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Il prossimo passo

Il diritto di autodeterminazione è un diritto fondamentale della persona che deve poter decidere come vivere, ma anche come morire.

I Padri e le Madri Costituenti, nel sancire con l’art. 32 della Costituzione la tutela della salute come “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” hanno voluto evidenziare l’importanza di non violare, in nessun caso, i limiti imposti dal rispetto della persona umana la cui dignità deve essere tutelata in ogni contesto.

In questa interpretazione si inserisce ad esempio, il rifiuto del paziente di prolungare le cure mediche, lasciando che la malattia prosegua nel suo decorso naturale.

Le morali religiose non possono inibire, ad esempio, la ricerca scientifica, che va interpretata come patrimonio dell’umanità costituendo parametro ineguagliabile per il superamento della patologie umane e per il miglioramento della qualità della vita.

Le ragioni etiche che impediscono ai religiosi di valutare positivamente qualsivoglia manifestazione di autodeterminazione, hanno trovato finalmente un argine con la sentenza della Corte costituzionale che ritiene non punibile chi, come Marco Cappato, ha accompagnato una persona senziente a porre fine alla propria esistenza di fronte alla stadio irreversibile della sua patologia.

Il tentativo del presidente della CEI, Bassetti, di bloccare la pronuncia della Corte Costituzionale attraverso la Presidente del Senato Casellati, è fallito miseramente, ma consente, tuttavia, di misurare lo spessore dell’ingerenza a cui costoro non intendono rinunciare.

Il prossimo passo sarà quello di inibire l’accesso alla professione medica alle persone che non riescono a superare i limiti delle proprie convinzioni personali, negando assistenza a chi vuole affermare i propri diritti.

Il prossimo passo, in definitiva, dovrà essere quello della abrogazione della obiezione di coscienza, frutto avvelenato di un compromesso teocratico.

Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia Atea e coordinatrice nazionale di Potere al Popolo

La tirannia del “per favore”

È una frase bellissima il “per favore” quando viene declamato inter pares, tra persone che hanno le stesse possibilità e le stesse difficoltà e si scambiano gesti disinteressati per aiutarsi l’un l’altro. È un frase che contiene tutto il piacere di chiedere aiuto e di darlo, senza promettere e senza chiedere nulla in cambio: è qualcosa così lontano dall’iperproduttività di questi tempi, se ci pensate.

Il “per favore” dei potenti (soprattutto dei potenti prepotenti) invece contiene tutta una fuliggine di schegge che tintinnano come una minaccia. Dice Trump nella telefonata con l’allora neo presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, al centro dell’ultimo scandalo che ha portato il Partito Democratico ad aprire una procedura di impeachment contro il Presidente degli Usa:

«Vorrei chiederle di farci un favore, però, perché il nostro Paese ne ha passate molte e l’Ucraina ne è molto coinvolta. Vorrei che scopriste cosa è successo in tutta quella situazione con l’Ucraina, lo chiamano Crowdstrike… Credo che uno dei vostri cittadini più ricchi… Il server, dicono che ce l’abbia l’Ucraina»

E poi:

«Si parla molto del figlio di Biden, di come Biden ha fermato l’inchiesta, e molte persone vogliono scoprire cosa è successo. Quindi qualsiasi cosa lei possa fare insieme al nostro procuratore generale sarebbe fantastica. Biden andava in giro a vantarsi di avere fermato l’indagine, quindi se poteste controllare… a me sembra una cosa orribile.»

In quella telefonata Trump ricorda al presidente ucraino i soldi che gli Usa gli danno. Eccolo un “per favore” che risuona in tutta la sua perfidia. E pensavo a tutte le volte che i nostri ragazzi, solo per fare un esempio, si ritrovano a dovere fare un favore ai loro datori di lavoro (anche se spesso è un lavoro ma manca la retribuzione) per avere il diritto di sperare di avere un’occasione oppure tutte le volte che “per favore” viene detto da un potente a qualcuno che deve sottostare al potere.

Non c’è niente di peggio di un ricatto travestito da buona educazione. E noi ne siamo pieni, dappertutto, e siamo pieni di gente che non ha le armi per mostrare al mondo le loro piccole trascrizioni. Ci vorrebbe un nuovo patto sociale, un nuovo ecologismo anche lessicale per avere la dignità di chiamare le cose con il proprio nome. E bonificare il “per favore”.

Buon giovedì.

Perché i Democratici hanno deciso di procedere per l’impeachment contro Trump

epa07866695 US President Donald J. Trump arrives to speak during the general debate of the 74th session of the General Assembly of the United Nations at United Nations Headquarters in New York, New York, USA, 24 September 2019. The annual meeting of world leaders at the United Nations runs until 30 September 2019. EPA/JASON SZENES

Se ne parla più o meno da quando si è insediato. Ora è diventato realtà: la speaker Democratica della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’inizio delle indagini preliminari per un processo di impeachment al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Secondo Pelosi, Trump ha «tradito il suo giuramento, tradito la sicurezza nazionale e tradito l’integrità del processo elettorale. Nessuno è al di sopra della legge», ha detto Pelosi il 24 settembre quando in Italia erano le 23.

Oggetto delle indagini sarebbe una telefonata tra Trump e il neopresidente ucraino Volodymyr Zelensky, in cui il presidente Usa ha chiesto con insistenza di avviare delle indagini sulla società del gas Burisma, in cui fino all’aprile del 2019 sedeva Hunter Biden, figlio dell’ex vicepresidente Joe Biden. In cambio di qualche notizia che potesse distruggere il suo principale avversario alle prossime elezioni, Trump avrebbe sbloccato aiuti militari all’Ucraina per circa 391 milioni di dollari. Ovviamente il presidente nega tutto, arrivando a twittare «presidential harrasment», molestia presidenziale.

Non è la prima volta che i Democratici parlano di mettere in stato d’accusa il presidente Trump, ultimo tentativo è stato quello dell’indagine del procuratore Muller. Cosa è cambiato adesso? Innanzitutto, il caso Ucraina riguarda le prossime elezioni, quelle del 2020, invece che quelle passate. Poi la base da cui partire sembra molto più solida di quella del Muller report, che scavava nel possibile coinvolgimento di Mosca nella sconfitta di Hillary Clinton alle votazioni del 2016. Attualmente, 204 deputati appoggiano l’impeachment a Trump, 131 sono contrari o indecisi e 99 aspettano di vedere come si svolgeranno le indagini, sostiene il New York Times.

Ora le indagini cercheranno di appurare se ci siano i presupposti previsti dalla Costituzione per la deposizione di un presidente, cioè «tradimento, corruzione o altri gravi reati». Nella storia degli Stati Uniti, soltanto tre presidenti sono stati messi in stato d’accusa: Andrew Johnson, Bill Clinton e Richard Nixon, che però si dimise prima che il procedimento iniziasse formalmente. Né Johnson, né Clinton sono stati condannati.

Di certo, un possibile impeachment avrà delle ripercussioni sulla campagna elettorale e le elezioni del 2020. C’è chi parla di un processo divisivo per il popolo americano e chi la vede come una possibile soluzione al togliersi di mezzo Donald Trump. Di certo, come fa notare il professor Arnaldo Testi, i candidati alle primarie democratiche dovranno decidere se continuare la loro campagna elettorale puntando sui contenuti, come vorrebbero Elizabeth Warren e Tulsi Gabbard, oppure se si lasceranno distrarre dallo svolgimento delle indagini, che spesso conducono in direzioni inaspettate.

Apertamente a favore è invece la senatrice Kamala Harris, anche lei candidata alle primarie Dem, che ha definito Trump il presidente meno patriottico della storia degli Usa. Un’altra voce celebre del Partito democratico, la giovane deputata Alexandria Ocasio-Cortez, già il 23 settembre aveva dichiarato che se il Congresso non avesse deciso di procedere con l’impeachment sarebbe stato un enorme scandalo.

Ora bisognerà attendere lo svolgersi delle indagini preliminari. A nulla è servita la tardiva dichiarazione di Trump, che ha assicurato che fornirà le trascrizioni integrali delle telefonate con Zelensky. Sarà la fine della carriera politica di The Donald, o un nuovo autogol del Partito democratico?

Gretini e cretini

Qualcuno dice che sia “una scimmia ammaestrata” (e lo dice un professore con un curriculum da luminare, badate bene), altri credono che sia tutta questione di massoneria, altri che dietro di lei si celi un’immensa operazione di marketing fino ad arrivare a quelli che la deridono per i suoi modi durante il suo discorso all’Onu (ovviamente perché loro, i critici, a 16 anni sono stati molto più disinvolti quando hanno parlato di fronte ai potenti del mondo): Greta Thunberg è la nuova bambola voodoo dei repressi complottisti, quelli che la sanno lunga e inveiscono feroci sui social dove anche i vigliacchi sembrano agguerriti e siccome la sanno davvero tanto lunga ieri hanno coniato un hashtag che è anche sbagliato, #gretathumberg con una al posto della tanto per farsi riconoscere in tutta la loro acquosa ignoranza.

In fondo la nuova ondata di insulti nasconde i soliti ingredienti: c’è l’invidia, quell’invidia che ha sempre bisogno di travestirsi d’altro per provare a legittimarsi, che ha bisogno sempre di pensare che se qualcuno ce l’ha fatta ci deve essere qualcosa di strano, qualche potere forte, e così loro si sentono realizzati nella loro mancata realizzazione. Gli invidiosi li riconosci perché hanno bisogno di demolire gli altri perché sono incapaci di avere a che fare con le proprie ambizioni: tagliano le gambe agli altri per sentirsi giganti.

C’è l’ignoranza con la malafede: parlare di Greta è il modo migliore per non dover affrontare gli argomenti che propone, con il solito vecchio trucco del dito e della luna. Se qualcuno avesse da ridire sulle sue accuse e sulle sue proposte non perderebbe nemmeno un secondo per discutere di lei ma potrebbe illuminarci con le sue tesi. E invece attaccare Greta è facile, immediato e (appunto) comodamente ignorante. Siamo pieni di persone che strusciano addosso a una persona per evitare i suoi argomenti.

Infine c’è il complesso di inferiorità: i temi ambientali sono terribilmente complessi e ogni volta che questi si ritrovano di fronte a qualcosa che ha a che fare contemporaneamente con l’economia, la socialità, l’ecologia, la produttività e il lavoro questi non tengono il ritmo. Hanno bisogno di cose banali, semplici, che ci stiano in uno slogan.

Ora decidete voi chi siano i gretini e chi siano i cretini.

Buon mercoledì.

Rossi e neri non sono uguali. Diciamo no alla falsificazione della storia. Un appello

La risoluzione del Parlamento europeo approvata a grande maggioranza il 19 settembre scorso, su «importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa», è un atto politico e culturale sbagliato e da respingere con forza.

In primo luogo va detto che non spetta a un organismo istituzionale o politico affermare una determinata ricostruzione della storia. Questo è un compito che va lasciato al libero confronto tre le diverse interpretazioni e opinioni, alla ricerca degli studiosi. Un uso della storia che voglia imporre una determinata visione dei principali eventi del secolo scorso per farne armi per la battaglia politica immediata non dovrebbe avere cittadinanza in una vera democrazia.

In secondo luogo, le affermazioni riguardanti la storia del Novecento presenti nella risoluzione contengono errori, forzature e visioni unilaterali che sono inaccettabili. Vi si afferma che il “patto Molotov-Ribbentrop” del 23 agosto 1939, «ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale». Si omette così qualsiasi riferimento al colpevole comportamento delle democrazie liberali di fronte alla politica espansionistica nazifascista, che data almeno dall’invasione dell’Etiopia (1935) e dalla guerra di Spagna scatenata dal generale Franco (1936), e proseguita con il “diktat di Monaco” (1938) e il conseguente smembramento della Cecoslovacchia non solo a opera della Germania, ma anche della Polonia e dell’Ungheria. E non va dimenticata la annessione dell’Austria (Anschluss) avvenuta l’11 marzo del 1938.

La storia ci insegna che l’Unione Sovietica cercò a lungo una intesa con Francia e Regno Unito in funzione antitedesca, e si decise a un accordo con la Germania (al fine di rimandare il pur inevitabile attacco nazista) solo quando fu chiaro che tale intesa era impossibile, anche per l’opposizione della classe dirigente polacca guidata dal dittatore di destra Piłsudski e alleata di Francia e Regno Unito.

Inoltre la risoluzione non fa cenno all’enorme contributo alla vittoria contro il nazifascismo, decisivo per le sorti stesse dell’Europa e dell’umanità, dato sia dall’Unione Sovietica (oltre 25 milioni di morti), sia da chi, ovunque in Europa e nel mondo, spesso guidato dagli ideali e dai simboli delle varie correnti del movimento comunista internazionale, si oppose alle truppe hitleriane e ai loro alleati. Si dimentica così che Antonio Gramsci, oggi tra gli autori più letti e studiati in tutto il mondo, morto per volontà del fascismo, era un dirigente e teorico comunista. Si riesce a nominare Auschwitz senza dire che fu l’esercito dell’Unione Sovietica a liberarne i prigionieri destinati allo sterminio. O si dimentica volutamente che in molti paesi (tra cui la Francia e l’Italia, ma non solo) i comunisti furono la principale componente della Resistenza al nazifascismo, dando un contributo di primo piano alla sua sconfitta e alla rinascita in quei paesi di una democrazia costituzionale e alla riaffermazione delle libertà politiche, sindacali, culturali e religiose. Per non parlare del decisivo apporto che Stati e idealità comuniste diedero nel Novecento alla liberazione di interi popolo dal giogo coloniale e a volte dalla schiavitù.

Ricordare questi dati di fatto, che la mozione colpevolmente omette, non significa ignorare e tacere sugli aspetti più condannabili di ciò che generalmente si chiama “stalinismo”, sugli errori e sugli orrori che vi furono anche in quel campo. Essi però non possono cancellare una differenza di fondo: mentre il nazifascismo, nel dare vita a una spietata dittatura e nel negare ogni spazio di democrazia, di libertà e persino di umanità, nel perseguitare fino allo sterminio proclamato e pianificato, le minoranze religiose, etniche, culturali, sessuali, cercò di realizzare i propri programmi, i regimi comunisti prima e dopo la guerra, allorquando si macchiarono di gravi e inaccettabili violazioni della democrazia e delle libertà, tradirono gli ideali, i valori e le promesse che aveva fatto. La qual cosa deve produrre domande, riflessioni e indagini, ma – congiuntamente al contributo dato dai militanti e dall’Urss alla sconfitta del nazifascismo – non permette in alcun modo l’equiparazione di nazismo e comunismo che è al centro della risoluzione del Parlamento europeo, né l’identificazione, più volte fatta dalla mozione, di comunismo e stalinismo, vista la grande varietà di correnti ideali ed esperienze politiche a cui il primo ha dato vita.

Queste falsificazioni e omissioni non possono essere assunte come base di una «memoria condivisa» e tantomeno diventare base di un programma comune di insegnamento della storia nelle scuole, come la mozione auspica. Non può divenire la piattaforma di una «Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari», quale la mozione chiede. Né fornire la motivazione per la rimozione «di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.)» che, con la scusa della lotta a un indistinto totalitarismo, invita in realtà a cancellare limpide pagine della storia di chi contribuì col proprio sacrificio a battere il nazifascismo.
Si afferma che la mozione del Parlamento europeo contiene inevitabili compensazioni atte a far passare anche una affermazione di volontà di lotta al «ritorno al fascismo, al razzismo, alla xenofobia e ad altre forme di intolleranza». Ma queste giuste esigenze di lotta al razzismo e al fascismo non possono fondarsi su un uso distorto e persino falso della storia o sul pretendere di recidere le radici di una componente fondamentale dell’antifascismo quale è quella comunista. I popoli d’Europa non lo devono permettere.

Primi firmatari:

Guido Liguori
Maurizio Acerbo
Walter Baier
Maria Luisa Boccia
Luciana Castellina
Paolo Ciofi
Davide Conti
Enzo Collotti
Maria Rosa Cutrufelli
Paolo Favilli
Paolo Ferrero
Eleonora Forenza
Nicola Fratoianni
Citto Maselli
Lidia Menapace
Massimo Modonesi
Roberto Morea
Roberto Musacchio
Pasqualina Napoletano
Rosa Rinaldi
Bianca Pomeranzi
Aldo Tortorella

Per aderire: [email protected]

Spazio pubblico? Distrutto

Un grande urbanista che considerava la città come bene comune, un docente universitario che ha lasciato il segno nei suoi studenti e un appassionato difensore dei diritti dei cittadini e dei beni paesaggistici e culturali  attraverso il suo sito Eddyburg. Per ricordare Edoardo Salzano che è sempre stato attento ai contenuti espressi da Left pubblichiamo un suo articolo uscito nel numero 34 di Left del 22 agosto 2008.

Stanno distruggendo tutto. Dai valori fondanti del nostro Stato al ruolo del lavoro, dai bilanci delle famiglie alla solidarietà. Operano modificando il modo in cui le persone pensano, giudicano, valutano, scelgono, e le abitudini quotidiane, ciò che si compra, si mangia, si indossa, si guarda.

Non ci sarebbe nulla di male, se distruggessero ciò che non serve più. Invece no. Stanno distruggendo tutto quello che conta, tutto quello che è stato costruito in un faticoso processo di sviluppo: quello vero, quello che migliora le persone e il loro modo di vivere con gli altri, di essere e di sentirsi uguali e ugualmente degni di rispetto, non quello consistente nell’aumento della produzione di merci utili, inutili o dannose.

Stiamo parlando dei nuovi barbari, quelli che sono rappresentati e conquistati da Silvio Berlusconi. Ma in realtà dovremmo parlare, più che di Berlusconi, del “berlusconismo”: quella ideologia che pervade larghissimo parte dello schieramento politico, che nacque con le “modernizzazioni” di Bettino Craxi e con l’insofferenza delle regole comuni, che ha la sua cornice mondiale in ciò che Oltralpe e Oltreoceano si chiama “neoliberalismo”.

È un’ideologia che ha il suo centro nella affermazione più piena, sfrenata, “libera” dell’individuo, il cui metro di misura è costituito unicamente dalla ricchezza e dal potere che è in grado di accumulare, quali che siano i mezzi impiegati. L’unico strumento valido per misurare le cose (tutte le cose, dalle merci ai sentimenti) è il mercato; l’unica dimensione della vita sociale che conti è quella economica (e dell’economia data, dell’economia capitalistico-borghese).

Molti hanno compreso e denunciano numerosi aspetti di questa ideologia, e delle pratiche sociali che ne conseguono: nella sinistra “radicale”, nei gruppi intellettuali e sociali che criticano la globalizzazione neoliberista, in parti consistenti del mondo dell’ambientalismo e di quello cattolico. Molto scarsa è invece la consapevolezza del danno enorme che i barbari stanno apportando nel campo dell’organizzazione dell’habitat dell’uomo: nella città e nel territorio.

Qui, nella città e nel territorio la devastazione che sta avvenendo è immane. E che il grosso dell’opinione pubblica (a partire dai politici) non se ne accorga rende il danno ancora più preoccupante. Riflettiamo su alcuni aspetti di ciò che sta avvenendo.

Gli spazi pubblici
Gli spazi e gli edifici destinati alla vita e alle funzioni sociali (dalle piazze alle scuole, dai parchi agli ospedali) sono spazi pubblici per definizione, e aperti alla pubblica fruizione: tali sono stati da quando la città esiste (la nostra città, la città europea, la città come luogo del municipio e della libertà, dell’autogoverno e della cittadinanza). Il loro peso nella città è cresciuto, nella storia, man mano che si sono sviluppate le funzioni legate alla solidarietà, alla diffusione della cultura, alla cura della salute, agli impieghi del tempo libero.

Sono stati una componente di rilevo del welfare state. In Italia la loro conquista è stato il risultato di una lunga lotta del movimento delle donne, del sindacato dei lavoratori, della cultura progressista, dei partiti della sinistra. Si era ottenuto che nei piani urbanistici venissero riservati a queste necessità aree di dimensioni adeguate, da acquisire alla proprietà pubblica e alla pubblica gestione (gli standard urbanistici, con una legge del 1967). Si era ottenuto poi che ogni intervento edilizio dovesse destinare una quota del maggior valore ottenuto dai proprietari alla realizzazione delle previsioni pubbliche dei piani (gli oneri di urbanizzazione, con una legge del 1977).

Oggi è in marcia la loro demolizione, adoperando tre strumenti. (1) La riduzione delle risorse destinate alla loro acquisizione, realizzazione, gestione: quegli “oneri di urbanizzazione” che erano destinati a ciò sono utilizzati dai comuni per coprire i loro deficit di bilancio, per pagare stipendi e altre spese correnti.

(2) La progressiva privatizzazione degli spazi pubblici: il percorso era stato avviato trasformando le piazze in parcheggi, prosegue oggi sollecitando i comuni a “valorizzare” le proprietà pubbliche (venderle o trasformarle in utilizzazioni commerciali), e proponendo di utilizzare le aree vincolate a spazi pubblici per realizzarvi edilizia residenziale solo provvisoriamente “sociale”, poi utilizzabile dagli immobiliaristi più o meno “furbetti”.

(3) l’abolizione dell’obbligo di rispettare gli standard urbanistici, prevista da una legge bloccata in extremis nella scorsa legislatura e ripresentata in quella attuale, ma già anticipata in alcune regioni.

Il diritto alla casa a un prezzo equo
La rivendicazione popolare della “casa come servizio sociale” era stata tradotta, negli anni Settanta, in una strategia che prevedeva la programmazione decennale dell’intervento pubblico nel settore (con l’edilizia pubblica per i ceti meno abbienti e quella privata convenzionata e agevolata, l’una e l’altra su aree parzialmente depurate degli incrementi della rendita fondiaria) e il controllo dei prezzi del mercato edilizio esterno all’area dell’intervento pubblico (l’equo canone).

Tutto ciò è stato smantellato. Non solo: fedeli al principio di utilizzare anche la povertà per arricchire i già ricchi, prevedono di finanziare interventi immobiliari privati, agevolati dal contributo pubblico, con il solo vincolo di affittare le case a prezzi contenuti ai meno abbienti.

Tutto ciò costituisce la sostanza della politica aggressiva della destra al potere. Ma è stato avviato per più d’un aspetto nella politica del centrosinistra, ogni volta che si è dimenticato che il mercato, se è utile per misurare il valore delle merci, non serve né a comprendere né a governare qualcosa che merce non è: come la città e il territorio. La speranza di arrestare la privatizzazione dell’habitat dell’uomo è affidata soprattutto alla resistenza di chi ha compreso ciò che sta accadendo, e sa unirsi agli altri per difendere ciò che fa della città un bene comune: a partire dagli spazi pubblici.

Conte e gli equilibrismi

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla festa di ''Atreju 2019'', Roma 21 settembre 2019. ANSA/FILIPPO ATTILI CHIGI PALACE PRESS OFFICE +++ NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Giuseppe Conte ha partecipato a feste di partito sostanzialmente opposte: nel giro di pochi giorni è riuscito a fingere di accarezzare le Ong, ha ridato smalto ai sindacati e con quelli di Fratelli d’Italia ha lanciato qualche spigolatura sovranista. Niente di male, per carità: un presidente del Consiglio che riesce a sopravvivere a un’inversione di governo ha già dimostrato di sapere stare perfettamente in equilibrio.

C’è da vedere però se l’abilità consista nell’essere davvero quel mediatore che in molti ci rivendono (e allora potrebbe anche avere un senso in nome della real politik), oppure se non si tratti piuttosto di un’attitudine a essere bifronte e tenere i piedi in tutte le scarpe. Il gioco è sottile e molto molto pericoloso.

A Atreju, ad esempio, lo scorso 21 settembre Conte ha testualmente detto:

«Voglio ringraziare qui tutti i nostri apparati perché vi posso assicurare che la guardia costiera libica, supportata dal nostro intervento, ogni giorno contiene centinaia – ma proprio centinaia – di migranti».

Ci si illudeva, sbagliando, che ormai nessuno al mondo avesse dubbi sulla feroce illegalità della Libia e che (forse escluso Salvini e compagnia) nessuno potesse avere lo stomaco di parlare della strage quotidiana che avviene in Libia come di un contenimento. Ci sbagliavamo.

Il presidente del Consiglio è molto furbo (o forse che qui si sia tutti molto stupidi) nell’esporre gli stessi concetti che furono del Capitano leghista senza però usarne il bullismo, come se ci bastasse un’idiozia esposta elegantemente per sentirci tutti più rassicurati. No, non è così.

Come diceva Einstein “la vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l’equilibrio devi muoverti” e non durerà a lungo questo viaggio di nozze in cui ci si accontenta di avere abbassato i toni. Le azioni si compiono, non si declamano. E la Libia non si bonifica con un po’ di mestiere e di finta buona educazione.

Buon martedì.

La risoluzione della vergogna

Il Parlamento europeo ha votato con 535 voti a favore, 66 contro e 52 astenuti una risoluzione che afferma l’equiparazione fra nazifascismo e comunismo. Hanno votato a favore il PPE (di Berlusconi e Aznar), i cosiddetti liberali, i partiti parafascisti dell’ungherese Orban e del polacco Kaczyński, i parlamentari apertamente neofascisti e neonazisti e l’intero gruppo del PD, in buona compagnia con la Lega e FdI. I 5 Stelle si sono astenuti. È accaduto il 19 settembre.
Questi i nomi dei parlamentari del PD presenti che hanno votato a favore, un elenco da tenere bene a mente (soprattutto da parte dei tanti compagni che li hanno votati “sennò-viene-salvini”): Bartolo (PD), Benifei (PD), Bonafè (PD), Calenda (PD), Chinnici (PD), Cozzolino (PD), Danti (PD), De Castro (PD), Ferrandino (PD), Gualmini (PD), Moretti (PD), Picierno (PD), Pisapia (PD), Tinagli (PD). Spicca fra loro il nome dell’on. Pisapia, che quando era comunista era più comunista di tutti noi comunisti, con le parole e con gli atti. Non risultano peraltro dissociazioni o critiche da parte degli euro-parlamentari del PD assenti al momento del voto.
In mezzo a una serie di banalità e di ovvietà (come la condanna del razzismo o il richiamo al Processo di Norimberga) la lunga risoluzione fra l’altro richiama il fatto “che in alcuni Stati membri la legge vieta le ideologie comuniste e naziste”, appunto equiparandole, vergognosamente. Senza contare che il richiamo al divieto del comunismo e del nazismo (come se fossero la stessa cosa!) si oppone frontalmente alla Costituzione italiana che – fino a prova contraria – proibisce il fascismo e reca la firma del comunista Umberto Terracini. Berlusconi e Salvini forse neppure lo sanno, ma il giurista on. Pisapia avrebbe dovuto ricordarsene.
Così recita ancora la risoluzione della vergogna:
Il Parlamento Europeo (….) invita tutti gli Stati membri dell’UE a formulare una valutazione chiara e fondata su principi riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista.
La parte più agghiacciante della risoluzione è però quella in cui si propone un nuovo asse ideologico-formativo come compito della Comunità Europea, ad esempio invitando:
tutti gli Stati membri a celebrare il 23 agosto come la Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari a livello sia nazionale che dell’UE e a sensibilizzare le generazioni più giovani su questi temi inserendo la storia e l’analisi delle conseguenze dei regimi totalitari nei programmi didattici e nei libri di testo di tutte (sic!) le scuole dell’Unione.
C’è da tremare a pensare chi dovrebbe scrivere questi libri di testo unificati e unici (!) per tutta l’Europa. In quei libri ai giovani europei toccherà studiare quello che la risoluzione-vergogna afferma, cioè che la seconda guerra mondiale fu provocata … dal patto Molotov-Von Ribbentrop (23 agosto 1939). Così la risoluzione trascura, e anzi nasconde, il fatto storico fondamentale, cioè che quasi un anno prima di quel patto (cioè il 30 settembre 1938) le democraticissime Francia e Inghilterra (Daladier e Chamberlain) avevano firmato a Monaco un patto con Hitler e Mussolini, lasciando alla Germania mano libera perché facesse la guerra ad Est, invadendo la Cecoslovacchia e annettendo i Sudeti, con la prospettiva di attaccare l’URSS. In quell’occasione anche la proposta dell’URSS di mandare truppe contro i tedeschi in difesa della Cecoslovacchia fu rifiutata da Francia e Inghilterra (e contrastata dalla Polonia). Churchill commentò ai Comuni la vile politica di appeasement del suo Governo con la frase “Dovevate scegliere fra l’onore e la guerra: avete scelto il disonore e avrete la guerra”.
Un anno e oltre dopo Monaco, invece di attendere pazientemente che Hitler, col pieno consenso degli anglo-francesi, attaccasse a Est, l’URSS firmò quel patto, che naturalmente provocò tanti problemi ai comunisti di tutta Europa ma che si rivelò decisivo per guadagnare tempo e spazio (Hitler attaccò l’URSS il 22 giugno 1941), cioè per preparare militarmente l’URSS alla terribile guerra che si profilava e soprattutto per spingere Hitler a combattere contemporaneamente su due fronti, sia ad Ovest sia ad Est.
Dello stesso livello (miserabile) della ricostruzione storiografica è la linea culturale che la risoluzione propone, incoraggiando:
gli Stati membri a promuovere l’istruzione attraverso la cultura tradizionale (sic! chissà se anche il rosario di Salvini o il femminicidio fanno parte della “cultura tradizionale”? NdR) sulla diversità della nostra società (sic!) e sulla nostra storia comune, compresa l’istruzione in merito alle atrocità della Seconda guerra mondiale, come l’Olocausto, e alla sistematica disumanizzazione delle sue vittime nell’arco di alcuni anni;
– chiede inoltre che il 25 maggio, anniversario dell’esecuzione del comandante Witold Pilecki, eroe di Auschwitz (si tratta di un ufficiale polacco che riuscì incredibilmente a fuggire da Auschwitz e fu fucilato nel 1948 in Polonia con l’accusa di spionaggio per la Gran Bretagna, NdR), sia proclamato “Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo”.
Poi la risoluzione svela la sua vera ratio politica, che consiste nel rilancio di una nuova guerra fredda contro la Russia, fra l’altro identificando senz’altro la CE con la NATO:
sottolinea che, alla luce della loro adesione all’UE e alla NATO, i paesi dell’Europa centrale e orientale non solo sono tornati in seno alla famiglia europea di paesi democratici liberi (sic! Vedi gli atti dei Governi di Polonia e Ungheria, NdR), ma hanno anche dato prova di successo, con l’assistenza dell’UE, nelle riforme e nello sviluppo socioeconomico; sottolinea, tuttavia, che questa opzione dovrebbe rimanere aperta ad altri paesi europei, come previsto dall’articolo 49 TUE;
sostiene che la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista e che il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l’élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico; invita pertanto la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato;
è profondamente preoccupato per gli sforzi dell’attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico; considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica allo scopo di dividere l’Europa e invita pertanto la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi;
Non a caso, incredibilmente, in spregio ad ogni norma di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano, la risoluzione del Parlamento europeo sarà inviata, perché imparino qualcosa, anche:
alla Duma russa (sic!) e ai parlamenti dei paesi del partenariato orientale.
Cosa c’è di meglio dunque che invitare ad abbattere un po’ di monumenti che ricordano la vittoriosa guerra antifascista dei popoli europei? Come hanno già fatto in Ungheria con l’abbattimento delle targhe dedicate al grande filosofo marxista Lukàcs e perfino del monumento a Imre Nagy, il comunista leader della rivolta antistalinista del 1956:
osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari.
Ora, non è mai buon segno quando la politica pretende di riscrivere la storia: l’unica cosa che la politica può e deve fare a proposito della storia è favorirne lo studio. Ma in questo caso si tratta di cancellare, anzi di rovesciare, l’intera storia del Novecento europeo, che è essenzialmente fatta della lotta per la liberazione delle masse popolari, condotta in prima persona da socialisti e comunisti, e contro cui si scatenò la furia omicida del nazi-fascismo. Così si tratta di cancellare l’antifascismo (la vera matrice, se ce n’è una, dell’Europa democratica), la Resistenza, la guerra contro Hitler e Mussolini a cui i sovietici (non dimentichiamolo mai) contriburono con venti milioni di morti. Checché ne dica il buon Benigni, il campo di Auschwitz fu liberato dai sovietici, con la stella rossa sul berretto, non dagli americani. E non a caso Primo Levi ebbe parole di fuoco verso chi equiparava nazismo e comunismo. Ma forse oggi anche Pisapia e Co., come Benigni, debbono vendere la loro narrazione menzogneraa a Holywood?
Tuttavia se la nuova destra unificata europea (che si è manifestata nel voto-vergogna di Bruxelles) vuole ragionare di atrocità e di valori, noi siamo pronti: parleremmo volentieri delle atrocità del colonialismo europeo, dei massacri contro i popoli africani perpetrati da inglesi, francesi, tedeschi, belgi, olandesi, spagnoli, portoghesi e – ce lo scordiamo troppo spesso – italiani (usando per la prima volta i gas contro la popolazione civile); parleremmo volentieri delle guerre di sterminio scatenate dagli europei, al seguito del padrone americano, di recente contro la Jugoslavia, e l’Iraq e la Libia etc.; parleremmo volentieri del razzismo e dell’antisemitismo di cui la borghesia europea e quella italiana si sono macchiate ben prima di Hitler; parleremmo volentieri del sostegno sempre fornito dai Governi europei alle aggressioni e ai massacri compiuti dal padrone americano, fino ai nostri giorni, ad es. in America Latina, o dell’appoggio europeo al criminale “bloqueo” contro Cuba e il Venezuela; parleremmo del terrorimo e del golpismo, della scia di sangue che accompagna tutta la storia della nostra Repubblica, sempre ad opera della triade fascisti-servizi segreti-CIA; e oggi parleremmo volentieri soprattutto dei sacri diritti di cittadinanza universale negati (proprio dai votanti della mozione-vergogna!) al popolo dei migranti, del loro respingimento che equivale a condanna a morte.
Finché non parlerà di tutto questo, a proposito di valori e di condanna delle atrocità,
la nuova destra unificata europea dovrebbe almeno tacere.

Conte 2, come evitare la sindrome del governo “amico” e la tentazione dell’opposizione a prescindere

Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti in un immagine del 10 dicembre 2018. . ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Si è detto che è il governo più a sinistra di sempre, e a guardare i profili dei ministri verrebbe quasi da concordare.
Anche il programma è rassicurante, pur nella genericità che sempre accompagna esperienze come questa.
Si parla di beni comuni, di salario, di scuola e di sanità pubblica, di green new deal.
Dopo il governo del triumvirato giallo verde siamo quasi di fronte a una rivoluzione.

Tutto questo per dire che è normale e persino scontato che la sinistra parlamentare abbia deciso di partecipare a pieno titolo a questo tentativo.
Non si trattava infatti di esprimere un giudizio su qualcosa di già conosciuto, ma di accettare una scommessa su un quadro inedito per la politica italiana.
Il punto era aprire una possibilità di cambiamento nel momento più buio, quello in cui sembrava inevitabile precipitare nel nuovo ordine promesso dalla peggiore destra continentale.

D’altra parte era chiaro da subito che questo tentativo avrebbe avuto successo a tre condizioni preliminari.
Il Pd avrebbe dovuto dimostrare coi fatti di non avere alcuna nostalgia per il tran tran liberista del vecchio centrosinistra.
Il M5S avrebbe per parte sua dovuto sviluppare una seria riflessione critica sui 13 mesi di coabitazione con la Lega, ma anche sulla retorica qualunquista e antipolitica che ne ha segnato gli esordi.

Alla sinistra il compito più difficile: partecipare al governo con numeri parlamentari estremamente ridotti, senza rimanere schiacciata da due alleati dal profilo incerto come M5S e Pd.
In questo quadro si inserisce anche la scissione di Renzi, che non cambia il perimetro della maggioranza, ma certamente rischia di mutarne l’equilibrio.

Entra in campo infatti un soggetto autonomo con un chiaro riferimento agli interessi dei potentati economico-finanziari italiani e internazionali, che non nasconde l’intenzione di difenderli senza riserva.
Siamo quindi di fronte ad un esecutivo sorretto da un sistema poroso e indefinito di forze, che possono potenzialmente condurre ad esiti molto diversi.

La caratteristica fondamentale del Conte 2 sembra essere la malleabilità: in assenza di identità e istanze programmatiche forti al proprio interno, l’indirizzo fondamentale deriverà da sollecitazioni esterne e dalla loro capacità di attivare energie parlamentari.
Per la sinistra mi pare un’opportunità e insieme come l’ultima chiamata ad un’assunzione di responsabilità.

In questo momento siamo infatti inconsistenti sul piano organizzativo e istituzionale, ma abbiamo di fronte una maggioranza potenzialmente sensibile alla domanda di giustizia sociale e ambientale.
Abbiamo anche un gancio parlamentare, a cui poterci aggrappare per far valere le nostre ragioni.
Dobbiamo tuttavia sapere che questo può accadere solo se sapremo farle crescere a livello di opinione pubblica e trasformarle in occasione di mobilitazione sociale.

Non sarà l’iniziativa autonoma di nessun ministro a consegnarci il ripristino dell’art.18, un piano serio di lotta ai cambiamenti climatici, una riforma fiscale nel segno dell’equità e della progressività.
È tuttavia vero anche che sulla carta questi e molti altri punti non sono estranei al programma elettorale del M5S, né contraddittori con la spinta che ha portato Zingaretti alla guida del Pd.

Ciò significa che nulla ci sarà regalato, ma che per la prima volta da anni potremmo essere di fronte ad un esecutivo permeabile alle rivendicazioni di movimento.
Abbiamo quindi di fronte un programma di lavoro in due punti.

Evitare la sindrome del governo amico, che ci porterebbe del tutto fuori strada, così come la speculare tentazione dell’opposizione a prescindere.
Investire su campagne capaci di determinare l’agenda della maggioranza, e insieme di insediare nuovamente la sinistra nella società.
Nulla di facile, nulla di impossibile.

Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana

Beni comuni, lotta alla precarietà e difesa dell’ambiente: dalla Toscana un progetto alternativo a sinistra

Se la crisi di governo è stata archiviata, e con essa nuove elezioni politiche, tra fine ottobre e maggio 2020, molti cittadini saranno chiamati alle urne per le regionali: dalla Toscana all’Emilia Romagna, passando per la Liguria, l’Umbria, le Marche, fino al Veneto.
Le consultazioni saranno, ancora una volta, un banco di prova per il neo governo, e il nuovo assetto politico nazionale sta smuovendo le acque anche in ambito locale. La Toscana è, insieme all’Emilia Romagna, una delle osservate speciali: regione tradizionalmente rossa, ha però conosciuto ripetute débacle alle amministrative.

Dopo la clamorosa sconfitta a Livorno nel 2014 con l’elezione del primo cittadino grillino Filippo Nogarin, altre città toscane hanno nel tempo cambiato colore, virando a destra: Cascina, Arezzo, Pisa, Siena, Cortona e Piombino. La Lega, forte delle ultime vittorie, ha più volte ribadito il desiderio di espugnare una delle regioni simbolo del centrosinistra.

Tommaso Fattori, consigliere regionale di Sì Toscana a Sinistra, coalizione che raggruppa movimenti, associazioni e partiti di sinistra, è un veterano della politica dal basso e dei movimenti. Organizzatore del primo Forum Sociale Europeo e portavoce del Social Forum di Firenze del 2002, Fattori è stato tra i principali promotori dei referendum del 2011 a favore dell’acqua pubblica riportando una storica vittoria con il 96% dei sì. Nel 2014 si è candidato alle europee con la lista L’Altra Europa per Tsipras per poi approdare nel Consiglio regionale toscano nel 2015.

Dal 20 al 22 settembre si è svolta a Calambrone (PI) la tre giorni di Sì Toscana a Sinistra, il cui claim è “Costruiamo l’alternativa per la Regione Toscana”. Quale è l’alternativa che ha in mente?

Alternativa significa nuova visione del mondo e costruzione di un modello ecologico e sociale in grado di assicurare protezione, restituendo la speranza in un orizzonte di felicità collettiva. Sì, protezione: dalla precarietà, dall’impoverimento, dalla mancanza di servizi, ormai assottigliati e privatizzati, e dal disastro ecologico. L’obiettivo primario è accrescere la ricchezza comune: garantire una sanità regionale davvero pubblica e universale, contrastandone la privatizzazione e il definanziamento; assicurare un tetto sulla testa a chiunque ne abbia bisogno, mentre si lasciano vuoti immensi contenitori nelle nostre città; finanziare un sistema di trasporto pubblico capillare al servizio dei pendolari, quando si è invece speso un miliardo di euro solo per scavare un cratere vuoto, che forse un giorno ospiterà un’inutile cattedrale dell’alta velocità, simil Tiburtina.

E ancora: elaborare un piano di gestione dei rifiuti centrato sulle fabbriche dei materiali, con tecnologie circolari per recuperare materia anziché distruggerla attraverso vecchi inceneritori o nuovi pirogassificatori; investire sulla ricerca e sul polo scientifico universitario, anziché sul nuovo aeroporto di Firenze; gestire pubblicamente l’acqua, anziché permettere a pochi di estrarre profitti da un bene di tutti; utilizzate le tecnologie per migliorare le nostre vite anziché renderle strumenti di arricchimento e controllo nelle mani di pochi.

E dunque alternativi a chi, alla Lega o al Pd?

Alternativi al modello privatizzatore e antiecologico che rende Pd e Lega molto più sovrapponibili di quanto non appaia. Pure sui temi dell’immigrazione e delle ossessioni securitarie, in questi anni, le differenze fra Pd e Lega sono state più di stile che di sostanza, e non sto solo parlando dei lager libici ai tempi di Minniti, ma anche dei Cpt, dell’obbrobrio sulla legittima difesa, delle ordinanze democratiche di sindaci democratici contro i mendicanti, delle “ruspe umanitarie” di Nardella nei campi Rom e via di questo passo.

Tutto fatto in giacca e cravatta e con toni educati anziché sbraitando contro le “zingaracce”, il che, per carità, almeno non getta nell’immediato benzina sul fuoco razzista, ma chi, per almeno vent’anni, ha fatto scelte di destra è pericoloso quanto una destra che fa la destra, e non mi pare che al momento si stia voltando pagina, purtroppo. Noi invece siamo la parte che desidera creare un altro mondo, la parte che aspira a liberare gli esseri umani e l’ecosistema dallo sfruttamento e dall’ingiustizia, la parte che coltiva utopie concrete, tenendo assieme ideali e pragmaticità. Con una nostra agenda, non inseguendo le agende altrui.

La tre giorni sarà l’occasione per ufficializzare la sua ricandidatura alle regionali. Crede di superare lo sbarramento del 5% stabilito dalla legge elettorale toscana, tenuto conto che alcuni dei suoi vecchi alleati- Sinistra Italiana- hanno da poco aperto ad un possibile appoggio al Pd?

Per la verità discuteremo di programmi e solo nei prossimi mesi di candidature. Quanto a Sinistra Italiana, è da sempre parte integrante del progetto regionale e  sono sicuro che anche nella primavera prossima saremo tutti assieme. Un accordo dovrebbe infatti avvenire su base programmatica e la distanza con il Pd toscano di oggi, che poi è lo stesso della primavera 2015, è abissale, dunque ho motivo di credere che fra qualche mese tutti avranno verificato l’impossibilità di colmare questa distanza.

Aggiungo che sarebbe poco sensato depotenziare uno dei pochi esperimenti innovativi a sinistra che hanno dimostrato di funzionare, sia elettoralmente, sia nella costruzione di relazioni sui territori, oltre che nel lavoro istituzionale. In Consiglio abbiamo fatto un’opposizione propositiva, in coerenza con il nostro nome Sì – l’opposto di no – condensando in proposte di legge, mozioni, risoluzioni il nostro modello alternativo di governo. Anche grazie al nostro metodo di lavoro partecipativo, in questi anni si sono avvicinati tante liste di cittadinanza, comitati locali, oltre a gruppi di delusi del M5S, in fuga durante la fase di governo con la Lega.

Insomma, questo progetto collettivo è cresciuto rispetto a quando, nel 2015, prendemmo il 6,3%, un paio di mesi dopo essere nati. E vorremmo che il popolo della sinistra toscana potesse riprovare l’emozione, così rara, di votare due volte lo stesso simbolo, dando continuità al medesimo percorso, senza ogni volta smantellare tutto e ripartire da capo. Continuiamo a costruire, rifuggendo la pulsione autodistruttiva che abbiamo visto troppo spesso all’opera.

Anche in Toscana si parla da anni di grandi opere, prima fra tutte l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze, fortemente voluto dal Pd, che presenta molteplici profili di criticità per l’ambiente e per il tessuto urbanistico. In una delle ultime sedute del Consiglio regionale si è assistito ad un’opposizione piuttosto morbida del M5S, storicamente contrario all’opera.
Siamo di fronte ad un’alleanza giallo-rossa anche in chiave toscana, dopo l’apertura ad un possibile accordo Pd/M5S per le regionali umbre?
Pensa che la battaglia contro l’aeroporto abbia ancora qualche probabilità di vittoria?

È probabile che Pd e M5S provino a replicare l’alleanza anche in Toscana, perché questo assicurerebbe loro il governo della Regione, ma i toni del M5S si erano già ammorbiditi durante la fase di governo con la Lega, favorevole al nuovo aeroporto tanto quanto il Pd. Il Tar, nel frattempo, ha annullato il decreto di compatibilità ambientale (Via) e di conseguenza il Ministero delle infrastrutture ha dovuto sospendere l’esecuzione del decreto che ratificava la conclusione della conferenza dei servizi, fermando tutto. Ovvio che la battaglia non può essere condotta solo sul piano giudiziario né essere confinata nel perimetro delle aule consiliari, serve l’iniziativa e la mobilitazione di cittadini attivi, di associazioni e comitati, ma gli spazi per continuare a vincere ci sono tutti, perché la popolazione dell’intera piana non vuole l’aeroporto, stanca di essere considerata la pattumiera di Firenze, come non lo vogliono i sindaci.

La nuova pista lì semplicemente non ci può stare, essendo un’area iperurbanizzata, fra le più inquinate d’Europa, satura di complessi produttivi e opere impattanti di ogni genere, autostrade comprese. Insieme ce l’abbiamo fatta ad impedire la costruzione dell’inceneritore di Case Passerini, ce la faremo anche realizzare il parco agricolo della piana e a sviluppare il polo universitario anziché la nuova pista.

Nel marzo scorso, insieme all’altro consigliere di Sì Toscana a Sinistra, Paolo Sarti, avete denunciato l’esistenza di un accordo tra la Regione Toscana e il Forum delle Associazioni Familiari che prevede la possibilità per le associazioni private antiabortiste di entrare nei consultori pubblici, a favore del quale è stato inoltre stanziato un contributo di 195 mila euro in tre anni.
L’autodeterminazione delle donne è un valore ancora così difficile da affermare politicamente e culturalmente?

Assolutamente sì, le spinte conservatrici provengono sia dalla società, sia dalla politica. Le donne guadagnano meno degli uomini, fanno meno carriera, vengono discriminate, in certi casi violentate e persino ammazzate per il solo fatto di essere donne. Al tradizionale modello maschile tossico, alla diffusa e mai sradicata mentalità patriarcale, al preoccupante aumento dei medici obiettori di coscienza, che limitano la piena applicazione della legge 194, adesso si somma la recrudescenza di una destra fortemente maschilista nel linguaggio e nelle proposte programmatiche, come il famigerato Ddl Pillon, fortunatamente archiviato. E il corpo stesso delle donne è, da sempre, anche terreno di profitti.

Dietro l’accordo fra Regione Toscana e Forum delle famiglie c’è la crociata antiabortista dei soliti noti e allo stesso tempo c’è il business degli affidi gestito dai gruppi antiabortisti integralisti. Il lato positivo di questa penosa vicenda è l’intelligenza, la costanza e la fantasia con cui le donne di Non Una di Meno hanno organizzato la protesta, nel corso di questi mesi, per ottenere il ritiro del provvedimento. Un’azione che rafforza anche la nostra battaglia consiliare per l’annullamento dell’accordo e che ha già portato almeno al congelamento delle erogazioni di denaro. D’altro canto le manifestazioni delle donne, assieme a quelle del movimento LGBTQI, sono fra le più partecipate e creative, nel nostro Paese.

Ancora non è chiaro chi saranno i suoi prossimi avversari. Nel Pd, che forse andrà alle primarie, si fanno i nomi dell’attuale assessora alla sanità, la renzianissima Stefania Saccardi, e del presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, mentre l’europarlamentare Simona Bonafé -altra renziana di ferro – sembra essersi smarcata definitivamente preferendo rimanere a Strasburgo. Per il M5S potrebbe scendere in campo l’ex sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, mentre per il centrodestra, tramontata l’ipotesi del giornalista Mediaset Paolo Del Debbio, è ritornato in auge il nome della super salviniana Susanna Ceccardi, ex sindaca di Cascina ora europarlamentare.
Sarà una campagna elettorale impegnativa. Chi teme di più come avversario politico?

Non temo gli avversari, temo il Toscanellum, ossia una legge elettorale incostituzionale congegnata da Renzi e Verdini per trasformare artificialmente una minoranza nella società in una maggioranza di seggi nel parlamento regionale. Il che è molto rischioso: è una legge che stravolge il principio di eguaglianza del voto di ciascun cittadino e che limita la rappresentatività del Consiglio attraverso sbarramenti, premi di maggioranza, ballottaggio, listini bloccati.

Per questo abbiamo presentato una proposta di legge proporzionale, per cambiare sistema elettorale. Pd e M5S stanno discutendo a livello nazionale di una legge elettorale simile, sarebbe incomprensibile che non volessero discutere la nostra proposta per la Toscana. È giusto e necessario dotarci di un sistema che ristabilisca piena proporzionalità fra i voti ottenuti dalle varie forze politiche e i seggi assegnati. Così tutti i voti pesano in ugual modo e hanno il medesimo valore e così il Consiglio può rispecchiare effettivamente tutti i territori e le volontà di tutti gli elettori, in uguale misura. Questa è una svolta necessaria in epoca di crescente distacco e disaffezione dei cittadini dalla politica, che si traduce in alto astensionismo e in una democrazia dimezzata.

Lei ha sempre fortemente contestato al Pd il Jobs Act, la riforma sanitaria toscana- che ha smantellato molti settori della sanità pubblica- e la mancata attuazione dei referendum sull’acqua pubblica del 2011. A suo avviso c’è ancora spazio per un’azione politica di contrasto a tali provvedimenti?

Lo spazio c’è per il semplice fatto che la maggioranza delle persone la pensa come noi. Il nodo irrisolto è come trasformare queste maggioranze sociali in maggioranze politiche. In altri termini, se andiamo per strada e chiediamo a chi incontriamo se è d’accordo a superare la precarietà, reintrodurre l’articolo 18, avere una sanità davvero pubblica e universale o l’acqua gestita senza profitti, ci risponderanno di sì, come ha appunto limpidamente dimostrato il referendum del 2011.

Poi però entriamo in un’aula elettiva e lo scenario è diverso, precarizzatori e privatizzatori sono in maggioranza. Lo stesso si potrebbe dire su casa, reddito, previdenza, perché ovviamente le persone vogliono anche una casa dove vivere, e, incredibile a dirsi, persino una pensione, possibilmente da non percepire il giorno prima di morire. Si tratta dunque di costruire una proposta politica all’altezza delle maggioranze sociali, con metodi e forme nuove. Ma tornando al Consiglio regionale, nei prossimi mesi manderemo al voto in aula le nostre proposte di legge sui beni comuni, a partire da quella per la ripubblicizzazione del servizio idrico, e sarà un modo per capire se esiste in concreto la volontà di invertire la rotta neoliberista o se tutto resta immobile.

L’avanzata delle destre in Italia potrebbe spaventare e convincere molti elettori indecisi a votare per i partiti di centrosinistra, come già successo in diverse occasioni alle ultime amministrative.
C’è ancora spazio per una forza politica di sinistra?

Certamente il cosiddetto voto utile, che poi non è affatto utile, è la più forte delle insidie e nella dimensione regionale rischia di incidere più che nella dimensione municipale, dove la conoscenza diretta dei candidati gioca un ruolo essenziale. Ma dall’altro lato, il lavoro che abbiamo fatto in questi anni ha seminato tantissimo e sono molte le persone, i gruppi e i comitati che si sono avvicinati al nostro progetto politico regionale.

Ma vorrei anche dire che l’automatismo che spinge a ritenere che occorre votare Pd altrimenti vince la destra, al di là del moto istintivo, dovrebbe presupporre la risposta ad una domanda di fondo: cosa vogliamo far vincere, noi di sinistra? Un sistema di potere locale incistato in un intreccio fra affari, relazioni, appalti? Chi propugna mega opere inutili ma profittevoli? Chi toglie l’articolo 18? Chi privatizza i servizi essenziali e pezzi della sanità pubblica, a partire dalla specialistica e dalla diagnostica? Chi privatizza le scuole dell’infanzia comunali o vara la ‘buona scuola’? Per carità, se il Pd stesse covando una svolta ideale e programmatica, sarei il più felice del mondo, ma per ora ho visto la passeggiata di Zingaretti al tunnel Tav, la sua rivendicazione del jobs act e del sì al referendum per picconare la Costituzione.

C’è uno spazio potenziale per la sinistra perché i contenuti della sinistra sono forti nella società. Si tratta di costruire forme organizzative innovative e all’altezza di questa sfida, non certo rassegnarci e ad accomodarci nella falsa alternativa fra Ursula von der Leyen e Trump, fra troika e fascionazionalismi, fra globalizzazione neoliberista e muri.

In passato è stato candidato con L’Altra Europa per Tsipras per le europee, e non ha mai nascosto simpatia per Podemos. A luglio il premier greco uscente Alexis Tsipras non è stato rieletto mentre Podemos non è riuscito ad imporre le proprie “condizioni” (tre ministeri “sociali”, sanità, lavoro e università) a Pedro Sanchez per la formazione del nuovo governo spagnolo, e questo comporterà il ritorno alle urne, per la quarta volta in quattro anni, previsto per il 10 novembre prossimo.
Come vede il futuro per la sinistra europea?

Conservare lo status quo è la cosa più semplice del mondo, basta assecondare la corrente prevalente e gli interessi dominanti, ribaltarlo invece è difficilissimo. Per mutare i rapporti di forza dobbiamo prima di tutto uscire dalla frammentazione, a tutti i livelli, che significa necessaria ricomposizione sociale, dopo anni di polverizzazione del mondo del lavoro, ma anche organizzazione su scala quantomeno europea. Né Syriza né Podemos, da soli, hanno possibilità di modificare lo stato delle cose presenti, come si è visto nel caso greco, né lo potranno fare le lotte sociali, se restano disperse e non coordinate.

È un tema su cui ho sempre insistito: occorre porsi all’altezza in cui si decidono i nostri destini e la sinistra o è in grado di coordinarsi davvero, e strutturalmente anche in una dimensione europea, o perderà tutte le battaglie decisive. Serve insomma una capacità di mobilitazione paneuropea dei movimenti sociali, come serve un progetto politico transnazionale consistente, capace di porre come centrale la trasformazione di questa Europa.

Quindi lei, che è anche presidente della Commissione per le politiche europee e gli affari internazionali del Consiglio regionale, come trasformerebbe questa Europa?

L’attuale Europa è uno strano ibrido, le cui regole sono basate sulla teoria economica neoliberista e dove l’unica istituzione eletta direttamente dai popoli europei è quella che conta meno di tutte. Questo ibrido è di fatto ostaggio delle scelte dei governi più forti, la Germania e in parte la Francia. Anche se tutto sembra far pensare che si intenda conservare lo status quo, è evidente che la situazione è insostenibile e peraltro alimenterà, in giro per il continente, nuovi fascioleghismi.

Le due alternative che abbiamo davanti sono, per motivi diversi, altrettanto impervie: il ritorno agli Stati nazionali o la costruzione di un’Unione Europea sovrana e federale, quella a cui pensava Altiero Spinelli, in grado di dotarsi di una politica fiscale ed estera comune e di armonizzare le politiche sociali, impedendo il dumping interno all’Unione. Ovviamente la mia strada è la seconda, quella di un’Europa fondata sulla sovranità popolare, in grado di fronteggiare il neoassolutismo dei mercati finanziari e dei nuovi poteri economici globali. La lotta alla povertà o al cambiamento climatico richiedono tanto un’azione locale che un’azione internazionale, che sia quantomeno europea. E sarebbe illusorio pensare che i singoli Stati nazionali del nostro continente, nel mondo globalizzato, abbiano modo di riacquisire lo spazio di manovra necessario ad attuare politiche redistributive e protezione sociale. Rimanere nell’attuale situazione di stallo è certamente la via più semplice ma anche la più pericolosa.

Ultima domanda. Lei è sempre stato uno strenuo difensore dei diritti sociali, ma anche del diritto all’ambiente nella sua declinazione di economia circolare e rifiuti zero. Greta Thunberg è riuscita a smuovere le coscienze di molti giovani e meno giovani, e i temi ambientali sono finalmente entrati nel dibattito pubblico. Quando, però, entreranno anche nelle agende politiche?

Mi verrebbe da rispondere quando, grazie a nuova consapevolezza e a mutati rapporti di forza, saremo pronti a cambiare radicalmente il nostro modello economico, e il tempo che ci resta non è molto. Il capitalismo finanziario ed estrattivista non è compatibile con una svolta verde, per questo occorre lavorare ad un’alternativa di sistema. E così torniamo a quanto stavo dicendo or ora, si tratta di una rivoluzione che può essere condotta solo su una scala quantomeno continentale.

Abbiamo costruito un meccanismo che si basa sullo sfruttamento di altri esseri umani e sulla distruzione dell’ambiente ma questo non è un pianeta di prova né noi siamo ‘altro’ dalla natura, la cui circolarità è stata spezzata da processi produttivi lineari persino in agricoltura. Un progetto di sinistra per questo nostro millennio deve tenere assieme questi due elementi, senza separare giustizia sociale e ambientale, costruendo un orizzonte di felicità che è appunto salute, un mare pulito in cui nuotare o un bel bosco in cui passeggiare, conoscenza, beni relazionali, amicizie, tempo per gli affetti.