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Noi Sardine, Benetton e i Mapuche. In risposta a Giulio Cavalli

Sono stati scritti fiumi di inchiostro sulle Sardine. Da quanto non si vedeva un movimento in grado di portare nelle piazze di tutta Italia, nell’arco di pochi mesi, oltre un milione di persone?

Faccio parte del movimento fin dagli esordi e ho sentito una tale quantità di interpretazioni e di analisi sulle Sardine da farmi venire più di una volta in mente l’affermazione di Ringo Star: “Ho letto interpretazioni delle nostre canzoni a cui nemmeno io avevo pensato”

L’ultimo articolo letto sul tema è quello del (sempre bravo) Giulio Cavalli.

Cavalli ci ricorda le espropriazione e le violenze compiute dai Benetton verso la popolazione Mapuche. Una storia di soprusi e di arricchimento che non può che riportare alla mente il celebre 24º capitolo de Il Capitale, intitolato “Sull’Accumulazione Originaria”. L’affermazione fatta dai Benetton in una missiva e riportata da Cavalli (“Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa”) per giustificare queste violenze è cinica e bieca e di sicuro non condivisa da nessuno dei partecipanti al movimento.

Foto di Massimo Ankor

Ad onore del vero (ribadisco, qualora ce ne fosse ancora bisogno) i ragazzi bolognesi non erano a Fabrica per incontrare i Benetton, ma invitati da una scuola di comunicazione per parlare con gli studenti.

Cavalli ci chiede di occuparci della storia dei Mapuche, una storia di ingiustizie poco conosciuta dal grande pubblico. Prima ci è stato chiesto di parlare un po’ di tutto: decreti sicurezza, prescrizione, MES, questione ambientale e molte altre.

Ma chi sono le Sardine? Di cosa dovrebbero parlare? Come dovrebbero organizzarsi?

Partiamo dal chi. Nonostante sia impossibile definire univocamente tutte le persone scese in piazza, in questi mesi ho avuto modo di conoscere moltissimi attivisti sul territorio. Tra essi ho incontrato sindacalisti, insegnanti, disoccupati, persone con esperienze politiche pregresse, attivisti dei diritti sociali e civili, qualche arrampicatore sociale (come ha dimostrato la vicenda di Ogongo) e molto altro. Tutti o quasi venivano dal mondo di sinistra e si riconoscevano nell’area politica riformista1. Tutti o quasi avrebbe voluto che i partiti di sinistra e centro-sinistra si ponessero in maniera più radicale sui bisogni “dimenticati” come la giustizia sociale o i diritti civili. Rappresentativa, in questo senso, la scelta delle tematiche: quando ci siamo ritrovati a Roma allo Spin Time ogni regione ha scelto un argomento su cui focalizzarsi. La regione da cui provengo io, il Piemonte, ha scelto per esempio il tema del lavoro e sta realizzando un percorso diffuso su tutte le province regionali. Una delle vicende più seguite in questo percorso è quella dell’Ex Embraco, una storia rappresentativa di molte altre storie di sfruttamento e violenza ai danni dei lavoratori.

Ho letto le interpretazioni più fantasiose sui possibili sviluppi strutturali per le Sardine: diventare un partito, un’associazione, restare un movimento fluido ecc. Ho anche sentito gli interessanti spunti del Prof. Cacciari che invitava a entrare in dialettica con le realtà politiche già esistenti (invito simile a quello fatto da Zingaretti e rivolto non solo a noi ma a tutte le realtà della società civile). Parte di questi stimoli sono stati costruttivi e interessanti, mentre altri, come gli attacchi che riceviamo sistematicamente da giornali di destra o le insinuazioni fatte da Buffagni riguardo i Benetton, sono stati calunniosi e in mala fede, dettati da desiderio di sopravvivenza o brama di visibilità. Mi sento di condividere parte delle preoccupazioni del prof. Cacciari: se è vero che la società civile è il teatro di ogni storia, è anche vero che i movimenti culturali, come dice il Professore, difficilmente possono sopravvivere a lungo ed essere efficaci senza essere realisti. D’altra parte, anche chi voleva fare la “rivoluzione culturale” sapeva benissimo che il potere politico sta sulla canna del fucile.

Un movimento sociale come quello delle Sardine può portare un cambiamento e una critica alla società?

Sì, ma deve organizzarsi e avere una struttura forte e solida. La guerriglia stile Viet Cong, modello simile alla strategia tenuta dalle Sardine durante la campagna elettorale in Emilia-Romagna (comparire improvvisamente e colpire Salvini quando meno se lo aspettava con contromanifestazioni), può funzionare in una dinamica difensiva, ma se si vuole avere una capacità offensiva e propositiva bisogna andare oltre questo modello e strutturarsi.

Ma quali sono i temi? Quali sono i contenuti? Cos’è la politica con la P maiuscola?

Alle sardine si sta chiedendo di tutto.

Foto di Massimo Ankor

Per ora è arrivata una principale e forte richiesta, ribadita alcuni giorni fa a Roma: abolire (e non rivedere, come viene tutt’ora erroneamente riportato da alcuni giornalisti) i decreti sicurezza. Sono dei decreti ingiusti e violenti, che vanno a colpire non solo i migranti ma anche i lavoratori, ledendo il loro diritto allo sciopero. Chi vuole dialogare con le Sardine, in particolare i movimenti politici, potrebbe e dovrebbe impegnarsi di più in questa direzione, per dare un segnale concreto di voler dar vita a qualcosa di più di una semplice fagocitazione.

Cosa vi potrebbe essere dopo è difficile dirlo. È mia convinzione che negli ultimi anni vi sia stata una costante opera di delegittimazione della politica su basi ideologiche risolutamente di destra, per non dire reazionarie. Questo processo ha portato sempre più a mortificare il sistema politico democratico e a mascherare come “cambiamenti in favore del popolo” delle riforme o posizioni che non hanno fatto altro che indebolire la rappresentanza e rendere dunque più forte chi si può permettere (anche da un punto di vista economico) di fare politica.

Penso per esempio al taglio dei parlamentari, un’operazione a cui sono personalmente estremamente contrario.

Indebolire le forme rappresentative è un modo per dare più potere a chi ne ha già, ovvero i grandi gruppi economici e le strutture di lobbismo. Penso che una riflessione su questo e su come la politica, se finanziata dai privati, diventi appannaggio dei ricchi, potrebbe dare uno sviluppo interessante al movimento.

Si tratterebbe, in fondo, di un ragionevole processo di maturazione: dal combattere i sintomi (il linguaggio e le azioni di odio) all’affrontarne le cause, ovvero le disuguaglianze crescenti (che generano paura e disgregazione sociale) e la mancanza di riconoscimento e di rappresentanza dei bisogni sociali profondi.

Alessandro Maffei fa parte del coordinamento delle Sardine di Bologna

1 Quando parliamo di “riformismo” facciamo ovviamente riferimento al significato classico del termine e non alle storpiature attuate oggi da partiti neoliberisti i quali, se non sapessimo che manipolano la parola con malizia, ci susciterebbero quasi indulgenza per la loro impreparazione

«Voglio solo tornare a studiare»

In this undated photo provided by the Egyptian Initiative for Personal Rights, a local Non-Governmental Organization, Egyptian activist and researcher Patrick George Zaki, poses for a photograph, in Egypt. A local rights group says Egyptian officials have transferred Zaki who was arrested on arrival at Cairo's airport to a "less favorable" detention facility. The Egyptian Initiative for Personal Rights said Thursday, Feb. 13, 2020 that the 28-year-old was transferred just as his parents showed up for visiting hours. (Egyptian Initiative for Personal Rights via AP)

È buio pesto quando Patrick George Zaky, giovane egiziano studente in Italia, viene arrestato all’aeroporto del Cairo, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio. Lo stesso buio che avvolgeva la capitale il 25 luglio 2016, quando Giulio Regeni scomparve nel nulla. Le analogie tra i due casi sono molte, come vedremo, eppure il ministero degli Esteri non sembra ancora aver concordato su una linea d’azione dura da seguire nei confronti dell’Egitto, nonostante i numerosi casi di violazione dei diritti fondamentali che vengono denunciati da anni dalle principali organizzazioni internazionali presenti sul territorio.

Zaky, originario di Mansoura, attivista per i diritti umani, è iscritto ad un master di Studi di genere oltreché essere ricercatore presso l’Università di Bologna. Ha 27 anni. Regeni ne aveva appena compiuti 28 quando è scomparso. Secondo il ministero dell’Interno egiziano, Zaky è stato arrestato su mandato della Procura generale al suo arrivo in aeroporto e posto in custodia cautelare per 15 giorni. Per il 27enne doveva essere una breve vacanza in famiglia.

Dopo la sua “scomparsa” è stato reso noto un ordine di cattura nei suoi confronti, emesso il 23 settembre 2019, di cui l’attivista era all’oscuro, mai notificato. Secondo l’Egyptian center for Economic and social rights, le accuse formalizzate dalla Procura sono cinque e si va da “diffusione di false informazioni per minare la stabilità nazionale” e “incitamento a manifestazione senza permesso” a…

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Siete voi, i fuorilegge

German boat captain Carola Rackete listens to questions during a Civil Liberties and Justice Committee at the European Parliament in Brussels, Thursday, Oct. 3, 2019. (AP Photo/Francisco Seco)

«L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale Sar di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro»: lo scrive nero su bianco la Corte di Cassazione (il più alto grado di giudizio della giustizia italiana) sul ricorso all’arresto della comandante di Sea Watch Carola Rackete. Sì, quella Rackete che avete sentito un po’ dappertutto essere una criminale, una pericolosa, quella Rackete che è stata malmenata verbalmente dall’ex ministro dell’Interno mentre stava in panciolle al Papeete.

La Cassazione scrive che non è un luogo sicuro una nave «in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone». Né, si legge ancora nella sentenza, «può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio della nave e con la loro permanenza su di essa, perché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave».

In sostanza la legge italiana ribadisce che soccorrere le persone sia un dovere, altro che un reato, nonostante la propaganda di certa becera destra e di certi sovranisti dell’ultima ora tutti pronti a leccare Salvini. E per quanto riguarda il presunto speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza che per qualcuno sarebbe stato un atto di guerra la Cassazione scrive che «per poter essere qualificata come ‘nave da guerra’ l’unità della Guardia di finanza deve altresì essere comandata da un ufficiale di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il che nel caso in esame – osserva la Corte – non è dimostrato». Infatti, si legge ancora nella sentenza, «non è sufficiente che al comando vi sia un militare, nella fattispecie un maresciallo, dal momento che il maresciallo non è ufficiale. Né peraltro il ricorso documenta se tale maresciallo avesse la qualifica di cui sopra. Dunque – concludono gli ‘alti’ giudici – non è stata dimostrata la sussistenza di tutti i requisiti necessari ai fini della qualificazione quale nave da guerra della motovedetta della Guardia di finanza nei cui confronti sarebbe stata compiuta la condotta di resistenza».

Siete voi, i fuorilegge. Voi che avete il cuore indurito dal vostro egoismo fottuto che volete rivendere come ideologia politica, voi che volete che gli altri facciano come dite voi perché in fondo vi vergognate di quello che siete.

Buon venerdì.

Unde origo Inde salus. Valerio vive!

Era la Casa di Valerio, più che di Carla, la mamma. Valerio era custodito in quella donna. Più che lui, la sua passione. Quella donna, sconosciuta per noi, portava in viso i segni dell’attesa degli assassini, dell’agguato, della morte, della perdita del figlio. Il suo viso e il suo corpo ad aspettarci sul cancello di via Monte Bianco 114 erano il manifesto di un dolore materno e, insieme, di una rabbia concentrata. Quel volto ci consegnava l’obbligo dell’ossequio. Un duplice ossequio: verso la custode del dolore e della memoria. Carla era la strada più rapida per incontrare Valerio Verbano nel momento stesso in cui gli assassini lo hanno ucciso. Non che non ci fossero i momenti del ricordo. I più grandi, che poi avranno avuto all’epoca neanche trent’anni o poco più, raccontavano la storia del compagno Valerio come avrebbero fatto i partigiani mentre trasmettevano l’esempio di un loro compagno ucciso. Non c’era il tempo degli anni a separare e difendere dal calore e dal clamore di quei colpi di pistola. La sua era una figura oltre il tempo, strappata alla vita durante la nostra vita, una figura sottratta alla progressività della Storia per non farci perdere di vista la contemporaneità dello scontro e la nettezza permanente della barricata. E la memoria è vorace di senso, di significato sì, ma anche dei passi minuti su cui cammina. Volevamo ricostruire i dettagli dell’agguato, vedere i codardi che ingannano Carla, che si insinuano nella casa come “amici di Valerio”.

La gente per bene accoglie, la gente per bene ha fiducia, la gente per bene rimanda al mondo dell’impossibile la vigliaccheria dei fascisti. I genitori vengono minacciati con una pistola, gli incappucciati li legano e aspettano il ritorno di Valerio. Carla spera che Valerio non torni, spera che succeda qualcosa che cambi le sue abitudini, arriva a sperare che possa cadere con il motorino e farsi male al punto da non tornare a casa, magari si rompe una gamba, pensa la madre, magari va all’ospedale, pensa una madre. Quando Carla racconta i pensieri dell’attesa, il dolore si impasta con la rabbia. Hanno ucciso lui e torturato i genitori con l’attesa della morte del figlio. Per un momento sei li, entri con Valerio e fai il tuo dovere di antifascista. Tutti liberi, tutti in vita, tranne i vigliacchi. Giustizia è stata fatta.

Aveva la vostra età, ci dice Carla. E marcia con noi, pensiamo.

Me l’hanno ucciso davanti agli occhi, dice Carla. Lo vendicheremo, pensiamo.

Valerio combatte, è uno contro tre. Disarmato contro tre uomini armati. Ne disarma uno, un altro spara. È la storia dei comunisti, il coraggio è nell’ideale. Ci vuole coraggio a pensare a un mondo senza classi sociali, ci vuole coraggio ad essere partigiani, ci vuole coraggio a dire che siamo tutti uguali. La rivoluzione non è un pranzo di gala, ci insegnavano i grandi, quelli di trent’anni o poco più. Vuol dire la rivoluzione ha i suoi costi, uno si chiama vita. Ci vuole coraggio ad essere come Valerio. Pensiamo.

Una madre e un padre vengono liberati. Il figlio sta morendo. Non c’è stato nessun incidente con il motorino, Valerio è stato colpito e sta lì che muore. Una madre non urla quando un figlio sta per morire. Non bisogna mettere spavento ai figli, va tutto bene amore mio, arriva l’ambulanza, va tutto bene amore.

Deve essere lì che la riga ha iniziato a scavare il viso. Il terrore, il dolore e la speranza. Troppa materia che non si parla, è lì si che si fa la crepa che ogni volta ci racconta.

Ora siamo in tanti. I grandi srotolano gli striscioni. Valerio vive. Niente resterà impunito. Autonomia operaia in fabbrica e quartiere. La parola è migrata, gli altoparlanti raccontano l’assassinio di Valerio e i suoi mandanti, i fascisti, lo Stato.

Carla è rientrata in casa. Dove c’è la camera di Valerio. Dove c’è il divano che ha ospitato la sua morte. Dove ci sono la luce, gli odori e i rumori del giorno in cui i vigliacchi ce l’hanno portato via.

Prima di tornare a casa, finito il corteo, molti di noi tornano a via Monte Bianco. Qualcuno tocca la bandiera rossa, qualcuno accarezza la foto di Valerio, altri salutano con il pugno chiuso.

Il più grande di noi ha un pennarello, tira fuori un pezzo di carta e scrive “Unde origo inde salus. Valerio Vive”, da dove l’origine da lì la salvezza. Lo mette ai piedi della lapide. «Nasciamo qui, non è vero?», e sorride, ma è un pianto.

Per Valerio e Carla, con amore.

Quando gli immigrati da respingere erano gli italiani

1910 - PRIMI ANNI DEL 900, EMIGRATI ITALIANI IN ATTESA NEL BASTIMENTO PER GLI STATI UNITI, EMIGRAZIONE, POVERTA', DONNE, B/N, UOMINI E EBAMBINI, VIAGGIO, NAPOLI, ITALIA, 718925/5, 03-00009147

Tra Accoglienza e Pregiudizio, Emigrazione e immigrazione nella storia dell’ultimo secolo: da Sacco e Vanzetti a Jerry Essan Masslo, pubblicato nella collana studi e ricerche della Fondazione Giorgio Amendola, è un volume che raccoglie anni di studio da parte di diversi membri del Comitato scientifico della Fondazione sul tema dell’emigrazione e dell’immigrazione. Un tema che negli ultimi anni ha assunto una prominenza spropositata nel dibattito pubblico italiano, dominato dall’irrazionalità e dall’allarmismo: due aspetti ricorrenti anche nella complessa vicenda emigratoria italiana e che hanno contribuito in maniera drammatica alla tragica conclusione dei due nostri connazionali, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, giustiziati a Charlestown il 23 agosto 1927.

L’Italia infatti è l’appendice mediterranea dell’Europa, un promontorio asiatico dall’assai vago perimetro geografico. La sua collocazione fisica ne fa un naturale punto d’incontro tra culture, genti, tradizioni, lingue, perfino conflitti scatenati per regolare conti e definire equilibri di potenza. Per tutte queste ragioni, l’Italia è un luogo di mescolanza e meticciato inestricabile, inevitabile, sempre prezioso. Un luogo di partenze, di arrivi, poiché gli italiani viaggiano da prim’ancora che l’Italia esistesse, quando gli si apparteneva semplicemente approdando sulle sue coste: magari in fuga dalla Turchia, da Troia in fiamme e con il padre Anchise sulle spalle, passando per l’ospitalità di una principessa tunisina.

Noi siamo questo. Lo siamo sempre stati. Anche quando, sul finire del XIX secolo, in milioni ci siamo riversati nelle Americhe alla ricerca di fortuna o, decenni più tardi, abbandonavano le campagne del Sud per incontrare la catena di montaggio tra Genova, Milano e Torino. Non abbiamo smesso di esserlo quando, diventati un Paese ricco e industrialmente avanzato, centinaia di migliaia di migranti hanno iniziato a guardare all’Italia come i nostri nonni e padri guardavano al porto di New York, alle banchine di Ellis Island, alla Svizzera, alla Germania o ai cancelli di Mirafiori. La tragedia vera, a cui cerchiamo di porre rimedio raccontando le esperienze dei nostri connazionali emigrati, è che spesso il nostro Paese riserva agli immigrati il terribile trattamento subito dai nostri bisnonni e dai nostri nonni emigrati. Con gli stessi pregiudizi, gli stessi sospetti, le stesse ingiustizie.

Questo libro nasce dunque per riflettere sulla drammatica vicenda di Sacco e Vanzetti, usandola come un pretesto per raccontare questa storia più complessa e larga: la vicenda di un Paese denso di problemi e contrasti, ma da sempre un luogo del dialogo e del confronto, dei benvenuti e degli addii. La migrazione, con buona pace dei vecchi e nuovi costruttori di mura, è uno dei principali elementi costitutivi dell’identità nazionale italiana, se non addirittura il principale contributo per la costruzione di un’Europa finalmente unita e pacificata.

Tutto è iniziato da una mostra promossa dalla Fondazione Giorgio Amendola per rammentare i novant’anni dalla sedia elettrica di Charlestown, usando soprattutto i materiali tratti dagli archivi della Boston public library (Fondo Aldino Felicani, Sacco-Vanzetti Collection 1915-1977). Un manufatto espositivo realizzato con grande passione civile e che ha girato l’Italia anche grazie al sostegno dei consigli delle Regioni che hanno dato i natali a Sacco e Vanzetti (la Puglia e il Piemonte), che ha sollecitato dibattiti, studi, approfondimenti, ricerche, relazioni: il saggio introduttivo a mia cura, quello di Lorenzo Tibaldo dedicato al rapporto tra il fascismo e il processo, l’analisi sull’ambiguo rapporto tra razza e identificazione etnica di Augusto Ferraiuolo (lecturer e visiting scholar presso la Boston University), gli studi sul Rhode Island di Caterina Sabino, l’intreccio tra vecchie e nuove migrazioni proposto a Torino da Eugenio Marino, l’intervento svolto a Bari da Vito Antonio Leuzzi. Un bagaglio di conoscenze e di riflessioni arricchite dagli scritti di Massimilano Amato con la sua analisi sulla vicenda processuale, di Francesco Di Legge sulle Little Italies negli anni 20 e 30 del Novecento, di Joe Moscaritolo della Fitchburg State College and University of Massachusetts e di James Pasto, Master Lecturer presso la Boston University.

È sulla base di questo primo corpo di materiali che s’innestano poi le narrazioni sugli sviluppi successivi, in un Paese come il nostro che cambia pelle, si modernizza, attraversa tragedie, talvolta s’incupisce o riscatta le proprie colpe quando meno te l’aspetti. È il caso dell’articolo di Giuseppe Tirelli con una testimonianza sul campo d’accoglienza italiano di Villa Literno (il primo in Italia, realizzato nell’agosto del 1990), di Alberto Tarozzi e ad Antonio Mancini che aprono lo sguardo sugli odierni (troppo spesso sottaciuti) processi migratori lungo la rotta balcanica, della Flai Cgil che ha autorizzato la pubblicazione della sua indagine sul campo a Borgo Mezzanone (ricavato dall’ultimo Rapporto su agromafie e caporalato). Una indagine che descrive l’esistenza di veri e propri ghetti in cui sono confinati lavoratori stranieri in condizioni che ricordano quella delle campagne dell’800 e fine ‘900 dalle quali scappavano persone come Sacco e Vanzetti, che però ritrovavano – tragicamente – condizioni simili negli Stati Uniti.

Non vuole essere, ovviamente, una riflessione esaustiva e organica, ma solo una sorta di diario di viaggio che offre spunti, prospettive di analisi e di ricerca a partire da punti di vista e con metodologie non sempre omogenee. Quello che tiene insieme gli autori e giustifica il loro progetto è la fede nel confronto, l’apertura al dialogo, la curiosità di fronte al cambiamento, l’ostilità alle idee dei primati e dei sacri egoismi nazionali. Perché vengono prima gli esseri umani, poi le bandiere. Perché abbiamo Riace nel cuore. Perché la nostra patria è il mondo intero. Perché i nostri valori sono quelli della Resistenza e della Costituzione repubblicana.

 

* Il libro “Tra Accoglienza e Pregiudizio” a cura di Giovanni Cerchia verrà presentato giovedì 20 febbraio alle ore 15 a Roma alla Sala conferenze di Palazzo Thedoli, Camera dei Deputati.

Intervengono: Jean René Bilongo (Resp. immigrazione Flai Cgil), Giovanni Cerchia (Università del Molise, Dir. scientifico della Fondazione Amendola), Francesca La Marca (Parlamentare eletta all’estero, Nord America), Norberto Lombardi (esperto di emigrazione italiana e consigliere Cgie), Marco Pacciotti (esperto di immigrazione e componente direzione nazionale Pd), Caterina Sabino (studiosa di storia ed emigrazione italiana), Angela Schirò (Parlamentare eletta all’estero, Europa).
Porterà i saluti istituzionali Andrea Giorgis (sottosegretario alla Giustizia).
Presenta e introduce Domenico Cerabona (Direttore Fondazione Amendola).
Modera Eugenio Marino (Consigliere per le politiche di emigrazione e rapporti con gli italiani nel mondo del ministro per il Sud)

Chi ha paura della conoscenza

LOS ANGELES, CA - APRIL 23: Students walk across the campus of UCLA on April 23, 2012 in Los Angeles, California. According to reports, half of recent college graduates with bachelor's degrees are finding themselves underemployed or jobless. (Photo by Kevork Djansezian/Getty Images)

In Egitto c’è più libertà che in ogni altro Paese europeo». Così il vice presidente del Parlamento egiziano, Soliman Wahdan, si è difeso in tv dalle accuse sul caso Zaky mosse dal presidente dell’Europarlamento David Sassoli. Patrick Zaky, 27 anni, attivista per i diritti umani egiziano e studente a Bologna, era tornato in Egitto per una vacanza regalata dalla sua famiglia. Giunto all’aeroporto del Cairo è stato immediatamente fermato con varie accuse, incarcerato e poi torturato dalle forze di sicurezza, come denunciato dal suo avvocato e dalla sua famiglia. Zaky studia questioni di genere, si occupa di ricerca sociale, e lo fa in modo partigiano, prendendo posizione anche pubblicamente a difesa delle minoranze oppresse in Egitto. Per questo il regime di al-Sisi lo considera un pericolo.

Proprio come avvenne con Giulio Regeni, dottorando a Cambridge ucciso quattro anni fa nella capitale egiziana. Giulio nel 2016 vi si recò per una tesi sulle associazioni sindacali locali. Per questo fu sequestrato, torturato ed ucciso. Ferma restando la speranza che non si concludano allo stesso modo, tra i due casi ci sono evidenti analogie (come racconta Sabrina Certomà in questa storia di copertina). Dopo tutto questo tempo, la collaborazione con la magistratura egiziana per fare luce sulla morte del ricercatore di Fiumicello è ferma. Le autorità del Cairo si ostinano a non rendere noti i nomi di chi ha ordinato, eseguito e coperto l’operazione criminale.

«In Egitto c’è libertà di parola, ma non libertà dopo la parola», recita con amara ironia un motto diffuso tra gli attivisti politici egiziani, che suona come la miglior replica al vice presidente Wahdan. Ma l’Egitto, sia chiaro, non è certo l’unico Paese in cui lottare per la conoscenza significa rischiare la vita.
In un anno, tra settembre 2018 ed agosto 2019, si sono registrati 324 attacchi nei confronti di realtà di istruzione superiore come atenei ed istituti di ricerca. Tra cui si possono annoverare uccisioni, violenze e sparizioni (97 casi), detenzioni arbitrarie (87), procedimenti giudiziari illegittimi (70), dimissioni forzate (22), restrizioni alla libertà di movimento (11), e non solo…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 21 febbraio

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Non dimentichiamo Giulio, lottiamo per Zaky, Ahmad e gli altri ricercatori in pericolo

Patrick Zaky deve avere la cittadinanza italiana. È questa la richiesta al presidente della Repubblica Mattarella che è partita dall’università di Bologna a sostegno del giovane ricercatore, arrestato in Egitto per le sue ricerche nel campo dei diritti umani. Vedere dei nemici in ricercatori e intellettuali è tipico dei regimi, ma la Repubblica italiana che tutela la libertà di ricerca come è scritto nella Costituzione, il Paese che Patrick ha scelto per il suo Erasmus, deve rifiutare recisamente questa caccia alle streghe.

Sequestrato mentre tornava per un periodo di vacanza nella sua città natale, al-Mansoura, accusato di terrorismo, è stato imprigionato, torturato, nei fatti, perché andava cercando conoscenza, perché impegnato nella lotta non violenta per i diritti umani. Se l’università di Oxford non si mobilitò tempestivamente per Giulio Regeni, l’università bolognese si è mobilitata subito per il giovane ricercatore egiziano, non lasciandolo solo. Altrettanto deve fare il governo italiano con azioni diplomatiche ma anche, pensiamo noi, cessando di fare ipocritamente affari con un governo come quello egiziano che dispone di un esercito e di una polizia che torturano e uccidono.

Come scrive Sabrina Certomà nel suo articolo che ricostruisce la storia di Zaky, nel 2019 (sino al 30 ottobre) sono stati 1.470 i casi seguiti dalla Suprema procura del Cairo – accusata da Amnesty di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo – e, prosegue Certomà, «345 è la media dei giorni di detenzione preventiva». Inoltre «attualmente non c’è nessuna indagine sugli abusi commessi dalla polizia durante quei periodi di reclusione».
Il sistema giudiziario egiziano fa di tutto per imbavagliare dissidenti ma anche giornalisti, fotografi, ricercatori…
E non è l’unico Paese purtroppo a calpestare libertà di ricerca, democrazia e diritti umani senza che questo determini una reazione forte di condanna da parte dell’Europa, una reazione cioè che vada oltre prese di posizione meramente verbali e di superficie.

Nel drammatico quadro che Leonardo Filippi e Checchino Antonini tracciano dei Paesi dove i ricercatori rischiano la vita se ne segnalano molti con cui l’Europa intrattiene normali rapporti diplomatici e di interesse, chiudendo gli occhi.
A cominciare dalla Turchia che l’Europa continua a foraggiare e pagare lautamente perché fermi il flusso dei migranti sull’altra sponda del Mediterraneo.

Dalle ricerche di Scholars at risk network risulta che il 65 per cento dei ricercatori esuli proviene dalla Turchia, il 15 per cento dalla Siria, il 4 per cento dall’Iran. E non è solo l’area mediorientale ad essere protagonista in negativo. In questo quadro figurano anche la Cina e molti altri Paesi.
Per quel che riguarda l’Iran non possiamo dimenticare il caso del ricercatore Ahmad Djalali, esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria ed ex ricercatore presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara: è stato accusato di spionaggio e condannato a morte in Iran per motivi politici. In tutto 134 premi Nobel hanno lanciato un appello alla Guida suprema iraniana Ali Khamenei perché venga rilasciato e possa tornare a casa in Svezia dove da ultimo lavorava ed aveva ottenuto la cittadinanza.

Dalla Svezia Djalali aveva risposto ad un invito accademico recandosi in Iran per dare il proprio contributo a un convegno e in quella occasione è stato arrestato. Oggi è ammalato e pesa poco più di quaranta chili, le sue condizioni sono gravissime, come denuncia la moglie Vida Mehrannia.
I regimi che attaccano la libertà di ricerca e il desiderio di conoscenza, attaccano non solo la democrazia, ma la persona stessa.

Non possiamo accettare che studiosi che lavorano nell’interesse di tutti, che affermano valori umani universali debbano subire limitazioni, soprusi e tanto meno torture e condanne alla pena capitale.
Quando le dittature non riescono a fermare la mente, attaccano il corpo. è ciò che è accaduto a Giulio Regeni, straordinaria figura di ricercatore e attivista per i diritti umani, colpito per il suo desiderio di studiare e per il suo approfondito e rigoroso lavoro di ricerca nell’ambito dei diritti sindacali, negati in Egitto. Non dimentichiamo Giulio, lottiamo perché non accada mai più.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 21 febbraio

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Le piazze per sé, le piazze per gli altri

Foto Massimo Paolone/LaPresse 17 febbraio 2020 Bologna, Italia cronaca Manifestazione per la liberazione dello studente Patrick George Zaki detenuto in Egitto "Giustizia per Patrick" Nella foto: un momento del corteo Photo Massimo Paolone/LaPresse February 17, 2020 Bologna, Italy news Demonstration for the release of student Patrick George Zaki detained in Egypt "Justice for Patrick" In the pic: a moment of the procession

Forse davvero ci siamo dimenticati che la politica sia il battersi per i diritti degli altri. Davvero. Ci siamo dimenticati che la sinistra, quando faceva la sinistra, era grande perché comprendeva persone con diritti acquisiti che decidevano di fare politica perché anche gli altri avessero i loro stessi diritti. La cosiddetta attenzione per i più deboli è sostanzialmente questa cosa qui, e oggi sembra una blasfemia.

La piazza di Bologna che si riempie per Patrick Zaky ne è un esempio chiaro: ci sono in piazza studenti che molto difficilmente potrebbero ritrovarsi nella situazione del giovane studente egiziano, è molto improbabile che si ritrovino anche solo a viaggiare in Egitto, statisticamente non è un pericolo reale finire torturati dalle forze di polizia di qualche regime eppure hanno esercitato tutta la loro empatia per sentire quella violazione dei diritti come una violazione fatta a loro. Stessa cosa la mobilitazione per Giulio Regeni. Vale lo stesso per chi in questi giorni prova ad aprire gli occhi del mondo sulle ingiustizie siriane e sui profughi di Idlib. E ci sono altri migliaia di esempi disponibili.

Provate a pensare a un multimiliardario che non operi per salvare il deretano alle sue proprietà e ai suoi amici miliardari, provate a pensare a un prepotente che non si dia da fare per accontentare i prepotenti, a un bolso industriale che brighi per i suoi amici industriali, a un senatore semplice che strepiti per se stesso e per i suoi amici: ci sono tutti. Pensate invece a un eterosessuale che si impegni per i diritti degli omosessuali, a un benestante che proponga leggi sfavorevoli per la sua classe sociale e a favore dei poveri, a un italiano che si impegni per i diritti dei non italiani: sono pochi, pochissimi. Quando Bill Gates ha chiesto di pagare più tasse perché riteneva iniquo il sistema fiscale statunitense è stato trattato come un matto. «Perché non si è fatto gli affari suoi?», chiedevano.

Farsi i fatti propri è diventato sinonimo di intelligenza, mica di egoismo. E il pensiero è diventato virale. E siamo arrivati a questo punto. Ora fate un esercizio: pensate a un politico che abbia deciso di rappresentare una comunità non per la propria provenienza ma perché crede in quei valori. Se lo trovate ha già un prerequisito che manca a molti. Sarebbe un buon inizio, scendere in piazza per gli altri. Perché i diritti sono quasi sempre quelli degli altri.

Buon giovedì.

Piccoli partigiani crescono

Ci sono battaglie che si combattono in silenzio, guerre senza nome che esplodono agli angoli delle strade per rientrare nei vicoli più bui. Di solito non ne parla nessuno, fino a quando non succede qualcosa per cui è impossibile tacere. Non si può ignorare infatti il peso di scritte antisemite e offese alle vittime della Shoah di fronte a due scuole statali, così come noi non possiamo non andare a confrontarci col coraggio di chi prontamente ha detto no a tanto orrore.

Martedì 11 febbraio infatti, proprio di fronte due scuole superiori di Pomezia, in provincia di Roma, sono comparse scritte che inneggiavano all’odio etnico di chiara ispirazione nazista. Non sappiamo ancora chi sia stato. Di sicuro quel che è successo è molto grave, ancor più grave che quelle scritte siano state realizzate davanti a due scuole. A mobilitarsi immediatamente i ragazzi, e in particolare la Rete degli studenti di Pomezia i quali, insieme all’Anpi, sabato 15 febbraio hanno organizzato una manifestazione per dire no a quanto successo qualche giorno prima.

Incuriositi da tanta resistenza, noi di Left siamo andati a intervistarli. A rispondere alle nostre domande Chiara Martinelli, coordinatrice Rete Studenti Medi di Pomezia e Tullia Nargiso, membro dell’esecutivo della Rete Studenti Medi di Pomezia.

«Come studentesse e come studenti siamo sconvolti», avete scritto. Perché, secondo voi, proprio davanti a due scuole?

Noi vediamo la scuola come il cuore della nostra città, lì dove il futuro prende forma ogni giorno. Colpire le scuole significa colpire l’intera società quindi secondo noi è stato scelto questo luogo per rendere il gesto ancora più forte. Nelle due scuole colpite, il Liceo Blaise Pascal e l’I.I.S. Largo Brodolini, sono state promosse nel corso degli anni tantissime iniziative contro l’antisemitismo e per la memoria storica. Inoltre potrebbe trattarsi di una sorta di “vendetta” per l’attacco alla stele del ricordo delle vittime delle Foibe avvenuto la settimana precedente sempre a Pomezia. La scritta: “Alle 15.30 (orario di inizio della conferenza con il testimone della Shoah Sonnino) parlate delle foibe” davanti all’I.I.S. Brodolini è un chiaro segno del fatto che chi le ha realizzate ritiene che nelle scuole si dovrebbe dare la stessa importanza alla tragedia della Shoah e a quella delle Foibe. In effetti non se ne parla moltissimo di quest’ultima, ma è ovvio che i due eventi, seppur entrambi tragici, non possono paragonabili.

Alla manifestazione del 15 febbraio campeggiava la scritta: “Siamo tutti esseri umani”, come a dire che l’essere umano è naturalmente antifascista. Come ha risposto la popolazione?

La scritta “Siamo tutti esseri umani” ha un significato in realtà molto più semplice per noi: è un inno al rispetto tra tutti gli uomini e le donne e quindi alla non violenza, alla tolleranza e alla pace. Voleva contrapporsi alle scritte d’odio davanti alle nostre scuole che al contrario incitavano a tutt’altro. Ovviamente ci piacerebbe che tutti fossero naturalmente antifascisti ma purtroppo non è così. Bisogna ancora lavorare ogni giorno per promuovere la solidarietà e il rispetto delle idee altrui.

Quando e come nasce la rete degli studenti di Pomezia e per rispondere a quali esigenze?

La base territoriale della Rete degli Studenti Medi di Pomezia nasce lo scorso anno, durante il mese di settembre, per rispondere all’esigenza dei giovani della nostra città di avere uno spazio in cui riunirsi, scambiarsi opinioni e attivarsi nella società. Noi ragazzi avevamo bisogno di essere partecipi di ciò che accadeva a Pomezia e quindi volevamo far sentire la nostra voce. Inoltre, il ruolo della rappresentanza studentesca stava diventando sempre meno importante quindi sentivamo l’esigenza di rivalutarlo, formandoci e candidandoci nelle scuole per difendere il nostro diritto allo studio e per usare gli spazi scolastici (come le assemblee) in maniera intelligente.

La vostra organizzazione sembra un’organizzazione politica, ma non partitica. Eppure ogni movimento politico, per poter incidere nel tempo, deve potersi strutturare in un’organizzazione che abbia degli obiettivi chiari, un’identità ben definita. Caratteristiche che sicuramente vi appartengono, ma che probabilmente sono risultate carenti in movimenti che, seppur nati con le migliori intenzioni, si sono trovati tuttavia a sfumare nel tempo. Se voi poteste consigliare a un movimento l’ingrediente al quale assolutamente non si può rinunciare nella costruzione di una prassi politica che possa sopravvivere alle intemperie della storia, quale scegliereste?

Innanzitutto vorremmo fare un po’ di chiarezza: noi siamo un sindacato studentesco, un’associazione che in tante parti d’Italia opera per difendere il diritto allo studio. Siamo politici, è vero, perché ci impegniamo quotidianamente nelle nostre battaglie sociali (ambientalismo, femminismo, antifascismo, lotta all’omofobia…) e portiamo avanti i nostri valori. Non siamo partitici perché appunto siamo un sindacato che aspira a rappresentare tutti gli studenti e ad includerli. Al nostro interno siamo ben strutturati, abbiamo i nostri obiettivi e programmiamo le nostre attività pensando a come incidere positivamente nella vita di tutti gli studenti come noi. Non siamo un movimento spontaneo come possono considerati il FridaysForFuture e le Sardine, ma fin dalla nostra nascita abbiamo delineato sempre i nostri ambiti di pertinenza e i nostri obiettivi. Per rispondere alla domanda crediamo che sia necessario, per costruire una prassi politica duratura, una forte struttura organizzativa. Crediamo sia fondamentale che ogni attore durante questo processo sappia esattamente qual è il suo ruolo e il suo obiettivo finale. In questo modo si evita infatti di perdersi e di diventare qualcosa di diverso da ciò che ci si era prefissati.

Attacchi alla ricerca storica su foibe e confine orientale

È in corso una indegna gazzarra da parte di elementi di destra e di estrema destra che prende a spunto le celebrazioni del giorno del ricordo. Queste persone attaccano qualsiasi interpretazione che non accetti una vulgata che si rifiuta di prendere in considerazione la politica di snazionalizzazione portata avanti durante il ventennio nelle zone del confine orientale non per giustificare, ma per spiegare quanto successo dopo la caduta del fascismo e durante la costruzione dello stato comunista jugoslavo. Si vuole imporre una versione ufficiale della tragedia delle foibe e di quella successiva dell’esodo dei giuliano fiumano dalmati sotto forma di genocidio degli italiani e con impropri e assurdi confronti con la Shoah. Chiunque operi la necessaria contestualizzaione di quanto successo sa che gli italiani furono perseguitati o in quanto ex fascisti, o perché identificati con le classi egemoni, o in quanto si opponevano alla costruzione dello Stato comunista, e non in quanto italiani. L’anno scorso l’attacco era stato portato al vademecum elaborato dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea del Friuli-Venezia Giulia, di Trieste, un equilibrato documento di sintesi storiografica sulle acquisizioni di decenni di ricerca sul confine orientale, che metteva in discussione la tesi che la persecuzione degli italiani fosse motivata da una pulizia etnica.

Quest’anno sono stati attaccati singoli ricercatori accusati di negazionismo solo perché si rifiutano di cedere alla nuova vulgata nazionalista e filo fascista, e ora sotto accusa è la Regione Toscana per aver affidato all”Istituto della Resistenza e dell’età contemporanea di Grosseto la politica della memoria, e quindi anche i viaggi sul confine orientale, sulla base di una pluriennale esperienza di ricerca e didattica di quell’istituto sul tema. Gli attacchi mirano a negare la legittimità degli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea a svolgere azione di ricerca storica e diffusione didattica sul confine orientale, sostenendo che essi sarebbero ideologicamente orientati.

È allora essenziale ribadire che la ricerca storiografica non può essere condizionata da verità ufficiali diffuse o imposte dallo Stato e dalle istituzioni; che la libertà di ricerca va fondata sull’onestà intellettuale, sulla contestualizzazione ampia degli eventi, sull’utilizzo critico di fonti verificabili; che da parte degli istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea non è mai stata negato che le foibe rappresentino un crimine, che si inquadra non soltanto in una reazione alle politiche di snazionalizzazione e oppressione messe in atto dal fascismo nei confronti delle minoranze slovene e croate, ma anche nei meccanismi violenti di costruzione dello Stato jugoslavo da parte di un regime comunista che perseguitava tutti coloro che si opponevano ai suoi progetti (e quindi non solo italiani, e quindi non solo fascisti).

In realtà dietro a questi attacchi si nasconde non solo la totale ignoranza degli eventi storici, l’utilizzazione di parole d’ordine scioviniste e nazionaliste, ma anche e soprattutto la rivalutazione del ventennio fascista e della figura di Mussolini.

L’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che è il capofila di 64 Istituti storici della Resistenza dell’età contemporanea diffusi su tutto il territorio nazionale, si oppone con forza a questa deriva filofascista e antidemocratica e, nel manifestare la propria vicinanza alle famiglie di tutti coloro che hanno dovuto soffrire per le tragedie consumatisi sul confine orientale, ribadisce il suo impegno per la libertà di ricerca storica al di fuori di vincoli e polemiche di carattere ideologico. Esprime solidarietà agli istituti e ai ricercatori che in questi giorni hanno ricevuto attacchi scomposti per il loro impegno per la verità e la correttezza storica.

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Paolo Pezzino è il presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri

La nota è stata pubblicata sul sito dell’Istituto