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«La violenza su un bambino è un omicidio psichico»

CARDINALE CARDINALI VATICANO CURIA ZUCCHETTO ZUCCHETTI

La strategia della Chiesa nei confronti della pedofilia è sempre stata quella di evitare lo scandalo e proteggere il confessore, che anche durante il periodo dell’Inquisizione raramente incorreva in pene gravi pur di fronte a eclatanti violazioni. I preti, in virtù di un privilegio di casta, non subivano la tortura e la carcerazione preventiva, e nel caso di auto-accusa spontanea le pene erano ancora più lievi e niente affatto commisurate alla gravità e alla reiterazione delle condotte. Non si offendano i convinti sostenitori di Bergoglio ma la strategia delle autorità ecclesiastiche, attuale e recentissima, di denuncia e intransigenza è solo il frutto di un necessario adeguamento alle mutate circostanze, dato che il problema è esploso a livello mondiale e non è più occultabile. Ogni tanto qualche prelato sfugge alle maglie predisposte dal pontefice argentino per mantenere il tema della pedofilia clericale il più lontano possibile dai riflettori mediatici al fine di gestirlo “dettando i tempi” più consoni a quelli della Chiesa.

È il caso (solo l’ultimo di tanti) del reverendo Usa, Richard Bucci, un prete di Rhode Island il quale ha vietato la comunione ai legislatori statali che hanno sostenuto la legge sul diritto all’aborto, giustificandosi così: «L’aborto è un massacro di bambini innocenti. Non c’è paragone tra pedofilia e aborto. La pedofilia non uccide nessuno, l’aborto lo fa». Premesso che la confusione tra feto e bambino la dice lunga sulla chiarezza di idee del prelato sull’argomento, dato che è da tempo scientificamente provato che la vita umana inizia alla nascita (pertanto, anche per semplice logica, chi non è nato non può essere ucciso), in “risposta” all’affermazione violentissima di don Bucci, e a dimostrazione che riflette una “convinzione” ancora molto radicata in ambito ecclesiastico cattolico (e non solo), vi proponiamo questa intervista alla neonatologa e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti che abbiamo pubblicato su Left del 31 agosto 2018.

Dottoressa Gatti, cos’è la pedofilia?
Il pedofilo è un grave malato mentale, nonostante ciò che afferma la psichiatria americana nel DSM-V, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che include la pedofilia tra i disturbi del comportamento sessuale nel gruppo delle parafilie. Giustamente c’è chi ha definito l’abuso sessuale su un minore un «omicidio psichico»: non ha niente di sessuale in quanto è un’azione, una pulsione se vogliamo usare una terminologia psichiatrica che va contro l’identità, la potenzialità psichica ed evolutiva del bambino. Il bambino rappresenta quell’identità umana, vitalità che il pedofilo ha perduto per vicende personali. Nel comportamento del pedofilo se la pulsione omicida, compulsiva e ripetitiva, rappresenta l’aspetto psicopatologico, il controllo razionale gli conferisce una qualità criminale propria delle psicopatie. Infatti quest’ultimo consente fino a un certo punto di evitare le conseguenze penali oltre che l’utilizzo di sofisticate strategie di scelta e di avvicinamento delle vittime.

Quali sono le conseguenze della violenza subita?
Tradito da una figura importante di riferimento, il minore può andare incontro a uno stato dissociativo, a una grave depressione, a sensi di colpa intensi che minano il senso della propria identità. Nel caso che le vittime siano soggetti prepuberi, ciò che si va a colpire è l’evento trasformativo fisico e psichico dell’adolescenza e la possibilità del rapporto uomo-donna.

Qual è la particolarità della pedofilia di matrice clericale?
Per comprendere il manifestarsi della pedofilia nella chiesa cristiana dobbiamo prendere in considerazione due aspetti. Il primo deriva dal pensiero greco: le donne e i bambini fino ai sette anni non erano considerate persone perché privi di razionalità; l’altro prende origine dalla concezione sacrale e trascendente dell’assoluto proprie delle religioni monoteistiche. Il cristianesimo dei primi secoli fu impegnato nell’operazione di assorbire la filosofia platonica nella propria teologia, grazie soprattutto ai Padri della Chiesa e a Origene. Platone notoriamente non amava molto il genere femminile e Origene si evirò: la dottrina cristiana relegava le donne a ruolo di madre e moglie. L’unica emancipazione loro consentita era un percorso virginale, che le rendeva simili a Maria ma che comunque le escludeva dal sacerdozio. La sessualità e il peccato erano considerati donna come Eva, e sono noti gli sforzi di sant’Agostino per poterne venire a capo. Il concilio di Trento confermando la supremazia del celibato e della verginità come ideali cristiani cercò, con esiti più che discutibili, di ripristinare l’ascetismo delle origini e accentuò il carattere maschile dell’istituzione Chiesa rendendo, se possibile, ancora più distante e astratta l’immagine femminile.

C’è chi dà la colpa al celibato ecclesiastico, quando in realtà è noto che la pedofilia è purtroppo diffusa anche in ambiente laico.
Il celibato, o la verginità, come ideale di vita clericale, imporrebbe una sorta di sublimazione per cui la sessualità verrebbe deviata dal suo scopo (dal rapporto uomo-donna) per essere indirizzata a fini di elevazione spirituale (verso un ente onnipotente ed astratto). La sublimazione è in realtà un’assenza di rapporto e il suo ideale è l’anaffettività. La pedofilia è l’esito estremo di un processo di annullamento della sessualità e del rapporto uomo-donna. Il sacro si costituisce come totale alienazione ed estraneazione da sé di ciò che è specifico della realtà umana cioè il pensiero irrazionale, costituito da sensazioni, immagini, affetti che si generano dai rapporti e danno forma alla creatività. Secondo Rudolf Otto la dimensione sacrale è «l’irrazionale nell’idea del divino» cioè una sfera misteriosa oltre la logica e la ragione. Nel tentativo di rapportarsi al sacro, il prete corre il rischio di perdere la propria identità e annullare la propria dimensione umana e affettiva: egli è facile preda dello smarrimento e del terrore che si traducono in condotte paradossali e perverse. Il sacro si costituisce come l’esperienza di un’alterità radicale, il cosiddetto “anders”, il “fascinans et tremendum” che abbaglia la mente determinando una reazione di terrore.

E cosa può accadere?
Il sacerdote che dovrebbe essere colui, come dice la parola, che testimonia l’esistenza del sacro, diventa una vittima, destinata a creare altre vittime, dell’aspetto terribile ed inquietante del sacro. Bisogna ricordare quanto scriveva Ernesto De Martino: nel momento in cui si costituisce l’esperienza del sacro si rischia di “non esserci”, di perdere cioè l’identità. In questo contesto, la pedofilia è uno specifico modo con cui si risolve nella psicopatologia la “crisi della presenza” vale a dire la crisi di identità che è insita nel rapporto con il sacro. La pedofilia nel momento in cui si lega alla realtà del sacro, sarebbe la testimonianza di una crisi (della presenza) dell’identità che non riesce a risolversi attraverso la dinamica della “tecnica rituale”, infatti il compito del rito è quello di fornire una configurazione simbolica ai contenuti psichici alienati. Verrebbe spontaneo considerare la violenza contro il bambino da parte dei preti pedofili come il risultato di uno sconvolgimento, di un mutamento catastrofico improvviso che altera tutti i criteri di giudizi e di riferimento etico.

 

Articolo pubblicato su Left del 31 agosto 2018

L’attacco ai diritti di cittadinanza ci riguarda tutti. Non solo gli immigrati

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 13-10-2017 Roma Cronaca Cittadinanza Day - Manifestazione per l'approvazione dello Ius Soli Nella foto Un momento della manifestazione a p.zza Montecitorio Photo Roberto Monaldo / LaPresse 13-10-2017 Rome (Italy) Citizenship Day In the photo A moment of the demonstration

Il pubblico riunito nella sala di una libreria milanese a gennaio non credeva alle proprie orecchie. Maurella Carbone, cittadina italiana ma residente a Francoforte da decenni, stava illustrando l’ordinamento della Rappresentanza comunale degli stranieri di quella città, di cui è stata membro per quindici anni. Dunque, in Assia, il Land di Francoforte, ogni comune con una presenza di stranieri a partire dai mille residenti è obbligato a istituire una rappresentanza elettiva. A Francoforte si ottiene il diritto di voto dopo tre mesi di residenza. Gli eletti intraprendono autonomamente vari progetti all’interno di un budget prefissato (tra cui un incontro annuale di accoglienza dei nuovi venuti) e deliberano su questioni riguardanti gli stranieri. La loro funzione è formalmente solo consultiva, tuttavia essi lavorano assieme ai membri del Consiglio e della Giunta comunale (che magari hanno la cittadinanza di un Paese dell’Unione europea, o hanno preso la cittadinanza tedesca); questo evita che la Rappresentanza si riduca a un ghetto, e la rende parte integrante della vita cittadina.

Il confronto con l’Italia è impietoso. Anche da noi sono state istituite in passato le consulte comunali per gli stranieri, previste peraltro da una convenzione del Consiglio d’Europa. Il bilancio però è perlopiù deludente, soprattutto per l’irrilevanza cui sono state costrette e la volubilità dei regolamenti comunali. Alcune consulte sono elettive, altre nominate, altre mancano del tutto, come ora a Milano, nonostante circa il 19 per cento della popolazione sia di nazionalità straniera.

Il disinteresse, una legge sulla cittadinanza tra le più restrittive d’Europa, la preminenza di casualità, discrezionalità e arbitrio nei rapporti con i migranti, l’orientamento ottusamente persecutorio da parte dei decreti Sicurezza di Salvini, tutto questo non solo ha mortificato la partecipazione e i diritti dei non italiani, ma ha effettivamente creato una classe di meteci di cui si parla tantissimo, ma che raramente prendono la parola in prima persona, e sul cui silenzio, sulla cui esclusione, si basano gli attuali rapporti di forza dell’assetto economico, sociale e politico-istituzionale. Si sarebbe permesso l’ex ministro dell’Interno di molestare pubblicamente una famiglia di migranti se ci fosse una rappresentanza istituzionalizzata di stranieri articolata su tutto il territorio e se bastassero tre mesi per rendere un residente di diversa nazionalità elettore di qualcosa?

Non è però soltanto a proposito dei migranti che possiamo constatare l’arretramento in termini di cittadinanza, anche in confronto ad altri Paesi europei. Sono tre decenni che vengono preparate con maggiore o minore fortuna riforme elettorali e costituzionali il cui scopo sarebbe “semplificare” il sistema politico, garantire “stabilità” e “governabilità”, e di fatto incanalare il consenso in sbocchi prevedibili, lubrificare gli ingranaggi decisionali per assicurare la riuscita dei progetti degli interessi dominanti senza eccessivi intoppi, cancellare la crescente complessità sociale e la pluralità di soggetti.

Ora pende la duplice spada di Damocle rappresentata dal taglio dei parlamentari, che ridurrebbe drasticamente la rappresentanza dei molteplici interessi tra i cittadini, e dall’autonomia differenziata, che sancirebbe la rinuncia a riequilibrare le disuguaglianze e l’ammissione di una cittadinanza sociale differenziata a seconda delle risorse economiche del territorio. Come nel caso dei diritti di cittadinanza e di rappresentanza che vengono negati agli stranieri, si constata un sostanziale assenso bipartisan che tronca potenziali conflitti e li seppellisce sotto la coltre di un impenetrabile silenzio mediatico. Non ci si appelli all’apparente consenso che queste “riforme” trovano nella popolazione per liquidare la discussione: è evidente il continuo degrado dell’idea stessa di cittadinanza negli ultimi tre decenni, tra aspettative di acquiescenza, chiare riduzioni della cittadinanza sociale, e incessanti sollecitazioni populiste che provengono dall’alto a nome dei cittadini, a cui si adeguano il sistema politico e il discorso pubblico.

Non a caso, si parla tantissimo del “popolo”, ma lo si fa parlare o agire molto, molto meno.
Non si vuole qui ovviamente fare paragoni incongrui tra la condizione dei migranti a zero diritti, o con i diritti garantiti sostanzialmente solo dalla nostra Costituzione e dalla legislazione europea, e quella dei cittadini italiani. Si vuole però sottolineare che la lotta per i diritti di cittadinanza e di rappresentanza per italiani e non deve procedere in parallelo, senza omissioni, perché si tratta di due aspetti diversi della stessa questione. La condizione degli stranieri non si potrà migliorare senza un’azione decisa dal basso di difesa e ripresa della democrazia e della cittadinanza; è inutile sperare nelle élite illuminate, come ben mostra la vicenda della mancata riforma della legge sullo ius culturæ.

Al tempo stesso, anche a sinistra si sono talvolta trascurati i diritti di cittadinanza dei migranti, in quanto sono stati comprensibilmente sentiti come più pressanti i problemi legati all’accoglienza, i diritti di chi si vede minacciato il diritto stesso alla vita. Ma lasciare che persista questa lampante disparità tra chi è italiano e chi non lo è anche se residente da anni, o che la partecipazione venga condizionata da professioni di gratitudine o dichiarazioni di amore per il Paese ospitante, come pretende l’apparato politico-mediatico, significa accettare gravi regressioni culturali e rassegnarsi allo sfilacciamento dei diritti di cittadinanza per tutti.

Ora è il momento della lotta contro il taglio dei parlamentari, e al tempo stesso per una nuova legge sulla cittadinanza. Contro l’autonomia differenziata e per la ratifica da parte dell’Italia del capitolo C della Convenzione del Consiglio d’Europa del 1992 che prevede il voto locale a tutti gli stranieri residenti da cinque anni, e una rappresentanza garantita per chi è residente da meno tempo. Per una legge elettorale proporzionale e rappresentativa, e contro tutti i decreti Sicurezza. È questo il banco di prova di chi difende la democrazia.

«La pedofilia non uccide nessuno, l’aborto sì»

Italian priest walking on asphalt silhouette, Rome Italy

Parole, opere e omissioni del reverendo Richard Bucci, sacerdote della Chiesa del Sacro cuore di West Warwick (Rhode Island, Usa) che ha affermato che l’aborto è peggio della pedofilia. E questo perché, dice: «Non stiamo parlando di nessun altro problema morale, dove qualcuno potrebbe fare un paragone tra pedofilia e aborto. Perché la pedofilia non uccide nessuno, l’aborto lo fa (…) Io posso solo ripetere cosa insegna la Chiesa e il diritto canonico e il catechismo. Non saprei quale altra evidenza dovrei presentare».

Il prete cattolico alcuni giorni prima della dichiarazione aveva escluso dalla vita parrocchiale 44 legislatori statali che hanno sostenuto la legge sul diritto all’aborto. Ovviamente si è aperto negli Usa un dibattito sdegnato per la frase indecente del sacerdote – pronunciata durante un’intervista concessa a Nbc 10 News, una televisione locale – ma il ragionamento è indicativo: spesso quando qualcuno affianca due elementi che non c’entrano tra loro, arrivando a ribaltare la realtà, è perché cerca di giustificare qualcosa di assolutamente ingiustificabile.

Esistono molti esempi: un ex ministro che mette insieme il Coronavirus con gli sbarchi di disperati che arrivano dall’Africa, qualche medico obiettore che usa la sua coscienza per non svolgere il mestiere che è chiamato a fare, un imprenditore che ha guadagnato tantissimo solo lui e che però vuole fare pagare la crisi ai suoi dipendenti.

Tutti concentrati a trovare presunte colpe peggiori per assolversi dalle proprie. Se incrociate qualcuno che usa questo trucco sappiate che c’è del lercio. Come nel caso di don Bucci.

Buon venerdì.

Un’epidemia di ignoranza

BEIJING, CHINA - FEBRUARY 08: A man wears a protective mask as he runs past red lanterns at a cancelled Spring Festival event at a park on February 8, 2020 in Beijing, China. The number of cases of a deadly new coronavirus rose to more than 34000 in mainland China Saturday, days after the World Health Organization (WHO) declared the outbreak a global public health emergency. China continued to lock down the city of Wuhan in an effort to contain the spread of the pneumonia-like disease which medicals experts have confirmed can be passed from human to human. In an unprecedented move, Chinese authorities have put travel restrictions on the city which is the epicentre of the virus and municipalities in other parts of the country affecting tens of millions of people. The number of those who have died from the virus in China climbed to over 724 on Saturday, mostly in Hubei province, and cases have been reported in other countries including the United States, Canada, Australia, Japan, South Korea, India, the United Kingdom, Germany, France and several others. The World Health Organization has warned all governments to be on alert and screening has been stepped up at airports around the world. Some countries, including the United States, have put restrictions on Chinese travellers entering and advised their citizens against travel to China. (Photo by Kevin Frayer/Getty Images)

Solo poche settimane fa il continente cinese si avviava a festeggiare l’annuale ricorrenza del Capodanno lunare con la più grande migrazione che la storia umana avesse mai registrato: come ogni anno e più dell’anno precedente, alcune centinaia di milioni di persone si apprestavano a prendere un mezzo di trasporto per andare a trascorrere le feste a casa o in vacanza, in Cina o all’estero. Le tanto agognate uniche vere vacanze annuali erano arrivate: l’unica occasione di reale distacco dalla frenetica vita lavorativa di oltre un miliardo di cinesi. La loro vita invece ha preso un’altra direzione.

Li Wenliang, giovanissimo oculista della città di Wuhan, ha diagnosticato per primo la presenza di un nuovo virus, subito da lui identificato come più letale di quello della Sars che, fra il 2002 e il 2003, aveva già devastato la Cina. L’appello del medico è stato censurato come procurato allarme, ma di lì a poco le autorità hanno dovuto riconoscere il merito di questo medico, poi infettatosi, che ha pagato con la sua stessa vita la sua scoperta, novello dottor Semmelweis cinese.

Nel giro di poche settimane la Cina è piombata in uno spettrale isolamento, la città di Wuhan e tutta la popolosa regione del Hubei è stata posta in quarantena e via via il periodo di vacanza a casa di centinaia di milioni di cinesi si è trasformato nella più grande quarantena di massa che la storia ricordi.
Le città cinesi, fino a poche settimane fa solcate da milioni di persone, che freneticamente giorno e notte senza sosta le attraversavano con un dinamismo per noi inconcepibile, sono scivolate in una sorta di spettrale immobilismo. Tutto sembra essersi fermato o rallentato. Mentre nello Hubei la quarantena resta totale, in altre città alcuni stanno tentando di tornare al lavoro. Le persone escono di casa il meno possibile non solo per paura di contrarre il virus, ma anche di essere trattenute e messe in quarantena nelle strutture sanitarie se gli venisse riscontrata una alterazione febbrile durante uno delle migliaia di controlli, che avvengono ad ogni angolo della strada e all’ingresso di qualunque edificio.

Decine di migliaia sono gli infettati, a volte ricoverati in ospedali di fortuna, molto spessoprivi di cure specialistiche, perché in fondo non esiste una vera cura o perché di fronte a tali numeri sembra impossibile immaginare una qualunque forma di assistenza sanitaria. Un migliaio almeno i morti ai quali non è stato possibile organizzare una qualche forma di esequie, perché portati ai crematori in tutta fretta. Decine di milioni sono i reclusi in casa, in attesa che l’epidemia passi. Per fare un solo esempio…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 14 febbraio

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Contro il virus della sinofobia

Un virus invisibile sta riemergendo, il virus della sinofobia. Un virus che ha conosciuto picchi altissimi in passato in Occidente, pensiamo per esempio alla guerra dell’oppio, una guerra di narcotrafficanti e di aggressione a Cina che fu celebrata dai liberali inglesi e francesi (da Mill a Tocqueville) come crociata per la libertà. Oppure pensiamo al veleno del Chinese Exclusion Act con cui nel 1882 gli xenofobi nordamericani ottennero e imposero misure contro l’«invasione» dei cinesi. Quella legislazione sinofoba varata negli Usa fu poi presa a modello per la legislazione antisemita in Austria e Germania. Parliamo di un passato agghiacciante che per fortuna è morto e sepolto. Ma dobbiamo stare attenti, perché la sinofobia può assumere oggi nuove forme striscianti e sottili, sotto il manto della paura del contagio da coronovirus.

E se per il coronavirus possiamo ragionevolmente sperare che si possa arrivare presto ad un vaccino (l’Oms dice che ci vorranno 18 mesi), purtroppo non esiste un vaccino che debelli una volta per tutte il virus dell’ignoranza e del pregiudizio.
Possiamo però combatterlo con le armi dell’informazione approfondita e verificata.

Contro il sensazionalismo, contro l’irresponsabilità di chi specula sulla paura, contro il lucido cinismo di politici che fomentano la xenofobia per poter imporre politiche autoritarie, abbiamo intrapreso un lungo viaggio da Roma a Pechino passando per Hong Kong. Guidati dai sinologi Federico Masini e Mauro Marescialli siamo andati a vedere cosa sta accadendo in Cina, dove colpisce anche la straordinaria reazione dei cittadini di fronte al rischio pandemia, il senso di coesione sociale e di attenzione all’interesse collettivo, ricordando il coraggio di figure come il giovane oculista Li Wenliang («nuovo Semmelweis», come lo definisce Masini) che fra i primi ha dato l’allarme e per questo è stato censurato prima di ammalarsi e morire prematuramente a 35 anni.
Con la collega Marina Lalovic (voce di Radio3 Mondo), invece, siamo andati ad Hong Kong dove proseguono le proteste per la democrazia nonostante l’emergenza coronavirus e dove i manifestanti chiedono in primis una inchiesta sulle violenze perpetrate dalla polizia.

A ben vedere i provvedimenti che i governi stanno mettendo in campo contro il coronavirus non sono sempre dettati strettamente da protocolli medici e sanitari. Alcuni stanno approfittando dell’emergenza per far passare altri messaggi. Emblematico, in questo senso, è il caso dell’Australia che ha messo in quarantena chi viene da Wuhan obbligandolo a fermarsi sulla Christmas Island, a duemila miglia dalla terraferma. Per anni le autorità australiane hanno rinchiuso i migranti senza documenti in campi offshore. «Non contaminerai il suolo australiano» è il messaggio che Canberra lancia utilizzando il coronavirus, denuncia Kenan Malik. Stabilire un falso nesso fra immigrati ed epidemie è un’operazione criminale che ha caratterizzato i momenti più bui della storia.

A questo proposito lo studioso e broadcaster inglese sul Guardian ci ricorda che nel medioevo cristiano fu gettata addosso agli ebrei la colpa della peste nera ma anche che nella Gran Bretagna del XIX secolo i lavoratori irlandesi furono additati come capri espiatori per le epidemie di colera. La caccia agli untori e la stigmatizzazione di migranti e minoranze come portatori di malattie è un esercizio criminale che ha caratterizzato non solo i regimi in senso classico. Ed è una “pratica” che arriva fino a noi e ai nostri giorni. Basta pensare a certi titoli apertamente razzisti del quotidiano Libero (che peraltro gode di lauti finanziamenti pubblici). «I migranti portano le malattie» ha titolato il quotidiano fondato da Vittorio Feltri, affermando il falso. Come molti studi dimostrano, sono ovviamente sempre i più sani a partire. Semmai rischiano di ammalarsi dopo, qui da noi, per le pesanti condizioni di miseria, ostilità e sfruttamento che dovono sopportare.

Un’altra operazione criminale è quella di etnicizzare virus e patologie, creando ad arte sospetti che generano avversione e chiusure. È quello che purtroppo sta avvenendo con il coronavirus, come denunciano anche i cittadini di origine asiatica intervistati da Amarilda Dhrami nel quartiere Esquilino e in altri quartieri di Roma. Guardati di traverso, presi a male parole ostracizzati da chi assurdamente parla di “pericolo giallo”, non sono solo immigrati e turisti, ma anche persone di origini asiatiche residenti qui da anni e che non sono più tornati in Cina. È il caso per esempio della cantante lirica Lika Bi che, come riporta il Gazzettino, è stata costretta a camuffarsi per non essere aggredita per strada a Venezia.

Il sito Cronache di ordinario razzismo sta facendo un lavoro meritorio raccogliendo e segnalando di giorno in giorno questi episodi di sinofobia, in rapida crescita. Della paura approfittano organizzazioni parafasciste come Forza Nuova distribuendo volantini con la scritta «Coronavirus? Compra italiano». Ma colpisce che anche enti culturali e istituzioni si facciano prendere sull’isteria. Ha fatto molto discutere in questo senso la circolare del Santa Cecilia a Roma che esclude dalle attività tutte le persone di origine asiatica se non si siano sottoposte a visita medica.

In questo clima di crescente caccia alle streghe merita un plauso la visita a sorpresa del presidente Mattarella in una scuola multietnica di Roma ma anche la sua idea di concerti di amicizia Italia-Cina. Fare cultura, incoraggiare la conoscenza e l’incontro con l’altro è la strada che abbiamo scelto anche noi, costruendo questa storia di copertina in cui una parte importante è assegnata al ruolo dell’informazione scientifica. Dobbiamo prendere sul serio il rischio per la salute rappresentato dal coronavirus. Ma per questo non servono allarmismi, servono i consigli dei massimi esperti del settore. Ecco cosa ci hanno detto sulla pericolosità del virus, sui rischi di contagio e sull’importanza della prevenzione.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 14 febbraio

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La verità, vi prego, su Salvini

Facciamo i seri, per favore, dai.

Salvini dice di avere difeso i confini italiani e tutti che ripetono a pappagallo. Ma davvero Salvini difendeva i confini italiani da una nave della Marina italiana? Ma vi rendete conto della boiata detta? Ma davvero i militari italiani non gli hanno raccontato che quelle 131 persone a bordo erano dei disperanti con nessuna intenzione belligerante?

E poi: Salvini dice che la sinistra e il M5S lo vogliono mandare a processo. Ma davvero il livello di ignoranza è così alto da non sapere che sono dei magistrati che hanno deciso così? Che c’entra la politica? E poi: ma non è Salvini a dire che non vede l’ora di farsi processare?

L’avete vista la scenetta? Riceve l’avviso di garanzia qualche mese fa per un processo simile e si spara una diretta Facebook per dirci di essere orgoglioso di andare a processo e poi fa di tutto per farsi salvare dal M5S che a quel tempo governava con lui. Fugge dal processo una prima volta e ora con il caso della Gregoretti ripete pari pari la stessa solfa: urla “fatemi processare!” e poi si lamenta di farsi processare. Ma non vi ha stancato, davvero?

E poi: Salvini dice che ha fatto quello che c’è scritto nel suo programma elettorale. Benissimo, quindi non avrà problemi a dimostrare la legalità del suo operato. Ma mi sorge un dubbio: visto che ha tentato di coinvolgere Conte e Di Maio questo significa che si può votare tranquillamente anche loro due per avere lo stesso programma elettorale di Salvini? Per intendersi: quindi il Capitano non è così unico nel suo agire?

E infine: quello che dice di non dovere tirare in ballo i bambini per la propaganda elettorale si è difeso con un discorso giuridicamente talmente alto che ci ha raccontato del messaggio che gli ha mandato il figlio.

Bravo. Bravissimo.

Buon giovedì.

Il 29 marzo un No contro il progetto eversivo della forma di Stato

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 08-10-2019 Roma Politica Camera dei Deputati. Ddl taglio parlamentari Nella foto l'aula della Camera dei Deputati Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 08-10-2019 Roma (Italy) Politic Chamber of Deputies. Bill on parliamentary cuts In the pic the hall

Se si rilegge con attenzione il punto 20 del Contratto per il governo del cambiamento, firmato nel maggio del 2018 da M5S e Lega, appare chiaro il loro progetto: disgregare la Repubblica parlamentare della Costituzione, da un lato riducendo la rappresentatività del Parlamento, come preteso dal M5S fautore della democrazia dei clic sul blog, e dall’altro attribuendo alle Regioni l’autonomia differenziata, come preteso dalla Lega federalista e secessionista.

Su questa base, il 1° giugno 2018 fu varato il governo Conte, che si attivò subito su entrambi i fronti. Caduto il governo, il M5S si è alleato con il Pd, sì che, il 5 settembre 2019, è stato varato il secondo governo Conte, con gli stessi obiettivi del Contratto di governo M5S – Lega: ridurre il numero dei parlamentari e attribuire l’autonomia differenziata alle Regioni.

Oggi, per suscitare consenso verso questo loro progetto eversivo della Repubblica, una e indivisibile, M5S e Pd truffano i cittadini, facendo loro credere che “il taglio delle poltrone” farà risparmiare miliardi di euro allo Stato e che l’autonomia differenziata non creerà alcun problema ai cittadini delle diverse Regioni, perché essa avverrà insieme alla determinazione dei Lep, cioè dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Argomenti falsi e bugiardi! Se, infatti, l’obiettivo della riduzione del numero dei parlamentari fosse stato davvero il risparmio, sarebbe stato molto più semplice e rapido, riunendo l’Ufficio di presidenza della Camera e del Senato, ridurre dello stesso 36,5% i compensi, anziché il numero dei parlamentari; riduzione, che, senza modificare la Costituzione, sarebbe entrata in vigore subito, anziché soltanto dopo il rinnovo del Parlamento, previsto per il 2023, cioè ben cinque anni dopo la decisione di risparmiare non miliardi, bensì un ridicolo 0,007% del bilancio annuale dello Stato, cioè, con i dati del 2019, appena 61 milioni su quasi 870 miliardi di euro.

Quanto alla determinazione dei Lep, che l’attuale progetto di legge del ministro Boccia collega all’autonomia differenziata, la truffa è ancor più evidente, sia perché i Lep, in base al secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, sono materia di legislazione esclusiva dello Stato e non di legislazione concorrente con le Regioni, sia perché il progetto Boccia prevede che l’autonomia differenziata diventi comunque operante, qualora dopo un anno dalla sua attribuzione alle Regioni i Lep non fossero stati ancora determinati dallo Stato.

Poiché siamo di fronte a un progetto eversivo sia della forma di Stato, cioè del rapporto tra istituzioni centrali e istituzioni periferiche, sia della forma di governo, cioè del rapporto tra istituzioni centrali (Parlamento, presidente della Repubblica, governo), riteniamo che sia doveroso per ogni cittadino e ogni cittadina opporsi con ogni mezzo lecito sia al progetto di legge Boccia, che con l’autonomia differenziata sgretola l’unità della Repubblica e vanifica l’uguaglianza dei diritti dei cittadini, che finiscono in balia del potere regionale, sia alla riduzione del numero dei parlamentari, che umilia e dimezza la rappresentatività del Parlamento, sottoponendolo definitivamente al Governo, peraltro sempre più numeroso, e ai capi dei partiti che lo sostengono.

Bisogna, perciò, votare NO al referendum del 29 marzo 2020, non soltanto per sconfiggere questo nuovo tentativo di disgregare la Repubblica della Costituzione, ma anche o soprattutto perché, se vince il Sì, lorsignori, forti del consenso popolare estorto, approveranno anche il progetto Boccia e altri vari “ritocchi” della Costituzione; mentre, se vince il NO, dovranno scendere a più miti e giusti consigli.

Soltanto votando NO, insomma, noi potremo pretendere:
1) una legge costituzionale attuativa del terzo comma dell’art. 116 – che prevede l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni – come solida garanzia dell’unità della Repubblica e dell’uguaglianza dei diritti sociali e civili dei cittadini, pur nel mutare dei governi e delle maggioranze parlamentari.
2) una legge elettorale, che finalmente permetta a chi vota di scegliersi sempre e comunque con voto personale e diretto chi lo rappresenti, così da mettere fine per via democratica non al Parlamento, bensì alle diverse ed evidenti storture della vita parlamentare.
Salviamo gli usi, evitando gli abusi!

 

Valentina Petrini: «Così smontiamo le fake news. E anche il razzismo e il negazionismo climatico»

Riparte mercoledì 12 febbraio alle 23.30 su Canale Nove una trasmissione televisiva in cui si cerca di affrontare il tema della fake news. Dopo una fortunata prima stagione, gli autori, in primis la conduttrice Valentina Petrini, ne parlano con entusiasmo. Il format di “Fake, la fabbrica delle notizie”, questo è il titolo del programma, è semplice e immediato con giornalisti in studio di diverse testate  e un tema portante in cui si prova a entrare nella complessità dell’argomento smontando semplificazioni, costruzioni narrative nate in assenza di fonti concrete. Nella realizzazione del programma c’è una attenzione quasi maniacale nell’uso del linguaggio e da questo partiamo per parlarne con la conduttrice che spesso ci segue.

«Si è un problema che ci siamo posti sin dall’inizio. Il nostro è un canale di nicchia ma nella trasmissione vogliamo rendere la stessa fruibilità che ha la rete. Il nostro obiettivo è far si che anche mia madre possa comprendere quello che diciamo, quali sono le fonti che utilizziamo. Io sono di Taranto e anche per questo ho una particolare attenzione per i discorsi legati al cambiamento climatico. La nostra squadra, che è molto giovane, sta lavorando sul tema partendo dal grande lavoro che si fa in Gran Bretagna su questo argomento. Siamo consapevoli che c’è uno scollamento terribile fra le persone e l’informazione, soprattutto quella mainstream, dobbiamo conquistarci la fiducia anche studiando, spaccandosi la testa, cercare nelle fonti più disparate accettando il terreno della complessità ma poi schierandoci. Giornalisti come David Puente garantisce un alto livello di professionalità, Matteo Flora, professore a contratto in “Corporate Reputation e Storytelling” e hacker contribuisce a spiegare i sistemi di analisi dell’intelligenza artificiale. Lui studia anche dal punto di vista tecnico e scientifico il funzionamento propagandistico della “bestia” di Salvini. Ma abbiamo anche reso stabile una parte di satira con Enrico Bertolino che peraltro sta portando in giro in Italia uno spettacolo teatrale dedicato alle “bufale”. E sta avendo molto successo».

Occupandomi soprattutto di immigrazione sembra che le “fake” sovrastino anche il racconto banale della realtà, che invece è molto meno preoccupante.
«La “banalità” della realtà è fuori moda. L’informazione oggi deve convincere che la realtà è di difficile comprensione. Sull’immigrazione è ancora più dura, come sai è un tema di cui mi occupo da tanto tempo e si fa fatica a rompere certi meccanismi. Anche quando si racconta delle torture nei centri libici ormai appurate, prevale la diffidenza, c’è ancora chi pensa che si esageri, che forse non è vero. Noi dobbiamo lavorare per acquisire fiducia raccontando tutta la verità, non solo una parte. Nella scorsa stagione abbiamo raccontato le bufale razziste ma oggi vogliamo anche dire della finta sassaiola contro i cinesi a Frosinone. Non è stata la comunità cinese a denunciarla ma quando si è scoperto che la notizia era falsa si è prodotto un danno enorme. In passato abbiamo parlato ad esempio dei messaggi di minaccia giunti alla senatrice Segre. Chi ha sparato la cifra di 200 messaggi di odio al giorno ha danneggiato la sua e la nostra causa. Sia ben chiaro, anche un solo messaggio è pericoloso ma è nostro compito verificare la realtà, non riportare la prima notizia che ci arriva. Per tornare alla realtà dobbiamo raccontare tutto senza peccare di “buonismo”».

Ritorna il tema della verifica delle fonti
«Sì dobbiamo spiegare anche come si fa a cercare le fonti. In passato ho avuto esperienze bellissime in alcune scuole con i ragazzi. Adolescenti che non guardano la tv, non sanno cosa sia il “Grande fratello” e cercano le fonti in tutto il mondo. Dovremmo piantarla di produrre contenuti solo per noi e parlare agli adolescenti raccontandoli e pensando a loro come fruitori. Spesso li raccontiamo in maniera macchiettistica mentre loro lavorano sulle sfumature, conoscono l’inglese, sono youtuber, affrontano temi con cui non ci siamo mai confrontati. Per questo ad esempio ci stiamo dotando di mediatori cinesi che ci raccontano quanto accade in tempo reale, stiamo cercando di farlo anche con colleghi russi anche se lì è più complesso. Non possiamo confinarci in casa nostra ma costruire una rete internazionale che allarghi continuamente i confini. L’informazione è come il mondo, non può conoscere e incontrare barriere. La rete insegna questo ed è la ragione per cui non la demonizziamo, anzi. Mi permetto di dire che la rete per certi versi è più sana dell’informazione mainstream, è il luogo in cui circolano milioni di bufale ma anche quello in cui si possono far partire mobilitazioni agendo dal basso. Ed è anche il luogo in cui le bufale possono essere smentite e smontate. Per questo mi è sembrato poco adatta una commissione parlamentare di inchiesta sulla rete. Significa affrontare con strumenti vecchi e approcci vecchi una situazione nuova. Non possiamo proporre staticità in un contesto che vede la velocità della circolazione di informazioni come opportunità per produrre anche verità e cambiamento».

Su cosa vi concentrerete nella stagione che inizia oggi?
«Alcuni temi saranno ancora presenti spesso come quelli riguardanti il cambiamento climatico. Non ci si può dividere in “negazionisti” e non. Noi abbiamo fatto una scelta e vogliamo dare voce ai tanti esperti sul tema (il 99%) che è allarmato ma anche cercare discutere con chi nega i problemi. C’è un dibattito forte portato avanti da movimenti come Extinction Rebellion che è molto proiettato in avanti. Continueremo a parlare di odio e razzismo indipendentemente dal fatto che secondo numerosi sondaggi il fenomeno è in crescita. Anche se riguardasse poche persone a negare l’Olocausto per noi sarebbe un problema. Da ultimo – e parlo da donna che a breve diventerà madre – vorrei parlare della gestione delle informazioni in campo medico rispetto alla maternità. Anche nei corsi di preparazione al parto circolano fake news ed è difficile reperire notizie “laiche” in materia. Chi non ha strumenti sufficienti rischia di non capirci nulla e di vivere anche la maternità come un momento difficile e incomprensibile. Con chi lavora come voi di Left ci sentiamo affini perché cerchiamo anche da ambiti diversi di raccontare quello che avviene realmente in questi e in tanti altri temi. Dobbiamo fare squadra e trovare modo di incontrarci presto».

Il Paese disabitato

Baby cribs at a maternity ward. Low birth rate and fertility concept.

Che poi se ci pensate è l’indicatore che racconta tutto, racconta la politica, il tessuto economico, il tessuto sociale e di colpo cancella tutte le fandonie di quelli ossessionati dal non ci stanno tutti qui: l’Italia si disabita di anno in anno, i dati Istat di ieri parlano chiaro: secondo il rapporto sugli indicatori demografici, nell’ultimo anno la popolazione è scesa di 116mila unità, un calo che continua da cinque anni consecutivi. La riduzione si deve al rilevante bilancio negativo della dinamica di nascite e morti, risultata nel 2019 pari a -212mila unità. È il livello più basso degli ultimi 102 anni. Per 100 persone decedute arrivano soltanto 67 bambini (dieci anni fa erano 96). Dati attenuati solo parzialmente da un saldo migratorio con l’estero ampiamente positivo (+143mila). Le ordinarie operazioni di allineamento e revisione delle anagrafi comportano, inoltre, un saldo negativo per 48mila unità.

Un Paese che fa pochi figli è un Paese incapace di dare ai suoi cittadini la cassetta degli attrezzi per costruire speranza. Mentre molti soloni ci spiegano che il problema sarebbe l’immigrazione ci si dimentica che l’emigrazione dal nostro Paese è un dissanguamento di talenti e di lavoratori che non riescono a trovare futuro se non andandosene. L’Italia, in Europa, ormai è tutta meridione per le occasioni che mancano.

Mentre i soloni del lavoro ci dicono che la flessibilità è una figata pazzesca non ci si rende conto che progettare una famiglia (e un mutuo e quindi dei figli) diventa piuttosto difficile con la precarietà che penzola sopra alla destra.

Siamo un Paese che non riesce ad avere futuro. Questo è il dato più allarmante di questi ultimi anni eppure la politica non sembra nemmeno in grado di proferire un concetto, un cambiamento di visione, niente. Stiamo qui a parlare di inezie senza riuscire a vedere l’allarmante quadro generale.

E se è vero che “il futuro influenza il presente tanto quanto il passato”, come diceva Nietzsche, allora anche il presente non è molto luminoso. Riusciamo a pretendere che la classe dirigente abbia uno sguardo lungo o costa troppa fatica?

La speranza dovrebbe essere il primo punto del programma elettorale, no?

Buon giovedì.

Elly Schlein: Lo sguardo delle donne che serve alla sinistra

Si è fatta le ossa come volontaria del team elettorale di Obama ed è stata la giovane battagliera di Occupy Pd. Ma soprattutto Elly Schlein è stata una eurodeputata fortemente impegnata nella difesa dei diritti umani, per politiche dell’immigrazione dal volto umano e per la revisione del trattato di Dublino. All’indomani delle elezioni regionali l’abbiamo incontrata per farci raccontare l’exploit di Emilia Romagna coraggiosa ma anche e soprattutto per parlare di un modo nuovo di fare politica a sinistra che viene soprattutto dalle donne, capaci di mettere insieme battaglie di genere, diritti dei migranti, nuova sensibilità ambientale e una decisa lotta alle disuguaglianze.

La nuova sinistra, se vuol riprendere forza per cambiare davvero le cose, non può che essere femminista, ecologista e attenta ai diritti umani, sostiene Elly Schlein. Proprio da questo ultimo delicato tema vogliamo partire per continuare a tenere desta l’attenzione sul caso accaduto nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, dove ha perso la vita il giovane georgiano Vakhtang Enukidze, che vi era recluso senza aver commesso alcun reato (vedi Left n. 5/2020). Per Enukidze si è parlato di un nuovo caso Cucchi. Se sei affidato alle mani dello Stato l’incolumità e il soccorso devono essere garantiti. «Quello che è accaduto a gravissimo. Non si può più parlare di casi singoli e isolati – commenta Schlein -. Le autorità devono fare chiarezza su quanto accaduto. Ricordo peraltro che è già successo. Anni fa in quel centro era morta un’altra persona».

Come parlamentare europea hai visitato tanti centri di detenzione amministrativa in Italia, che situazioni hai trovato?
Troppo spesso ho visto diritti negati, calpestati, ho incontrato persone senza un adeguato accesso alle strutture sanitarie e alle visite mediche, senza un adeguato supporto legale e psicologico. Dostoevskij diceva che il grado di civiltà di un Paese si misura da come vengono trattate le persone in carcere. In questo caso io non me la sentirei di chiamarli centri di accoglienza perché sono a tutti gli effetti luoghi di detenzione. E sono un monumento alla…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 7 febbraio

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