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L’opportunità di dar voce a chi non ce l’ha

Joaquin Phoenix accepts the award for best performance by an actor in a leading role for "Joker" at the Oscars on Sunday, Feb. 9, 2020, at the Dolby Theatre in Los Angeles. (AP Photo/Chris Pizzello)

«Mi sento così grato in questo momento. Non mi sento superiore rispetto agli altri candidati o a chiunque altro in questa sala, perché condividiamo lo stesso amore: quello per il cinema. E questa forma di espressione mi ha regalato una vita straordinaria. Non so dove sarei senza.

Ma penso che il regalo più grande che mi sia stato donato, come a molti altri in questa sala, sia l’opportunità di dar voce a chi non ce l’ha. Ho pensato molto ai problemi più angoscianti che ci troviamo ad affrontare come collettività.

Credo che a volte siamo convinti di sostenere cause diverse. Ma penso che abbiano qualcosa in comune. Penso che quando parliamo di disuguaglianza di genere, di razzismo, diritti lgbtq, diritti dei popoli indigeni o diritti animali, stiamo semplicemente parlando di lotta contro l’ingiustizia.

Stiamo parlando della lotta contro la convinzione che una nazione, un popolo, una razza, un genere o una specie abbia il diritto di dominare, usare, sfruttare e controllarne un’altra con impunità.

Penso che ci siamo disconnessi dal mondo naturale. Molti di noi sono figli di una visione egocentrica del mondo, per questo crediamo di essere il centro dell’universo. Andiamo nella natura e deprediamo le sue risorse. Ci sentiamo autorizzati a inseminare artificialmente una mucca e a rubare il suo piccolo non appena lo dà alla luce, nonostante i suoi inequivocabili pianti di disperazione. Poi prendiamo il suo latte che sarebbe destinato al cucciolo e lo mettiamo nel caffè o nei cereali.

Credo che abbiamo paura dell’idea del cambiamento personale perché pensiamo di dover sacrificare qualcosa, o rinunciare a qualcosa. Ma gli esseri umani al loro meglio sono creativi e ingegnosi. Quando usiamo l’amore e la compassione come princìpi guida, possiamo creare, sviluppare e implementare sistemi di cambiamento che fanno bene a tutti gli esseri senzienti e all’ambiente.»

(È il discorso di Joaquin Phoenix, quando ha ritirato il suo Oscar. In questo tempo in cui tocca agli attori svegliare le coscienze, più della politica).

Buon martedì.

Il cinismo della Spagna che rispedisce i profughi nei loro Paesi in guerra. E fa finta di niente

El País, il giornale spagnolo, bacchetta l’Italia e scrive: «… ha rinnovato automaticamente il controverso accordo firmato tre anni fa con la Libia per fermare i flussi migratori sulla rotta del Mediterraneo centrale, la più pericolosa per l’Europa. Il patto mette il salvataggio degli immigrati in mare nelle mani del caotico Paese del Maghreb e della sua guardia costiera, ripetutamente accusati di violare i diritti umani. Nel corso degli anni, questo accordo bilaterale ha permesso ai migranti di essere confinati nei centri di detenzione in Libia, dove sono state denunciate torture e ogni tipo di violenza, purché non arrivassero in Italia».

Continua citando i dati dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni sul numero dei migranti intercettati in mare e rispediti dall’Italia ai lager libici. Riporta le parole della vice ministra degli esteri Marina Sereni che sproloquia sui margini di manovra possibili per cambiare l’accordo già reiterato. Menziona le proteste di Ong e associazioni umanitarie, citando Amnesty International che denuncia quello che tutti sanno: «Il rinnovo dell’accordo sulle migrazioni conferma la complicità dell’Italia nella tortura di migranti e rifugiati».

Tutto giusto e glorioso, ma dissonante con le politiche migratorie in atto in questi ultimi mesi in Spagna, Paese che, in merito alle persone espulse in barba alle regole, dimostra di sapere il fatto suo. Cear Canarias, la Commissione spagnola di aiuto al rifugiato che opera alle Canarie condanna il rimpatrio forzoso di cittadini maliani in Mauritania. In Mali, nell’Africa occidentale, si vive una situazione di conflitto ben nota: il gruppo Stato Islamico (Is) sta cercando di collocare nella zona un suo califfato. Le Canarie, arcipelago nell’oceano Atlantico, con le isole di Fuerteventura e Lanzarote proprio dirimpetto all’Africa occidentale, sono diventate meta dei nuovi flussi migratori.

Per evitare la Libia o il controllo, in aumento, delle frontiere esercitato dalle autorità marocchine, dalla costa atlantica del Marocco, da Mauritania, Mali, Senegal e Gambia, per approdare dal deserto in Europa, la rotta è cambiata. Così gli arrivi nelle Canarie sono aumentati di oltre il 100% rispetto al 2018, mentre sul resto delle coste spagnole si sono dimezzati e continuano a diminuire. Una tratta meno costosa, si parla di 500 euro al massimo, ma non meno pericolosa, sono solo 80 miglie nautiche, ma affrontate con imbarcazioni inadeguate alle correnti e alle onde oceaniche. In uno di questi viaggi, proprio all’inizio di febbraio, delle 41 persone a bordo, 15 erano donne, 3 di loro incinte, e 19 i minori. Lungo la traversata una delle donne ha partorito e poi il neonato è morto a bordo, un’altra ha abortito appena sbarcata.

Il trasferimento di alcuni dei migranti nella Spagna peninsulare darebbe sollievo alle isole, ma l’idea di offrire un passaggio sicuro a queste persone, non è gradita. Questi trasferimenti potrebbero essere interpretati come un’attrazione per utilizzare la rotta verso le Canarie e causerebbero disagio in partner come la Francia, principale destinazione dei migranti che arrivano in Spagna. Quindi meglio rispolverare un vecchio accordo firmato con la Mauritania e rispedire lì quanti più migranti possibile.

Nelle ultime due settimane due voli sono partiti proprio dalle isole Canarie, con più di un centinaio di persone, la maggior parte delle quali maliane, che sono state così deportate, ignorando la possibilità di asilo politico. Il trucco è tutto qui, la Spagna non sta espellendo cittadini maliani verso il proprio Paese in guerra, è la Mauritania che lo sta facendo attraverso i rimpatriati dal territorio spagnolo, compromettendo la sicurezza dei migranti che hanno investito i loro risparmi e rischiato la vita per raggiungere la Spagna, Paese con una legge che dovrebbe garantire loro assistenza legale, un interprete, la possibilità di chiedere asilo. E, anche se hanno avuto l’opportunità di chiedere protezione internazionale e non l’hanno fatto, la loro vita non può essere messa a rischio dalla deportazione in un Paese terzo nella consapevolezza che la loro destinazione finale sarà un Paese in guerra.

“Parasite”, quella lotta spietata tra ricchi e poveri

Ha vinto quattro premi Oscar “Parasite”, il film del visionario Bong Joon-ho, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, candidato dalla Corea del Sud ai premi Oscar come miglior opera straniera.

Una famiglia povera – padre, madre e due ragazzi – vive in un seminterrato di Seul, la cui finestrella affaccia su un vicolo cieco, latrina per ubriaconi. Tutti campano alla giornata, cercando la connessione gratuita, preparando cartoni per le pizze a domicilio e aggirando le difficoltà con espedienti illeciti, ma necessari alla sopravvivenza.

Il figlio (Choi Woo-Sik), su consiglio di un amico, scaltramente si finge insegnante di inglese, per dare lezioni ad una ragazza, primogenita di una famiglia facoltosa, residente in una villa, che domina la città dall’alto. Non solo verrà creduto, assunto e lodato, ma presto i suoi suggerimenti saranno ingenuamente accolti. Riesce così a far assumere la sorella come baby-sitter, il padre (Song Kang-Ho) come autista e la madre come cuoca, ribaltando l’organico della casa con la complicità degli altri membri della sua famiglia.

I poveri possono ora godere degli agii dei ricchi, insediandosi nei loro eleganti spazi, approfittando del loro benessere, condividendone la quotidianità, ma le sorprese sono dietro l’angolo, anzi sotto i piedi, ed una sequela di eventi sconvolgerà lo status degli uni e degli altri fino alle estreme conseguenze; anche perché i ricchi sentono l’odore dei poveri e si tengono a distanza, anche quando sono eccezionalmente contigui.

Film potente, teso, impeccabile nella messa in scena, nella composizione dei piani visivi, nella conduzione degli attori. Difficile etichettarlo quanto ascriverlo a un genere. Favola nera, commedia, dramma sociale, thriller pulp, ma anche Revenge tragedy, percorso labirintico, satira crudele, spaventoso meccanismo ad incastro e angosciante puzzle della contemporaneità, in cui ogni tessera tiene con il fiato sospeso.

Una libertà di narrazione e di invenzione sul conflitto di classe e gli automatismi del capitalismo, impensabile alle nostre latitudini, frutto della tradizione cinematografica locale oltre che del talento autoriale. Brutalità e sangue hanno il pregio della metafora universale. La regia è un algido, raffinato, dissacrante “contenimento” di una piena travolgente di situazioni e immagini, che esplode nel finale e denuda con lucida precisione l’inespugnabile divario tra classi sociali, la vertigine della Comédie humaine. Se Park Chan-wook e Kim Ki-duk ci bruciavano il cuore, Joon-ho infiamma la mente. Imperdibile.

La recensione di Daniela Ceselli è stata pubblicata su Left dell’8 novembre 2019 

Della pace se ne occupano solo i portuali?

Prima o poi riconosceremo l’enorme valore civile ai portuali di Genova che ostinatamente sembrano essere gli unici a cui interessi davvero il rispetto della Costituzione e il rispetto della pace che ogni nazione (a parole) dice di volere perseguire. Con una conferenza stampa sabato i lavoratori del porto di Genova ci hanno fatto sapere che prossimamente arriverà la nave ‘Yanbu’ della flotta saudita Bahri, che serve la logistica degli armamenti, in quelli che Amnesty International definisce i conflitti “più sanguinari e combattuti fuori da qualsiasi convenzione internazionale”.

La cessione e il transito di armamenti è espressamente vietato dalla legge 185/1990 e già un anno fa i lavoratori del porto di Genova avevano scioperato per un cargo carico di armi. In realtà, forse ricorderete, si erano levate anche numerosi voci in Parlamento durante il primo governo Conte. Ricordate quelli che si dicevano scioccati dal fatto che un’industria in Sardegna rifornisca le armi per la guerra in Yemen? Non solo in Yemen, qui ci sono in ballo armi anche alla Siria del Nord e Libia.

Se tutto questo non bastasse c’è anche il mancato rispetto delle norme di sicurezza relative all’attracco e alla sosta in banchina di navi cariche di armi ed esplosivi. Insomma, un disastro completo.

Solo che qui da noi se ne occupa ogni tanto qualche trasmissione televisiva, c’è qualche tweet di qualche politico ma poi sembra che tutto continui senza nemmeno troppi scossoni. Sarebbe interessante sapere che ne pensa il ministro agli Esteri Luigi Di Maio, e magari sarebbe interessante anche sapere cosa ha intenzione di fare per la vicenda del giovane Patrick George Zaky sottoposto in Egitto alle stesse torture che ricordano Giulio Regeni.

Ma qui da noi di Yemen se ne occupano i portuali e degli studenti ammazzati se ne occupano i genitori. La politica, al massimo, e solo dopo, esprime cordoglio.

Avanti così. Buon lunedì.

Le streghe, l’immaginazione e la scienza

Scientist in lab doing research and using lab machines, test tubes, microscope and every laboratory equipment

L’11 febbraio è la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza (The International Day of Women and Girls in Science). Indetta il 22 dicembre 2015 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, la giornata nasce in risposta al marcato “gender gap” che ancora si registra nelle discipline Stem (Science, technology, engineering and mathematics) con il fine di «permettere alle ragazze e alle donne il completo ed equo accesso e partecipazione nella scienza». Sicuramente negli ultimi anni la situazione è migliorata e le donne cominciano a diventare sempre più protagoniste della ricerca scientifica: è di appena una settimana fa la notizia che un team dello Spallanzani di Roma, quasi interamente al femminile (14 donne e un uomo), è stato il primo in Europa a isolare il coronavirus. Si pensi anche alla rilevanza mediatica dell’astronauta Samantha Cristoforetti, o al risarcimento ricevuto da Jocelyn Bell (dopo mezzo secolo!) per la scoperta della prima stella pulsar. La strada da percorrere è però ancora lunga. Di fatto, si continua a parlare di donne in scienza e non di scienziate. È necessario quindi andare più a fondo e proporre qualche considerazione diversa.

Ci capita spesso, infatti, di ritrovarci a conferenze a tema “Women in Science” in cui tuttavia si riesce a malapena a grattare la superficie della questione: il più delle volte, viene presentata una serie di dati statistici, interpretati sempre in termini di unconscious-bias (pregiudizi non coscienti). Se da una parte è sicuramente vero che i numeri ci danno un’idea quantitativa del problema, dall’altra si rischia di capire molto poco delle cause sottostanti. Spesso l’unica conclusione proposta è che, essendo sottoposti quotidianamente ad una società di stampo patriarcale, si creerebbe misteriosamente, sia negli uomini che nelle donne, un retro-pensiero di tipo maschilista. Il problema del bias-inconscio si risolverebbe quindi, come da tradizione psicoanalitica, portando alla coscienza il problema. Sebbene parlarne sia comunque un inizio, a noi sembra una condizione necessaria ma nient’affatto sufficiente. Crediamo invece fondamentale ampliare lo sguardo e ricercare le cause sociali e storiche che hanno visto per millenni la donna e la scienza come due mondi inconciliabili.
Dobbiamo quindi affrontare da una parte il pensiero che ha sempre negato alla donna l’accesso alla conoscenza, in quanto priva di un’identità umana uguale e diversa da quella dell’uomo, e dall’altra il pensiero che ha sempre dipinto la scienza come esercizio unicamente razionale in rapporto asettico con la sola percezione.
Ripercorrendo la storia del pensiero in Occidente, ci si accorge che le radici di queste due proposizioni affondano entrambe in Antica Grecia a partire dalla dicotomia: donna-irrazionale, uomo-razionale. L’irrazionalità delle donne è un elemento pericoloso e potenzialmente distruttivo, ragione per cui devono essere assolutamente escluse da ogni forma di conoscenza.

È Esiodo (VII secolo a.C.) uno dei primi a raccontarcelo. Secondo il mito narrato nella Teogonia, infatti, fu la curiosità e il desiderio di conoscenza di Pandora – prima donna della mitologia greca – a portare sulla Terra ogni calamità e sciagura. «Da Pandora discende la razza delicata e funesta delle donne, le quali andarono a vivere con gli uomini, tormentandoli con le loro pretese e le loro molestie». Dal mito alla filosofia il passo non è stato lungo. Platone prima e Aristotele poi ratificheranno l’esistenza di una differenza ontologica tra uomo e donna. Il pensiero greco con la centralità del logos, prerogativa dell’uomo, influenzerà tutta la cultura e la filosofia occidentale dei secoli a seguire. Non c’è da stupirsi quindi se il percorso di accesso all’istruzione delle donne in Occidente fu lungo e tortuoso. Montaigne, nella metà del 1500 scrive: «La conoscenza è una spada pericolosa se tenuta in mano da persone deboli e che non sanno usarla. Pertanto non è opportuno chiedere troppa scienza alle donne». Fino alla fine dell’Ottocento, infatti, non si può parlare di una vera e propria istruzione femminile, ma piuttosto di una “educazione” finalizzata a rendere le ragazze graziose e cortesi. Sebbene quindi fosse accettato che le donne sapessero leggere, scrivere o persino suonare (a patto di non eccellere in nulla!) restava assolutamente inconcepibile che una donna studiasse la matematica, la chimica o la fisica. Pregiudizio che permane tuttora nelle “scienze dure”.

Lontano da quel mondo culturale, una proposizione di immagine di donna diversa e possibile irrompeva nella storia a cavallo tra il IV e il V secolo. Ipazia d’Alessandria fu una donna libera e una scienziata poliedrica – matematica, astronoma e filosofa. Paradigma impensabile per il pensiero occidentale dell’epoca (poteva solo essere una strega!). In quegli anni, infatti, si andava consolidando l’alleanza tra l’Impero romano, riproposizione del logos greco, e il cristianesimo, divenuto ufficialmente religione di Stato nel 380. L’incontro della bella Ipazia con questa cultura, che fondeva insieme logos e religione, ebbe per lei un terribile epilogo: «Una massa enorme di uomini brutali, veramente malvagi» i parabolani del vescovo Cirillo «uccise la filosofa … e mentre ancora respirava appena, le cavarono gli occhi» (Damascio). Cosa scatenò tanta violenza? Aveva forse reso la scienza qualcosa di più di un mero esercizio logico proprio della razionalità umana? Aveva proposto una nuova dimensione, quella femminile e irrazionale, che doveva essere resa invece inesistente?

La storia ci ha dimostrato l’evidenza del fallimento dello slogan femminista che dice: “La donna è uguale all’uomo”. Una visione cieca, che nega la diversità nell’uguaglianza, e quindi l’identità, diversa, propria di ogni essere umano. Come scriveva Giulia Ingrao su Left del 3 giugno 2017: «Qui non si tratta di ripetere le battaglie femministe. Si tratta di lasciare agli esseri umani la possibilità di vivere in quanto uomo o donna, ognuno con la propria identità, qualsiasi sia il lavoro che fanno».
Nell’area Stem forse c’è bisogno di recuperare una dimensione più umana, collettiva, che guardi all’identità professionale lasciando la specificità uomo/donna all’ambito privato. Nella storia sono davvero pochi gli scienziati che hanno elaborato le proprie teorie in totale solitudine. La scoperta del singolo scienziato diventa una solida teoria scientifica in quanto si sviluppa nel rapporto/confronto con gli altri e con la realtà del mondo: la scienza è fatta di collaborazioni, lavoro di gruppo e dialettica. Allo stesso tempo c’è bisogno di scardinare quegli stereotipi caratterizzati dalle associazioni logiche “Vero – Razionale” e “Fallace – Irrazionale”.

Potremmo partire dall’idea che nessuna scoperta può avvenire se si prescinde dall’immaginazione umana. Sebbene infatti, nel rapporto con la natura, sia necessaria una logica ferrea, la genialità di uno scienziato si trova in quel passaggio tutto irrazionale che va dall’osservazione del fenomeno all’idea della teoria. Ci piace ricordare, a questo proposito, una lettera che Albert Einstein scrisse all’amico Maurice Solovine il 7 maggio del 1952, nella quale egli descrive il processo mentale della scoperta, aiutandosi con un disegno. Una linea orizzontale “E”, l’esperienza, è collegata tramite una curva ad un circoletto “A”, gli assiomi, elementi fondanti una teoria, da cui si ramificano le conseguenze, quei punti S, S’, S’’ che rappresentano gli enunciati particolari deducibili dalla teoria. Se l’idea A era giusta, necessariamente i punti S dovranno riconnettersi all’esperienza, chiudendo il ciclo.
Con l’emergere di nuovi dati, saranno poi necessarie nuove ipotesi, in un circolo senza fine.
Quella linea curva che collega l’esperienza E con la teoria A è la chiave di volta: lì vi è racchiusa la creatività dello scienziato, che formulerà le proprie idee attraverso un pensiero intuitivo e non razionale: «Non c’è alcuna via logica che porti a queste leggi elementari; solo l’intuizione sostenuta dal fatto di essere in contatto simpatetico con l’esperienza». La logica e la razionalità staranno poi nei segmenti retti che collegano il circolo A con i punti S, e i punti S con la retta E.

Siamo convinte che, riuscendo a trovare anche nella scienza una dimensione in cui l’immaginazione e l’irrazionalità riescono a fondersi e amalgamarsi con il rapporto logico e reale con la natura, l’impresa di cancellare i bias-inconsci troverebbe un suo naturale corso. Con la conseguente consapevolezza che noi donne potremo permetterci, se lo desideriamo, di “indossare tacchi” ed essere scienziate e gli uomini potranno recuperare quella dimensione di sensibilità che la cultura dominante gli ha negato per millenni. L’incantesimo sarebbe spezzato.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 7 febbraio 2020

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Il coronavirus e il virus delle fake news

Microscopic view of Coronavirus, a pathogen that attacks the respiratory tract. Analysis and test, experimentation. Sars. 3d render

Si sapeva che sarebbe arrivato; ma non quando e dove. Come avviene da millenni; come accaduto pochi anni fa con Sars ed Ebola; come si verifica ogni anno per la classica influenza. Senza ricorrere a deliranti idee complottiste e scenari da fantascienza è noto che i virus spontaneamente mutano e fanno il salto di specie; l’uomo favorisce questo processo creando e mantenendo condizioni di scarsa igiene e promiscuità con animali. La cosa più ovvia e sensata è quindi vigilare ed essere pronti. Ed è quello che, pur con qualche problema, è comunque stato fatto per il Coronavirus. A livello mondiale e nazionale sono attivi da anni sistemi di sorveglianza attiva delle infezioni che, se superati alcuni limiti, fanno immediatamente scattare allarmi di livello crescente (locale, regionale, nazionale, internazionale, continentale, mondiale). Ogni livello prevede una serie di precise e rapide azioni; esattamente quello che si sta ora facendo nel mondo.

Anche l’Italia sta indubbiamente muovendosi in modo corretto e rapido ed il nostro Sistema sanitario pubblico è in grado di reggere la situazione. Qualche squallido sciacallaggio politico totalmente idiota e di bassissima lega conferma l’assenza totale di senso istituzionale da parte di una certa “politica”.  Forse la conferenza stampa di Conte per comunicare i due inevitabili casi italiani sarebbe stato meglio evitarla e lasciarla ai tecnici se proprio si voleva sdrammatizzare e dare consapevolezza; perché in realtà nulla cambia per l’uomo della strada. Sulla base delle informazioni disponibili forse in Cina all’inizio dell’epidemia non c’è stato il massimo della tempestività e trasparenza ma successivamente è stato fatto sfoggio di una notevole organizzazione. Il pachiderma Oms (Organizzazione mondiale della sanità) anche questa volta sembrerebbe non aver brillato per  celerità; gli enormi interessi commerciali in gioco hanno forse rallentato qualche decisione comunque molto difficile. 

Ad arginare le molte congetture sulle caratteristiche e sull’andamento dell’infezione sono da pochissimi giorni usciti su…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 7 febbraio

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Perché contro i femminicidi la legge non basta

ROME, ITALY - NOVEMBER 25: Thousands of peolple take to the streets to march in the demonstration "Non Una di Meno" (Not One Less) during the World Day Against Violence against Women on November 25, 2017 in Rome, Italy. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images)

Le cronache di questi giorni ci restituiscono una situazione agghiacciante: le donne muoiono, uccise dai propri compagni o ex compagni, con una frequenza impressionante. È la prima causa di morte per le donne tra i 15 e i 44 anni. Pensiamoci. Tutti chiedono leggi più severe, interventi legislativi risolutivi. Ma le leggi ci sono. La loro applicazione (quando sono applicate) permette una buona ed efficace risposta sia preventiva, in termini di misure cautelari, sia repressiva, in termini di condanna, ma ciò non scalfisce minimamente l’ondata omicida. In questo campo la funzione cosiddetta general-preventiva della sanzione penale, che dovrebbe fungere da deterrente per le condotte sanzionate, non funziona: perché?

Perché il problema è culturale e medico, non giuridico. Sì, ribadiamo: culturale e medico. Se tutti gli operatori di settore sono d’accordo nell’individuare nella cultura patriarcale, e nei rapporti di forza patogeni tra uomo e donna che questa determina, l’humus in cui sviluppano le violenze di genere, quegli stessi operatori rifiutano di scandagliare le risultanze psicopatologiche individuali che si sviluppano e fanno da molla ai comportamenti violenti dell’uomo sulla donna, nella convinzione che l’indicazione della patologia possa…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 7 febbraio

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Miracolo a Roma: è sparita l’Ici per la Chiesa

Wonderful view of Rome skyline at sunset time with St Peter Cathedral
Nella settimana in cui la stampa italiana, laica e meno laica, ha esaltato la notizia delle due ricche donazioni alla Caritas – una da 100mila euro e l’altra da ben 10 milioni di euro, rispettivamente da parte di papa Francesco e della Conferenza episcopale – ci sembra doveroso ripubblicare la notizia che troverete nei due seguenti articoli. Risale a poche settimane fa, stranamente oltre a Left ne ha parlato solo un quotidiano romano. Tutti in fila invece per celebrare le offerte opportunistiche e chiaramente mirate a rafforzare un’immagine da “papa buono” e da Chiesa altrettanto buona. Come dice il segretario UAAR Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, Roberto Grendene, autore per Left del primo dei due articoli che leggerete qui sotto, nessun giornale ha avuto il coraggio di descrivere i fatti per quello che sono: «UN MERO GIROCONTO». Nel caso della Cei, effettuato in gran parte con soldi di contribuenti italiani prelevati dal fondo dell’8permille. Ci pare doveroso ricordare, infine, che lo Stato italiano ancora non si è mosso per pretendere il versamento di 4-5 miliardi di Ici-Imu che la Chiesa non ha mai versato dal 2005. Una vicenda che Left segue con attenzione sin dall’inizio.
Buna lettura!
*

Un Paese riceve su un piatto d’argento la possibilità di incassare tra i quattro e i cinque miliardi di imposte non versate. È un Paese da anni sotto la lente di ingrandimento della Commissione europea per il rischio di violare le regole di bilancio. Un Paese costantemente alla ricerca di fondi per investimenti e per ripianare un deficit alle stelle. E cosa fa questo Paese? Nulla.

Se il Paese è l’Italia e l’organizzazione che deve pagare gli arretrati è la Chiesa cattolica un tale epilogo non stupisce più di tanto. Nessun governo, anche quelli che promettono di eliminare privilegi, ridurre il cuneo fiscale e in generale di fare il bene dei contribuenti italiani, ha mai intaccato l’aggravio sui conti pubblici causato dalla Chiesa, stimato in maniera dettagliata e tuttavia prudenziale in oltre sei miliardi l’anno nell’inchiesta icostidellachiesa.it realizzata dalla Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Figuriamoci un esecutivo che recupera in una volta sola quattro miliardi di arretrati Ici non versati.

Ricostruiamo brevemente la vicenda, che stavolta ha aspetti più paradossali del solito. Nel 2005 Berlusconi fa sì che alberghi, cliniche e altre proprietà ecclesiastiche non paghino l’Ici: bastava anche una piccola porzione della struttura dedicata al culto per esentarla per intero. Nel 2011 l’Imu prende il posto dell’Ici, e Mario Monti escogita un cavillo più sofisticato: l’esenzione – valida anche per le onlus, ma quante onlus possiedono alberghi, scuole o cliniche? – scatta se le tariffe praticate dalla struttura di proprietà ecclesiastica sono “simboliche”, o in ogni caso non superiori a certi parametri spesso di non facile determinazione. Un esempio? Per una scuola dell’infanzia fissare rette annue appena sotto i 6mila euro garantisce l’esenzione Imu. Nel 2012 la Commissione Ue conclude un’inchiesta aperta su segnalazione del fiscalista Carlo Pontesilli che, come Partito radicale, nel lontano 2006 insieme a Marco Pannella e Maurizio Turco (oggi segretario del Partito radicale) denunciò lo Stato italiano alla Commissione Ue perché le esenzioni Ici violano la direttiva sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato. Bruxelles stabilisce che l’esenzione Ici era sì un indebito aiuto di Stato, ma che l’Italia può chiudere un occhio in quanto sarebbe troppo complicato calcolare il dovuto. La questione passa alla Corte di giustizia Ue che in prima istanza, nel 2016, conferma incredibilmente che quei miliardi non versati possono sul serio passare in cavalleria. Ma nel novembre 2018 la sentenza di primo grado viene ribaltata e si arriva finalmente a stabilire l’ovvio: gli arretrati Ici non versati tra il 2006 e il 2011 vanno pagati (v. Left del 28 giugno 2019, ndr).

Non ci sono più santi che tengano. Ecco spiegato il piatto d’argento contenente una cifra superiore ai quattro miliardi di euro (la stima è dell’Anci). Arduo invece spiegare perché le istituzioni della Repubblica non fanno nulla per incassarli. I governi Conte non ci hanno neppure provato. Anzi, l’allora ministro Tria arrivò addirittura a sostenere che trattenere in acconto parte del gettito dell’otto per mille destinato ogni anno alla Chiesa cattolica – si badi, la quota aggiuntiva rispetto a quella derivante dalle esplicite scelte compiute in sede di dichiarazione dei redditi – sarebbe stato “lesivo delle scelte dei contribuenti”. Proprio così, lesivo di scelte non espresse. Ma se il governo semplicemente non agisce e, beffa oltre al danno, tale inerzia può causare all’Italia una procedura d’infrazione, c’è chi fa forse peggio, facendo lavorare per anni funzionari e società partecipate senza cavare un ragno dal buco. O meglio, senza incassare un euro da un malloppo di 200 milioni. Ricorderete infatti che in campagna elettorale Virginia Raggi aveva promesso che, in caso di vittoria, avrebbe chiesto le tasse sugli immobili della Chiesa. “Incasseremo 200 milioni l’anno”, era il convincente slogan elettorale.

Niente da fare, lo scorso 21 gennaio Il Messaggero ha dato notizia che l’esito di anni di lavoro da parte di pool di tecnici dell’Ufficio Bilancio di Roma Capitale e poi degli ispettori di Æqua Roma S.p.A., società che ha tra i propri obiettivi “attività di contrasto all’evasione ed elusione fiscale”, si concretizza in un nulla di fatto. Secondo quanto emerge dai dossier riservati del Campidoglio di cui è venuto in possesso il quotidiano Il Messaggero, sarebbe infatti troppo difficile fare il conteggio dei beni della Chiesa su cui far pagare sia gli arretrati Ici 2006-2011, come impone la Corte di giustizia europea, sia l’Imu dovuta per le strutture che non rispettano i parametri previsti per l’esenzione. Una resa inaccettabile. Sarebbe come dire che la Guardia di finanza alza bandiera bianca nella lotta all’evasione fiscale, giustificandosi con il fatto che è dannatamente difficile individuare tutti gli evasori e tutte le forme di evasione. Certo che lo è, ma proprio per questo è importante andare a fondo, caso per caso, ordine religioso per ordine religioso.

Da quanto trapelato sembra quasi che non si voglia muovere un passo, che si attenda all’infinito per fare un conto unico da presentare non si sa bene a chi. E nel frattempo non solo mancano fondi per investimenti di cui Roma ha urgente bisogno, ma c’è chi paga l’Imu sull’albergo o il bed&breakfast che possiede mentre la Chiesa, che di strutture ricettive ne ha a bizzeffe, continua a essere esonerata dal pagamento. Di dati ne sono stati sicuramente raccolti se i tecnici hanno stimato che sono circa diecimila gli immobili su cui chiedere l’imposta e che gli enti non commerciali che svolgono attività alberghiera a Roma sono al 90% di proprietà della Chiesa cattolica. Cosa aspetta la giunta Raggi a smentire quanto riportato dal Messaggero, a rispettare le promesse elettorali e a far partire la prima cartella esattoriale indirizzata al più grande immobiliarista del mercato?

Roberto Grendene è il segretario nazionale della Uaar

*

Lo strano caso delle case del Vaticano

di Federico Tulli

Mons. Nunzio Galantino dice che l’Apsa sta completando il primo conteggio mai fatto degli immobili di proprietà della Santa sede. Ma esiste già una stima fatta 4 anni fa dal Gruppo RE

Il giorno dopo l’uscita dell’inchiesta sul Messaggero (21 gennaio 2020), il quotidiano romano ha pubblicato una nuova puntata riportando le parole di Nunzio Galantino, a capo dell’Apsa (Amministrazione patrimonio sede apostolica), l’ente finanziario al quale fa capo il patrimonio immobiliare della Santa Sede. Secondo mons. Galatino, il Vaticano ha fatto e sta facendo la sua parte, non solo pagando regolarmente le tasse dovute al Comune e sborsando ogni anno oltre 9 milioni di euro per l’Imu, ma ultimando il primo conteggio degli immobili vaticani che sia mai stato fatto. In pratica, stando alle parole del capo dell’Apsa, entro qualche mese sarà finita la mappatura finale di tutte le proprietà che il Vaticano possiede a Roma e in tutta Italia. «Noi non abbiamo nessun motivo per essere opachi» dice ancora Galatino nell’articolo del Messaggero, precisando che questa ricerca innovativa ha richiesto tante energie e tempo. Tuttavia, precisa il quotidiano romano, il problema della classificazione e della composizione del patrimonio ecclesiastico – appartamenti, edifici, stabili, negozi, capannoni, palazzi, terreni, centri commerciali, ostelli – resta purtroppo aperta e non per colpa del Vaticano ma degli ordini religiosi. Monsignor Galantino spiega che ogni ente religioso avendo una propria personalità giuridica, di conseguenza, è indipendente nella gestione economica. «Il che significa, per farla breve, che non vengono a comunicare i bilanci a noi. Non sappiamo nulla di quello che fanno. Sono autonomi in tutto e per tutto, e non li possiamo nemmeno controllare».

Difatti, diciamo noi di Left, non essendo gli enti religiosi enti extraterritoriali ma soggetti giuridici italiani, il “controllo” dovrebbe essere di competenza delle istituzioni italiane. Tanto più che l’inchiesta del Messaggero allude anche a beni «che fanno capo a prelati», cioè persone fisiche. Ma, appunto, fino a ora nessuno si è mai preso la briga di attuarlo quel controllo. Per velocizzare il lavoro e aiutare, volendo, la sindaca Raggi, suggeriamo a mons. Galatino di leggere Left del 16 febbraio 2018. Scoprirà che esistono già una mappatura e una stima risalenti alla metà del 2016, elaborate dal Gruppo RE, società che per lungo tempo ha fornito consulenze al Vaticano in ambito immobiliare. Nel mondo, lo Stato d’oltretevere – chiese comprese – possiede circa un milione di immobili per un valore di duemila miliardi. Una ricchezza enorme suddivisa in ospizi, orfanotrofi, pii alberghi per turisti e pellegrini, terreni e abitazioni date in locazione. Di questi beni immobili, circa il 70 per cento si troverebbero all’estero. Il 30 per cento è in Italia e comprende oltre quanto detto oltre a 9mila scuole e 4mila ospedali o centri di cura. Dislocati soprattutto a Roma, in Lombardia e nel Veneto. In base alla stima del Gruppo RE (che afferma di operare sul mercato immobiliare «adottando canoni di comportamento deontologico rispettosi dell’Etica, interpretata secondo la morale cattolica»), un immobile su cinque in Italia è di proprietà della Chiesa. In totale fanno circa 115mila fabbricati, di cui 25mila a Roma la cui gestione è affidata a due istituti: Propaganda Fide e, appunto, l’Apsa.

In valore sono stati stimati appartamenti di lusso per circa 9 miliardi di euro. Le case di proprietà sono poco meno di un migliaio (957 nel 2016 di cui 725 a Roma) e vengono date in affitto a persone fidate, oppure, vendute a prezzi non sempre di mercato. Stando a un report della commissione vaticana Cosea, gli appartamenti sono riconducibili a 26 diverse istituzioni riconducibili alla Santa sede. Mentre fanno capo all’Apsa 5.050 appartamenti affittati a prezzo di mercato a gente comune oppure a canone zero a laici che hanno servito la Chiesa: giuristi, letterati e direttori sanitari. Poi ci sono 860 locazioni gratuite, comprese le case-reggia di una quarantina di cardinali nei dintorni di San Pietro.

A tutto questo si devono sommare vecchi monasteri, abbazie ed altri immobili trasformati in hotel e bed and breakfast, per un totale di circa 200mila posti letto corrispondenti e un fatturato annuo che oscilla intorno ai 4,5 miliardi di euro.

 

Gli articoli sono tratti da Left del 7 febbraio 2020

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Autonomia differenziata, è Bonaccini il miglior alleato della Lega

Foto Massimo Paolone/LaPresse 27 gennaio 2020 Modena Italia cronaca Festa Presidente Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini - Piazza Grande Nella foto: Stefano Bonaccini Photo Massimo Paolone/LaPresse January 27, 2020 Modena Italy news Party President of the Emilia-Romagna Region Stefano Bonaccini - Piazza Grande In the pic: Stefano Bonaccini

Mentre la Repubblica in pochi giorni torna a dar fiato alla Lega Nord, quella della prima ora, con una intervista a Bossi e poi con una a Speroni, che parla ancora di “questione settentrionale”, mi chiedo cosa abbiamo fatto di male per sorbirci vent’anni dopo, come in un romanzo di Dumas, il probabile ritorno al racconto favolistico della Lega antifascista “costola della sinistra”, frutto di una stagione che vede il Pd pronto a far da sponda alla richiesta di autonomia differenziata presentate dalle regioni leghiste, così come da Bonaccini in Emilia Romagna. Un grande errore politico, perché questa richiesta ha nei fatti legittimato la richiesta di secessione della Padania da sempre al primo punto dello statuto della Lega. La ciliegina sulla torta di una serie di errori storici che annichilendo storia e memoria dell’Emilia Romagna, e della sinistra, dimostra, come più volte affermato in campagna elettorale, che Bonaccini e Borgonzoni rappresentavano semplicemente due facce della stessa medaglia neoliberista.

Ora contrabbandare l’aver fermato la Lega alle recenti regionali in Emilia Romagna come una grande vittoria della sinistra fa francamente sorridere. Non a caso Bonaccini non appena eletto ha riaffermato, lanciando quasi un diktat al governo, la volontà di proseguire sulla strada tracciata della richiesta di Autonomia differenziata, confermandosi ancora una volta come il miglior alleato di Fontana e Zaia. Questa “sinistra” che di coraggioso non ha nulla, si dimostra così sempre più succube dell’egemonia culturale della destra italiana, come nel caso della mozione del Parlamento europeo che ha equiparato fascismo e comunismo, non a caso votata dagli europarlamentari del Pd e dalle destre unite, avendone introiettato oltre al neoliberismo rampante anche le più spudorate richieste leghiste che sanno, oltre che di egoismo, anche di un razzismo strisciante, evidente in alcuni slogan della campagna elettorale usati da parte di tutti e due contendenti.

Sono tre le affermazioni ripetute come un mantra da Bonaccini in campagna elettorale per mostrare l’indimostrabile, e cioè come sarebbe temperata e bonaria, a differenza di quella delle regioni leghiste, la sua richiesta di Autonomia differenziata. Vediamo a futura memoria, come i suoi argomenti, sulla base dei testi ad oggi conosciuti e limitandosi alla sola scuola, siano nei fatti simili a quelli leghisti:

Bonaccini: Non chiediamo più soldi e non intendiamo portarne via ad altri. Peccato che l’art. 5 cioè quello delle risorse finanziarie sia uguale per tutte e tre le regioni “secessioniste”, ed afferma che deve essere garantita la spesa “fissa e ricorrente”. Se la spesa deve essere ricorrente e ad esempio per qualsivoglia motivo vi sono minori introiti da parte dello Stato (meno tasse riscosse, crisi economica ecc) e quindi se i soldi da distribuire diventano meno, per garantire queste risorse in maniera “fissa e ricorrente”, così come richiesto in questi accordi che hanno durata minima decennale, diventa evidente che i soldi andranno tolti a qualcun altro, ed è facile immaginare da quali altre regioni sarebbero tolti. Le solite, cioè quelle del Sud. Già ampiamente depredate, visto che il Centro-Nord dell’Italia ha sottratto al Sud una fetta di spesa pubblica, a cui avrebbe avuto diritto in percentuale alle popolazione, di circa 840 miliardi di euro, pari a circa 46,7 miliardi di euro l’anno, come emerso la scorsa settimana dal rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, che ha fatto i calcoli relativi al periodo 2000-2017.

Bonaccini ha sempre sostenuto che prima dell’autonomia è necessario definire i Lep Giusto. Peccato però che sulla richiesta ci sia scritto che «qualora non siano stati adottati i fabbisogni standard le regioni (“secessioniste”) dovranno ricevere almeno il valore medio procapite» rapportato ai cittadini residenti . Nella scuola questo è ingiusto perché il calcolo andrebbe fatto sul solo numero degli studenti e non su quello del totale dei cittadini. È un gioco delle tre carte, perché in questo modo l’Emilia Romagna riceve 105 euro a testa in più, la Lombardia 187 euro e il Veneto 75 euro . Complessivamente le tre Regioni prenderebbero quasi 3 miliardi in più, cioè un aumento del 17%. Se invece si applicasse, come giusto, il pro capite per studente le tre Regioni non otterrebbero alcun guadagno e resterebbero in media con le altre. Addirittura con la Legge quadro di Boccia il guadagno ( la rapina) potrebbe essere maggiore perché si tornerebbe alla spesa storica sulla base della quale a Reggio Calabria ci sono 3 asili e a Reggio Emilia 63.

Bonaccini per la scuola dice che vuole solo l’istruzione professionale  Nell’art. 27 si dice che si richiede il “secondo ciclo”, il che sembra intendere l’istruzione di secondo grado, cioè non solo quindi l’istruzione professionale esclusi solo i licei. Nell’Art 28 si richiede l’organizzazione della rete scolastica, programmazione dell’offerta d’istruzione definendo la relativa dotazione dell’organico adottato d’intesa con l’ufficio scolastico regionale, cioè assumere (come precari perché anno per anno) insegnanti in più di quelli assegnati dal Miur, finendo così con l’avere, per la stessa mansione, due contratti diversi e due datori di lavoro diversi. La Regione avrebbe così un controllo diretto sugli insegnanti per realizzare l’integrazione dell’organico, Art. 29 la competenza legislativa del sistema regionale integrato e all’Art. 30 definire la formazione delle fondazioni e le competenze legislative in ordine all’edilizia scolastica. E meno male che la richiesta riguardava la sola istruzione professionale…

Inoltre nell’art. 2 si dice che la Regione Emilia Romagna chiede materie fra cui Norme generali sull’Istruzione, quindi anche sulle relative competenze legislative sull’istruzione. Questo può diventare un utile cavallo di Troia per l’inserimento di tutto e di più dopo l’approvazione, magari facendo fare da battistrada alle regioni leghiste per le richieste più estreme, stando un passo indietro per apparire più equilibrati e meno pretenziosi, così come già fatto in passato con le sollecitazioni ai governi Conte 1 e 2.

La cosa poi veramente risibile di questa vicenda è stato il racconto pressante fatto da politici e media in Emilia Romagna sulla necessità di un voto utile al fine di formare un fronte progressista antifascista per fermare la Lega. Peccato che subito dopo le elezioni Bonaccini abbia reiterato la richiesta di Autonomia differenziata, cioè di politiche egoistiche, simili a quelle leghiste, solo meno becere nel racconto. Contemporaneamente, in vista delle prossime elezioni regionali pugliesi, Renzi e la ministra Bellanova han dichiarato di non volere sostenere l’attuale Presidente, Michele Emiliano, rischiando così seriamente di favorire il centro destra e i leghisti in quella regione. In altre parole quanto sostenuto in Emilia, sulla necessità di un coeso ed esteso fronte per bloccare le destre rampanti, è stato smentito pochi giorni dopo per le elezioni per la Puglia. O forse l’Emilia Romagna vale meno della Puglia nella mente di questo genere di politici progressisti riformisti.

In tutta questa melassa per stomaci forti vengono alla mente le parole di Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere: «La formula del male minore, del meno peggio, non è altro dunque che la forma che assume il processo di adattamento a un movimento storicamente regressivo, movimento di cui una forza audacemente efficiente guida lo svolgimento, mentre le forze antagonistiche (o meglio i capi di esse) sono decise a capitolare progressivamente, a piccole tappe e non di un solo colpo (ciò che avrebbe ben altro significato, per l’effetto psicologico condensato, e potrebbe far nascere una forza concorrente attiva a quella che passivamente si adatta alla «fatalità», o rafforzarla se già esiste)».

Natale Cuccurese è presidente e segretario nazionale del Partito del Sud-meridionalisti progressisti

La violenza reale del bullismo virtuale

La prepotenza fra pari e la paura che questa può scatenare non è cosa nuova. Troviamo il temibile Franti di Cuore che, «malvagio, quando uno piange, ride. Provoca tutti i più deboli di lui e, quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male». In una descrizione di più di un secolo dopo leggiamo Ian McEwan e nel suo L’inventore di sogni (Einaudi) troviamo Barry Tamerlane che «non aveva l’aria da prepotente. Non aveva una faccia brutta o lo sguardo da far paura e non girava armato. Non era grosso. Ma nemmeno era di quei tipi piccoli, ossuti e nervosi che quando fanno la lotta possono diventare cattivi. A casa non lo picchiavano né lo viziavano». Barry Tamerlane era insomma un mistero.

I tempi cambiano e cambia il profilo del bullo. Siamo nel Terzo Millennio, per i Post-Millennials la violenza arriva in rete e il termine cyberbullyng, pensato da Bill Belsey per gli specialisti, è conosciuto oggi da tutti. Secondo i dati del Centro nazionale per la prevenzione e il contrasto al cyberbullismo (CoNaCy), un ragazzo su quattro, nel nostro Paese, subisce violenza online. Le statistiche, così allarmanti da costringere due anni fa il governo a promulgare la legge 71/17 a tutela dei minori contro il cyberbullismo, giustificano le lodevoli azioni di prevenzione. Oltre alla legge, apprezzabile pure per l’intento preventivo più che sanzionatorio, oggi vantiamo una giornata di sensibilizzazione, un manifesto della “comunicazione non ostile”, innumerevoli progetti di prevenzione e “educazione alla cittadinanza digitale” promossi dal Miur dai Comuni, dalle Regioni e dalle varie associazioni.

Ritengo tuttavia che prevenzione significhi puntare sugli aspetti di ordine sociale e culturale.
Nella letteratura psicologica il cyberbullismo, benché siano evidenziate le palesi differenze, viene per consuetudine considerato la naturale evoluzione del bullismo tradizionale. In realtà, penso che, cambiando l’intera prospettiva spazio-temporale e, forse di conseguenza, l’assetto psichico degli attori, esso presenti una visione della violenza piuttosto diversa: una violenza pervasiva, subdola, spesso incontrollabile e, per questo, particolarmente angosciante. Le molestie e le intimidazioni, le minacce e le denigrazioni abbandonano aule e cortili scolastici per occupare l’etere; oltrepassano i limiti degli orari di lezione e incontri sportivi per una diffusione esasperata; ma, soprattutto, i loro artefici possono non avere un volto perché, nonostante ogni dispositivo elettronico abbia in teoria una tracciabilità, la rete rende invisibili.

La violenza online mostra il lato infido dell’assenza, dell’invisibilità e dell’incontrollabilità, fattori che rendono la vittima più vulnerabile. L’assenza del rapporto diretto con il prevaricatore, rispetto al quale eventualmente la vittima potrebbe avere una reazione di difesa immediata, e l’assenza di persone che potrebbero in ipotesi intervenire e condannare il sopruso; l’invisibilità che toglie concretezza al fenomeno e porta la vittima a pensare che tutto il mondo sia carnefice e giudicante; l’incontrollabilità della diffusione mediatica che, provocando un senso di impotenza, può annullare nella vittima ogni capacità di reagire e spingerla verso atteggiamenti di ritiro e comportamenti autolesivi.

Nel cyberbullismo si amplificano quindi i tratti di sofferenza di chi subisce. Ma non solo. Anche i tratti di violenza di chi agisce talvolta si acuiscono. La rete, nascondendo, può, paradossalmente, smascherare dimensioni più latenti di violenza che non sempre permettono di considerare il cyberbullismo come sviluppo del bullismo. È altro. Mentre il bullo ‘classico’ può agire anche da cyberbullo, non è detto che i bulli telematici possano ‘migrare’ in un profilo di bullo tradizionale che pretende la sfrontatezza di esporsi. È una forma di violenza più ineffabile. Se il bullo, per un distorto bisogno di affermarsi, di essere seguito da altri, di sentirsi importante o per un senso di rivalsa, che poi spesso si traduce nel tentativo fallito di riscattarsi da una storia fatta di delusioni reiterate, può essere mosso dalla rabbia, il cyberbullo, proprio perché può rendersi invisibile e rendere invisibile la vittima, può agire una freddezza e una insensibilità più intense.

Inoltre, il senso di distribuzione della colpa, di deresponsabilizzazione (lo fanno tutti), di attribuzione della colpa alla vittima (mi ha provocato) e di deumanizzazione (è un verme) vengono in rete amplificati e resi astratti permettendo che tanti impensati violenti si uniscano nella fatuità di un gesto che a volte ha conseguenze fatali. Si aggregano (nel senso proprio dell’etimo della parola che viene da gregge) nella stupidità della violenza contro una vittima che, di solito, possiede un plus per sensibilità e umanità. Un plus che mette in crisi perché, senza volerlo, denuncia la povertà di contenuti dell’altro, del cyberbullo. Come può accadere?

Su questo occorre chiarezza: non di rado articoli specialistici motivano i processi di giustificazione morale appena visti e il coinvolgimento di persone “non attivamente violente”, quelle “che non farebbero mai del male”, con l’idea del “contagio”, dell’emulazione e delle modalità intrusive della rete. In realtà, siccome una persona non violenta non agisce per ledere un proprio simile, bisogna supporre che questi individui che si aggregano siano altrettanto violenti e chiedersi magari perché. Chiedersi come ci si possa accanire contro una persona timida o dal temperamento mite. Chiedersi come si possa considerare “sfigato” e, quindi, perdente chi cerca di coltivare una propria personalità studiando o leggendo romanzi. Perché questi sono spesso i tratti delle vittime di bullismo. Chiedersi delle idee che dominano a proposito della natura umana, dei rapporti fra simili e promuovere uno stile culturale e un pensiero profondamente nuovi. Questa è prevenzione. A partire dall’inizio, dalla famiglia e non dalla scuola. Perché non è a scuola che nasce il bullo. Tralasciando considerazioni scontate su genitori che, dagli spalti dei campi sportivi ai gruppi whatsapp, “urlano” in costante difesa del valore “negato” dei figli e che criticano costantemente (e a volte bullizzano!) gli insegnanti, alla scuola va piuttosto riconosciuto, di essere spesso il luogo in cui i giovani si percepiscono visti e ascoltati in un mondo di adulti ciechi e sordi.

In questo senso la scuola opera nella prevenzione, nella lotta contro lo stereotipo, il pregiudizio e la discriminazione, terzetto insidioso per lo sviluppo di un pensiero autonomo che non sia la ripetizione di luoghi comuni. Accade infatti che, di fronte al malessere che la nostra società sempre più spesso manifesta, divenga scontato ragionare per stereotipi, cioè per schemi confortevoli e rassicuranti. Generalizzando però si perde di vista (e negli affetti) la complessità e la variabilità umana e aumenta, di conseguenza, l’impoverimento interiore che provoca un più o meno profondo senso di inadeguatezza e insoddisfazione che dovrà poi, affinché l’uomo viva bene con se stesso, essere eliminato, fatto sparire.

Il problema sta nell’altro e si costruisce un capro espiatorio. Si passa dallo stereotipo alla violenza del pregiudizio, dall’aspetto cognitivo (è fatto così) all’aspetto valutativo (non è valido). Il negativo che uno si ritrova dentro, quell’insostenibile senso di insufficienza e inadeguatezza, intollerabile in una società che valorizza l’arroganza, viene eliminato da sé e messo in un altro essere umano (minoranza) che ha peculiarità ben definite e diverse dal gruppo di riferimento. Si identifica così il nemico, lo “sfigato”, il perdente, la vittima del bullo e, se si passa all’azione, si agisce la violenza della discriminazione.
Combattere culturalmente contro tutto questo, proporre pensieri veri e validi sulla realtà umana, promuovere nei bambini e nei giovani interessi e passioni ma, soprattutto, privilegiare uno sviluppo fatto in autonomia che conduca ad una identità più solida, è prevenzione.

Cecilia Iannaco è psicologa psicoterapeuta, socia fondatrice di Netforpp Europa. Oltre all’attività clinica, organizza corsi di formazione per docenti

L’articolo di Cecilia Iannaco è stato pubblicato su Left del 28 giugno 2019


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