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Vaccino anti-coronavirus: una corsa, a ostacoli, contro il tempo

This image provided by The National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID). This scanning electron microscope image shows SARS-CoV-2 (orange)—also known as 2019-nCoV, the virus that causes COVID-19—isolated from a patient in the U.S., emerging from the surface of cells (green) cultured in the lab. (NIAID-RML via AP)

Mentre nel mondo aumentano i casi di contagio e l’Italia risulta il terzo Paese più colpito dalla malattia polmonare Covid-19 causata dal nuovo coronavirus Sars-cov2, entrano nel vivo le corse alla messa a punto di un vaccino efficace e di una terapia mirata. «Di certo al momento non esistono terapie specifiche ma solo cure sperimentali e di supporto (es. ventilazione meccanica, antibiotici, liquidi ecc.)» osserva Rosella Franconi, ricercatrice presso il Laboratorio tecnologie biomediche dell’Enea Casaccia, che abbiamo contattato per fare il punto della situazione. «Ad oggi non sono disponibili farmaci approvati per il trattamento di Covid-19. C’è chi dice che Covid-19 sia simile a un’influenza. Ma non è un’influenza, è bene precisarlo subito, essendo Sars-cov2 un virus totalmente nuovo a cui non siamo preparati». Nei giorni scorsi l’Organizzazione mondiale della sanità ha suggerito una terapia antivirale sperimentale, utilizzata anche allo Spallanzani di Roma. É basata sul lopinavir/ritonavir – un antivirale utilizzato per l’infezione da Hiv e che mostra un’attività antivirale anche sui coronavirus – ed il remdesivir, un antivirale già utilizzato il virus ebola. Allo Spallanzani questi due farmaci sono stati impiegati per trattare tre casi di cui due guariti. Di recente è stato annunciato che la clorochina e il ritonavir insieme hanno un effetto inibitorio sul Sars-cov2. «Non esistono ancora farmaci specifici – prosegue Franconi – e se ne stanno utilizzando alcuni sulla base dell’esperienza terapeutica con Sars e Mers: si tiene conto del tipo di patologia scatenata dal virus e degli effetti antivirali ad ampio spettro e delle eventuali proprietà immunomodulanti dei farmaci in commercio». In Cina, ad esempio, una cura sperimentale in uso, diversa da quella dello Spallanzani, è il plasma dei pazienti guariti, che sta dando buoni risultati nella città-focolaio di Wuhan. Qui un paziente è guarito e altri 10 sono quindi stati sottoposti a questa cura. Inoltre, racconta la biologa, «tra i circa 30 farmaci scelti dalla Commissione nazionale sanitaria cinese per contrastare l’epidemia da nuovo coronavirus c’è anche un farmaco biotecnologico cubano, l’Interferone alfa 2B (Heberon Alfa R), efficace nel curare le complicanze respiratorie e che da poco tempo (25 gennaio 2020) viene anche prodotto in uno stabilimento cinese-cubano nella provincia di Jilin, nella città di Changchun (ChangHeber)».

Diverso è il discorso sui vaccini preventivi. Per ora si è arrivati solo a una prima fase sperimentale sui topi. «In Europa – racconta la ricercatrice – a fine gennaio è uscito un bando Ue da 10 mln di euro per sviluppare nuovi farmaci, vaccini e diagnostici, contro questo nuovo coronavirus. C’è poi un’altra iniziativa della Cepi (Coalition for epidemic preparedness innovations), una partnership globale innovativa tra organizzazioni pubbliche, private, filantropiche e della società civile con sede in Norvegia che si occupa di promuovere lo sviluppo di piattaforme tecnologiche per vaccini capaci di rispondere rapidamente e in modo sostenibile a possibili epidemie/pandemie causate da patogeni virali, come quelli indicati prioritari nella lista “Blueprint” (Oms, 2018) o da patogeni sconosciuti (“Malattia X”). La Cepi in questi giorni ha annunciato finanziamenti per diversi progetti, che vedono la partecipazione di GSK, Inovio, CureVa, così come l’Università del Queensland, in Australia. Tutti usano approcci innovativi che offrono la promessa di una velocità senza precedenti per lo sviluppo di un candidato al vaccino. un vaccino. La strategia generale è quella di avere un gran numero di vaccini candidati ma nessuno dei partner ne ha ancora uno pronto». Stando alle parole di Peter Høj, presidente dell’ateneo australiano, questo potrebbe accadere addirittura «entro sei mesi». A quanto pare infatti le prime ricerche realizzate nelle ultime tre settimane sono andate «come previsto» e il materiale ottenuto ha le proprietà che consentono di procedere allo sviluppo di un vaccino efficace contro il Covid-19. I tempi non sono comunque brevissimi. Secondo le stime dell’Oms, ci vorranno comunque almeno circa 18 mesi prima che sia effettivamente disponibile (v. Left del 14 febbraio 2020).

«Anche l’Italia proverà a produrre un vaccino» spiega Franconi: «Vari gruppi hanno partecipato al bando europeo specifico e si spera anche in un bando nazionale sul coronavirus». E pure dalla Cina arrivano incoraggianti novità: non solo sembra che il virus in Cina si stia spegnendo ma «un primo gruppo di vaccini sono stati testati su animali», ha annunciato Song Zhiheng, vice direttore del dipartimento di Scienza e tecnologia della Westlake University dello Zhejiang. Come riporta il Quotidiano Sanità, i ricercatori cinesi sono anche riusciti a osservare, attraverso la microscopia crioelettronica, la struttura del recettore Ace2, il canale attraverso il quale il nuovo coronavirus entra nelle cellule. Nel loro articolo, scrivono gli scienziati, essi offrono «un quadro importante per comprendere il meccanismo dell’infezione da Sars-cov2, che può facilitare lo sviluppo di potenziali terapie». «Sul fronte della ricerca – osserva Franconi – nel mondo si stanno mettendo a disposizione dei fondi importanti proprio per sviluppare terapie specifiche e diagnostici specifici. C’è molta attenzione e anche molta competizione. Nell’immediato, tuttavia, per contrastare la diffusione del coronavirus quelle attuate sono quasi esclusivamente misure di contenimento e prevenzione: una corretta igiene delle mani sembra più efficace della mascherina».

Mentre parliamo arriva la notizia del settimo morto in Italia (l’intervista è del 25 febbraio 2020, ndr). Oltre 270 sarebbero le persone contagiate: per questo siamo il terzo Paese al mondo più colpito dopo la Cina e la Corea del sud. «Sicuramente ciò che si riesce a misurare è solo una punta dell’iceberg. Nel senso che è stato dimostrato che le infezioni possono derivare dal contatto con un viaggiatore infetto ma pre-sintomatico o asintomatico. Da un lato questo potrebbe essere un bene, dall’altro no. Una cosa è certa, dopo due mesi sappiamo davvero ancora troppo poco del coronavirus». È stato detto che in Italia si registrano più casi rispetto ad altri Paesi occidentali perché facciamo più controlli. «Questo potrebbe portare a una sovrastima, in realtà però ci sono anche diversi morti in più rispetto agli altri Paesi. Penso che sarà molto interessante capire dal sequenziamento dei ceppi di coronavirus intercettati nel nord-nord est se questi sono uguali a quelli importati dalla Cina. Perché al nord fino a ora è successo qualcosa di diverso rispetto ai casi seguiti a Roma. Allo Spallanzani c’erano casi “importati”, in Lombardia e Veneto si tratta invece di trasmissioni secondarie. Inoltre, sembra che ci sia stato qualcuno che aveva una grandissima capacità di diffondere il virus. Per questo è lecito pensare che qui in Italia si tratti di un’infezione ospedaliera. Chi lavora in ospedale deve avere a disposizione tutti i dispositivi personali di protezione possibile e invece pare che non sia ovunque così».

In base ai numeri che provengono dalla Cina si è potuto stimare un tasso di mortalità non eccessivo che si aggira intorno al 2% ma secondo Franconi c’è un altro elemento da considerare. «Il dato molto preoccupante riguarda l’elevata trasmissibilità del virus e la percentuale di persone che hanno bisogno di terapie intensive: oltre il 10%. È qui il vero motivo per cui il virus va contenuto con tutti gli strumenti a disposizione. Perché il numero di persone con serie complicazioni respiratorie può diventare significativo fino a paralizzare anche un sistema sanitario funzionale come il nostro». Siamo in presenza di un virus che può provocare una sorta di impazzimento della risposta immunitaria. «I coronavirus possono causare una risposta infiammatoria (chiamata “tempesta di citochine”) che porta a sviluppare queste polmoniti atipiche. Se il sistema immunitario della persona colpita funziona bene non ci sono problemi e la patologia si può controllare, altrimenti diventa molto difficile intervenire. In alcune persone si è riscontrata una risposta infiammatoria eccessiva che rende inefficace qualsiasi risposta terapica. A mio modo di vedere questi sono tutti elementi che giustificano la preoccupazione. Ma non si può non tener conto che si è perso tanto tempo». In che senso?, chiediamo alla ricercatrice dell’Enea. «Da tanto tempo ci si aspettava che prima o poi si sarebbe sviluppato un virus del genere. Sin dai tempi della Sars (2002-2003) si pensava che avremmo dovuto affrontare prima o poi, a livello globale, una di queste infezioni respiratorie, a trasmissione da uomo a uomo. Per questo dico che bisogna essere più preparati». U

n fattore decisivo è quello del tempo che occorre per produrre un vaccino efficace. Alcuni anni fa occorrevano anche 6-7 anni per mettere in commercio un farmaco. Oggi, come detto, l’Oms parla di 18 mesi, come mai? «Una svolta si è avuta con l’ebola. Le procedure “classiche” richiedevano la sperimentazione animale e poi quella clinica. L’ebola ha fatto sì che venissero approvate delle procedure più rapide. È stato realizzato un virus ricombinante che produce le proteine dell’ebola ottenendo quindi un vaccino molto visibile dal sistema immunitario. Dopo di che è stato subito provato in Africa dove c’era l’epidemia con buoni risultati. Era successa una cosa simile con un’epidemia di dengue emorragico a Cuba nel 1981. Bypassando gli iter convenzionali si fece un tentativo di cura con l’interferone, un farmaco che fino a quel momento era usato in tutto il mondo come anticancro, e ha funzionato».
Ma essere più preparati a gestire emergenze come quella in corso, secondo Rosella Franconi significa anche altro. «Oltre a fare ricerca vera e propria e dei trials veloci ed efficaci, si arriva ad esser pronti all’emergenza quando l’opinione pubblica ha un buon livello di cultura e conosce il metodo scientifico. Questo porta con sé il rispetto e la fiducia per la scienza e per chi fa ricerca e aiuta a non cadere vittime delle fake news. Quindi è necessaria una informazione corretta e divulgazione attraverso canali e comunicatori qualificati». Cosa, specie quest’ultima, che, come i nostri lettori sanno bene, porta l’Italia a essere tra i fanalini di coda in termini di percezione ad esempio dei rischi di non sottoporsi e sottoporre i bambini a vaccinazioni, anche le più “comuni”.

La spinta dell’opinione pubblica è importante. Ma è altrettanto importante anche la “presenza” e l’attenzione dello Stato. Rosella Franconi porta l’esempio del vaccino per la Sars. «All’Enea, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, producemmo le proteine di Sars da pianta, dopo di che abbiamo visto che venivano riconosciute dai sieri di pazienti cinesi convalescenti. Era una risposta incoraggiante. Ma abbiamo pubblicato questo lavoro solo nel 2016. La ricerca richiede continuità a tutti i livelli. Invece il progetto sulla diagnostica per la Sars è stato finanziato solo per un anno. Perché a un certo punto il virus si è “addormentato” da solo e l’emergenza è cessata e con essa i finanziamenti alla ricerca. Non è accaduto solo a noi: tante ricerche e studi sono rimasti incompiuti. C’è addirittura chi è arrivato al vaccino ma non ha finito i trials. Sicuramente deve cambiare qualcosa». Ecco, conclude la scienziata, «la speranza ora come ora è che succeda come con la Sars e il coronavirus si estingua naturalmente. Ma con l’auspicio che la ricerca sul vaccino preventivo continui. È importante in questa fase continuare a studiare, e fare ricerca, per capire anche che virus è questo da dove è venuto. Ma tutti i benefici si vedranno più avanti, tra diversi anni».

Un’altra cosa importante che questa esperienza ci dovrebbe insegnare è la seguente: qual è il ruolo delle assicurazioni e della sanità privata in questa epidemia? Nessuno. «È chiaro – conclude Franconi – che solo il sistema di salute pubblica può garantirci tutte le cure (e le misure di prevenzione) necessarie. Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito ad un depauperamento di personale medico e sanitario (anche a seguito dell’introduzione del numero chiuso nelle Università) e ad una emorragia di cervelli. Inoltre, i bandi di ricerca pubblici hanno spesso privilegiato gli Istituti di ricerca privati piuttosto che quelli pubblici. Ecco, su questi temi è giunto il momento di aprire una discussione approfondita».

L’articolo è stato pubbicato su Left del 28 febbraio

SOMMARIO

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Cari studenti

Il #buongiorno migliore l’ha scritto ai suoi studenti Domenico Squillace, dirigente scolastico del liceo scientifico Volta di Milano.

“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia…..”

Le parole appena citate sono quelle che aprono il capitolo 31 dei Promessi sposi, capitolo che insieme al successivo è interamente dedicato all’epidemia di peste che si abbatté su Milano nel 1630. Si tratta di un testo illuminante e di straordinaria modernità che vi consiglio di leggere con attenzione, specie in questi giorni così confusi. Dentro quelle pagine c’è già tutto, la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria…. In quelle pagine vi imbatterete fra l’altro in nomi che sicuramente conoscete frequentando le strade intorno al nostro Liceo che, non dimentichiamolo, sorge al centro di quello che era il lazzaretto di Milano: Ludovico Settala, Alessandro Tadino, Felice Casati per citarne alcuni. Insomma più che dal romanzo del Manzoni quelle parole sembrano sbucate fuori dalle pagine di un giornale di oggi.

Cari ragazzi, niente di nuovo sotto il sole, mi verrebbe da dire, eppure la scuola chiusa mi impone di parlare. La nostra è una di quelle istituzioni che con i suoi ritmi ed i suoi riti segna lo scorrere del tempo e l’ordinato svolgersi del vivere civile, non a caso la chiusura forzata delle scuole è qualcosa cui le autorità ricorrono in casi rari e veramente eccezionali. Non sta a me valutare l’opportunità del provvedimento, non sono un esperto né fingo di esserlo, rispetto e mi fido delle autorità e ne osservo scrupolosamente le indicazioni, quello che voglio però dirvi è di mantenere il sangue freddo, di non lasciarvi trascinare dal delirio collettivo, di continuare – con le dovute precauzioni – a fare una vita normale. Approfittate di queste giornate per fare delle passeggiate, per leggere un buon libro, non c’è alcun motivo – se state bene – di restare chiusi in casa. Non c’è alcun motivo per prendere d’assalto i supermercati e le farmacie, le mascherine lasciatele a chi è malato, servono solo a loro.

La velocità con cui una malattia può spostarsi da un capo all’altro del mondo è figlia del nostro tempo, non esistono muri che le possano fermare, secoli fa si spostavano ugualmente, solo un po’ più lentamente. Uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l’imbarbarimento del vivere civile. L’istinto atavico quando ci si sente minacciati da un nemico invisibile è quello di vederlo ovunque, il pericolo è quello di guardare ad ogni nostro simile come ad una minaccia, come ad un potenziale aggressore. Rispetto alle epidemie del XIV e del XVII secolo noi abbiamo dalla nostra parte la medicina moderna, non è poco credetemi, i suoi progressi, le sue certezze, usiamo il pensiero razionale di cui è figlia per preservare il bene più prezioso che possediamo, il nostro tessuto sociale, la nostra umanità. Se non riusciremo a farlo la peste avrà vinto davvero.

Vi aspetto presto a scuola.

Domenico Squillace

Gente che ha paura

A note reading in Italian " Masks sold out " hangs on the window of a pharmacy in Codogno, near Lodi, Northern Italy, Saturday, Feb. 22, 2020. A dozen towns in northern Italy are on effective lockdown after the new virus linked to China claimed a first fatality in Italy and sickened an increasing number of people. The secondary contagions have prompted local authorities in towns of Lombardy and Veneto to order schools, businesses, and restaurants closed, and to cancel sporting events and Masses. (AP Photo/Luca Bruno)

C’è gente che ha paura perché abita in una regione in cui c’è una decina di persone positive al Coronavirus. Mica malate, eh: positive. Ricoverate e in salute.

È la gente che corre a comprare una mascherina (che non serve ma fa niente) pagandola anche uno sproposito in nome dell’emergenza poi cerca il disinfettante per le mani e strapaga anche quello. E si lava le mani anche dopo essersi lavata le mani. Sempre lavare le mani.

È la gente che in nome del panico assalta i supermercati anche se non c’è nessuna ipotesi di quarantena. Non si sa mai, dicono. Hanno anche annullato l’innaffiamento dei fiori sul balcone perché è meglio contenersi e stare in casa. In malora i fiori. Meglio loro che la morte che intravedono dietro ogni cantone.

È la gente che riempie i carrelli di roba, fa una fila immensa, stracarica l’auto, strascarica la spesa e la porta su per dieci piani in casa.

È la gente per cui è normale, dovuto il lavoro di medici e infermieri. Anzi, non si fidano nemmeno troppo.

È la gente che non manda i figli a scuola domani, dopodomani e nemmeno si sa se li rimanderanno, perché i figli vanno salvati da un rischio e infatti li tengono segregati nella camerata e sono pronti a uccidere chiunque si avvicini.

È la gente che pesta un cinese per difendersi e per difendere la propria famiglia salvo poi scoprire che il cinese non era cinese ma era filippino. Ma per loro l’importante è difendersi a tutti i costi.

C’è un aspetto da non sottovalutare però: la gente che ha paura e che rivendica il diritto di avere paura è la stessa gente che giudica risibile la paura di quelli che scappano dalla guerra. Dalla guerra vera. Mica dal dubbio del contagio.

Avanti così.

Buon mercoledì.

Equilibrio e fiducia

Foto Claudio Furlan - LaPresse 23 Febbraio 2020 Casalpusterlengo (Italia) News Code al supermercato per gli approvvigionamenti nella zona del lodigiano colpita dal coronavirusPhoto Claudio Furlan - LaPresse 23 Febbraio 2020 Casalpusterlengo (Italy) NewsQueues at the supermarket for supplies in the Lodi area affected by the coronavirus

Siamo un Paese con una coscienza e una conoscenza collettiva che sono in un punto basso, molto basso. Ma non è questo il momento di dedicarsi all’autoanalisi. No. Sarebbe il momento dell’ecologia lessicale, dell’ecologia dell’equilibrio.

I dati, ad esempio: stiamo parlando di un virus, il coronavirus, che non è dissimile da  un’influenza (lo dice Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, il laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di coronavirus e lo dice la virologa Ilaria Capua. Lo contesta Burioni, sì, lo so) ma questo non significa che averne paura è roba da cretini. Però i numeri dicono che l’80% dei casi ha delle conseguenze molto lievi (lo dice l’Oms, l’Organizzazione mondiale per la sanità), meno del 15% di quelli che hanno contratto il virus sono in condizioni serie e il tasso di mortalità è del 2%. Questi sono i numeri.

Tra le cose importanti da sapere e da fare c’è il non presentarsi al pronto soccorso nel caso in cui si abbiano dei sintomi sospetti ma chiamare il 1500 o il 112, ci penseranno i medici a ciò che è meglio.

L’equilibrio si ottiene tenendo presente che i numeri e i fatti sono questi. L’equilibrio è quella cosa che ci fa evitare di prendere d’assalto gli scaffali dei supermercati. L’equilibrio è la consapevolezza che non c’è nessuna pandemia. Ma l’equilibrio si ottiene anche confidando in un’informazione che la smetta di sciacallare, che la finisca con l’uso di un linguaggio che sembra descrivere la terza guerra mondiale, con un’informazione che la smetta di puntare sul terrore. Poi non facciamo finta di non sapere che il terrore produce terrorizzati, terrorismi e terroristi, per favore. Sembra il Vietnam e invece è solo un virus.

Fiducia. Ci sono organi di comunicazione (quello del governo e quello dell’Oms) che ci aggiornano passo dopo passo. Ci sono anche tanti giornalisti che stanno con fatica facendo il proprio mestiere. È l’occasione giusta per accorgersi che delle buone fonti di informazioni contribuiscono a una buona qualità della vita.

Cercate con ansia le informazioni vere, piuttosto che leggere le catene che vi arrivano via messaggio mentre arraffate mille litri di latte. La serietà è una cosa seria e prima o poi nella vita diventa indispensabile, appunto.

Buon lunedì.

Rodari e Malaguzzi: la rivoluzione della fantasia nella scuola dell’infanzia

L’incontro, o meglio gli incontri, tra due grandi menti rivoluzionarie attente all’infanzia come Gianni Rodari e Loris Malaguzzi avvenne tra il 6 e il 10 marzo del 1972 nella città di Reggio Emilia su invito del Comune, come spiega lo stesso Rodari nell’Antefatto di Grammatica della fantasia. Due personaggi di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita (Malaguzzi nacque il 23 febbraio 1920, Rodari il 23 ottobre dello stesso anno).
Fu di Malaguzzi l’idea di organizzare una settimana di formazione per le insegnanti delle scuole dell’infanzia (ex materne), elementari e medie e di avere come ospite d’onore ed eccellente formatore appunto Gianni Rodari: «Tre cose mi fanno ricordare quella settimana come la più bella della mia vita».

La prima fu il manifesto affisso dal Comune dal titolo Incontri con la Fantastica e questo lo rese stupefatto poiché dopo trentaquattro anni che quella parola gli faceva compagnia la vedeva finalmente a chiare lettere sui cartelloni che annunciavano il suo arrivo.
La seconda era sempre nel manifesto dove vi era scritto le “prenotazioni” sono limitate «a cinquanta» persone poiché un numero maggiore avrebbe fatto diventare conferenze quelle che invece dovevano essere utili come incontri. Tale avvertimento gli faceva ben pensare che il limite era dato anche dal timore che folle incontenibili di persone avessero assaltato lo spazio a quel richiamo dato dalla parola «Fantastica».

La terza ragione che lo rese felice, la più sostanziosa come lui stesso scrisse, risiedette nella possibilità che gli fu data di: «ragionare a lungo e sistematicamente, con il controllo costante della discussione e della sperimentazione, non solo sulla funzione dell’immaginazione e sulle tecniche per stimolarla, ma sul modo di comunicare a tutti quelle tecniche». Quegli incontri infatti divennero e si affermarono come strumento per l’educazione linguistica non solo dei bambini ma anche degli adulti.

Gianni Rodari in quei giorni diede agli educatori e a noi tutti innovative lezioni di grammatica. Quel libretto, come lo chiamerà, sarà sempre utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione. «Tutti gli usi della parola a tutti». Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.
Ad essere presente a quelle giornate dedicate alla Fantastica c’è un’altra importante mente, quella di Francesco Tonucci ricercatore al Cnr dal 1966, psico-pedagogista del Cnr conosciuto con lo pseudonimo di Frato, è ideatore del progetto pedagogico e urbanistico “La città dei bambini”.

Come è iniziato il rapporto con Rodari e Malaguzzi?
Con Loris dagli anni 70 ho condiviso con continuità ricerche e amicizia poiché collaboravo con lui negli asili; con Gianni sono state occasioni importanti, di scambio di riflessioni, di lavori ma anche di momenti divertenti quando ci vedevamo. La prima volta che lo conobbi fu proprio a Reggio Emilia per gli incontri sulla fantastica. Mi ricordo che la mattina scriveva il suo elzeviro Benelux per Paese Sera dettandolo per telefono alla redazione, poi preparava la lezione che avrebbe fatto nel pomeriggio al corso che tenne appunto in quei giorni per gli operatori delle scuole comunali, statali, ma se ricordo bene anche private, poiché non si volle escludere nessuno alla formazione. Rodari ci presentava le sue tecniche della fantastica che abbiamo ritrovato poi nella Grammatica della fantasia, le sperimentava lì, con noi adulti. Noi giocavamo con il binomio fantastico, l’insalata di favole, le favole a rovescio, l’errore creativo e altri esempi. Le maestre portavano la mattina seguente nelle loro classi quel che avevano sperimentato e provavano a giocare nello stesso modo con i loro alunni a costruire storie attraverso le idee che Gianni aveva dato. Io riflettevo, appuntavo, disegnavo. Ero un giovane ricercatore ma anche un allievo in quei giorni. Giravo per le scuole e girando ho ascoltato i primi frutti di queste attività delle insegnanti. Due esempi che arrivarono dalla scuola dell’infanzia Diana vengono dalla voce dei bambini La parola “ciao” e il binomio fantastico “Luce” e “scarpe”, io ero lì e portai a Gianni la notizia del successo di quegli esperimenti. Oggi queste storie inventate dai bambini attraverso le sue tecniche vivono nelle pagine del libro di Grammatica, e mi sento orgoglioso di essere stato presente alla loro nascita.
C’è anche un mio disegno che velocemente feci per appuntare immagini che si susseguivano alle tante suggestioni arrivate, Gianni lo scelse, si trova nel capitolo “Le carte di Propp” il falso eroe.
Comunque possiamo proprio dirlo, avere lì Rodari e Malaguzzi insieme, fu un avvenimento ad oggi di importanza storica.

E Malaguzzi come partecipava a quelle giornate e che visione aveva dell’educazione?
Anche se padrone di casa, poiché ci trovavamo nella sua scuola, in quei giorni era allievo come me. Lo eravamo tutti. Insieme a tutti gli altri educatori ascoltavamo e provavamo le tecniche fantastiche. Loris, nel suo lavoro per i nidi, aveva una visione chiara dell’educazione, sapeva dove voleva andare. Ragionavo spesso con lui sulle pratiche attive. Ha avuto un modo di interpretare il servizio scuola di infanzia diversamente da altre città ed altre regioni. Vigeva altrove la linea più comune di offrire una scuola dell’infanzia a tutti bambini da tre a sei anni dedicandosi pian piano col tempo alla qualità educativa, lui invece decise di voler scuole dell’infanzia subito di altissima qualità, il top, e preferibilmente per i bambini definiti “ultimi”. Ha cercato di far in modo che gli altri guardassero quella qualità armandosi anche loro di desiderio per cercare di migliorarsi, per avere più modelli simili di pedagogia, richiedendo quindi più risorse da mettere in campo per ottenere quel progetto di scuola. Forse è questa spinta che ha fatto sì che Reggio avesse le scuole più belle del mondo, con un livello molto alto.

Quale fu l’elemento rivoluzionario che Malaguzzi portò nelle scuole di Reggio Emilia?
La rivoluzione fu negli spazi, nidi belli e creativi, utilizzando vecchie case, palazzine, come la Villetta per esempio, che era un vecchia villa su tre piani, non fermandosi davanti ad ostacoli apparentemente vincolanti tipo le scale, che oggi in molte costruzioni di scuole non ci sono, ma trovando invece lì, in questo elemento, un enorme valore educativo e psicomotorio. I bambini infatti salivano e scendevano le scale con divertimento e scoperta.

Quale altri importanti esempi di cambiamento ha desiderato e realizzato?
Tanti, quello degli angoli. Si rompe lo schema, pur di valore montessoriano, con l’articolazione dell’aula in spazi diversi dove si fanno cose diverse: l’angolo casa, l’angolo libri, l’angolo della pittura, l’angolo della falegnameria… Un altro nuovo elemento che interviene sono i laboratori. Siamo negli anni 70. I laboratori di arte sono una presenza costante a Reggio Emilia; nei laboratori si lavora la creta, la ceramica, c’è il forno della ceramica. E i bambini sono esposti ad un processo scientifico perché il lavoro e la manipolazione della ceramica è molto diverso da quella del pongo e dell’uso della plastilina di cui sono sempre stato “nemico” scrivendolo anche nei miei libri. Il processo della ceramica cambia in colore e pittura e i bambini imparano a saper prevedere il cambiamento. Mentre l’uso della creta l’ho trovato dopo qualche anno anche nei nidi.

C’era una parte artistica educativa?
Certamente, un’altra grande invenzione di Loris è stata quella degli atelieristi, educatori che non avevano fatto la scuola magistrale ma bensì la scuola d’arte. Queste figure educanti venivano chiamate tramite concorso approvato dalle scuole dell’infanzia di Reggio Emilia. Erano artisti, persone dedicate all’arte con competenze. Erano culturalmente diverse e si vestivano in modo diverso, più stravagante. Poteva essere anche un rischio questa loro presenza, ma Loris era bravo a saper far collaborare tutti, anche attraverso le continue proposte formative rivolte a chiunque degli operatori della scuola: dalle insegnanti agli atelieristi, al personale di pulizie e della cucina. Perché tutte le figure, anche apparentemente marginali, hanno un rapporto quotidiano educativo importante coi bambini.
L’altra novità è che a Reggio Emilia c’erano le caprette. C’era sempre la presenza di un animale, difesa come presenza significativa.

C’è stata un’altra occasione di lavoro nelle scuole con Rodari?
Sì, dopo quella di Reggio Emilia l’ho invitato a Livorno nella scuola di Corea di Livorno. Ero membro del Comitato scientifico della scuola. Lo Stato ritenne possibile lì una scuola sperimentale e io facevo parte del consiglio. Occupandomi prevalentemente della formazione degli operatori; tutti gli anni organizzavo due corsi di formazione uno breve e uno più lungo. Era circa la metà degli anni Settanta. Gianni portò la sua esperienza di invenzione ai bambini e agli altri educatori. Dividevamo le giornate di lavoro e il lavoro in orari e gruppi, con l’osservazione finale della giornata. Partecipò anche Vea Vecchi che costruì le teorie pedagogiche dell’esperienza educativa reggiana, e altri atelieristi di Reggio, soprattutto perché era un corso di educazione creativa.
Loris anche venne a Livorno.

Erano anni importanti durante i quali si faceva ricerca, si poteva rivoluzionare il passato. Come rispondevano i partiti?
Una cosa divertente che lasciò la sinistra di stucco fu la creazione della Rivista Zerosei edita da Fratelli Fabbri che uscì per la prima volta a settembre del 1976, in un periodo di grande attenzione e grande fermento per lo sviluppo dei servizi educativi per l’infanzia e acquistò rapidamente consensi tra gli educatori. A dirigere la rivista venne chiamato Malaguzzi. Io feci parte del comitato di coordinamento insieme ad un gruppo di ricercatori e pedagogisti, condirettore della rivista era Ferruccio Cremaschi (oggi direttore di Zeroseiup). Fabbri dal ’71 era già per maggioranza acquistata degli Agnelli, e Loris era un uomo di sinistra, ma farà un atto di grande creatività. Faceva già parte della direzione nella rivista Infanzia edita da La Nuova Italia che possiamo dire vicina al partito comunista e diretta da Piero Bertolini di Bologna. Malaguzzi senza avvisare né dimettersi dalla rivista Infanzia, fece uscire Zerosei. Sono anni quelli in cui la politica è in netta competizione, c’è violenza, ma Loris segue un’operazione dal grande valore politico, rischioso, ma che va oltre i partiti. La sua idea era molto chiara; se si voleva dare un contributo alla crescita di questa dimensione della scuola dell’infanzia, che lui giustamente considerava decisiva, bisognava farlo uscendo dalle nostre “parrocchie” e riviste, che erano autoreferenziali, e parlare con gli altri. Effettivamente Zerosei entrò nelle scuole, pubbliche e private e diventò una rivista di grande ascolto. Divenne anche la sede delle mie prime vignette di Frato. Ad ogni uscita della rivista c’era una mia vignetta che poi nell’81 la Fabbri pubblicò nel libro che firmo Con gli occhi del bambino.

Ci sono altri aspetti politici vissuti insieme?
Sì, negli anni Ottanta si è aperto un dibattito sull’obbligatorietà dell’ultimo anno della scuola dell’infanzia fino ai cinque anni e noi ci siamo schierati contro perché era un modo per travisare completamente il significato di questo anno che avrebbe fatalmente terminato per diventare una sorta di primina e avrebbe impoverito l’esperienza della scuola dell’infanzia.

Vi siete trovati sempre d’accordo?
Su due punti no, ci siamo divisi pur rimanendo sempre amici.
Un discorso è quello del refettorio, che anche in scuole eccellenti come queste di Reggio rimane un posto complicato, con troppe persone insieme che fanno chiasso e questo produce un declassamento del cibo; anche se la qualità del pasto è ottima c’è troppa distrazione che non dà ai bambini la tranquillità di mangiare con calma. Alla scuola di Corea di Livorno decido di trasformare lo spazio del refettorio in uno spazio di arte e di mangiare, con i dovuti accorgimenti del caso, nelle classi. Questo cambia totalmente lo spirito, il clima, si superano i problemi. L’altro discorso in cui non ci siamo trovati d’accordo è sull’omogeneità di età. Ho sempre sostenuto le classi miste che ho voluto infatti a Livorno con bambini di età miste da tre, quattro e cinque anni e che non so per quale strada è ciò che per lo più si è adottato nelle scuole di Roma. Quindi c’era un’attività dinamica e le classi erano sempre vive e rinnovate ogni anno, mentre Reggio ha mantenuto fino ad oggi l’idea delle tre età, tanto che c’erano poi dei programmi pensati proprio per ogni anno di riferimento. Ho sempre pensato fosse più adatta la classe mista per insegnargli a vivere insieme con le loro differenze, tra chi aveva tre anni e chi quasi sei.

Il nido-scuola Diana quando fu nominato come scuola più bella del mondo?
Fu inaugurato il 7 marzo 1970 nel cuore della città, all’interno del verde del parco pubblico, nello stesso punto dove prima c’era una palazzina liberty. Si chiamava già Diana e il nome rimase. Poco più di vent’anni dopo, era il 1991, divenne famosa in tutto il mondo. Fu il magazine statunitense Newsweek che, dopo una ampia e profondo ricerca sulle scuole d’infanzia di tutta la Terra, elesse il Diana come «l’asilo più bello del mondo», un tributo agli sforzi, alle idee, di Loris. È il Diana infatti la struttura che più di qualsiasi altra ha fatto diventare il “modello reggiano” celebre in tutto il globo e in particolare negli Stati Uniti.

In Italia come è stata vissuta questa esperienza di scuole così diversa dalle altre?
Vennero addirittura “denunciate” come le scuole dei bambini comunisti. Il paradosso che dovrebbe essere sottolineato è quello che, nel momento in cui lo Stato italiano aprì l’esperienza delle scuole materne statali, quella di Reggio è già un’esperienza affermata, ma nessuno si preoccupa di studiarla e lo Stato italiano si dà una scuola dal nome “materna”; già da questo si intuisce essere vecchiotta, infatti non godrà del grande valore delle scuole di Reggio. Il Ministero non ha pensato necessario e doveroso studiare le sue migliori esperienze comunali e riproporle prima ancora di definire i programmi delle sue scuole materne.
L’Italia mantiene, grazie a Reggio Emilia, Bologna, Modena, Roma con il nido Malaguzzi di Montecucco e la grande esperienza di Pistoia, le migliori scuole dell’infanzia del mondo, ma sono tutte scuole comunali.

Cosa significa quella frase, concetto importante di Malaguzzi, che afferma che per il bambino «il cento c’è» ?
Che il bambino ha cento linguaggi e gliene rubano novantanove. Per Loris significava questo, è questo. Riconoscere che il bambino ha tanti modi di esprimersi e nell’educazione questi modi di esprimersi non vengono riconosciuti, non vengono coltivati, anzi vengono umiliati, qui c’è tutto un discorso importante che si deve approfondire sul come poter fare per mantenerli.

«Gli dicono: – che il gioco e il lavoro – la realtà e la fantasia – la scienza e l’immaginazione – il cielo e la terra – la ragione e il sogno – sono cose – che non stanno insieme. – Gli dicono insomma – che il cento non c’è – . Il bambino dice: – invece il cento c’è» (da  I cento linguaggi dei bambini, Junior 1995)

Dal Viminale al tribunale

Diciotti, Gregoretti, Open Arms, Sea Watch. Grottesco come “il Capitano” si trovi coinvolto in vicende giudiziarie note per i nomi delle imbarcazioni cariche di migranti che ha tentato di bloccare in mare. Vicende da non equiparare, che seguiranno percorsi diversi. In ordine cronologico. La nave della Guardia costiera italiana Diciotti, il 16 agosto del 2018 salvò 190 richiedenti asilo. Il soccorso poteva avvenire prima ma il barcone con i migranti era in zona Sar (Search and rescue) maltese e il governo di La Valletta, che non ha firmato convenzioni come la Sar e la Solas (Safety of life at sea), non intervenne. Le persone a bordo di cui 37 minori e 10 donne, vennero salvate dalla Guardia costiera italiana, 13 furono fatte scendere dalla nave per ragioni sanitarie, gli altri approdarono il 20 agosto a Catania e al comandante della Diciotti, su ordine dell’allora ministro dell’Interno, venne impartito l’ordine di non permettere ai migranti di lasciare l’imbarcazione. Rimasero in rada altri 6 giorni.

La procura di Agrigento aprì un fascicolo per «sequestro di persona aggravato» nei confronti del ministro che trasmise al Tribunale dei ministri di Palermo e poi a quello di Catania, territorialmente competente. Intanto la procura di Catania aveva chiesto l’archiviazione ritenendo l’esercizio politico non sindacabile. Il Tribunale dei ministri non accettò tale richiesta in quanto ravvisava «la precisa volontà del ministero dell’Interno» di privare della libertà personale le persone a bordo della Diciotti. Nonostante le violazioni emerse (art.13 della Costituzione, art. 5 Convenzione Onu per la salvaguardia dei diritti dell’uomo) la giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato respinse il 19 febbraio 2019 la richiesta. L’aula confermò la decisione il 20 marzo. Il Capitano era salvo.

Un anno dopo la Diciotti, il 25 luglio 2019, un’altra imbarcazione militare, la Gregoretti, raccolse in due distinte operazioni 135 persone, 50 salvate da un peschereccio e gli altri da un pattugliatore della Guardia di finanza. Una famiglia riuscì a farsi portare a terra, a 15 minori venne permesso di sbarcare il 29 luglio, gli altri attesero altri due giorni. La vicenda ha uno sviluppo diverso: è entrato in vigore il Decreto sicurezza bis e una nave militare non può essere fermata. Ma oltre a differenze “operative” – il reato contestato è sempre quello all’articolo 605 del Codice penale, sequestro di persona – è intervenuta una sentenza della Corte costituzionale (giugno 2019) secondo cui il «diritto alla vita e alla libertà» non può essere violato. Inoltre…

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Pecore con i leoni, leoni con le pecore

ROME, ITALY - APRIL 25: Italian Labor Minister and deputy Prime Minister Luigi Di Maio attends a ceremony at the Synagogue to remember the 74th Liberation Day (Festa della Liberazione), on April 25, 2019, in Rome, Italy. The ceremony was organized by Rome's Jewish community to mark the 74th anniversary of the end of the Italian Civil War and end of the Nazi occupation in Italy during World War II. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

Lo so, potrebbe sembrare il solito benaltrismo, la volontà di non fare qualcosa adducendo ogni volta un problema più grande o più urgente ma la questione del taglio dei parlamentari (meglio: dei costi della democrazia) stride enormemente rispetto al costo della Chiesa cattolica nelle casse dello Stato, con una differenza sostanziale: il Parlamento rappresenta tutti i cittadini mentre la Chiesa rappresenta solo una parte di essi, anche se la pagano tutti.

Il taglio dei parlamentari su cui si stanno lanciando ad ali spiegate i 5stelle (che intanto invece hanno smesso di tagliarsi lo stipendio ma anche questo sembra sfuggire all’attenzione popolare) farebbe risparmiare 1,3 euro a persona l’anno, 3,12 euro a famiglia: davvero siamo sicuri di volere bere un caffè in più ed essere meno rappresentati in Parlamento? Perché se invece la recondita soddisfazione di vedere qualche parlamentare in meno deriva semplicemente da uno spirito di vendetta nei confronti di qualcuno allora sarebbe consigliata un’iscrizione alla palestra più vicina o a un corso di yoga, il risultato sarebbe lo stesso.

Sapete invece quanto costa il Concordato? Facciamo un po’ di conti: i Patti Lateranensi del 1929 prevedevano un…

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Facile fare la carità con i soldi degli altri

Viviamo in un Paese con problemi di bilancio. È quindi ovvio che da anni il Parlamento, la politica e la stampa si interessino del contenimento della spesa pubblica. Ciò che desta stupore è la quantità impressionante di tempo, risorse, parole dedicati a uno specifico possibile risparmio stimato in 80 milioni quando ne esiste uno che porterebbe a risparmiarne 3mila di milioni. Che se attuato sanerebbe pure ingiustizie che ci portiamo dietro dal Ventennio.

Sono entrambe questioni impegnative per le forze parlamentari, visto che impattano sulla Costituzione. Sia la prima, il taglio dei parlamentari, che la seconda, l’abolizione del Concordato con lo Stato vaticano. Si badi, il punto non è se la riduzione del numero di parlamentari sia una causa da sostenere o da respingere: si svolga il dibattito e si decida, i nostri rappresentanti sono lì per quello. È un termine di paragone come potrebbe esserlo l’abolizione del Cnel, se l’abolizione del Cnel avesse occupato il dibattito politico per anni. Il punto è che a parità di sforzo necessario – avere i numeri in Parlamento per far passare una modifica costituzionale – i fatti ci dicono che c’è stata e ci sarà attività politica straordinariamente intensa per risparmiare 80 milioni, mentre c’è il vuoto pneumatico per risparmiare quaranta volte tanto.

Se sull’aritmetica non c’è storia, l’obiezione potrebbe esserci sul merito. Andiamo quindi a vedere se i 3 miliardi di costi diretti e indiretti che gravano ogni anno sui contribuenti italiani a causa del Concordato Stato-Chiesa sono tutto sommato un sacrificio di cui essere soddisfatti in una democrazia liberale. E la risposta è no, perché come anticipato ci troviamo di fronte a ingiustizie che non a caso hanno origine in epoca fascista, quando l’11 febbraio 1929 Mussolini firmò i Patti Lateranensi con la Santa Sede.

Le cifre meno rilevanti sono per certi versi le più odiose: possibile che nel terzo millennio si debbano pagare 5 milioni l’anno per le bollette di acqua e luce del Vaticano? O che gli assistenti religiosi cattolici negli ospedali (costo 35 milioni), i cappellani nelle Forze armate (20), nella Polizia (9), nei cimiteri (6) e nelle carceri (8) siano a libro paga dello Stato? Le voci più importanti sono le più note: l’otto per mille, col suo impianto ingannevole e palesemente discriminatorio…

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Giochi di potere sulla pelle degli abitanti di Idlib

FILE - In this January 30, 2020 file photo, Syrians sit in the back of a truck fleeing the advance of government forces, as they head towards the Turkish border, in Idlib province, Syria. Hundreds of thousands of Syrians have fled recent government bombardment of the last rebel bastion, the northwestern Idlib province, seeking shelter from harsh winter weather in muddy tents and half-constructed buildings. As government forces advance, areas deemed safe are rapidly shrinking. (AP Photo/Ghaith al-Sayed, File)

La battaglia per liberare Aleppo e Idlib continuerà insieme a quella per liberare tutto il suolo siriano». In un discorso televisivo il 17 febbraio, il presidente siriano Bashar al-Asad non ha nascosto la sua soddisfazione per i progressi militari del suo esercito nel nord ovest del Paese. Una soddisfazione comprensibile visto che la conquista dell’intera provincia di Idlib è ormai prossima grazie, soprattutto, al sostegno della Russia. L’offensiva del governo siriano in quest’area della Siria controllata principalmente dai qaedisti di Hayat Tahrir al-Sham è stata più volte annunciata in questi 9 anni di guerra. Nel 2018 la Turchia (sponsor dell’opposizione) e Russia erano giunti ad una intesa a Sochi che prevedeva la fine dell’attacco congiunto russo-siriano in cambio dell’allontanamento dei miliziani jihadisti anti-al-Asad attivi nella zona.

Ma l’accordo non è mai stato rispettato e così, conscio della sua forza sul terreno grazie all’appoggio dell’alleato russo, lo scorso aprile il governo siriano ha dato il via ad una nuova campagna militare nell’intera provincia i cui frutti si sono visti soprattutto in questi ultimi due mesi nei quali Damasco ha recuperato gran parte del territorio dalle mani dell’opposizione.

La tensione è altissima nell’area di Idlib soprattutto da inizio febbraio quando tredici soldati turchi sono stati uccisi dalle forze governative siriane. La risposta di Ankara è stata immediata e dura: il governo islamista guidato dal presidente Erdogan ha detto di aver «neutralizzato» centinaia di soldati di Damasco e ha aumentato la sua presenza militare nella zona minacciando di colpire l’esercito di al-Asad qualora quest’ultimo non dovesse ritirarsi dai territori conquistati entro la fine del mese. Ankara si è poi spinta oltre criticando pure i russi con cui negli ultimi anni i rapporti sono buoni, nonostante Mosca appoggi forze rivali sia in Siria che in Libia. I turchi hanno accusato Mosca di aver violato Sochi perché non hanno fermato gli attacchi «inaccettabili» di al-Asad.

Pronta la difesa del Cremlino: è il governo turco ad essere venuto meno a quei patti perché non è riuscito a «ripulire» l’area dagli elementi jihadisti. I toni dello scontro diplomatico tra Russia e Turchia sono stati…

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