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Un po’ di fondotinta sui decreti sicurezza

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 10-09-2019 Roma Politica Senato.Voto di fiducia al governo Conte bis Nella foto Luciana Lamorgese, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio Photo Fabio Cimaglia / LaPresse10-09-2019 Roma (Italy) Politic Senate. Vote of confidence to the government Conte bis In the pic Luciana Lamorgese, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio

Il tema non è tanto essere d’accordo o meno con i decreti sicurezza. Il Movimento 5 Stelle non riesce a non amarli, ed è legittimo, e il Partito democratico a parole dice di essere contrario anche se non fa nulla più delle semplici parole. Il tema è che il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico governino insieme con questo dissidio di fondo che dimostra proprio una diversità culturale e una diversa visione del mondo e intanto si ostinano a rivenderci Giuseppe Conte come il grande mediatore di una mediazione che non media nulla ma appiattisce tutto. Tutto.

Se non riescono a mettersi d’accordo sulle multe alle Ong (qualcuno mi dovrebbe spiegare che senso abbia ridurle: o si è a favore o si è contro, niente minestre riscaldate) e se addirittura non si trova l’accordo per la reintroduzione dei permessi umanitari (che è la sostanziale vigliaccata operata da Salvini) allora cosa ci dicono che nelle riunioni c’è stato un clima positivo? Ma dicono davvero?

E che la Lamorgese sia diventata improvvisamente un idolo delle folle solo perché non twitta ciò che mangia a pranzo e cena possiamo dirlo una volta per tutte che sia un po’ pochino come merito politico?

Ora proveranno a mettere un po’ di fondotinta ai decreti sicurezza e tenteranno di rivenderceli come nuovi. E molti fingeranno che vada bene così in nome del governo che deve continuare anche se ha smesso di governare.

E si fingerà che tutto va ben.

Però è difficile, così. No?

Buon mercoledì.

Una nuova federazione di soggetti a sinistra?

Lo scorso sabato 15 febbraio, nell’ambito delle iniziative che precedono e accompagnano il percorso verso il congresso che terrà Sinistra Italiana, si è svolta a Roma una interessante assemblea, dove a interrogarsi sulla situazione politica e sociale e sui compiti della sinistra, sono stati invitati numerosi esponenti politici e personalità della cultura.

Davvero una bella giornata, dove sono intervenuti, a vario titolo e offrendo ciascuno un pezzetto di analisi personalità importanti, vive e riconosciute del mondo frastagliato della sinistra. Altre ne mancavano, ma certo un bello spaccato del nostro mondo.

Sono giunti diversi contributi, dal messaggio di Cuperlo, alle appassionate analisi di Vendola e Mussi, tra le più lucide riflessioni sullo stato della sinistra e insieme coniugate a tangibili sentimenti e passioni, mai scaduti in sterile nostalgia.

Tra i tanti interventi ascoltati, il senso della giornata si può riassumere, a mio parere, in quelli proposti da Elly Schlein, Francesco Laforgia e Nicola Fratoianni.

Elly, la giovane animatrice della Lista “Emilia Romagna Coraggiosa” che ha contribuito ad evitare la temuta sconfitta, nel ricordare come l’Italia non sia l’Emilia Romagna, ha voluto mettere in guardia dalla tentazione di pensare che basti estendere automaticamente quella esperienza a tutte le realtà. Ha invitato, però e soprattutto, a valorizzare il metodo di quella scelta: ascolto, condivisione, unità, che sono stati la chiave vera per darsi un’identità precisa, farsi riconoscere come unica proposta socialista, ambientalista e femminista, e avere perciò il peso e l’autorevolezza che serve a imporre le tematiche che la sinistra deve rappresentare. Elly Schlein ha perciò insistito sulla necessità di ritrovarsi in un percorso comune, immaginando che, se proprio non si riesce a far nascere un soggetto unico, almeno si instauri una rete permanente di confronto e di azione (il metodo Coraggiosa), suggerendo o persino una sorta di federazione tra i soggetti.

Laforgia, portavoce nazionale del Movimento Politico èViva, è stato capace di coniugare la necessità politica di procedere verso la creazione di un soggetto unitario di sinistra, da tempo avvertita, invocata e disattesa, alle ragioni fondanti, culturali, sociali, filosofiche, sentimentali, che giustificano la ragione dell’essere sinistra, citando uno degli insegnamenti di Massimo Fagioli (.…la sinistra ha capito cosa fa star male le persone, ora deve capire cosa le fa stare bene….). Quindi ricerca di unità, secondo una visione ben più alta di meri accordi di segreterie, di fallimentari assemblaggi di sigle, ma come percorso di elaborazione complessa, che risponda al ruolo storico della sinistra.

Fratoianni, ultimo segretario di Sinistra Italiana, ha denunciato, o meglio riconosciuto, l’insufficienza e limitatezza di analisi di questi anni, gli errori commessi, ciascuno per la sua parte, la necessità di un soggetto nuovo, ampio e inclusivo, avendo chiaro che ciò passa necessariamente anche per un ricambio della classe dirigente di questi disgraziati anni.

Insomma, parole importanti, pesanti, nei tre interventi citati e che da soli giustificano e nobilitano l’assemblea romana.

Tre interventi il cui cuore sostanziale è ancora una volta la necessità di costruire un nuovo soggetto unitario, senza veti, senza preclusioni, inclusivo.

Parrebbe la volta buona: finalmente si ha consapevolezza dell’urgenza di partire per un nuovo e più ricco viaggio comune, mettendo fine a risentimenti e incomprensioni reciproci perché si parla di valori e di metodo, rendendosi conto che la posta in gioco è ben più alta dei propri singoli destini, perché ci si rivolge finalmente al Paese e non ai palazzi, perché si capisce che bisogna contaminarsi, tra soggetti politici ma soprattutto tra paese reale e le sue tante esperienze civiche e di attivismo finora senza rappresentanza.

E però non si può non ricordare come queste stesse parole sono state recitate già tante volte? Almeno, per restare agli ultimi anni, dalla nascita del progetto Leu, che nelle dichiarate intenzioni si sarebbe trasformato da soggetto elettorale a partito unitario, e poi con la lista de La Sinistra proposta alle Europee. Ricordiamo, in entrambi i casi i “mai più divisi”, addirittura spingendosi a prometterlo persino qualunque fosse stato l’esito elettorale. Ciò, come sappiamo, non è stato.

Perciò è bene entusiasmarsi di nuovo, seduti nella platea della sala romana, ma anche verificare passo dopo passo se e quanto a quelle parole corrisponderanno fatti reali.

Il congresso di Sinistra Italiana, ad esempio, può rappresentare uno snodo importante, per certi versi decisivo a breve, verso la ricomposizione della sinistra o perlomeno l’avvio di una rete permanente della sinistra, come proponeva Elly Schlein. Ma se l’agognata apertura si traducesse nell’invito ad annettersi all’attuale partito, se i gruppi dirigenti, benché auspicati, rimanessero gli stessi, se l’apertura si rivelasse in una richiesta di sostanziale diluizione di vari soggetti nel corpo stanco e provato di Sinistra Italiana, allora dovremmo constatare per l’ennesima volta che le parole resterebbero tali.

Rinnovarsi, aprirsi, includere, contaminarsi, immaginare un campo anche più ampio di quello presente il 15, vuol dire mettersi in gioco, sciogliersi come passaggio obbligato per ricomporre insieme una cosa più grande e nuova, fare il primo necessario passo, indicare la rotta e non illudersi che basti una semplice operazione di chirurgia estetica a determinare la bontà dell’operazione.

Facciamo nostra la volontà e la passione del disperso popolo della sinistra, ricongiungiamo i sentimenti.

Il clima dell’assemblea del 15 lascia intravvedere prospettive utili, si approfitti della scomposizione, persino disorientata, del quadro politico generale, ci si abbeveri alla forza e passione che riemergono dalle piazze rianimate, si cominci a lavorare da subito a questo processo, non si perda tempo, si sia coerenti e generosi. Ci sono teoricamente tre anni per trovare un bandolo prima delle prossime elezioni politiche. Facciamo in modo che non sia anche questa l’ennesima occasione mancata.

Lionello Fittante è cofondatore associazione politico-culturale #perimolti e aderente al movimento politico èViva

Quella sull’aborto non gli è uscita per caso

Salvini ha detto una cazzata. Un’altra. Un’altra volta. E ancora c’è chi dice che bisognerebbe fare finta di niente, che dovremmo ignorarlo perché altrimenti portiamo voti a Salvini (Gipi ne ha fatto un video che è un capolavoro).

Però qualche considerazione sulla sua frase (che non riscrivo qui per non insozzare il buongiorno) secondo cui le donne (ovviamente straniere oltre che donne, così sono una minoranza al quadrato) abortiscano al Pronto soccorso andrebbe fatta.

Innanzitutto al Pronto soccorso non abortisce nessuno: si tratta di contraccezione d’emergenza che non è una pratica abortiva (l’ha scritto benissimo la segretaria di Possibile, Beatrice Brignone). Questa visione degli aborti che avvengono nelle corsie d’ospedale è qualcosa di fantascientifico. Anzi, a voler ben vedere è quasi fantascienza anche negli ospedali pubblici visto che sono pieni di medici obiettori che si rifiutano di praticare l’aborto per i rimorsi di quella stessa coscienza che poi non usano nei loro costosissimi studi privati. Tanto per cominciare.

Poi, volendo ben vedere, è curiosa questa pratica per cui uomini senza utero giudichino con tanta superficialità scelte molto dolorose delle donne. Ma non è un caso, no: sono gli stessi uomini che giudicano con molta superficialità i dolori degli altri, le povertà degli altri, le disperazioni degli altri e gli errori degli altri. Tutto nella norma.

Poi c’è quell’aggettivo, “incivili”, usato a sproposito eppure che si applica perfettamente a un ex ministro che per farsi notare deve fare il razzista, il maschilista e l’arrogante. Un incivile, appunto.

Tra l’altro da quando l’aborto è diventato legale si è enormemente ridotto, come pratica. Se Salvini è contro l’aborto gli basta sostenere la contraccezione gratuita e i consultori. Ma ovviamente a lui il problema vero non gli interessa.

Infine stupisce che vi stupiate: ma davvero credete che il DDL Pillon e il congresso sulla famiglia di Verona non presupponessero un pensiero di questo tipo? Beh, ben svegliati.

Ha giocato la carta dell’aborto per recuperare un po’ di visibilità. Rimarrà sepolto dalla vergogna, prima o poi.

Buon martedì.

Turchia senza diritti, chi difese Gezi Park ora rischia l’ergastolo

La prima volta che ho visto Mücella Yapıcı era seduta sul lato destro dello schermo nel documentario Ekumenopolis – City Without Limits, del regista turco Imre Azem. Era il 2011, due anni prima che esplodesse la più grande protesta di massa della Turchia moderna, a difesa del parco Gezi; erano tempi non sospetti in cui però Mücella e Imre già abbozzavano i temi che avrebbero mobilitato milioni di turchi nelle strade di tutte le principali città del Paese, da Istanbul a Diyarbakır.

Nel video, Mücella ha sullo sfondo due file di pilastri della Sümerbank, un edificio abbandonato nel cuore di Istanbul prima di proprietà dello Stato, oggi privatizzato; Mücella parla della speculazione edilizia della sua città, dei rischi ambientali e idrogeologici a cui l’espansione verso nord dell’antica Costantinopoli sta andando incontro, in nome della gentrification e dell’egemonia del mattone. Si pone una domanda semplice, Mücella: «È possibile costruire un albergo nel cuore di Central Park a New York? Ovvio che no; perché è chiaro che quel luogo serve alla città per respirare, affinché la pioggia raggiunga il suolo. A Istanbul, invece, chiamiamo “modernità” la volontà di costruire parcheggi sotto i nostri parchi».

La difesa di Gezi, nel 2011, era ancora lontanissima, eppure Mücella in qualche modo la stava anticipando, ne sollevava già le dinamiche, i rischi. E nel 2011 Mücella di certo non sapeva ancora che la difesa di quello spazio verde nel cuore della sua città le si sarebbe ritorto contro, le avrebbe cambiato la vita per sempre. Oggi Mücella è alla sbarra degli imputati nel processo più importante della storia repubblicana turca, il processo di Gezi Park, insieme ad altri 15 esponenti della società civile turca, e dove lei rischia una condanna all’ergastolo aggravato; è un processo simbolo, dal profondo valore politico, un veicolo con cui il governo vorrebbe mandare un messaggio chiaro a chiunque osi opporsi, alimentando un clima di tensione che non ha eguali nella storia della Turchia e nell’Europa moderna.

Mücella e gli altri 15 imputati, di fronte alla trentesima Corte penale di Istanbul, sono il capro espiatorio su cui si vogliono far ricadere tutte le colpe di quelle tre settimane di proteste, compresi i danni a 259 veicoli privati, 103 mezzi della polizia, edifici pubblici, le sedi di partiti politici di maggioranza e opposizione; Mücella e gli altri 15 imputati devono rispondere anche dei danni a telecamere di sorveglianza, semafori, pali della luce, fermate degli autobus, tabelloni pubblicitari e cassonetti della spazzatura, danni a parchi, giardini, moschee e cimiteri.

Mücella e gli altri 15 imputati sono chiamati a rispondere di tutto, con una generica, generale accusa di aver tentato di sovvertire l’ordine costituzionale e di rovesciare il governo di Erdoğan attraverso le medesime proteste. L’atto di accusa, un faldone di 657 pagine, presenta ben 757 denuncianti; i principali sono il presidente Erdoğan e tutti i ministri del 61esimo governo. L’accusa chiede dai 606 ai 2.970 anni a ciascuno dei 16 imputati.

«Oppormi al progetto che voleva stravolgere piazza Taksim e l’adiacente Gezi Park era un preciso dovere del mio lavoro», mi spiega Mücella, in un bar a Berlino nel quartiere di Kreuzberg lo scorso maggio. Mücella ha ben due lauree, in architettura e in ingegneria. Con la morte del marito nel 2005, lascia la professione di architetto per seguire una visione più politica e filosofica della sua attività. Entrò a far parte della Camera degli Architetti di Istanbul e della Commissione sulla Valutazione dell’impatto ambientale all’interno della Camera.

«Come rappresentante della commissione», continua Mücella, «avevo l’obbligo costituzionale di valutare che i progetti proposti fossero di interesse pubblico; i membri di tali commissioni, qualora valutassero negativamente i progetti, hanno persino il dovere di trascinarli in tribunale. Questo mio ruolo sociale ha cominciato ad avere un’importanza crescente da quando, a partire dagli anni 80, l’Akp ha dato via a tutta una serie di riforme neoliberiste, attraverso le quali le nostre città, le aree naturali, le nostre coste e le nostre foreste cominciavano ad essere viste soltanto come un mezzo di accumulazione di capitale. Sono centinaia i casi finiti in tribunale, per tutta una serie di pratiche che avrebbero irrimediabilmente danneggiato gli spazi urbani e naturali».

La “pedonalizzazione di Taksim” in sostanza prevedeva la costruzione di diversi tunnel al di sotto della piazza, spostando di fatto il traffico nel sottosuolo. E lì dove oggi sorge il parco Gezi, fino al 1940 sorgeva la caserma Topçu, di cui non rimane nemmeno una pietra: «la piazza Taksim, e con essa il parco Gezi e l’adiacente centro culturale Ataturk», specifica Mücella senza mezzi termini, «rappresentano un unicum storico fondamentale per questa città; quella piazza non può diventare il soffitto di un’autorimessa. E ricostruire la caserma in nome di un presunto nazionalismo – per poi trasformare l’edificio in un centro commerciale di lusso – è inconcepibile. Gezi oggi rappresenta uno spazio verde fondamentale per il centro città, ed è anche l’unico punto di raccolta del centro in caso di terremoto».

Fu in tali circostanze che il 15 febbraio 2012, in comunione di intenti, la Camera degli architetti e degli urbanisti, insieme a sindacati, partiti politici, organizzazioni di quartiere e comuni residenti, decisero di unirsi in opposizione al progetto, fondando la piattaforma Taksim Solidarity, che all’inizio contava circa 200 persone. Taksim Solidarity portava avanti la propria battaglia, con mezzi legali e democratici, con il compito principale di informare quanto più possibile i media e l’opinione pubblica. Nel frattempo il progetto venne portato in tribunale, e la prima corte amministrativa di Istanbul ritenne le obiezioni giustificate, annullando gran parte delle modifiche. Ma, con il processo in corso, il progetto è andato avanti, con il beneplacito del comune di Istanbul e del governo.

A Gezi Park come fulcro della protesta ci si arriva nell’anno successivo. Dopo aver terminato il primo tunnel – l’unico attualmente esistente, ci si rese conto di aver omesso il marciapiede; per poterlo realizzare bisognava sconfinare nel parco, e la notte del 27 maggio 2013 alcuni mezzi sono entrati nell’area verde e hanno cominciato i lavori di scavo, danneggiando l’impianto idrico e quello elettrico. «E il cantiere non aveva alcun permesso», specifica Mücella. «Eravamo lì quella notte, e per mio stesso dovere professionale ho chiesto i permessi alle persone incaricate dei lavori. E siamo stati aggrediti, con tanto di lancio di lacrimogeni a pochi centimetri dai nostri volti. Alla notizia di quella assurda violenza, catalizzata dalle dichiarazioni provocatorie da parte delle amministrazioni, nei giorni successivi sempre più persone hanno raggiunto Taksim e si sono unite alla lotta. Ma la polizia, da quel giorno in poi, ha incrementato la violenza, con l’utilizzo dei cannoni ad acqua, i proiettili di gomma e gli arresti indiscriminati».

Mücella, come membro della piattaforma Taksim Solidarity, era già stata una volta processata per i fatti di Gezi. È successo nel 2014, quando l’ufficio del procuratore capo di Istanbul inviò un esposto contro 26 persone, tra le quali la stessa Mücella. Anche in quel caso l’imputazione era diretta principalmente alla piattaforma Taksim Solidarity e ai suoi membri, con la pesante accusa di essere “un’organizzazione criminale intenta a voler sovvertire l’ordine costituito”, di aver partecipato a manifestazioni illegali ed essersi rifiutati di allontanarsi nonostante gli annunci da parte delle forze dell’ordine. L’esito del processo si è avuto il 29 maggio 2015: piena assoluzione per tutti gli imputati, verdetto definitivo nello stesso anno per il mancato appello da parte del procuratore. Tutto, in pratica, rientrava nel diritto costituzionale di partecipare a manifestazioni pacifiche.

Quattro anni dopo, sulla base dello stesso faldone che raccoglieva le indagini del processo del 2014, è stato riformulato un nuovo atto di accusa, quello tutt’ora in corso. Di prove concrete sul reale ruolo di “sovvertitori dello Stato” nemmeno l’ombra, solo un’accozzaglia di supposizioni che partono da post pubblicati sui social (sic). Nell’atto di accusa si legge che i crimini sono stati commessi attraverso le seguenti azioni: prendere in giro gli agenti (durante le proteste di Gezi Park, molti manifestanti hanno fatto gesti derisori e hanno urlato slogan agli ufficiali di servizio); stare in piedi (sic!); restare a casa (sic!); sciopero del sesso di Lisistrata (l’astensione dal sesso da parte delle donne per spingere gli uomini a protestare – dalla commedia di Aristofane e lo sciopero guidato da Lisistrata per fermare la guerra del Peloponneso); farsi nuovi amici (durante le proteste, incidenti di distribuzione di fiori hanno avuto luogo tra i dimostranti e gli ufficiali di polizia).

Un secondo processo con le stesse accuse, la totale assenza di prove, una lista infinita di imputazioni vuote, l’aggravante paranoide di aver collegato tutto anche al golpe del 2016. Per tutto questo, a tre persone è stato chiesto l’ergastolo aggravato: a Mücella, a Osman Kavala, e a Yiğit Aksakoğlu. In particolare Osman Kavala, attivista e filantropo, ritenuto il principale ideatore e finanziatore di Taksim Solidarity e delle proteste in generale, ha subito e continua a subire una detenzione preventiva da 837 giorni (a oggi, 16 febbraio); un periodo enorme che ha fatto scattare la sentenza della Corte europea per i diritti umani (Cedu) lo scorso 10 dicembre, che ne richiedeva l’immediata scarcerazione.

La sentenza della Cedu era scritta in inglese e in francese, con udienza fissata per il 25 dicembre; i giudici ne hanno approfittato per produrre una copia tradotta soltanto il 26 dicembre, con una evidente e voluta lentezza per cui non è stato necessario alcun pronunciamento. Inoltre, stando a quanto dichiarato da Segzin Tanrikulu, deputato del partito di opposizione Chp a Radio Radicale, «la corte di Istanbul sta cercando di fabbricare velocemente prove di colpevolezza per giungere ad una sentenza di pesante condanna, in modo che Kavala passi subito dalla condizione di imputato in attesa di giudizio a quella di condannato, e dunque in questo modo la sentenza Cedu decadrebbe perché si era espressa solo in merito alla lunghezza della carcerazione preventiva». Sempre secondo Tanrikulu, «l’esito di questo processo sembra già scritto; nelle scorse settimane la corte è stata sostituita, perché si era scoperto che quella precedente fosse favorevole alla scarcerazione di Kavala».

Il processo Gezi ha di certo evidenziato la triste assenza dell’opinione pubblica europea, la mancata occasione di mantenere viva l’attenzione e di porre una qualche pressione istituzionale in difesa di Mücella, di Osman, di Yiğit e di tutti gli imputati, dello stato di diritto e della democrazia tutta. Ora si attende spalle al muro l’ udienza del 18 febbraio, durante la quale con molta probabilità le condanne verranno confermate. Una sconfitta per tutti, una vittoria di un regime velato che creerà un precedente pericolosissimo.

«Prima di Gezi», conclude Mücella nella nostra chiacchierata berlinese, «ho avuto spesso difficoltà a esercitare la mia professione. Ma dopo quest’esperienza, soltanto per aver svolto il mio dovere e aver aderito ai miei principi morali, umani, mi sono ritrovata a passare di processo in processo, con un enorme carico sulle spalle. Sono stata per questi motivi in prigione, sottoposta a perquisizioni corporali, accusata di essere una terrorista. Come ho specificato con fermezza durante la mia difesa, rifiuto tutte le accuse, e se mi dovessero riportare in tribunale per la terza volta, sarò pronta a difendermi ancora allo stesso modo. Ero nel giusto, eravamo tutti nel giusto, e non ho paura; sono solo tremendamente mortificata dallo stato in cui è piombato il mio Paese».

Renzi e i gonzi

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 01-02-2020 Roma Politica Assemblea Nazionale di Italia Viva Nella foto Matteo Renzi Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 01-02-2020 Rome (Italy) Politic Italia Viva - National Assembly In the pic Matteo Renzi

Scrive Michele Serra su Repubblica:

«Matteo Renzi rischia di passare alla storia come un Bertinotti di destra. Dunque senza neanche il fascino della radicalità, niente Chiapas e molta Leopolda, e nemmeno il pretesto romantico di avere perso l’orientamento nella Selva Lacandona; al massimo lo ha perduto nei corridoi di Palazzo (Chigi), e non è la stessa cosa. Pareva l’uomo che con il quaranta per cento faceva volare il centrosinistra, è invece l’uomo che con il tre per cento ha il potere di affondarlo. Ex giovane leone del maggioritario, in grado di attrarre alle primarie anche lunghe comitive di elettori di centrodestra (e non fu un demerito), eccolo diventato un tardivo eroe del minoritario, nella migliore delle ipotesi un Ghino di Tacco fuori tempo massimo, nella peggiore un Mastella che tiene per le palle – come si dice in Irpinia e a Rignano – chi ha dieci volte i suoi voti».

Qui la questione non è tanto il ricredersi di chi è stato fan di Renzi e non è nemmeno la battaglia (legittima) sulla riforma della prescrizione. Qui c’è, per l’ennesima volta, il parlare di Renzi in quanto Renzi, rappresentante di se stesso: un Joe Gambardella che non voleva solo partecipare alle feste ma voleva avere il potere di farle fallire, solo che qui non c’è nemmeno la poesia di Sorrentino.

Come scrive giustamente Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano «Renzi ha portato il Pd al 18%, se n’ è andato convinto di avere il 40, si ritrova col 3» e con quel 3 vorrebbe essere mister 51%. Libero di farlo, sia chiaro, e noi liberi di credere che non sia nient’altro che la sua natura che non riesce a trattenere, come nella favola lo scorpione che uccide la rana morendo annegato per non essere riuscito a tenere a freno la sua natura.

Ora il primo impegno che si potrebbe prendere è quello di non essere gonzi a innamorarsi di una figurina qualsiasi e smetterla una volta per tutte di credere ai santi salvatori che ciclicamente ci si inventa. Se c’è qualcuno che spicca rispetto agli altri facciamo che gli si chiede cosa ha intenzione di fare, come abbia intenzione di farlo e poi si valutano i risultati. Sì, lo so, è difficile leggere la politica uscendo dal tifo eppure è l’unico modo per non essere gonzi ad oltranza. Perché a forza di essere gonzi poi siamo noi a pagare pegno, mica il Renzi di turno. No?

Buon lunedì.

Una riforma dei partiti in nome della Costituzione

Foto LaPresse/ Matteo Corner 21 Maggio 2019, Milano Presidio in solidarietà a Rosa Maria dell Aria davanti alla Prefettura

C’è un principio costituzionale la cui mancata attuazione è in gran parte responsabile della crisi della democrazia rappresentativa nel nostro Paese: il principio, stabilito dall’articolo 49 della Costituzione, secondo il quale i partiti sono le libere associazioni nelle quali «i cittadini hanno diritto di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Questo articolo non dice soltanto che i partiti sono i tramiti della mediazione rappresentativa tra istituzioni e società. Afferma ed impone molto di più. Stabilisce che i partiti sono i luoghi nei quali i cittadini concorrono essi stessi a determinare la politica nazionale. Secondo il ruolo disegnato dalla Costituzione, i partiti sono dunque – o meglio, dovrebbero essere – organi della società, deputati a organizzare, nella società, la rappresentanza politica: soggetti, in breve, rappresentati e non rappresentanti.

Questo radicamento sociale è stato un tratto distintivo dei partiti di massa della prima Repubblica, che pure non erano certo modelli di democrazia. Oggi quel radicamento è svanito. I partiti si sono, di fatto, statalizzati, identificandosi con il ceto politico eletto o che aspira a farsi eleggere nelle istituzioni rappresentative. Si sono trasformati, di fatto, in appendici dei loro capi, dai quali i cosiddetti “eletti” vengono in realtà selezionati; mentre i cittadini, anziché «concorrere a determinare la politica nazionale», sono ridotti a innocui spettatori che possono solo scegliere la formazione meno penosa offerta dallo spettacolo della politica. Per questo i partiti sono diventati le istituzioni più screditate.

Senza partiti tuttavia, come scrisse Hans Kelsen un secolo fa, la democrazia non può funzionare: l’ostilità ai partiti, egli aggiunse, equivale all’ostilità alla democrazia. Il futuro della democrazia dipende perciò da una riforma che dia attuazione al nostro articolo 49. Ebbene, una simile riforma non può che muovere dal riconoscimento di un’ovvietà: intanto i…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 14 febbraio

SOMMARIO

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Quando Joyce incontrò Giordano Bruno

Roma, domenica 17 febbraio 1907. Joyce esce di casa in via Monte Brianzo n. 51, a un centinaio di metri dall’attuale teatro Tor di Nona. Si reca a Campo de’ Fiori per assistere alla manifestazione in memoria del rogo di Giordano Bruno, il Nolano, lì arso vivo 307 anni prima. L’evento è ricordato per i suoi forti accenti anticlericali, e celebrazioni importanti si tennero anche in altre città del Regno d’Italia. Perugia, ad esempio, dove proprio quel giorno fu posta una targa di fronte alla Chiesa di San Domenico – Bruno era stato frate domenicano – che tuttora recita:

«Giordano Bruno/ che  nell’esame dell’assoluto/ avversò la dommatica filosofica/ precorrendo vittorioso i tempi/ trovi in questa piazza/ ove/ imperarono i suoi carnefici/ glorificazione e ricordanza/ I Partiti popolari posero/ 17 febbraio 1907».

In quello stesso giorno, ma del 1600, all’alba, a due passi dalla futura casa di Joyce, il filosofo di Nola era uscito dalle Carceri di Tor di Nona – la “presone del lo papa”, come venivano chiamate – per esser portato nudo su un carro, con la lingua in una morsa di legno per non farlo parlare, fino al rogo fatale, allestito in un luogo non distante da Campo de’ Fiori.

Il motivo per cui il giovane irlandese, appena venticinquenne, si sia ritrovato ad abitare così vicino all’ultima dimora del suo primo mentore, è una casualità; forse. Vero è, che meno di quattro anni prima, aveva pubblicato sul Daily Express – il 30 ottobre del 1903 – una recensione di un bel libro di Lewis McIntyre su Bruno in cui, alla fine della sezione biografica, nel capitolo relativo alle ultime ore del Nolano, leggiamo: «[he] went to the prison of the Tower of Nona».

Proprio come Bruno, Joyce aveva una memoria poderosa, quasi infallibile. Lo dimostrano il suo capolavoro, Ulisse, una vera e propria mappa della capitale irlandese, da cui la stessa città avrebbe potuto esser ricostruita, vantava lui, qualora per qualche motivo fosse stata rasa al suolo. Probabilmente deve aver riconosciuto qualche eco e somiglianza, l’irlandese, tra quel Tower of Nona e il nostro Tor di Nona. O forse no. Chi può dirlo; e importa poi? 

Diciamo di sì, e diciamo che questo scrittore dalla grande capacità mnemonica ed epifanica, in grado vale a dire di trasformare dettagli insignificanti in rivelazioni, abbia assegnato un qualche interesse simbolico alla sua temporanea residenza romana. Ripercorriamo allora un po’ della sua storia nella capitale.

Nel febbraio del 1907 alloggiava accanto a Tor di Nona da circa un paio mesi, allorché per ragioni sconosciute aveva dovuto lasciare la precedente residenza. Il fratello sospettava che l’avessero cacciato di casa per la frequente ubriachezza. Dopo qualche giorno di disperate ricerche e di notti passate in qualche albergo, Joyce trova alloggio in quella stradina di fronte a Castel Sant’Angelo, altra nota prigione papalina.

Si sarebbe ricordato nelle sue opere dei giorni passati in quella casa da cui si vedeva il fiume: un fiume che appena arrivato nella capitale gli aveva fatto paura. In una meravigliosa reminiscenza del suo dramma Esuli leggiamo: «Sedevo lì, ad aspettare, col povero piccolo tra i suoi giocattoli, ad aspettare che gli venisse sonno. Si vedevano tutti i tetti della città, e il fiume, il Tevere». A Roma ebbe per la prima volta l’intuizione di scrivere Ulisse. Era nella sua mente un racconto da includere in Gente di Dublino e avrebbe riguardato la storia di un tale Hunter di cui si diceva fosse ebreo e che la moglie lo tradisse. Hunter, insieme a tanti altri modelli reali, tra cui Svevo, sarebbe divenuto anni dopo l’ebreo non-ebreo, una sorta di eretico sui generis, Leopold Bloom, un altro fiore (di campo?).

E sì, perché bloom significa “fiore” in inglese, ma la storia non finisce qui. È anche la traduzione del cognome originario di questo ebreo proveniente dall’Ungheria, il cui padre, una volta stabilitosi nella cattolicissima Irlanda, decide di smettere di chiamarsi Virag e di diventare Bloom, adottando così la versione inglese del significato del proprio cognome. Il figlio va anche oltre: nella sua corrispondenza privata e segreta con un’amante epistolare (Martha Clifford), sceglie per sé uno pseudonimo apparentemente innocuo, eppure assai rivelatore: Henry Flower.

Nell’episodio più onirico di Ulisse, il quindicesimo, Circe, una vera e propria “memoria interna” del testo dacché vi tornano tutti ma proprio tutti i personaggi del libro – e non a caso in questo compare anche la parola bruniana per eccellenza, “mnemotecnica”, cavallo di battaglia di quel filosofo che aveva scritto il Canto Circeo – sia Bloom che il suo avatar Flower fanno la propria comparsa nei sogni-incubi del personaggi. A un certo punto del capitolo, Bloom viene accusato di essere «il toro bianco dell’Apocalisse», e un «adoratore della Donna Scarlatta»; e poi leggiamo: «le fascine per il rogo sono per lui!». E poi ancora: «Linciatelo! Arrostitelo». Dopo pochissimo, compaiono prima un Nunzio Papale e poi un tale Frate Buzz che lo «consegna al braccio secolare», proprio come era avvenuto a Bruno l’8 febbraio del 1617. È allora che l’ebreo si ritrova «eretto tra le fiamme della fenice» e «mostra ai giornalisti di Dublino i segni di varie bruciature».

Quali le colpe di Bloom prima del rogo? Questo aveva proclamato: «Mondi nuovi per rimpiazzare i vecchi. L’unione di tutti, ebrei, musulmani e gentili… Un’amnistia generale… libero amore e una chiesa libera e laica in uno stato libero e laico». Certo, aveva anche annunciato: «tre acri e una mucca per tutti i figli della natura», «parchi pubblici aperti giorno e notte. Lavapiatti elettriche», e persino un «carnevale a settimana, con licenza di maschera»; ma questi sono dettagli.

La cosa più interessante, nel modo in cui Joyce, nella sua opera eterna, fa rivivere il morente Nolano che aveva annunciato nuovi e infiniti mondi, è il fatto che un Nolan in Ulisse c’è eccome. È un personaggio, e si chiama per intero John Wyse Nolan: John come Giovanni, padre di Filippo Bruno (e come John Joyce, padre di James); e poi Wyse, quasi come wise, ovvero saggio. E infatti lui non viene bruciato vivo nel libro.

E poi, sempre in quel capitolo onirico, abbiamo non uno, ma due Filippi: “Filippo Sobrio” e “Filippo Ubriaco”, che come ha ricordato Giorello, sono un’altra versione farsesca della coincidenza oppositorum: la teoria che Bruno, traendola dal Nolano, fece poi per sempre sua; e che Joyce, traendola da Bruno, rese il principio fondante della propria arte. I contrari che coincidono sono infatti per entrambi la forza trainante dell’esistenza.

Così ricorda Joyce il giorno in cui andò alla commemorazione di Bruno: «Il giorno della processione per Bruno stavo in mezzo alla folla in attesa che apparisse il corteo. Era una giornata piovigginosa e, poiché era domenica, non mi ero lavato. Portavo in testa un feltro bianco, scolorito dagli acquazzoni. Il mantello da cinque corone di Scholz mi scendeva sul deretano. Le scarpe, poiché era domenica, avevano lo sporco di tutta la settimana e non mi ero rasato. In effetti, ero un orribile esempio di libero pensiero. Vicino a me c’erano due giovani donne carine, femmine, popolane, accompagnate da una donna anziana e da un signore di mezza età… Una aveva un amuleto attaccato a una lunga catenella e se lo sollevava continuamente piano piano fino alle labbra e ce lo appoggiava, aprendole lentamente, mentre si guardava tranquillamente intorno. L’ho osservata per qualche tempo prima di accorgermi che l’amuleto era una rivoltella in miniatura!».

Quest’ultimo dettaglio lo scioccò enormemente. A Roma, dove si era definito socialista e anche anarchico, racconta d’aver avuto incubi in cui scopriva di essere l’omicida; e poi, in Ulisse, in un ricordo turbato di Stephen dei suoi giorni parigini, leggiamo: «Eri solito portare con te biglietti forati per provare un alibi in caso ti arrestassero per omicidio da qualche parte. Giustizia. La notte del diciassette febbraio 1904 il prigioniero fu visto da due testimoni».

Il 17 febbraio, due testimoni: che scena definitiva. Di Bruno, di Joyce, o di quel fiore di campo che con Bloom rinacque dalle sue stesse ceneri, nel rogo mai definitivo della fenice?


* Enrico Terrinoni è anglista, docente all’Università per Stranieri di Perugia e traduttore. Ha lavorato su Joyce, traducendo l’Ulisse e con Fabio Pedone Finnegans Wake.

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 14 febbraio

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Come ti sovverto la democrazia

Foto Valerio Portelli/LaPresse 08-10-2019 Roma, Italia Flash Mob M5s per taglio Parlamentari Politica Nella Foto: Flash Mob M5s per taglio Parlamentari Photo Valerio Portelli/LaPresse 08 October 2019 Rome,Italy Flash Mob M5s Party Politics In the pic: Flash Mob M5s Party

Forte questo amore per la Costituzione che si fa sventolare alto solo quando torna utile per poi essere messo nel cassetto in nome della propaganda: volere essere guardiani della Costituzione e continuare a sputare sul Parlamento e sui parlamentari è il modo migliore per concimare quell’antipolitica che ha aperto le porte al populismo e alla destra peggiore. Ma fingono di non saperlo, fingono di non accorgersene.

Se si dovesse trovare un punto di partenza di questa becera discesa forse bisognerebbe tornare a qualche tempo fa, quando Beppe Grillo con le vene ingrossate rilasciava interviste in cui ci spiegava che i parlamentari sono solo un orpello della democrazia, che tutto ciò che contasse fosse sulla punta del nostro mouse e che era vergognoso che degli indegni guadagnassero così tanti soldi. Qui c’era già tutto l’errore: pensare di essere rappresentati indegnamente e credere di potere risolvere pagando indegnamente i nostri rappresentati dimostra fin da subito la stortura del ragionamento.

Nessuno che disse “troviamo deputati e senatori che siano all’altezza del loro ruolo”, no, no, ci accontentiamo di prendere dei signorsì e pagarli per quel poco che gli chiediamo in cambio. E così è partita l’idea di pagare poco gli eletti. Badate bene: non si dice di pagare il giusto (e allora ci vorrebbe una discussione, ma alta, su quanto sia giusto e su quanto sia anche il caso di togliere eventuali ingiustificati privilegi): lo scopo è quello di svilire, svilire sempre, svilire ogni giorno un po’ di più per alimentare lo sdegno da cui spremere voti. Se ci pensate l’atteggiamento contro il Parlamento è cominciato proprio in quel momento in cui ci siamo chiesti “vale la pena pagare così tanto persone che ci vengono dipinte ogni giorno come nullafacenti, corrotti e corruttori e tutto il resto? Eccola qui, la politica che decide di piallare piuttosto che costruire, quella che inevitabilmente ora arriva tutta baldanzosa al taglio del numero dei parlamentari come soluzione di tutti i mali. Eccoli quelli che vorrebbero ridurre un malfunzionamento presunto delle Camere tagliando le Camere, con la soluzione più stupida, banale e facile.
Il taglio dei parlamentari, ad esempio, è quanto di più…

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La rivoluzione ai tempi del coronavirus

Protestors hold up their smartphone lights at a rally in Hong Kong, Thursday, Dec. 12, 2019. Protesters in Hong Kong have written hundreds of Christmas cards for detainees jailed in the city's pro-democracy movement. At a rally on Thursday night, protesters promised on the cards that detainees won't be forgotten as they face spending the festive season behind bars. (AP Photo/Mark Schiefelbein)

Revolution now, la rivoluzione è ora. A Hong Kong questo è uno degli slogan alla vigilia del 25 gennaio, capodanno lunare. Gremita di persone in corsa all’acquisto agli ultimi regali ai centri commerciali, la città non si ferma nemmeno nei tempi di crisi. Questa regione amministrativa speciale della Cina è in fermento dal 9 giugno 2019, quando sono iniziate le proteste contro la legge sull’estradizione. Anche se ridotte di numero, non si placano, nemmeno con la notizia della diffusione del coronavirus.
A celebrare il capodanno lunare manifestando, ci sono soprattutto coloro che vivranno quel 2047 da cinquantenni, l’anno in cui scadranno i termini dell’accordo con la Cina che per ora prevede il principio “un Paese, due sistemi”.

È la generazione 1997, soprannominata “maledetta”: i nati nell’anno in cui Hong Kong è passata dall’essere una colonia britannica a tornare sotto il controllo di Pechino.
Per capire dove si protesta in città, bisogna seguire le notizie sull’app Telegram, dove non si rischia di essere rintracciati.

Le manifestazioni degli ultimi mesi spesso non sono state autorizzate. Come anche quella del 26 gennaio che seguiamo vicino alla stazione metropolitana di Mong Kok. Siamo testimoni della violenza della polizia che butta addosso lacrimogeni e blocca i manifestanti in una strada per perquisirli. Coloro che combattono in prima linea dal 9 giugno scorso a Hong Kong si chiamano frontliner e aiutano anche nell’organizzazione delle proteste: comprano le maschere antigas contro i lacrimogeni soprattutto, trovano i medici e gli avvocati. Lavorano ogni giorno, e sabato e domenica protestano.
Due frontliner che combattono in prima linea sin dall’inizio, ci raccontano a che punto stanno le proteste e cosa cambia con il coronavirus.

Incontriamo Nico (nome di fantasia) nella penisola della città: Caolun. Ci conduce verso il tetto di uno dei grattacieli della zona spiegando che le precauzioni sono necessarie sia per la questione della sicurezza sia per allentare la possibilità di contagio dal coronavirus. «Sono un frontliner dai tempi della Rivoluzione degli ombrelli del 2014. Per combattere in prima linea devi essere pronto a essere arrestato o ferito…

Il reportage prosegue su Left in edicola dal 14 febbraio

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Fabrizio Pregliasco: Coronavirus, facciamo chiarezza (e prevenzione)

ROME, ITALY - FEBRUARY 6: A woman walks by a mural painting by the street artist Laika depicting a woman wearing a respiratory mask and white overalls referring to the coronavirus, on February 6, 2020, in Rome, Italy. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

«I 40mila contagi rilevati nel mondo sono solo la punta dell’iceberg». Questo è l’ultimo allarme dell’Oms sul coronavirus, che raccogliamo prima di andare in stampa. Poco o nulla si sa, avverte l’Organizzazione mondiale della sanità, rispetto a quel che accade nei Paesi limitrofi alla Cina. «C’è un buio di casi che fa insospettire». E ancora, l’analisi di 22 studi internazionali ha rivelato che i coronavirus umani come quello della sindrome respiratoria acuta grave (Sars), della sindrome respiratoria del Medio Oriente (Mers) o i coronavirus umani endemici (HCoV) possono persistere su superfici inanimate come metallo, vetro o plastica fino a 9 giorni. È vero che possono essere eliminati seguendo normali profilassi igieniche ma certo la notizia fa un po’ impressione.

Partiamo da questi elementi per chiedere al professor Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università statale di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi del capoluogo lombardo, se e fino a che punto, anche qui in Italia, ci dobbiamo preoccupare. «Il virus – osserva Pregliasco – ci preoccupa in termini scientifici e soprattutto di sanità pubblica perché è un virus nuovo. I virus nuovi hanno la caratteristica di trovare tutta la popolazione mondiale suscettibile. Quindi gli interventi di sanità pubblica sia in Cina che in Italia o altrove – per esemplificare – hanno come riferimento negativo pandemie come per es. la spagnola del 1918».

Dunque, ci dobbiamo davvero preoccupare!?
La spagnola è il caso peggiore cui far riferimento per orientarsi. Non era un coronavirus ma un virus influenzale però con caratteristiche di trasmissione simili. Essendo nuovo ha colpito il 35% della popolazione e ha ucciso 40mln di persone nel mondo. Tutto ciò è stato determinato sia dalle caratteristiche specifiche del virus sia dal fatto che c’era la guerra, etc. All’estremo opposto c’è l’influenza stagionale che ogni anno colpisce una quota parte della popolazione e ci fa meno paura perché colpisce, in quota parte, solo i soggetti suscettibili. A seconda di come il virus cambia, solo per far riferimento all’Italia parliamo di 4-8 mln persone l’anno. Questa è la differenza di scenario di cui bisogna tener conto.

La diffusione del coronavirus come avviene?

Un nuovo virus che si trasmette attraverso goccioline respiratorie con manifestazioni cliniche in gran parte dei casi non gravi, chiaramente ha una capacità diffusiva enorme. Paradossalmente, per estremizzare, patologie del genere sarebbe meglio che fossero mortali come l’ebola che si trasmette meno perché uccide molto velocemente gran parte dei soggetti colpiti. In questo caso invece, specie all’inizio, i cinesi hanno continuato a vivere normalmente e frequentare luoghi pubblici ad altissima densità di contatto – metro etc – esattamente come facciamo noi nel periodo dell’influenza stagionale. Tutte queste sono informazioni utili per adottare a livello sia nazionale che internazionale le strategie possibili più efficaci, perché si tratta esattamente di ciò che dobbiamo evitare e che potenzialmente può accadere. In sostanza si parte da qui per contenere la diffusione. Del resto, se andiamo a vedere le ultime pandemie (Sars, Mers etc), siamo riusciti a bloccarle perché ci siamo attivati in questo modo.

A che punto siamo con la produzione di un vaccino e nel frattempo come si viene curati?

Le armi a disposizione ad oggi non sono poi così diverse da quelle utilizzate per la peste nel 1377 dalla Repubblica di Venezia che, per l’esigenza di mantenere attivi i rapporti commerciali con il resto del mondo, creò i lazzaretti e mise in quarantena chi arrivava da fuori. Avevano capito che bisognava aspettare 40 giorni per individuare eventuali contagi. Per il coronavirus ne occorrono 14 ma la ratio è la stessa. Rispetto al passato abbiamo però, ovviamente, diagnosi laboratoristiche e di contenimento molto più raffinate. Oggi ci sono mascherine di tutti i tipi, nel passato remoto c’erano i medici che indossavano una maschera con il naso lungo, era quel poco che facevano e non avevano chiare – come invece accade oggi – le idee sulla sepsi, la sterilizzazione e la disinfezione. Posto questo, non abbiamo altro. Vaccini e farmaci sono lontano dall’essere prodotti.

Quanto tempo ci vorrà?

Ne occorre tantissimo. Per i vaccini, almeno un anno o due. Si tenga conto che un vaccino per l’epatite impiega 6-8 anni per arrivare sul mercato. Per i passaggi di sicurezza, validazione etc. In questo caso la burocrazia sarebbe più snella però ci vogliono delle prove su almeno 50-60mila persone. In Cina dicono che stanno facendo test sui topi. Sono preliminari agli studi clinici sull’uomo. Alcuni farmaci antivirali sembra che siano efficaci e diverse strutture che hanno in cura questi casi li stanno provando. Cioè si usa quel che c’è. Si consideri poi che i pazienti sono ancora pochi. Allo Spallanzani, per dire, hanno tre persone. Uno studio clinico ne richiede almeno 20mila per poter avere una valutazione certa dell’efficacia. Quindi al momento (e per fortuna, per certi versi) mancano i presupposti.

A livello di rapidità della diagnosi, le cose come stanno?

Con i tecnici di biologia molecolare abbiamo un meccanismo molto sensibile e rapido nell’individuare i casi positivi. E aver isolato, anche in Italia, il virus vivo in laboratorio ci permette di fare ulteriori prove e individuare test ancora più precisi per stagliare la malattia. Si tratta di elementi che danno un “sostegno” alle misure di quarantena. Ma siamo sempre lì, nel 1377 avevano idee spannometriche, oggi possiamo fare velocemente una selezione di chi è o non è a rischio. Altro non c’è.

Lei è presidente di una delle associazione di volontariato che ha messo a disposizione personale per fare i controlli negli aeroporti. Ci può dare qualche dato?

Da quando abbiamo iniziato i controlli in aeroporto su 510mila persone esaminate otto avevano un po’ di febbre, ma si trattava di semplice influenza.

C’è poca chiarezza sulla possibilità che gli individui asintomatici possano trasmettere la malattia. Lei cosa ne pensa?

I dati ci dicono già che infettano di più quelli sintomatici. Ma questo avviene in tutte le malattie infettive. Gli individui non sintomatici possono avere il virus ma hanno una carica virale più bassa e possibilità minori di infettare. Poi dipende dalla tipologia dei contatti dalla durata. Si è visto che bisogna stare proprio vicino per infettarsi. Il grosso dell’infettività è dato dalle gocce più grandi che ad esempio si emettono starnutendo.

Rispetto alla Sars del 2002-2003 come giudica l’atteggiamento delle autorità cinesi? C’è più trasparenza-collaborazione con il resto del mondo?

Sicuramente come ha detto la stessa Oms i dati che conosciamo sono solo una punta dell’iceberg. Ma questo è “normale” per qualsiasi epidemia. Per quelle di morbillo che ci sono state recentemente in Italia, sappiamo che i numeri sono sottostimati per 10 volte. Pertanto anche per una patologia banale come questa del coronavirus – che soprattutto nelle prime fasi era del tutto sovrapponibile all’influenza – è comprensibile che ci siano imprecisioni. Poi certo bisogna capire quanto dicano o non dicano i cinesi. Si è visto anche con la Sars quanto hanno impiegato a “relazionarsi” con il mondo esterno. Oggi sembra che ci sia più trasparenza ma c’è un interesse politico. Da un lato Pechino vuol far vedere all’interno il livello di capacità di reazione, mostrando i “muscoli” alla popolazione. Dall’altro avendo una così grande rilevanza, rispetto al passato, a livello internazionale, è chiaro che c’è la convenienza ad interagire con l’esterno con trasparenza non dico totale, ma maggiore.

Si è molto parlato dell’ospedale di Wuhan costruito in soli 10 giorni. Si può davvero credere che una megalopoli del genere non abbia una struttura specializzata per accogliere mille persone? Cosa dobbiamo pensare della sanità pubblica cinese?

Anche quello è stato un modo per mostrare i muscoli. Non è che non avessero ospedali in grado di affrontare l’emergenza. Hanno allestito le fever clinic, per dire. Ma è stato solo un esercizio muscolare. Per dare un giudizio sul sistema sanitario pubblico cinese bisognerebbe essere lì. Sicuramente si può dire che se l’epidemia fosse nata qui sarebbe stata più rapida, quanto meno all’inizio, la circolazione delle informazioni.

C’è anche da considerare però un effetto negativo. Perché l’eccesso di informazione, se non è di qualità, può creare panico.

Esatto. Quello che viene detto dall’Oms avviene su scala mondiale ed è utile che l’informazione arrivi anche da noi. Perché lavarsi le mani o al limite indossare le mascherine – anche se non servono per il coronavirus – può servire a ridurre la diffusione dell’influenza e degli altri virus respiratori.

C’è un problema storico e irrisolto che riguarda la promiscuità uomo-animale. Sappiamo che questi virus si trasmettono dall’animale all’uomo in particolari contesti. Non è una questione solo cinese, ovviamente. Pensiamo per es. all’Africa. Ma in un mondo ormai globalizzato ci riguarda tutti e chiama in causa la lotta alla povertà e alle disuguaglianze. Le posso chiedere la sua opinione?

Non è un caso che l’aviaria sia nata in Cina. Ma pensiamo alla spagnola, oggi sappiamo che il virus viene dal sud est asiatico. Incide ovviamente l’abitudine a portare avanti stili di vita a rischio. Non solo negli ambienti rurali o nei mercati di cui tutti abbiamo visto le immagini. Ma questo accadeva anche da noi 150 anni fa. Si tenevano le galline in casa di notte per evitare i furti. In questa situazione si vede come e quanto siano vitali gli aspetti essenziali della qualità della…vita. Mi riferisco alla garanzia di acqua potabile, a una nutrizione regolare e adeguata come alla diffusione e l’accesso alle informazioni. L’ebola si diffonde in alcune zone dell’Africa subsahariana ed è difficile contrastarlo perché dove colpisce lavano i cadaveri. È chiaro che lavare un cadavere con l’ebola significa infettarsi. Quindi l’importanza dell’informazione soprattutto, e poi l’igiene e acqua e cibo in grado di sostenere l’organismo. Queste sono le conquiste del mondo più avanzato che vanno “diffuse” ovunque in maniera virale.

L’intervista è tratta da Left del 14 febbraio 2020

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