Foto Roberto Monaldo / LaPresse
07-06-2020 Roma
Cronaca
Black Lives Matter - Manifestazione in memoria di George Floyd e contro il razzismo
Nella foto Un momento della manifestazione a p.zza del Popolo
Photo Roberto Monaldo / LaPresse
07-06-2020 Rome (Italy)
Black Lives Matter - Demonstration in memory of George Floyd and against the racism
In the pic A moment of the demonstration
Otto minuti e 46 secondi. Tanto è durato il placcaggio, con compressione del torace e del collo, di George Floyd. Otto minuti e 46 secondi che hanno portato l’abuso di polizia sui cittadini di pelle nera negli Stati Uniti alla ribalta mediatica e politica internazionale. È un filmato doloroso e scioccante, ma non sorprendente. Gli archivi sono pieni di casi simili a quello di George. E non accade solo negli Stati Uniti.
Pochi mesi fa in Francia alcuni passanti hanno girato dei filmati simili a quello di Minneapolis: Cédric Chouviat, un fattorino fermato per un controllo, dopo un diverbio con un gruppo di agenti è stato messo faccia a terra e ammanettato; nei video si vedono le gambe di Cédric che si dimenano a lungo, poi sempre meno, fino a fermarsi. Aveva 42 anni.
In Francia l’abuso di polizia, specie sulle minoranze, è un rilevante tema di discussione mediatica e politica. L’anno scorso il film Les misérables di Ladj Ly è stato fra i più visti e apprezzati della stagione: ambientato in una banlieue, tratta proprio questo argomento; un ragazzo viene colpito e ferito gravemente da un agente, la pattuglia cerca di occultare il fatto e nascondere le prove, segue una violenta rivolta dei giovani del quartiere. Il film è stato da poco diffuso in Italia e merita d’essere visto, specie in un Paese come il nostro, poco abituato a discutere in pubblico su questi temi e con imbarazzanti trascorsi in materia. La condizione dei neri negli Stati Uniti e anche le tensioni delle banlieue francesi non sono comparabili con quanto succede nelle nostre città, ma certe modalità d’arresto…
Lorenzo Guadagnucci fa parte del Comitato verità e giustizia per Genova
TOPSHOT - A Palestinian man walks past a graffiti of George Floyd, an unarmed black man who died after a white policeman knelt on his neck during an arrest in the US, painted on a section of Israel's controversial separation barrier in the city of Bethlehem in the occupied West Bank on June 7, 2020. (Photo by Musa Al SHAER / AFP) (Photo by MUSA AL SHAER/AFP via Getty Images)
Come ogni giorno degli ultimi sei anni, anche sabato 30 maggio il 32enne Eyad al-Halak aveva lasciato casa alle 6 del mattino per recarsi alla scuola per disabili al-Bakriyyah, nella città vecchia di Gerusalemme. Eyad, affetto da autismo, era solo: in mano aveva un sacchetto di immondizia che avrebbe gettato come faceva ogni mattina prima di recarsi al centro. Tutto, insomma, seguiva la sua routine, la sua “normalità”, qualora sia “normale” l’occupazione da parte israeliana della parte orientale palestinese di Gerusalemme. Ma quel giorno Eyad al suo centro non è mai arrivato: i poliziotti israeliani che lo hanno visto hanno pensato che fosse armato e che fosse sul punto di estrarre un’arma e perciò gli hanno sparato alle gambe (prima) e poi l’hanno finito dopo un inseguimento. Poco importa che la sua consulente gridasse loro che il giovane fosse disabile e che il ragazzo stesso, a terra inerte con la gamba sanguinante, fosse incapace di muoversi e non avesse alcuna arma con sé.
I poliziotti non hanno mai pensato di arrestarlo o di verificare se i loro timori fossero fondati. Eyad, dopo tutto, era palestinese ed è stato trattato come tanti suoi connazionali uccisi per un «sospetto».
Le organizzazioni internazionali chiamano questa pratica israeliana “Sparare per uccidere”: anche se il palestinese (presunto o vero attentatore che sia) non rappresenta una minaccia, la prima reazione delle autorità di Tel Aviv è sparargli contro. I numeri dell’organizzazione israeliana B’Tselem sono emblematici: la politica d’Israele del “grilletto facile” ha ucciso nel solo 2019 133 palestinesi (28 minorenni). E se è così praticata, è perché i rischi penali sono nulli: quasi mai viene aperta un’inchiesta che si conclude con una condanna qualora a commettere l’omicidio o le violenze siano soldati o coloni. E pure quando c’è la pena, la punizione è molto blanda: il soldato Azaria che uccise a sangue freddo Abdel Fattah al-Sharif, ormai inerte a terra perché gravemente ferito dopo aver accoltellato un militare, ha scontato solo 9 mesi di carcere…
Salvatore Gurreri morì nella notte fra il 12 e 13 giugno del 1992 a Marina di Melilli in provincia di Siracusa. Fu ritrovato dentro il bagagliaio di una vecchia Alfa Romeo, nel pomeriggio del 14 giugno, con un colpo in testa, mani e piedi legate, “incaprettato”, un’esecuzione che portava con sé l’inconfondibile firma della mafia. Fino alla fine dei suoi giorni Gurreri, uno dei primi eroi – forse suo malgrado – della resistenza civile legata alle lotte ambientaliste nel nostro Paese, non chinò mai il capo davanti alla manifesta prevaricazione e prepotenza espansionista industriali che con il benestare di una politica miope (o peggio) nei primi anni 70, avevano voluto far sorgere, proprio di fronte a Marina di Melilli, un polo petrolchimico di rilevanza nazionale. Era questo l’ennesimo passo di un’industrializzazione massiccia dell’area iniziata nel 1949 ad Augusta, sempre in provincia di Siracusa. Fino agli anni 70 Marina di Melilli, Funnucu Novu in dialetto, è rimasto uno dei posti più poetici e romantici di una terra, la Sicilia, già molto bella di suo. Spiagge bianche, mare cristallino, era soprannominata per la sua bellezza incomparabile “la Baia degli Dei”. Non aveva praticamente strutture turistiche ed era proprio questa purezza a renderla ancora più attraente per coloro che decidevano di trascorrervi un periodo di vacanza o per quelli che ci vivevano. Fra chi decise di investire su quel piccolo paradiso naturale c’era proprio Gurreri, grande lavoratore originario di Vizzini, un paese vicino Catania, già ex amministratore unico di una ditta fabbricatrice di forni, essiccatoi e macchine per pastifici, attaccato alla sua terra come un personaggio di un romanzo di Verga. Insieme alla moglie Ercolina Mori, detta Nila, comprò un piccolo appartamento vicino al mare, in via Padova 3, un luogo che sarebbe diventato di lì a poco il simbolo della sua lotta per la difesa dei diritti propri e di quel territorio.
Lo splendore di Marina di Melilli si dissolse del tutto nel 1975 con l’entrata in funzione della raffineria Isab, complesso petrolchimico per la produzione di combustibile a basso tenore di zolfo, sorto proprio di fronte al paese e alla spiaggia di Fondaco. L’azzurro e la trasparenza del mare lasciarono in poco tempo il posto ai liquami dei solventi chimici, l’aria malsana e l’inquinamento ambientale fecero il resto, spingendo i quasi mille abitanti del paesino verso insediamenti nei dintorni. Fu una vera e propria deportazione di massa e più nulla impedì che il territorio subisse un radicale cambiamento, trasformandosi da tranquillo paese di pescatori e operai, con panificio, macelleria, alimentari, bar, telefono pubblico, tabaccaio, elettricista, scuola elementare e chiesa, in un polo industriale a tutti gli effetti. Agli “esodati” furono offerti soldi, indennizzi, case in altri paesi delle vicinanze: Priolo, Floridia, Melilli. Alcune famiglie in principio si opposero, ma poi cedettero sotto il peso delle minacce e delle angherie (a coloro che erano rimasti per un periodo furono persino staccate acqua e corrente elettrica). Restarono in pochi a combattere contro quella operazione, non a caso denominata “Tabula Rasa”. Alla fine se ne andarono tutti, tutti meno Salvatore Gurreri, il granello che rischiava di bloccare l’intero ingranaggio. Quando Marina di Melilli era ormai praticamente rasa al suolo, in un’intervista degli anni Settanta molto “on the road” rilasciata a Pippo Fava il fondatore della rivista I Siciliani – assassinato dalla mafia nel 1984 – Gurreri diffidente e un pò scontroso affermò contro ogni evidenza che lì, a casa sua, a Marina di Melilli, non c’era inquinamento ambientale, nessun cattivo odore e che non c’era alcun inquinamento delle acque. Era il suo modo di dire a tutti che per lui non c’era alcun motivo al mondo di andarsene e lasciare la sua casa sul mare. Insomma, sarebbe rimasto lì, Davide contro Golia. Non voleva né industrie né soldi, tantomeno voleva rinunciare alla sua casa e al suo mare.
Ed é lì che, come racconta la giornalista Roselina Salemi nel suo romanzo Il nome di Marina, «arriva un mafioso di Altofonte a convincerlo che non è il caso di discutere e che lui farà, come nei film, un’offerta difficile da rifiutare. L’offerta è questa: amico mio, vedo che hai una casetta simpatica, una bella moglie – complimenti – un cane, tre bambini piccoli e una gabbia con i pappagalli, allora ti vorrei ricordare che tutte queste cose e persone sono disgraziatamente combustibili». Gurreri lo denunciò. Negli anni seguiranno altre denunce e poi lettere e telegrammi al presidente della Repubblica, a ministri, per essere ascoltato. Invano. Nel frattempo, ci si rese conto di come Marina di Melilli fosse stata sacrificata nel nome del progresso. All’iniziale benessere economico portato dall’industria, si aggiunsero successivamente tante malattie, con una percentuale troppo alta rispetto alla media nazionale di deceduti per cancro e leucemie e di bambini nati malformati. Salvatore, vittima di mafia troppo poco ricordata, ha combattuto fino al giugno del 1992, giorno in cui venne assassinato.
Un omicidio per il quale dopo qualche anno è stato condannato a 25 anni di carcere – non per mafia, ma per una rapina finita malamente – un giovane priolese precedentemente scomparso, forse vittima della lupara bianca. Una sentenza che probabilmente evitò il carcere ai veri esecutori del delitto. A Gurreri e alla sua incredibile storia è dedicato il bel murales realizzato a Marina di Melilli lo scorso settembre dagli attivisti del Movimento per il lavoro, la sicurezza e le bonifiche e da Siracusa Ribelle, sul prospetto di quella che fu la sua abitazione. C’è lui dipinto in camicia scura e bretelle azzurre e in primo piano la scritta: “Resterò qui fino all’ultimo”. Grazie anche al murale in un certo senso ci è riuscito.
Palestinians run away from tear gas fired by Israeli soldiers during a protest against Israel's plan to annex parts of the West Bank and Trump's mideast initiative ,in the West Bank village of Qusin near Nablus Friday, Jun. 5, 2020.(AP Photo/Majdi Mohammed)
Alla vigilia del percorso legale per l’annessione di parti della Cisgiordania a Israele fissato al 1° luglio, e sostenuta dall’“affare del secolo” di Trump (sulla Valle del Giordano v. Chiara Cruciati su Left del 5 giugno), la contemporaneità, casuale, tra proclami di annessione, l’assassinio da parte della polizia negli Stati Uniti di un nero, George Floyd, e quello di un giovane palestinese disabile, Eyad al Hallaq a Gerusalemme, per mano della polizia israeliana (v. Roberto Prinzi su Left del 12 giugno), è stata l’occasione che sembra aver rimesso in movimento anche il panorama sociale e politico israeliano.
Una prova è la grande manifestazione, a Tel Aviv, con cartelli raffiguranti le due vittime della violenza razzista, e slogans mai sentiti in piazza Rabin, come Palestinian lives matter e bandiere palestinesi al vento, tanto da far dire alla destra che Rabin se ne sarebbe vergognato. Anche se buona parte di quella piazza era costituita da palestinesi di Israele, la presenza israeliana era significativa.
Poi è successo che la Corte suprema di Israele, ha sentenziato la cancellazione della legge del 2017 sulla legalizzazione di insediamenti israeliani in quanto, ha dichiarato il giudice che la presiede, Esther Hayut, «viola in modo ineguale i diritti di proprietà dei residenti palestinesi, privilegiando gli interessi proprietari dei coloni israeliani»(Rami Ayyub, Reuters, 9 giugno).
Si tratta di una decisione con valore simbolico, data l’esiguità del numero di coloni interessati (4mila su circa 600mila). Ma i simboli parlano: in questo caso mostrano la preoccupazione israeliana, forse dovuta anche alle dichiarazioni di vari Stati contrarie all’annessione. La più recente quella della Germania, alleata di ferro di Israele, durante il recente incontro del suo ministro degli esteri con l’omologo israeliano. Solo chiacchiere, come scrive l’israeliano Gideon Levy, e come sostengono molti tra i palestinesi? Su Electronicintifada (7 giugno), notiziario indipendente online sulla Palestina diretto da Ali Abunimah, Omar Karmi scrive «… molti Paesi, politici e attori internazionali hanno protestato formalmente. La Gran Bretagna “non sosterrà” l’annessione, e Francia, Belgio, Lussemburgo e Irlanda hanno preso in considerazione come risposta provvedimenti economici punitivi. Joe Biden, presumibile candidato del partito Democratico alla presidenza Usa, intende far pressioni su Israele affinché non adotti alcuna misura «che renda la soluzione a due stati impossibile».
La Giordania ha protestato a gran voce e anche i Paesi del Golfo hanno lanciato l’allarme. Secondo il ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti Anwar Gargash, l’annessione rappresenterebbe «un grave passo indietro per il processo di pace». L’Arabia Saudita ha fatto dichiarazioni simili. Il coordinatore delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente Nickolay Mladenov ha esortato Israele ad «abbandonare le minacce di annessione», che, ha avvertito, se andassero in porto rappresenterebbero una grave violazione del diritto internazionale. La Cina si è dichiarata «profondamente preoccupata», la Russia ha espresso molte obiezioni, e persino il Vaticano ha lanciato un monito contro l’annessione. In Italia 70 parlamentari Pd e 5 stelle hanno scritto al presidente del Consiglio chiedendo di condannare l’annessione e di agire concretamente per evitarla. Ma è noto che Paesi alleati di Israele come l’Ungheria e la Repubblica Ceca potrebbero anche bloccare le discussioni preparatorie sulle sanzioni, risparmiando alla Germania – che afferma di sostenere il diritto internazionale – qualsiasi imbarazzo.
I palestinesi se la dovranno cavare da soli? O forse una mano può venire dall’interno di Israele? La sinistra israeliana, ridotta ai minimi termini – nelle ultime elezioni Meretz e Labor hanno messo insieme solo 7 seggi – sembra muoversi. Non si tratta solo della manifestazione a Tel Aviv. Stando a quanto riferisce l’israeliano Meron Rapoport (+ 972 magazine, 9 giugno) al posto della vecchia sinistra sionista, una nuova sinistra sta crescendo, più vicina ai politici palestinesi come Ayman Odeh, Aida Touma-Sliman, Mtanes Shehadeh e Heba Yazbak, di quanto non lo siano figure come Rachel Azaria, Amit Segal e Benny Gantz. Del resto la Joint List ha ottenuto con le ultime elezioni ben 15 seggi, e il suo capolista Ayman Odeh, per la prima volta, si è esplicitamente rivolto agli ebrei nella campagna elettorale.
Da Ramallah, sede dell’Autorità Palestinese, sono arrivati diversi pronunciamenti, sia dal presidente dell’AP Mahmoud Abbas, che ha dichiarato ufficialmente la fine degli Accordi di Oslo, che da altri autorevoli dirigenti. Il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat, seguendo un appello di numerose associazioni palestinesi, ha chiesto sanzioni per Israele: «La comunità internazionale può fermare l’annessione, ma solo se applica quelle stesse misure concrete che ha sempre rifiutato di adottare. La fine dell’annessione inizia con l’imposizione di sanzioni nei confronti di un Paese che non ha mai rispettato i suoi obblighi fondamentali in base alle risoluzioni delle Nazioni Unite, agli accordi firmati e ai trattati internazionali» (Haaretz, 5 giugno). Il primo ministro Mohammad Shtayyeh ha dichiarato che verrà proclamato lo Stato Palestinese sui confini pre-guerra del 1967: «Ne chiederemo il riconoscimento internazionale: che il mondo – ha detto – scelga allora tra il diritto internazionale e l’annessione» (Ansamed, 10 giugno).
Anche queste prese di posizione, oltre alla protesta di piazza Rabin, sollecitano qualche novità, come il fatto che la sinistra ebrea israeliana stia abbandonando il termine “occupazione” per descrivere la realtà in Israele -Palestina, e adottando quello di “apartheid”: termine fino ad oggi considerato irrealistico e impronunciabile. Eppure, gli oratori di sabato sera, inclusi Nitzan Horowitz, deputato e capo del Meretz, e Tamar Zandberg, lo hanno usato. Solo la laburista Merav Michaeli non lo ha fatto (il che non meraviglia dato che, vergognosamente, il Labor è entrato nel Governo “dell’annessione”).
Si può dire, come ha rilevato la dirigente palestinese Hanan Ashrawi, che in realtà l’annessione è già de facto avvenuta dal 1967 e che l’annessione proclamata da Netanyahu è de jure. Vero, e tuttavia questo passaggio non preoccupa solo i palestinesi, per le sue conseguenze, anche materiali. La società e la politica israeliana ne sono coinvolte. Infatti, sarebbe impossibile per Israele continuare ad essere considerato uno Stato democratico. Uno Stato in cui i cittadini/e hanno una diversa condizione giuridica – Netanyahu ha già dichiarato infatti che chi risiede nelle aree annesse, non avrà la cittadinanza israeliana – risulta agli occhi del mondo uno Stato di apartheid, anche formalmente.
Nel momento in cui il regime israeliano diventa un regime di apartheid, la fine di quel regime esige un cambiamento sostanziale della sua stessa struttura. Ciò va oltre il ritiro delle truppe israeliane e l’evacuazione degli insediamenti dalla Cisgiordania, sostenuti per anni dalla sinistra sionista.
L’apartheid può essere eliminato solo realizzando l’uguaglianza dei diritti, quindi la fine della supremazia di un gruppo sugli altri. Nel caso di Israele, la fine della supremazia ebraica. È un’opzione che non è mai stata presa in considerazione, ma è il momento di farci i conti. «L’apartheid, d’altra parte, è una chiara ingiustizia morale, anche ai sensi del diritto internazionale, che lo considera un crimine contro l’umanità. Nel momento in cui Israele è considerato un regime di apartheid, non c’è altra scelta morale se non quella di combatterlo», ha affermato Meron Rapoport.
La società israeliana è pronta a questo?
Sono persone che agiscono per sottrazione, che non riescono a immaginare una vita e un mondo in cui si possa aggiungere qualcosa, sono quelli ossessionati dal non essere all’altezza e siccome sono dei nani vedono giganti dappertutto e li chiamano intellettuali o professoroni quando semplicemente usano gli altri come fondotinta per coprire le proprie insicurezze e le proprie brutture.
Gli infelici li riconosci perché impazziscono di fronte alla felicità altrui e fanno di tutto per smontarla, inetti come sono a costruirsi la propria felicità. Sono gli stessi che per reclamare i propri diritti riescono al massimo a volere che vengano tolti diritti anche agli altri, tutto per sottrazione, sempre per sottrazione.
Schivate gli infelici che impazziscono della vostra felicità, statene lontani, non nutrite la loro bile procurandovi inutili preoccupazioni: ci sono persone che non riescono a essere soddisfatte di se stesse completamente senza odiare qualcuno, qualcosa, qualche nazione. Li riconosci perché prendono un particolare, spesso ininfluente, per costruirci sopra un ragionamento utile solo a confermare (in modo fallace) i loro pregiudizi e di solito hanno bisogno di allungarsi la credibilità con qualcosa di lussuoso perché confondono la nobiltà d’animo con il possesso di oggetti.
È un intossicamento continuo che si riflette dappertutto: in politica odiano, nel lavoro malelinguano, nei rapporti sociali invidiano e in società si travestono da signorotti pienotti mentre poi cavalcano un bonus e una cassa integrazione. Sono borghesotti di provincia che hanno il terrore di esplorare anche solo la modifica di una, una solo, delle loro modeste abitudini.
Li riconosci perché cominciano ogni frase con un “ma” che è una roncola contro qualcuno.
Respirate liberi, alti, non convenzionali.
Buon venerdì.
(ps: so che vi aspettavate qualcosa su Montanelli, ma non alimenterò la sua petulante agiografia sprecando un boicottaggio)
Lunedì notte è stata una lunga notte per chi vive a Washington. L’attuale occupante della Casa Bianca ha voluto dimostrare qualcosa. Le proteste erano in corso da giorni in risposta al brutale omicidio di George Floyd, morto dopo essere stato soffocato per 8 minuti e 46 secondi dal ginocchio di un ufficiale di polizia nella città di Minneapolis. Floyd era stato trattenuto con un fragile pretesto, aver provato a fare un acquisto con una banconota da 20 dollari falsa.
Nella calura di questa prima estate, le proteste sono iniziate spontaneamente. E si sono presto surriscaldate. Sono stati incendiati edifici a Minneapolis, cittadina di medie dimensioni vicino alla foce del fiume Mississippi, quella grande via d’acqua che corre attraverso il Paese fino al Golfo del Messico a New Orleans, una sorta di argine ma anche di simbolo della ricchezza naturale e delle forze che sono emanate da questa terra. Le proteste hanno poi preso corpo iniziando a espandersi nel resto del Paese, anche qui a Washington, la capitale della nazione.
È importante ora ripercorrere alcuni fatti di cronaca. Il pomeriggio del primo giugno, dopo essersi nascosto in un bunker mentre la folla si riversava per le strade, l’occupante della Casa Bianca ha deciso di parlare al “popolo americano”. Donald Trump lo ha fatto parlando retoricamente di «sicurezza», in un modo consacrato da tempo, parlando di «legge e ordine», usando una dozzina di altri termini che i bianchi in America hanno sempre usato per parlare di una pace costruita sulla repressione delle persone che hanno un altro colore di pelle. Trump usava uno stile e un immaginario che risalgono ad un altro tempo, quando il continente era diverso. Dopo riferimenti agghiaccianti alle «grandi e belle» forze armate statunitensi, ha attraversato la piazza che porta dalla Casa Bianca fino alla chiesa di St. John. Piuttosto che affrontare i manifestanti pacifici riuniti fuori parlando con loro – come hanno fatto in passato anche altre figure di destra, perfino Richard Nixon – si è fatto aprire un varco dalle forze di sicurezza che sparavano gas lacrimogeni. Trump voleva che i fotografi lo immortalassero mentre attraversava la piazza fino alla chiesa. Una scena che riporta alla mente la figura di Mussolini di fronte a San Giovanni, a Roma, mentre le sue mani piccole e goffe armeggiavano con una Bibbia…
Chi ha un minimo di sensibilità, sobbalza di fronte alle immagini di questi eventi. Eppure Trump le ha immediatamente usate come pubblicità per la sua campagna presidenziale.
Ma torniamo alla cronaca del primo giugno 2020, di sera, quando per noi abitanti della città di Washington è scoppiato il caos. Tutta la notte è stata un’esplosione di sirene, di proiettili sparati per strada – poco lontano da dove abito – di macchine della polizia che sfrecciavano nelle aree residenziali. Ad un certo punto ne ho contate venti, tutte di fila. A poca distanza da me, un cittadino della nostra bella città ha protetto decine di manifestanti mentre le forze di sicurezza, fuori, li minacciavano. Ha offerto loro un riparo. Così sono potuti tornare a casa, senza mandati di arresto.
La storia è più forte quando la leggi in un libro di testo, ma dobbiamo provare a fare storia nell’immediato. Come bianco americano sono in difficoltà nel raccontare quel che succede. In America, molti di noi hanno creduto a lungo che non potesse succedere qui. Ma quelli di noi che vivono quotidianamente credendo che, nonostante i nostri problemi, la democrazia prevalga sempre, si trovano di fronte alla dolorosa evidenza che molti cittadini statunitensi non hanno affatto vissuto in una democrazia. Non è possibile leggere i nostri libri di storia senza pensare a chi è stato oppresso, al loro lavoro sfruttato per il benessere degli altri…
La rabbia e l’inquietudine che ho provato e che anche i miei vicini hanno sperimentato, lunedì notte, quando le sirene della polizia si sono scatenate, con le pale degli elicotteri che ci giravano sulla testa…
Per 8 lunghissimi minuti e 46 secondi l’agente Dereck Chauvin è stato con un ginocchio sul collo di George Floyd, 46enne afroamericano fermato per strada perché sospettato di aver tentato di spendere una banconota falsa.
E lui è morto così, immobilizzato e soffocato, senza che avesse opposto resistenza. La totale anaffettività del poliziotto, completamente sordo alle richieste di aiuto, è uno degli aspetti sconvolgenti di questo agghiacciante assassinio, testimoniato da un video che dobbiamo al coraggio e alla coscienza civile di una ragazza di 17 anni. Floyd aveva perso il lavoro durante la pandemia. Era stato una promessa dello sport e aveva un talento come rapper. La compagna, i suoi fratelli, il figlio più grande ed anche la sua bambina, Gianna, hanno avuto parole bellissime per lui, cercando di spezzare la catena della violenza, chiedendo giustizia, non vendetta. Questo spaccato di realtà umana è rimasta nell’ombra nelle cronache che abbiamo letto in questi giorni. Negli Stati Uniti quel che è accaduto a George Floyd era accaduto a Maurice Gordon ucciso dalle forze dell’ordine il 23 maggio nel New Jersery, a Eric Garner, ucciso per soffocamento nel 2014 a New York durante un tentativo di arresto, e ad innumerevoli altri afroamericani e latinos.
La stessa sorte è toccata in Francia ad Adama Traoré, 24enne nero, morto per “placcaggio ventrale” il 19 luglio 2016 e più di recente a Mohamed Gabsi. Ed è accaduto e accade nei Territori occupati, dove l’esercito israeliano usa le stesse tecniche brutali nei confronti dei palestinesi.
Ed è successo qui da noi, in Italia, dove un ragazzino, Federico Aldrovandi, ha perso la vita in quello stesso modo dopo essere stato fermato dalla polizia all’uscita da una discoteca. L’elenco, drammaticamente, potrebbe essere molto più lungo. Oltre a restituire voce a chi è stata tolta, oltre a continuare a tenere alta l’attenzione perché venga fatta giustizia, bisogna interrogarsi sul perché “manovre” contro persone inoffensive, come quella, micidiale, che ha portato alla morte di Floyd e di molti altri, siano ancora considerate legittime in Paesi che si definiscono democratici. Rifiutare la violenza è una priorità, da qualunque parte venga. Non basta dire, come ha affermato qualcuno, che è una questione di scarsa formazione, di imperizia da parte delle forze dell’ordine. Dobbiamo chiedere ed esigere un controllo sociale sulle forze di pubblica sicurezza, dobbiamo chiedere e pretendere che siano addestrate a pratiche di non violenza. Dopo la mattanza di Genova 2001 è qualcosa che ci riguarda molto da vicino. Su questo torniamo a riflettere in questo numero grazie all’intervento di Lorenzo Guadagnucci del Comitato verità e giustizia per Genova, che oltre ad essere un valente collega, fu anche testimone e vittima come manifestante.
C’è un filo, ci pare di intravedere, che lega quel che accade negli Usa – dove la polizia e i suprematisti bianchi hanno ucciso almeno 12 manifestanti solo negli ultimi giorni – con quel che avviene nelle banlieue francesi dove la polizia picchia duro sui neri e sui più poveri, e a Hong Kong dove è sempre più violenta la repressione ordita da Pechino contro chi pacificamente chiede libertà e democrazia. A legare queste realtà diversissime è un filo spinato di autoritarismo e di negazione dei diritti umani.Da questo punto di vista Cina e Stati Uniti ci appaiono come due giganti speculari e dai piedi di argilla. Anche per questo molto spazio dedichiamo su questo numero di Left sia alla lotta per la democrazia ad Hong Kong, con un reportage di Francesco Radicioni, sia a quel che sta accadendo negli Usa dove da molti giorni ormai va avanti una protesta incendiaria contro il razzismo di Stato.
Ma da Oltreoceano avanza anche una rivolta non violenta, intergenerazionale e interculturale, contro ogni forma di discriminazione scandita dallo slogan «Black Lives Matter». Il movimento nato nel 2014 negli Usa sta diventando un’onda internazionale di consapevolezza, di presa di coscienza e di profondo rifiuto della violenza, visibile e invisibile. Violenza che, in uno Stato fondato sul genocidio degli indiani e sullo schiavismo, si è tradotta in una quotidiana criminalizzazione del comportamento dei neri e delle minoranze per impedirne l’emancipazione. Un fenomeno tanto più evidente oggi che alla guida del Paese c’è un presidente espressione di una minoranza bianca suprematista, razzista, bigotta, armata fino ai denti, disposta a tutto pur di difendere i propri privilegi.
Ma i riots che incendiano le strade nordamericane non rappresentano tutta la verità. Un immenso fiume di persone ha manifestato con responsabilità, con calma, con vibrante compostezza. Sono attivisti di Black Lives Matters, come dicevamo, sono i giovani di Bernie Sanders, sono gli ex Occupy, sono le donne della Women march che all’indomani della elezione di Trump inondarono le strade di Washington. Chissà che da quella parte dell’America dove ora si inizia a parlare di riforma della polizia (mentre il sindaco di New York annuncia di voler diminuire i fondi alle forze di sicurezza per dirottarli verso servizi sociali e per la comunità) non possa nascere qualcosa di nuovo e contagioso anche per noi.
Foto Claudio Furlan - LaPresse
25-01-2019 Milano ( Italia )
Cronaca
Fiaccolata per i 3 anni dalla morte di Giulio Regeni in Piazza Scala
Vendereste armi a qualcuno che vi ha massacrato un giovane studente e che si è inventato di tutto prima di ammettere a mezza bocca solo che tutto quello che aveva cercato di dire per depistare è falso? Pensateci bene. Vendereste armi a un Paese che ha poi ripetuto lo stesso schema con uno studente, questa volta non italiano ma praticamente adottato dalla città di Bologna dove studiava all’università, arrestato lo scorso 7 febbraio e tutt’ora in attesa di un giusto processo e sottoposto a una detenzione che solleva più di qualche dubbio?
Il Paese in questione è l’Egitto e i due studenti sono Giulio Regeni e Patrick Zaky. A Regeni, come sappiamo tutti, è andata molto peggio e non è un caso che i suoi genitori giusto pochi giorni fa abbiano ribadito di essere molto delusi dalle istituzioni italiane.
Con l’Egitto l’Italia sta trattando per un affare militare del valore di 9-11 miliardi di euro e il presidente del Consiglio Conte qualche giorno fa ha dato il via libera per la vendita di due fregate Fremm. Vendere armi a un regime è già qualcosa di orrendo, venderle a un Paese che insiste a prenderci in giro sulla morte di Regeni è qualcosa di insulso.
Ieri Liberi e Uguali ha presentato un’interrogazione al ministro Di Maio (se vi chiedete se governino insieme la risposta è sì, torniamo al #buongiorno di ieri della simbologia che annoia) in cui chiedeva conto di questa torbida situazione con Al-Sisi e il ministro Di Maio ha risposto precisando che «resta ferma la nostra incessante richiesta di progressi significativi nelle indagini sul caso del barbaro omicidio di Giulio Regeni. Il governo e le istituzioni italiane continuano ad esigere la verità dalle autorità egiziane attraverso una reale, fattiva ed efficace cooperazione».
Ed è una frase che non vuol dire nulla. Non c’è nessuna cooperazione tra Egitto e Italia sulla questione Regeni: l’hanno detto in molti, tra cui quelli che indagano. Esigere la verità stringendo accordi è quantomeno curioso. Di Maio ha anche aggiunto: «l’Egitto resta uno degli interlocutori fondamentali nel quadrante Mediterraneo, nell’ambito di importanti dossier, come il conflitto in Libia, la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti, nonché la gestione dei flussi migratori e la cooperazione in campo energetico».
Ecco, no, non ci siamo proprio. Qui non servono “progressi”, non ci si avvicina ad annusare la verità. La verità è una, limpida e manca.
La vicenda di come la politica italiana stia declinando qui da noi ciò che accade negli Usa è altamente indicativa di una messa in scena che sembra avere preso il sopravvento sulle responsabilità di governo. Alcuni membri del Parlamento, di quelli che al governo ci sono, hanno deciso di inginocchiarsi come segno di solidarietà per la morte di George Floyd e per i diritti di tutti gli oppressi di qualsiasi etnia. Il gesto ha un’importante valenza simbolica, soprattutto alla luce della narrazione tossica che certa destra sta facendo della rivoluzione culturale in atto negli Usa che qualcuno vorrebbe banalizzare in qualche vetrina spaccata perdendo il focus e il senso del tutto.
Bene i simboli, benissimo. Però da un governo che si dice solidale con chi sta lottando contro la discriminazione ci si aspetterebbero anche degli atti politici, mica simbolici. I decreti sicurezza di salviniana memoria, ad esempio, sono una perfetta fotografia: criticati da ogni dove quando furono applicati durante il governo Conte I divennero la bandiera del centrosinistra su ciò che non si doveva fare. All’insediamento del Conte II ci dissero che l’abolizione di quei decreti sarebbe stata una priorità. La priorità è praticamente scomparsa. E pensandoci bene è scomparso anche tutto il dibattito sullo ius soli e sullo ius culturae che nessuno da quelle parti ha nemmeno il coraggio di pronunciare.
Così noi dovremmo accontentarci di una classe politica che fa esattamente quello che possiamo fare noi semplici cittadini scendendo in piazza come se non avessero loro le leve per modificare le cose. È tutto solo manifestazione d’intenti come se fossimo in eterna campagna elettorale e non ci sia un governo regolarmente insediato. Se invece il problema sta nell’alleanza con il Movimento 5 Stelle che è contrario all’abolizione dei decreti e a un serio percorso di integrazione e di diritti allora sarebbe il caso di dirlo e di dirlo forte per chiarire il punto agli elettori disorientati.
Non si governa con i simboli. Non basta più. I dirigenti non manifestano, agiscono.