poche telefonate opache e nessuna videochiamata possibile. Solo il dolore di un distacco disumano. Con questo carico emotivo e dopo lo sconquasso della sua morte, ho appreso che non sarebbe stato possibile rivederlo nemmeno da morto e che l’eventuale funerale si sarebbe svolto a feretro chiuso. Chi è cattolico può utilizzare normalmente le chiese.

E anche qui capisco benissimo. Quello che non accetto, però, è che chi come me è ateo e vorrebbe poter utilizzare uno spazio laico adeguato ad un breve rito funebre, in questo momento, a causa delle giuste restrizioni, quello spazio non lo trova (e se anche lo trovasse il limite massimo dei partecipanti sarebbe di 15 persone) mentre chi è cattolico può utilizzare normalmente le chiese, con il solo limite del distanziamento e della capienza dell’edificio (mediamente ben oltre le 15 persone).

Di più. In un recente protocollo di intesa tra il governo e la Conferenza episcopale italiana si dà conferma che l’autorità civile (intesa come il Sindaco) non può intromettersi nella disciplina di culto della Chiesa. Dal maggio scorso, inoltre, uno specifico decreto-legge limita il potere dei sindaci e precisa che, in ogni caso, la regolamentazione delle celebrazioni religiose non è di competenza dei primi cittadini. Peccato però che si stiano moltiplicando i casi di contagio occorsi proprio in occasioni di funerali cattolici. Questo contesto di inaccettabile privilegio si somma alla totale mancanza di spazi pubblici laici in cui poter svolgere una semplice cerimonia di commiato funebre.

Penso che questa discriminazione non abbia nulla a che vedere con il concetto di civiltà evoluta e trovo che questa disuguaglianza meriterebbe il giudizio della Corte dei diritti dell’uomo. Non ho paura a dire che trovo il mondo delle religioni una gravissima aberrazione della ragione umana e in particolare non sopporto la feroce prepotenza millenaria del mondo cattolico. Provo il massimo del disgusto e della rabbia per questa ennesima ghettizzazione di chi cattolico non è. Non si può differenziare il dolore. E mi fermo qui».

Lascia senza fiato il dolore di Massimo Neri autore di questa lettera pubblicata nei giorni scorsi dalla Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Lascia senza fiato e indigna.

Per mesi milioni di studenti non hanno potuto frequentare la scuola, per mesi milioni di bambini non hanno potuto allenarsi al loro sport preferito o giocare con i coetanei all’aria aperta, da mesi le misure di contenimento del virus impongono che teatri, cinema, musei restino chiusi e diligentemente e dolorosamente vengono rispettate. Ma le chiese no, per i luoghi di culto cattolici lockdown e zone rosse non valgono. E solo per loro. Così si creano situazioni odiose come…


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Facciamo silenzio

Cello Music instruments on a stage

E se ci silenziassimo tutti? Immaginate il mondo per una giornata o una settimana, senza musica, senza cinema, senza teatro, senza mostre, senza danza, senza poesia. Completamente spenti. Non funzionanti Spotify, Netflix, Youtube, tv e radio muti, solamente dibattiti e talk show… Come sarebbe? Forse ci si renderebbe conto del silenzio assordante che questo provoca nella nostra quotidianità e capiremmo che peso e che importanza ha la cultura nella nostra vita e forse anche noi riusciremmo ad uscire dall’invisibilità.

È passato un anno, e insieme alle giuste e indiscusse esigenze di sanità e sicurezza serpeggia ancora un pensiero alterato, falso, su un settore che oltre ad essere stato danneggiato da un arresto delle attività, è stato svilito e messo in ginocchio dall’indifferenza, dalla superficialità e da una mentalità miope che ha fatto più danni dello stesso fermo economico e lavorativo. Ha tolto speranze, sfiancato, depotenziato, indebolito una delle colonne portanti di qualsiasi società cosiddetta civile, e cioè il mondo artistico-culturale. Qualcuno potrebbe interpretare questa azione come una negazione o ancor peggio un annullamento. Lascio agli esperti la valutazione. Io da artista, musicista, dopo un anno di resistenza, mi trovo a interrogarmi insieme a tante altre persone su cosa ne sarà di noi… perché, per fortuna, è ormai certo che con la vaccinazione ne usciremo e speriamo accada presto, certamente riprenderemo questa estate a fare piccole cose, ma quale sarà lo scenario su cui ci affacceremo finita la pandemia? Quali saranno le opportunità che verranno offerte? Quale spazio verrà dato ai progetti alternativi, non legati alla logica dell’evento?

In tutto questo anno abbiamo lavorato ai tavoli per elaborare delle proposte su tutele, indennità e su quello che è il riconoscimento del nostro essere lavoratori. Ma qui vorrei evidenziare un…


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I fratelli Grim e il meraviglioso salvataggio di Luis Sepúlveda a Guantánamo

Lettera nr. 16

Prof. Dr. Segismundo Ramiro von Klatsch
Tortitas, Patagonia

Egregio e ammirato professore: devo confessarle con rammarico che ultimamente sono stato un po’ seccato con Lei per non avermi invitato a condividere il suo spericolato viaggio a Baghdad.

Questa scomoda situazione sarebbe stata evitata se avesse convinto il suo amico Luis Sepúlveda a non andare in Iraq per presentare il suo libro Storia di una balena bianca, recentemente tradotto in arabo mesopotamico. È insolito che, prima di accettare l’invito a presentare l’opera nel principale seminterrato culturale di Baghdad, non lo avessero avvertito che i lettori di quella nazione non hanno mai visto una balena bianca, nemmeno in una delle stravaganti fotografie che Daniel Mordzinski pubblica spesso negli opuscoli su Animal Planet. Solo alcuni scienziati di quel mondo arido si vantano di aver trovato nella valle del Caucaso i resti ossei di un cetaceus rex, una balena del tardo Pleistocene, forse trascinata dal Mar Baltico da qualche mammut appesantito dall’irritante solitudine del tempo.

Per aggiungere la beffa al danno, egregio maestro, la presentazione del libro è stato un completo fallimento. Mi dica chi, con un po’ di buon senso, non avrebbe potuto sospettare che Ali Hussain Shaabaan e Jihad Ahmad Diyab, gli intellettuali siriani che hanno accompagnato l’autore cileno nella presentazione del libro, fossero sotto stretta sorveglianza dei servizi segreti yankee-iracheni, agli ordini dell’ossessivo colonnello Mohamed el-Zalame, pronto a rapirli di sorpresa. E come previsto, così è successo. Un commando d’élite iracheno entrò, scalciando spietatamente a destra e sinistra i cuscini fioriti del seminterrato pieni di avidi lettori, e tutto senza dire una parola, nemmeno quelle che sono riservate ai detenuti neri di Birmingham. Dopo aver urlato «lasciate i libri e mettete le mani dietro il collo dove possiamo vederle!» li incappucciarono tutti e tre – Shaabaan, Diyab e Sepúlveda – e li caricarono a spintoni su un furgone blindato con destinazione aeroporto di Baghdad. E senza poter cenare, farsi un bagno e radersi li imbarcarono su un Hercules 130 che li ha portati direttamente alla prigione di Guantanamo, nella lontana isola di Cuba.

Nella lettera n. 17, che mi ha portato il postino Miguel Strogonof dalla Patagonia, Lei caro professore, trascrive la conversazione premonitrice che ha avuto con Don Luis al Babylon Hotel di Baghdad. Appoggiati tra le macerie del bar mentre bevevano un spiritoso tè verde, il maestro gli avrebbe detto con quella voce rauca e grintosa che lo caratterizza: «Professore von Klatsch, se a causa di quei giochi del destino, mi accadesse qualcosa di imprevisto a Baghdad, provi a mettersi in contatto con i fratelli Grim e dica loro che la password in questa questione sarà Guantanamera. Solo quello. Loro capiranno e sapranno cosa fare».

Cercando di rispondere alla sua richiesta, illustre professore, ho girato il nord argentino alla ricerca dei gemelli Grim, finché li trovai al Festival de Payadores Postmodernos, organizzato ogni anno dal nostro collega e amico Güendolyn Giardinelli nell’Arena Resistencia Park del Chaco. In un incontro segreto nei camerini della tenda, parlai con Caino e Abele  Grim della missione quasi impossibile che avremmo dovuto affrontare, con il rischio persino di perdere la vita: trarre in salvo da una losca prigione dei Caraibi «al Lucho», come loro chiamano il progenitore delle loro vite: condannato all’ergastolo per aver introdotto in Iraq materiale anti nordamericano, camuffato da letteratura per bambini. Dopo aver pianto urlando, come fanno di solito i gemelli disperati quando gli tolgono il ciuccio, i Grim già più calmi dissero all’unisono: «Sì, professore, è nostro dovere». E senza ulteriori indugi, si misero a pianificare il salvataggio che è stato, caro professore, di un’audacia insolita. Il veicolo che li avrebbe dovuto portare alla loro destinazione segreta era una mongolfiera progettata da Caino Grim con il prezioso aiuto di Güendolyn Giardinelli, che, come Voi e io sappiamo, è il discendente ed erede di Jacques Montgolfier, l’inventore di questi dirigibili gonfiati con fumo da legna di bosco, cioè con elio. In un discreto spazio aperto alla periferia di Resistencia, attrezzarono la cesta della mongolfiera con dei letti, sedie di canna in stile Bauhaus con cinture di sicurezza, un angolo cottura con una griglia per fare hamburger alla brace e un armadio per gli strumenti musicali, cannocchiali ad alta definizione e il diario di bordo per registrare le ultime prodezze dei fratelli Grim. E niente di più. Non restava che abbellire la mongolfiera, che fu battezzata Arcobaleno, mentre la dipingevano con i colori allegri della diversità. Prima di alzarsi e partire sotto il cielo stellato all’alba, i gemelli Grim acquisirono familiarità con la bussola aerea che permise loro di volare senza particolare paura sull’Atlantico, mentre bevevano mate e canticchiavano tanghi ottimistici, alternandoli con la malinconica samba della Pampa. A metà strada, già nell’immensità dell’Amazzonia, splendidamente verde e quasi sempre in fiamme, si verificò un notevole gesto di fratellanza, che hanno registrato nel diario di bordo. È successo quando avvistarono un villaggio di indiani Guanabara che celebravano il quindicesimo compleanno della figlia minore del capo, e Abele, per ravvivare i festeggiamenti, ha avuto la felice idea di far cadere una delle dieci bottiglie di vino Yauquen Chardonnay de Mendoza che portavano nel cesto. Un gesto che i guanabara ringraziarono con un frastuono sfrenato, agitando mani, lance e cerbottane con dardi velenosi per dare la caccia ai bolsonari, detestabili predatori che, dai tempi di Álvarez Cabral, hanno reso la vita impossibile all’Amazzonia indigena. I guanabara placarono le infinite manifestazioni di affetto solo quando il palloncino multicolore passò su di loro e uscì dalla vista in direzione delle Guyana.

Egregio Prof. Von Klatsch: quattro giorni dopo l’Arcobaleno entrò nello spazio aereo che avrebbe dovuto essere cubano e che fino ad ora non ha alcuna intenzione di esserlo.

Un centinaio di metri più in basso, davanti agli occhi attoniti dei fratelli Grim, c’era la terrificante prigione di Guantánamo che ospita centinaia di ostaggi dall’Asia occidentale. Tra loro, gli intellettuali siriani che hanno presentato la Storia di una balena bianca nel seminterrato culturale di Baghdad e anche lo stesso autore cileno del famoso libro.

Davanti allo sguardo inquietante dei centoquarantotto marines che facevano la guardia alle torri di vigilanza, l’Arcobaleno iniziò a scendere lentamente fino a rimanere statico a un metro dal pavimento della prigione. Venti minuti che a Caino e Abele parsero eterni, se non fosse stato per l’apparizione inaspettata della massima autorità di Guantánamo. Era il comandante Anthony Benny Colgate in tenuta di fatica, determinato a sbarrare la strada al prigioniero trecento trentatré, che, seguito dai due siriani di Baghdad, cercava di avvicinarsi all’Arcobaleno che fluttuava spudoratamente in mezzo al cortile.

Il prigioniero trecento trentatré fissò senza pietà il suo sguardo ipnotico di fuoco mapuche, negli occhi pieni di malizia dall’Afghaniswtan del comandante Colgate, finché non riuscì ad ammorbidirlo e trasformarlo in un impotente e triste killer sentimentale.

In un impeto di ragionamento malinconico, con le lacrime agli occhi, quel biondo intenso, padre di tre bambine da madre cherokee, che attendevano la sua pensione in un pacifico allevamento di maiali dell’Arkansas, gli chiese con il tono triste di chi ha perso troppe guerre: «Che ne sarà di noi domani, Mr. Sepúlveda?». Come se avessero mantenuto una fiduciosa amicizia attraverso le sbarre della cella, il prigioniero trecento trentatré, che non era altro che l’autore della Storia di una balena bianca, rispose con tremula fermezza: «Me lo chiede, comandante? È ora che voi vi arrangiate come potete. Ma le anticipo che, da me, non avrete nessuna collaborazione».

Senza perdere altro tempo, “Mr. Sepúlveda” seguito dai suoi due compagni di sventura, saltarono dentro la canasta con sorprendente agilità.

Nel vasto cortile circondato da filo spinato elettrificato, si sentiva a malapena il ronzio dell’autopilota che teneva in posizione stabile l’Arcobaleno. Fu allora, già con i fuggiaschi in salvo, che Caino abbracciò la sua ribelle chitarra spagnola e Abele il suo affettuoso charango di Jujuy, per darsi a suonare quella versione libera per i payadores di Guantanamera che cominciò a essere canticchiata dalle guardie armate dalle torri di sorveglianza. Cucinati a fuoco lento dal sole dei Caraibi, i Marines battevano le mani con entusiasmo, ma era chiaro che non capivano un accidente del testo improvvisato dai Grim nella cesta della mongolfiera, pronta a decollare.

(Le guardie in coro) Guantanamera/ Guajira Guantanamera/ Guantanameeera, guajira guantanamera

(Caino) Siamo gemelli sinceri/ che non perseguono la fama/ E prima di morire, vogliamo liberare i fratelli dell’anima (le guardie in coro) Guantanamera/ guajira guantanamera (Abele) Partiamo oggi per sempre/con i fratelli dell’anima/ lo faremo con molta calma/ e non meno dissimulazione… (Caino) …perché se non lo facciamo/ quegli yankees figli di joputa/ ci romperanno il culo (le guardie in coro) Guantanamera/ guajira tralalá tralalá/ tralaláaaaa.

Sepúlveda interruppe gli abbracci e senza perdere la compostezza pronunciò il memorabile ordine del suo amico Vittorio Gassman: «E ora, ragazzi, resta solo una degna uscita: Scappiamo!».

Sulla via del ritorno, caro professore von Klatsch, senza che nessun caccia McDonnell Douglas F-15 Eagle disturbasse il pacifico girovagare del palloncino multicolore, per il capriccio insistente del Maestro Sepúlveda, l’Arcobaleno discese su El Idilio, un remoto villaggio dell’Amazzonia Ecuadoriana dove vivono gli indiani Shuar, per stringere in un abbraccio il caro amico Antonio José Bolívar Proaño, padre delle bellissime fanciulle gemelle Lameré e Yopatí Proaño. Come è noto attraverso una delle storie del suo amico, Antonio José ha sposato Mamaré, una donna Shuar che non sapeva baciare, quindi prima di andare a dormire, combatteva l’insonnia della vecchiaia leggendo romanzi d’amore a lieto fine.

Quando vide saltare a terra al maestro che lo aveva reso celebre in sessanta lingue, Antonio José non trovò parole per esprimere la sua gratitudine per l’invio che gli aveva fatto da Gijón, un pacco che ha percorso in canoa l’intero Rio delle Amazzone con delle opere complete di Corín Tellado. Nel frattempo, affascinati dalle gemelle Proaño, gli intellettuali siriani cominciarono a dubitare tra seguire quel pericoloso viaggio verso il nulla o restare a vivere in quel villaggio dove nessuno sapeva nulla di guerre fratricide né di inquinamenti notturni. «Io da qui non mi muovo», dicono che avrebbe detto Ali Hussain Shaabaan mentre la formosa Yopatí Proaño gli mordicchiava l’unico orecchio che li avevano perdonato a Guantánamo. Da parte sua, Jihad Ahmad Diyab abbracciò con calore amazzonico la gemella rimasta e in una lingua che comprese solo suo fratello, disse: «Neanche io». E mettendo da parte i ricordi polverosi delle macerie siriane, Ali e Jihad salutarono tra abbracci e piagnucolii l’equipaggio dell’Arcobaleno rimanendo per sempre al El Idilio, dove vivono felicemente educando sei bambini Shuar e fabbricando bombe all’uranio migliorato al vapore per fare saltare in aria le segherie clandestine dell’Amazzonia ecuadoriana.

Cosa vuole che le dica, ammirato professore von Klatsch? Sento che abbiamo più che adempiuto al salvataggio del suo amico Sepúlveda. Sia Caino che Abele Grim dimostrarono di avere delle palle come le uova di struzzo africano, con la dimostrazione di coraggio e solidarietà messi in evidenza durante il viaggio. E continuarono a farlo, perché dopo essersi liberati degli scomodi siriani, i fratelli Grim rifornirono l’Arcobaleno di mandioca, pane del villaggio fatto in casa, peperoncini piccanti e mezzo cinghiale disossato, che “el Lucho” Sepúlveda avrebbe trasformato durante il viaggio in hamburger amazzonici alla brace. Per fortuna nel cesto c’era ancora abbastanza vino di Mendoza per coprire la traversata dell’Atlantico. Da quanto ho potuto dedurre, affettuoso Professore, l’Arcobaleno sarebbe entrato in Europa attraverso lo spazio aereo del Portogallo, sorvolando la riserva di caccia dell’Infanta Manoela Ribeirao do Varzim e Minas Gerais, potendo da lì entrare sani e salvi nella madrepatria del prosciutto iberico. Quale non sarebbe stata la sorpresa dell’equipaggio dell’Arcobaleno, stimato professore, quando già in cielo spagnolo e costeggiando il Mar Cantabrico, trovarono migliaia di asturiani che guardavano passare a bocca aperta il palloncino colorato dei fratelli Grim. Fu mentre sorvolava la periferia di Gijón quando, senza staccarsi dal potente cannocchiale, che “el Lucho” fece un balzo pericoloso che li scosse come una foglia nella tempesta e gridò come un pirata cileno: «Per le corna di Belzebú Aznar! Guardate ragazzi, quella che vedete laggiù è Pelusa, mia moglie!». Infatti, mille metri più in basso, tra il possente fiume Piles e la spiaggia nudista di San Lorenzo, se facevi attenzione, poteva vedersi la mitica Pelusa Yáñez Pinzón, l’autrice del tango Senza Ritorno, che innaffiava le orchidee e i margaritoni del giardino mentre salutava con entrambe le mani. «Ce ne andiamo, amore mio! Ma torneremo e saremo migliaia!» gridò “El Lucho” con tutte le sue forze, soprattutto nella speranza che lei lo ascoltasse e, se fosse possibile, gli credesse. Con l’intenzione di dare un’atmosfera più consona a questa storia, i fratelli Grim iniziarono a suonare una versione estesa per grancassa e charango di El Condor Pasa, che accompagnò l’Arcobaleno fino alla fine del suo prodigioso viaggio verso il nord d’Italia, sebbene sospetto, meritevole Professore von Klatsch, che questi vagabondi incalliti si fossero persi di vista ben oltre la frontiera scomparsa.

Con la convinzione che morire sia restare un po’

l’abbraccio per sempre

Prof. Orson Castellanos

*Traduzione di Gabriela Pereyra*


Il racconto prosegue su Left del 16-22 aprile 2021

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