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Milano non se ne accorse

Milano non se ne accorse. Era un giorno afoso di luglio, cosa vuoi che importi ai milanesi di un funerale? Luglio che è il mese del mare, luglio che è il mese che se deve essere camicia almeno di lino e comunque stropicciata. Luglio a Milano è il mese dei binari del tram che sudano con il riflesso di un’otturazione appena fatta. A Luglio forse dovrebbero vietarli: i funerali a Milano. Eppure era luglio, nella chiesa di San Vittore, dentro si celebrarono le esequie di un avvocato che lasciava la moglie Annalori e tre figli, Francesca, Filippo, Betò. L’avvocato era stato ucciso. Tre colpi, calibro 357 magnum, davanti a casa, la notte dell’11 luglio 1979. Sarà che è così poco milanese morire di luglio e peggio ancora da sparati; si contava qualche magistrato, al funerale di Luglio nella chiesa di San Vittore, c’era il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, e quegli amici e quei parenti che ai funerali non mancano mai. Politici, nessuno. Finanzieri e cravatte, nessuno. La rampante e metallizzata “comunità degli affari milanese”, nessuno; in vacanza, al mare i figli, la moglie insieme all’etica e alla memoria. Per ogni città un funerale che stona per le assenze è un buco che non si chiude nemmeno a leccarlo per tutti gli anni dopo. Fu un funerale oscenamente privato, per il dolore della famiglia, della moglie Annalori, di Francesca, Filippo e Betò. Un funerale a forma di buco, ma Milano non se ne accorse.

Ma la morte di quell’avvocato, Giorgio Ambrosoli, non era una morte privata nonostante il funerale. Giorgio Ambrosoli era il commissario liquidatore della banca di Michele Sindona, che l’aveva portata nel vortice di un gigantesco crac anche lui a forma di buco. Quell’avvocato aveva ricevuto l’incarico dal Tribunale: Ambrosoli con il piglio leale degli onesti a camminare sui bordi per misurare il cratere. Intanto Sindona seduto sopra ai suoi pantaloni su quelle scrivanie presuntuose che scricchiolano come scranni sorrideva e guardava il buco. Giorgio Ambrosoli non sorrideva, Ambrosoli era uno di quegli avvocati che al mattino al lavoro si portano l’agenda, i fazzoletti,  l’impegno e il coraggio. E con l’ostinazione silenziosa degli artigiani del giusto si era opposto al salvataggio di Sindona (almeno 250 miliardi di lire) a spese dei contribuenti. Raccontano che arrivati lì a Sindona si sia spento il sorriso; e quando si smunge il sorriso ai potenti seduti sugli scranni non succede mica come tra le persone normali che arriva di corsa la malinconia. Raccontano (ma saranno sicuramente malelingue) che quando a Sindona è sbiadito il sorriso sul pavimento ha cominciato a gocciolare il veleno. Ambrosoli come tutti i giorni: agenda, fazzoletti, impegno e coraggio prima di una saluto al solito bar. E intanto una pozzanghera come un conato di minacce, intimidazioni e telefonate anonime. Ma la strada di ogni mattina di tutte le mattine e lui sopra tutti i giorni sempre la stessa. L’avvocato con la schiena dritta non aveva cambiato strada: per il gusto cremoso della propria coscienza, forse avrà pensato, vale la pena sporcarsi un po’ le scarpe. È che alla fine, tra tutti questi buongiorno alla mattina e sorrisi e cravatte che scricchiolano, alla fine era rimasto solo: lui, Annalori e il maresciallo della Guardia di finanza Silvio Novembre. Solo in vita, e allora sarà per questa mania tutta milanese della consonanza, solo anche dopo la sua morte. Milano non se n’accorse.

Silvio Novembre è mancato. Un esempio di cittadinanza altissima, anche se in seconda fila. In un’intervista a Repubblica, Novembre raccontò di aver smesso di festeggiare il compleanno perché all’indomani del giorno in cui uccisero Ambrosoli. “Messi insieme, non eravamo una somma ma una moltiplicazione. Senza di lui, io valevo un quarto, non la metà. E lo stesso lui senza di me. Giorgio ci metteva la grande competenza tecnica, la capacità di analisi. Io, la forza dei miei quarant’anni. La voglia di buttare giù i muri. Sempre”.

Accorgersene è il minimo che gli dobbiamo.

Buon lunedì.

Salviamo Socotra, la fiaba dimenticata

Una falesia al di sopra delle spiagge sabbiose nella regione meridionale dell’isola di Socotra (Foto: V. Melnik). socotrainsicilia.it

Isola chiama isola. Sicilia chiama Socotra. E a connettere due luoghi di estrema bellezza ci pensa l’Unesco che proprio dalla Sicilia fa partire, dal 26 settembre in poi, la campagna Connect2Socotra: un modo per lanciare un’allerta mondiale in difesa della terza biodiversità al mondo che rischia di essere danneggiata sia a causa del cambiamento climatico che del conflitto in Yemen che ne ha cambiato aspetto e natura.

Perché Socotra, da più di cinque anni non è più l’isola leggendaria di Sinbad il marinaio; la Galapagos dell’Oceano indiano; l’Isola degli alberi di sangue di drago; non è nemmeno l’Eden in terra che ha sempre attratto i viaggiatori occidentali più instancabili – da Enzo Manzoni a Eric Hansen fino a Moravia e Pasolini – insieme alle coppie yemenite in cerca di una luna di miele mediamente costosa.

«A Socotra purtroppo è arrivata la civiltà con il suo carico di ponti, scuole, ospedali ma anche militarizzazione e consumismo», così parla Marco Livadiotti, italiano vissuto in Yemen fin da bambino per via del lavoro del padre Mario, medico dell’ultimo imam del Paese prima dell’avvento della Repubblica. «Perché cinque anni fa, scoppiato il conflitto in Yemen, nonostante l’isola di Socotra non sia un obiettivo militare, è stata occupata dalle truppe della Lega Araba: c’è una base, e arrivano molti investimenti che sono pericolosi specie se si pensa che…

L’articolo di Laura Silvia Battaglia prosegue su Left in edicola fino al 3 ottobre 2019

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Svetlana Aleksievič e l’arte di scrivere un romanzo collettivo

BERLIN, GERMANY - OCTOBER 10: Belarussian journalist and writer Svetlana Alexievich arrives at a press conference two days after winning the 2015 Nobel Prize in Literature on October 10, 2015 in Berlin, Germany. Alexievich has written books that, mainly through testimony from individuals, deal with emotional periods in the history of the Soviet Union, including women in the World War II Soviet Army, the Soviet war in Afghanistan and the Chernobyl nuclear disaster. Her works are banned in her native Belarus. (Photo by Axel Schmidt/Getty Images)

Quando uscirono i primi libri di Svetlana Aleksievič fu una ristretta cerchia di lettori ad apprezzarla in Italia. E grande merito degli editori Sandro Ferri e Sandra Ozzola delle Edizioni e/o fu non solo aver avuto il fiuto di scoprire il suo talento, ma anche di continuare poi a mantenere in catalogo i suoi libri quando il successo era ancora lontano. Sarebbe arrivato solo nel 2015 con il Premio Nobel per la Letteratura.

Un riconoscimento che – va detto – non ne ha fatto un’autrice seriale; Svetlana Aleksievič non ha cambiato il proprio modo di scrivere, meticoloso, puntuale, costruito con migliaia di interviste, realizzate conquistando a poco a poco la fiducia delle persone, per trovare un’apertura, un ricordo, un segreto da condividere.

Da migliaia di pagine di conversazioni prendono forma romanzi che tratteggiano un proprio e originale universo, tessendo voci e testimonianze raccolte sul campo. Alla base, fedeltà alla storia e interesse per l’altro, rispettandone i sentimenti più profondi, cercando spicchi di umanità nelle situazioni più dure.

Così Aleksievič ha raccontato la guerra vista dai bambini. Ha raccontato le donne nella seconda guerra mondiale, rivelando gli effetti doppiamente devastanti che il conflitto ha avuto su di loro. Ha raccontato i vecchi comunisti che ci avevano creduto e che poi si sono smarriti di fronte al fallimento. Ha raccontato, in anni più recenti, i giovani russi, i ragazzi di zinco, che sono andati in Afghanistan convinti di fare una guerra per il socialismo e invece si sono trovati a combattere una guerra neo imperialista. Ha raccontato il disastro ambientale del 26 aprile 1986, quando esplose la centrale nucleare di Černobyl’.

Ma Svetlana Aleksievič non è una collezionista di catastrofi, piuttosto è una narratrice di sentimenti, di relazioni, di tutte le forme d’amore che resistono. «Si trattava di raccontare l’orrore e ha trovato un modo per fare poesia», ha detto di lei Goffredo Fofi cogliendo il senso profondo del suo scrivere. 

Erede della grande letteratura russa, della polifonia di Dostoevskij e insieme della tradizione dell’inchiesta sociale, Aleksievič cerca di dare voce a chi non ce l’ha. Riportando in primo piano i veri testimoni della storia, quelli che l’hanno fatta e che non si trovano sui manuali e nella Storia ufficiale. Da qui ha preso le mosse la nostra conversazione nell’ambito di Pordenonelegge, dove ha ricevuto il premio La storia in un romanzo. «In ogni persona c’è un testo piccolo o grande che sia», lei ha scritto. Quando ha cominciato a creare un romanzo di voci? Potremmo definirli romanzi collettivi?

«Comincerei col dire che una cosa è ciò che le persone raccontano e un’altra cosa è quello che io scelgo di registrare e di raccontare rispetto a ciò che le persone dicono, perché corrisponde a una mia personale visione del mondo». Così come diversa, da persona a persona, è l’impressione in chi legge: «Nelle varie voci delle mie interviste qualcuno percepisce una specie di grande affresco patriottico, mentre altri vedono altro, io stessa, per esempio sono fra quanti vi vedono altro», sottolinea la scrittrice che ha conosciuto l’esilio e ha vissuto in molti luoghi diversi, compresi Torino e Pontedera (che ospitava anche il teorico e fondatore del teatro povero Jerzy Grotowski). «Sono vissuta dieci anni all’estero come esiliata, sono stati tempi non facili per tanti motivi. I miei genitori sono morti senza la mia presenza, è stato molto duro per me».

Bielorussa, di madre Ucraina, Svetlana Aleksievič ha dovuto fare i conti con due regimi, quello bielorusso di Lukashenko e quello russo di Putin. In Ucraina, di recente, è stata minacciata da un gruppo ultra nazionalista per il modo in cui ha raccontato il conflitto in atto nel Paese, con testimonianze senza filtri.

«Vede, io sono nata in campagna, i miei genitori erano insegnanti di campagna e avevamo la casa piena di libri», racconta a Left. «Ma più dei libri che leggevo mi interessava quel che sentivo fuori casa, in strada, quando gli anziani si sedavano lì sulla panchina e raccontavano del passato, quando parlavano i vecchi partigiani. Tutto quello che ascoltavo aveva per me un’attrazione molto più forte rispetto a ciò che trovavo sui libri. Le voci della gente continuavano a risuonare nella mia testa, in un certo senso mi perseguitavano, fin quando ho deciso di cominciare a scrivere». 

La tradizione letteraria russa le ha indicato la strada avendo al suo interno anche un solido filone di letteratura sociale. «Esiste da noi il romanzo documentale, costruito su testi raccolti, sulle voci della gente che poi l’autore rielabora in modo personale e artistico, dando vita a forme letterarie», dice Aleksievič ricordando che in Russia la letteratura ha sempre avuto un compito alto. «La letteratura russa si prefiggeva di avere una influenza positiva sulla gente, cercando di modificare il modo di vedere le cose. Come possiamo constatare non ha avuto grande successo. Ma se non ci fosse stata la letteratura le cose sarebbero andate ancora peggio», commenta l’autrice di Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani) convinta che i letterati debbano continuare a fare il proprio lavoro: «Il nostro compito è metterci sempre dalla parte del bene, sostenere e lavorare per il bene. Non sempre è possibile ma non dobbiamo smettere di provarci, l’odio non salverà mai il mondo, solo l’amore può farlo». 

Con molto rispetto e ascolto profondo costruì il suo primo libro dedicato alle donne sovietiche in guerra, facendoci scoprire il punto di vista delle donne soldato, ferite due volte. «Il loro vissuto era stato fino allora trascurato dalla nostra letteratura, sebbene costituisse un fatto abbastanza unico: un milione di donne soldato del nostro Paese hanno partecipato attivamente alla Seconda guerra mondiale; donne arruolate anche come tiratrici scelte, addette all’artiglieria. Fino ad allora era esistito solo lo sguardo dell’uomo sulla guerra, cioè quello che andava bene al sistema».

Siamo ancora ostaggio della cultura della guerra, le chiediamo. Nazionalismi e sovranismi ci stanno riportando in quella direzione?

«Sì viviamo ancora in una cultura di guerra – risponde – basta accendere la tv e quello che vediamo ci porta indietro non al secolo scorso, ma addirittura al XVII secolo, l’unica differenza è che sono cambiate le tecnologie belliche. Quando ho scritto La guerra non ha un volto di donna (pubblicato in Italia da Bompiani, ndr) pensavo comunque di scrivere un libro contro la cultura della guerra che smascherasse la retorica dei generali. Infatti per tre anni, dopo averlo terminato, non sono riuscita a pubblicato, per via della censura. Il censore obiettava: dopo aver letto questo libro chi vorrà mai andare in guerra e combattere? Ancora oggi in Russia dire che si è contro la guerra è quasi un crimine. Ma io penso che si possano e debbano combattere le idee, non le persone».

In ben cinque libri Svetlana Aleksievič ha raccontato l’uomo rosso, l’utopia comunista che degenerò in una dittatura sanguinaria, un’utopia che oggi non esiste più. «Anche in quel caso mi sono immedesimata completamente, alla fine ero io l’uomo rosso», racconta. E oggi? «Siamo sconcertati, perché siamo in una situazione completamente nuova. Negli anni Novanta, dopo la caduta del muro, credevamo tutti nella libertà, credevamo tutti di aver vinto, di esserci lasciati il passato definitivamente alle spalle e invece vediamo qual è la situazione, con l’avanzare della cultura dell’odio, con il putinismo e il trumpismo. Per contrastare tutto questo – ribadisce Aleksievič – dobbiamo unirci, essere sempre più consapevoli e rimanere fedeli ai nostri ideali».

Qualcosa forse si sta muovendo, anche con le proteste giovanili in Russia, con i giovani dimostranti che leggono la Costituzione, sfidando la repressione messa in atto dalle forze dell’ordine. E una sensibilità nuova sta crescendo sul versante della salvaguardia dell’ambiente per fermare il cambiamento climatico, per uno sviluppo sostenibile, con le manifestazioni che i giovanissimi dei Fridays for future organizzano anche per questo 27 settembre.

Lo scorso giugno è andata in onda anche in Italia la serie Chernobyl in cinque episodi. Ad ispirarla è stato il libro di Aleksievič Preghiera per Chernobyl, pubblicato in lingua russa nel 1997 e tradotto in Italia nel 2004 dalle Edizioni e/o. «Vediamo ogni giorno come stiano cambiando la natura e il clima. Non sempre riusciamo a controllare le tecnologie di cui disponiamo. Non sappiamo neppure quanto a lungo dureranno gli effetti dell’esplosione di Chernobyl: c’è chi dice decine di anni, chi centinaia. La gente comincia a capirlo», dice la scrittrice commentando il successo della serie che è stata vista da 650mila persone in tutto il mondo. «Sono moltissimi i giovani, che ne hanno preso spunto per delle discussioni e approfondimenti. Sì, sta davvero nascendo una nuova coscienza ecologica e ambientale, di questo sono molto contenta».

L’intervista di Simona Maggiorelli a Svetlana Aleksievic prosegue su Left in edicola fino al 3 ottobre 2019

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La secessione è un freno alla crescita. Anche al Nord

A partire dagli anni Settanta, l’economia meridionale comincia a intraprendere un percorso di divergenza rispetto a quella del Centro-Nord del Paese. Sono anni caratterizzati dalla crescita pervasiva della criminalità organizzata (che dal Sud comincia a mettere radici nelle principali città settentrionali), dallo smantellamento progressivo della Cassa per il Mezzogiorno e dalla contrazione degli investimenti pubblici al Sud.

Sono anche anni caratterizzati da consistenti aumenti di spesa pubblica, nella gran parte dei casi improduttiva. Sia sufficiente a riguardo considerare che la spesa pubblica in rapporto al Pil sale dal 34% del 1974 (a fronte della media della Comunità europea del 38%) a oltre il 50% della fine degli anni Ottanta. La pressione fiscale, pari al 25% in rapporto al Pil nel 1973 (inferiore di quasi quattro punti percentuali rispetto alla media Ocse), raggiunge il 40% alla fine degli anni Ottanta.

Un incremento significativo e mal distribuito: la crescita dell’evasione fiscale spinge i governi di quegli anni a provare a recuperare gettito soprattutto attraverso l’aumento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), generando crescenti diseguaglianze distributive.

Cresce anche in modo significativo il debito pubblico, soprattutto per il continuo aumento della spesa per interessi sui titoli di Stato: dal 5% del 1980 al 12% in rapporto al Pil del 1993. Un allarme muove le politiche economiche di quegli anni: l’elevata inflazione, che viene imputata interamente a salari eccessivamente elevati e non differenziati su scala regionale. L’Italia diventa un Paese propriamente dualistico e, negli anni successivi e fino a oggi, accentua questa caratteristica, con un Nord il cui settore industriale si irrobustisce e un Sud che viene sostanzialmente sussidiato e che volge verso una specializzazione produttiva sempre più orientata in settori tecnologicamente maturi (agroalimentare, turismo, settore dei servizi). Il Veneto – una delle regioni più povere d’Italia nei decenni successivi al termine della seconda guerra mondiale – comincia…

Guglielmo Forges Davanzati, docente di Economia politica all’Università del Salento, è tra i relatori che introdurranno la seconda assemblea nazionale “per il ritiro di qualunque autonomia differenziata” che si terrà il 29 settembre (dalle 10 alle 16) presso il Liceo Tasso a Roma. Insieme all’economista partecipano i costituzionalisti Massimo Villone e Laura Ronchetti, il presidente Svimez Adriano Giannola, il giornalista Marco Esposito, Ivan Cavicchi, docente all’Università Tor Vergata di Roma e esperto di politiche sanitarie e Enrico Gagliano del Coordinamento nazionale NoTriv.

L’articolo di Guglielmo Forges Davanzati prosegue su Left in edicola dal 27 settembre 2019

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La sfida di Alexandria ai giganti dell’inquinamento

Rep. Alexandria Ocasio-Cortez, D-N.Y., addresses The Road to the Green New Deal Tour final event at Howard University in Washington, Monday, May 13, 2019. (AP Photo/Cliff Owen)

Da qualche tempo si parla molto del riscaldamento climatico e del Green new deal (nuovo corso verde). Improvvisamente abbiamo preso coscienza di un problema (l’emergenza ambientale) e abbiamo studiato la soluzione tramite un Green new deal? L’uomo ancora una volta dimostra la sua capacità di reazione? Non è così semplice.

In realtà già alla conferenza mondiale sul clima di Toronto del 1988 (31 anni fa!) la maggioranza degli scienziati concordava sul fatto che le temperature stavano aumentando e che la causa era l’attività antropica. E chiedevano “decisioni politiche immediate” per limitare l’emissione di anidride carbonica.

Le Nazioni Unite a inizio 2009 (oltre 10 anni fa) hanno pubblicato il report Global green new deal. Il 20 agosto 2018 Greta Thunberg iniziò la sua protesta chiedendo al governo svedese di occuparsi del cambiamento climatico. Dal suo esempio nasce il movimento ormai noto come Fridays for future. A inizio 2019 Alexandria Ocasio-Cortez propone la sua risoluzione sul Green new deal alla Camera dei deputati degli Stati Uniti. Greta Thunberg è riuscita ad attirare l’attenzione del mondo su un problema già documentato più di 30 anni prima dalla comunità scientifica.

Alexandria Ocasio-Cortez, fino a poco tempo fa semi-sconosciuta neo deputata americana, nella sua risoluzione propone interventi contro il riscaldamento climatico molto simili a quelle proposte dalle Nazioni Unite nel loro report del 2009 e rimaste finora inascoltate…

Guido Marinelli fa parte del Comitato nazionale èViva, cofondatore associazione PerIMolti, coordinatore comitato èViva di Roma Capitale

L’articolo di Guido Marinelli prosegue su Left in edicola dal 27 settembre

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Diritti umani e ambiente, una battaglia comune

Quanto costa il collasso climatico in termini di vite, di miliardi di euro di danni, di posti di lavoro persi, di malattie, di guerre, di migrazioni forzate? Che dobbiamo fare per mitigarne gli effetti ed invertire la rotta? Quale visione, e quali politiche sono in grado di rispondere alla crisi di sistema e garantire una vita ed un futuro dignitoso per tutti?

Sono alcune delle domande forti sollevate dallo sciopero climatico del 27 settembre lanciato dai ragazzi dei Fridays for future (Fff) che non trovano risposte nelle scelte e nelle priorità della politica.

Il collasso climatico è già in atto e bisogna fare molto di più che premiare le imprese che fanno green economy: utile, ma affidarsi esclusivamente ai privati come fa il ministro dello Sviluppo ed il nuovo governo non significa certo avere un’idea di politica industriale ed ambientale per evitare la catastrofe. Consegnarsi alla cosiddetta mano invisibile del mercato significa solo condannare tutti all’estinzione.

L’ultimo rapporto del Snpa – Sistema nazionale di protezione ambientale – del 17 settembre denuncia un Paese in cui si continua a consumare suolo, mentre da 7 anni sono chiuse nei cassetti le proposte di legge per impedirlo. Il Veneto e la Lombardia sono le regioni messe peggio.

Un danno di oltre 3 miliardi di euro annui, molti di più se guardiamo in prospettiva. A questi potremmo sommare i 14 miliardi di euro denunciati dalla Coldiretti come danni all’agricoltura per l’aumento del caldo che brucia le nostre estati: sarebbero in realtà almeno il doppio se facessimo un’analisi più approfondita sul comparto. Il calcolo continua con…

Giuseppe De Marzo, economista, è coordinatore della Rete dei numeri pari

L’articolo di Giuseppe De Marzo prosegue su Left in edicola dal 27 settembre 2019

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Liberi di migrare

Se proviamo ad uscire dall’ottica emergenzialista con cui i media trattano l’emigrazione, rifiutando la percezione delirante di essere presi d’assalto da torme di sospetti terroristi, potremmo scoprire, non solo che i migranti sono un enorme valore per l’Europa, ma anche che continui spostamenti connotano da sempre la specie Homo. E ne hanno favorito lo sviluppo in un lungo «processo di espansione globale inarrestabile che non ha precedenti nella storia evolutiva dei primati». Lo sostiene il filosofo della scienza Telmo Pievani autore del libro Libertà di migrare (Einaudi) scritto con Valerio Calzolaio, esperto di migrazioni ambientali, che avanza la proposta politica di riconoscere lo stato di rifugiato non solo a chi è costretto a lasciare il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni politiche, ma anche a chi oggi deve partire a causa dei cambiamenti climatici.
Professor Pievani come cambia la prospettiva se guardiamo l’emigrazione dal punto di vista evoluzionistico?
Il nostro libro nasce da un’insoddisfazione riguardo al dibattito pubblico italiano, ma non solo, in cui vediamo i commentatori trattare l’emigrazione come qualcosa di inaspettato, con stupore, quasi fosse un fenomeno contingente da affrontare come un’emergenza. Non ha alcun senso. Ed è sbagliato non solo sul piano politico ma anche scientifico. L’emigrazione va letta in una prospettiva ampia, sia nel tempo che nello spazio. Nello spazio perché è un fenomeno globale, planetario, che ci ha resi umani. Nel tempo, perché ci riguarda da almeno due milioni di anni. Nel frattempo l’umanità ha causato il cambiamento del clima e le popolazioni, come scrive Calzolaio, tristemente sono costrette a spostarsi come milioni di anni fa.
Possiamo dire che la migrazione abbia favorito la nostra evoluzione?
È stata sia la causa che la conseguenza. La migrazione è stata una grande strategia a partire da 2 milioni di anni fa quando il clima diventò instabile. Trovandosi a vivere un ambiente imprevedibile, gli umani compiono una scelta unica che nessun primate fa: migrano, si spostano, continuano ad andare sempre più in là. Si è assistito così a una serie di uscite dall’Africa, in successive ondate, dal Corno d’Africa e dall’area sub sahariana, sempre arrivando nel Medio Oriente (snodo fondamentale da millenni per l’umanità); da lì le migrazioni umane si sono indirizzate verso l’Asia e dall’altra verso il Caucaso e l’Europa, quasi propaggine dell’Eurasia, molto attraente perché ricca di risorse. Tutto ciò ci fa capire che noi europei siamo da sempre migranti.

Nel libro lei distingue fra migranti per necessità e per scelta. Questo passaggio cruciale implica una disposizione mentale di ricerca, di curiosità. Quando scattò il cambiamento?
Avvenne con la nostra specie, Homo sapiens. Anche se probabilmente non accadde subito. Dopo le prime grandi migrazioni, ce ne furono altre 800mila anni fa e poi le nostre, 120/100mila anni fa. Lo spostamento delle popolazioni umane, in particolare dei sapiens, non è avvenuto in splendida solitudine, ma in compagnia di altre specie umane. Va ricordato che Homo sapiens è l’ultima forma umana in mezzo a tante altre che poi si sono estinte. Le prime ondate non mostrano differenze. Ma intorno a 60mila anni fa ci fu un’uscita diversa dalle altre, più veloce, e demograficamente più aggressiva. Ecco il fatto misterioso che attrae gli studiosi. Quelle che vennero allora dall’Africa erano genti più creative e al contempo più invasive. Così rimanemmo da soli espandendoci a livello planetario, essendo capaci di adattarci a qualsiasi eco-sistema. Anche in mezzo ai ghiacci, come dimostra la scoperta di resti di un mammuth cacciato nell’Artico 45mila anni fa pubblicata a gennaio su Science. Già eravamo migranti senza confini.
Che cosa avevano di diverso i sapiens?
Pensiamo che sia qualcosa legato al linguaggio, alla comunicazione, alla capacità di immaginare altri mondi, perché a quel punto la curiosità diventò un elemento fondamentale. C’era già una mente capace di immaginare, questo è tipicamente umano.
A quel punto il migrare non fu più solo dettato da bisogni materiali, ma anche immateriali, da esigenze più profonde?
Sì il fenomeno migratorio nasce per una impellenza legata al clima ma poi nell’evoluzione le cause si mescolano; quel modo di migrare potrebbe anche aver cambiato il nostro modo di vedere e di pensare. Migrare ci ha reso cognitivamente più aperti, ci ha fatto incontrare altre fome umane come i Neanderthal con cui abbiamo convissuto a lungo. Tutto questo ci ha spinti ad esplorare, a mappare, a capire il paesaggio, a muoverci nel territorio. Ripeto, nessun primate ha queste caratteristiche. Le altre specie animali nascono in un luogo, in un ecosistema e vi rimangono, si adattano. Homo sapiens no. Diventa una specie planetaria.
Diversamente dagli animali, non segue un istinto che lo obbliga a reiterare i comportamenti.
Esatto. Vecchie teorie sostenevano che avevamo un cervello adattato specificamente alla savana africana. In realtà noi sappiamo che, se c’è qualcosa tipico dei sapiens, è proprio la plasticità, il nostro non essere specializzati per un ambiente unico. E questo ha scatenato l’evoluzione culturale che ci ha permesso di sviluppare anche le tecnologie, le armi, i tessuti ecc.

Queste «fiammate di innovazione culturale e tecnologica» nel libro sono connesse a cambiamenti nella vita di Homo sapiens come l’allungamento del periodo infantile. Come influì?
È uno dei filoni di ricerca oggi più promettenti. Alcune caratteristiche non sono solo della nostra specie Homo: certi strumenti tecnici venivano prodotti da altre specie prima di noi. E non tutte le specie Homo hanno il cervello grande. Queste caratteristiche si sono indebolite molto. Una invece si è molto rafforzata nel genere Homo ed è proprio l’allungamento dell’infanzia e dell’adolescenza; i dati molecolari lo confermano. Questo mutamento ebbe il suo picco massimo in Homo sapiens. La neotenia è un adattamento costoso. I piccoli della specie Homo nascono inermi, quindi dipendono dal gruppo per il cibo e per il sostentamento. Prolungare quel periodo è dispendioso. Nonostante questo si diffuse. L’ allungamento dell’infanzia e dell’adolescenza ha dato dei vantaggi collaterali notevoli che riguardano il gioco, la sperimentazione sociale e linguistica. Molti esperti oggi pensano che quella sperimentazione sia avvenuta nel rapporto, nel gioco fra i cuccioli fra loro e con le madri. La neotenia ha aperto uno spazio di inventività, di creatività. Un’evoluzione che avviene attraverso l’apprendimento e la trasmissione non genetica, non biologica, ma culturale appunto.
L’arte rupestre nasce grazie a quel periodo?
Sì, alcuni dati usciti di recente lo confermano. Da lì nascono l’arte, la pittura rupestre, le incisioni e più in generale la creazione di oggetti con un valore simbolico, con dei segni, con delle geometrie, con dei pattern che avevano un senso. I più antichi oggetti simbolici vengono dall’Africa. Risalgono a 70mila anni fa pietre ocra incise trovate in Sudafrica. Oggi gli specialisti pensano che nacque in Africa questa particolare capacità simbolica per cui fare un segno su una superficie, tracciare un simbolo, significa qualcosa nel gruppo e scatena l’immaginazione. È di 40mila anni fa l’arte rupestre di Sulawesi. Una bellissima scoperta pubblicata l’anno scorso su Nature. È accaduto in Indonesia dove non ci aspettavamo di trovarla. Nell’arcipelago indo-malese c’è la rappresentazione di un cinghiale tipico di quelle zone, dipinto e inciso in modo molto bello con segni di movimento nel manto. Anche a Sulawesi ci sono mani di uomini, di donne e bimbi impresse in negativo sulla parete della caverna, analogamente a ciò che si vede a Chauvet, a Lascaux, ad Altamira, solo che quelle indonesiane sono più antiche. Parliamo appunto di 40mila anni fa mentre l’arte rupestre europea è di qualche millennio dopo.
Che rapporto c’è fra queste diverse espressioni?
Si pensa che tutto parta dall’Africa poi, migrando 60mila anni fa, quegli esseri umani si portano dietro oltre al linguaggio anche l’arte rupestre, capacità immaginative, la fantasia. Probabilmente gli artisti che realizzarono quelle bellissime opere a Sulawesi erano discendenti dello stesso gruppo di migranti usciti 60mila anni fa dall’Africa, che raggiunsero anche l’Europa.
Nel volume Einaudi curato dall’antropologo Marco Aime, Contro il razzismo, il genetista Barbujani torna utilmente a decostruire l’idea genetica della “razza.” Volendo usare quel brutto termine, possiamo dire che di razza umana ce n’è una sola?
Assolutamente sì. Oltre ogni ragionevole dubbio. Le altre forme che abbiamo incontrato appartenevano ad altre specie biologiche. Anche quando ci potevamo accoppiare e dare origine ad ibridazioni. Eravamo specie diverse anche se geneticamente molto vicine. Se parliamo invece di Homo sapiens, cioè dei 7 miliardi e passa di esseri umani che oggi abitano il pianeta, veniamo tutti da quei gruppi africani migranti di 60mila anni fa. Siamo tutti africani, con piccole differenze di adattamento al clima, legate al colore della pelle, degli occhi, dei capelli. Tratti che possono sembrare appariscenti ma che sul piano biologico non sono niente, sono una manciata di geni che contano molto poco. Se mettiamo insieme tutte queste cose: una origine unica, africana, molto recente, da un gruppo piccolo che poi diventa mobile e promiscuo, il risultato è che non possono esistere razze biologiche umane. Non c’è più alcun motivo biologico, genetico, perché possano esistere.

«Non chiamateci ambientalisti»

03 May 2019, Lower Saxony, Hanover: Students hold up banners and signs during a Fridays for Future demonstration. The students protest against the current climate policy. Photo by: Julian Stratenschulte/picture-alliance/dpa/AP Images

«La gente soffre, la gente muore, interi ecosistemi stanno collassando. Siamo agli inizi di una estinzione di massa e siete in grado di parlare solo di soldi e di raccontare favole su una perenne crescita economica. Come osate?» Sono parole che difficilmente verranno tralasciate nei libri di storia, quelle che la giovane Greta Thunberg ha sbattuto in faccia ai grandi della Terra, al summit Onu sul clima. Accuse che bersagliano senza tentennamenti – indimenticabile lo sguardo accigliato con cui fulmina Trump al suo ingresso in sala – una comunità internazionale incapace di scongiurare la catastrofe ambientale alle porte. «Sessantasei paesi, 102 città e 93 imprese si sono impegnate oggi a raggiungere zero emissioni entro il 2050»: sono i buoni propositi notificati dal Palazzo di vetro. Poco, troppo poco per limitare davvero le conseguenze dell’eccesso di Co2 in atmosfera.

Così, ragazze e ragazzi di tutto il mondo continuano ad alzare la voce per difendere il proprio futuro. Lo hanno fatto venerdì 20 settembre, con oltre 6mila eventi in 3.200 città di 165 Paesi. Per poi replicare in Italia, una settimana dopo.

«Chiediamo alla politica di seguire la scienza più autorevole, di rispettare l’accordo di Parigi e ambire anche a qualcosa di più, raggiungendo la decarbonizzazione dei Paesi più ricchi già nel 2030», dice Miriam Martinelli. Sedici anni, milanese, i media l’hanno definita «la Greta italiana». A Left spiega che la lotta degli “attivisti del venerdì” va oltre il tema strettamente ambientale. «La nostra battaglia – precisa Miriam – segue il principio della giustizia climatica, che significa giustizia sociale: la popolazione in molti casi subisce uno stile di vita consumistico, che viene imposto dalle multinazionali. Sono queste ultime a dover pagare, insieme ai potenti che hanno causato in prima persona la crisi ambientale».

«Non ci definiamo assolutamente ambientalisti», esordisce Vincenzo Mautone, studente di Scienze e tecnologie per la natura e l’ambiente alla Federico II e portavoce del movimento a Napoli. «C’è un malinteso. Ovviamente difendiamo la natura, ma…

L’inchiesta di Leonardo Filippi e Alessia Gasparini prosegue su Left in edicola dal 27 settembre 2019

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La vita è sacra. Quando vi fa comodo

Adesso ululano tutti che “la vita è sacra”. E andrebbe anche bene se non fossero gli stessi che poi sparerebbero ai barconi oppure che negano tutte le vite torturate, spezzate, violentate, affamate, assetate, cotte dal sole e congelate dal freddo.

Sulla sentenza della Consulta sul caso di Dj Fabo come al solito vengono fuori tutte le incongruenze di quelli che vorrebbero decidere della vita degli altri ma che non sono disposti a cambiare una virgola della propria: non sono buoni, sono semplicemente incapaci di affrontare la libertà. E sono incapaci di affrontare le libertà degli altri perché non hanno la struttura culturale per comprendere che il loro unico spavento è che crollino le false convinzioni da benpensanti che come croste li rassicurano che il mondo vada come vorrebbero loro.

Ciò che stupisce delle reazioni avverse all’assoluzione di Marco Cappato è che in fondo per chi non è d’accordo con quella sentenza non cambia nulla, nemmeno una virgola, niente di niente: chi crede che togliersi la vita sia un gesto inaccettabile può tranquillamente agire di conseguenza. Ma la tentazione di imporre il proprio credo (agli altri, sempre con l’atteggiamento di chi dice “fate quello che dico non fate quello che faccio”) per loro è irresistibile.

Per questi la libertà è il diritto d’imporre la propria visione del mondo. Sono spaventatissimi dalla coabitazione non solo di persone diverse ma anche di pensieri diversi perché non hanno nessuna attitudine alla socialità: sono animali asociali e vorrebbero rendere asociali anche gli altri per curare i propri complessi di inferiorità.

La vita è sacra ma i migranti possono morire a casa loro o agonizzare in Libia.

La vita è sacra ma Giulio Regeni non è sacro perché se è morto allora c’è qualcosa di strano.

La vita è sacra ma le donne ammazzate se la sono cercata.

La vita è sacra ma i figli delle loro amanti no.

La vita è sacra ma gli ammazzati dall’ILVA bloccano il progresso.

La vita è sacra ma i morti degli altri non gli interessano.

Falsi benpensanti, moralisti con il culo degli altri.

Bravi.

Buon venerdì.

Una sola umanità, un solo pianeta

TOPSHOT - Swedish environment activist Greta Thunberg speaks at a climate protest outside the White House in Washington, DC on September 13, 2019. - Thunberg, 16, has spurred teenagers and students around the world to strike from school every Friday under the rallying cry "Fridays for future" to call on adults to act now to save the planet. (Photo by Nicholas Kamm / AFP) (Photo credit should read NICHOLAS KAMM/AFP/Getty Images)

D’accordo Greta potrà non essere simpaticissima con i suoi «come osate» che mettono il dito nella piaga denunciando responsabilità e inerzie nel fermare la crisi climatica. D’accordo, poteva scegliere un skipper meno d’alto bordo per andare Oltreoceano a cantarle a Trump. Ma resta il fatto che lei ha avuto il coraggio di dire parole forti e chiare, dando il la ad un movimento globale di ragazzini che non ha pari nella storia. E che ha l’inusuale capacità di far uscire dai gangheri conservatori e sacerdoti del liberismo, anche i più insospettabili. Se ce lo potevamo aspettare da Vittorio Feltri e da Libero che è andato all’attacco dei «Gretini», colpisce che Greta sia riuscita a stanare politici e filosofi come Luc Ferry, il quale ha sbottato: «Stiamo cadendo in una società delirante e questa non è la soluzione. Spetta agli adulti salvare il mondo che verrà, non ai bambini». Ancora oltre è andato il filosofo Alain Finkielkraut: «Trovo triste che gli adulti si inchinino oggi a un bambino. Credo che l’ecologia meriti di meglio, ed è chiaro che una sedicenne, indipendentemente dalla sindrome di cui soffre, sia ovviamente malleabile e facilmente influenzabile». Reazioni di attacco diretto alla persona che ci dicono quanto le affermazioni dei Fridays for future sulla crisi climatica siano difficilmente contestabili. (Affermazioni che, più oltre, la dicono lunga sullo sguardo violento con cui certa filosofia francese guarda ai ragazzini…).

Qual è la verità che un pensatore ed ex ministro dell’Istruzione come Luc Ferry non si vuole sentir dire? Su Left la raccontano in prima persona i ragazzi che hanno organizzato lo sciopero per il clima, tratteggiando uno scenario che non lascia scampo agli alibi. Entro il 2030, 100 milioni di persone in più saranno costrette a vivere in condizioni di estrema povertà a causa dei cambiamenti climatici. «Le nazioni in via di sviluppo si faranno carico di almeno il 75% dei costi causati dalla crisi climatica nonostante il fatto che la metà più povera della popolazione mondiale generi solo il 10% delle emissioni di CO2 a livello globale», affermano gli attivisti di ActionAid. La lotta per la giustizia ambientale è strettamente connessa con quella per la giustizia sociale. Urgente non è “solo” la riduzione delle emissioni, bisogna pensare a uno sviluppo che sia davvero sostenibile e a politiche che rispettino l’ambiente e i diritti umani. Se l’intervento antropico sulla natura nei millenni ha plasmato mirabilmente il volto del paesaggio, preservando l’ambiente e favorendo lo sviluppo umano, in tempi di turbo capitalismo assistiamo alla sistematica e suicida distruzione dell’ambiente in nome del profitto di pochi (l’1% più ricco della popolazione mondiale detiene una ricchezza pari a quella del restante 99% dice il rapporto Oxfam).

E allora non bastano politiche di Green economy, non serve l’ipocrita greenwashing con cui molte aziende inquinanti si rifanno un’immagine facendo al contempo speculazione. Serve un vero cambiamento di mentalità, di visione, un modo diverso di pensare il benessere, in poche parole un diverso modello di sviluppo e di fare società. Per cominciare abbiamo chiesto a giornalisti, politici, sindacalisti, economisti, sociologi e filosofi di aiutarci a capire cosa significa davvero quel Green new deal di cui tanto si parla oggi, quali novità comporta rispetto alle politiche di green economy che l’Europa in passato ha discusso, in che modo potrebbe favorire la creazione di nuovi posti di lavoro. In questo Left raccontiamo esperienze e esperimenti innovativi di Green new deal che hanno preso avvio in Africa, proprio là dove più pesanti sono gli effetti della crisi climatica.

Come sempre affrontiamo il tema con uno sguardo internazionalista, consapevoli che questioni cruciali come il climate change non si possano trattare da un punto di vista nazionale o, peggio ancora, nazionalista e sovranista. Ma insieme interroghiamo in modo serrato la politica italiana, cercando di capire cosa ci sia di concreto nelle politiche green promesse dal governo Conte II (che potrebbe trovare una base di accordo fra M5s e Pd proprio sul piano delle politiche verdi segnando una discontinuità rispetto al precedente governo). I primi ad essere consapevoli della interconnessione che ci lega e dell’internazionalismo imprescindibile di questa battaglia sono proprio i giovani dei Fridays for future artefici delle manifestazioni che in questo fine settimana si svolgono in contemporanea in molte città del mondo. Tutt’altro che naif, basano le proprie istanze sui risultati della ricerca scientifica. Altro che “figli dei fiori”, loro sono i nuovi illuministi dice il filosofo Salvatore Veca, mentre il ministro dell’Istruzione Fioramonti invita i presidi a giustificare le assenze da scuola il 27 settembre riconoscendo l’importanza della mobilitazione «per numerosi aspetti, a partire dalla necessità improrogabile di un cambiamento rapido dei modelli socio-economici imperanti».

Nei giorni scorsi a Malta è stato stipulato un embrione di accordo per mitigare gli effetti del trattato di Dublino, un passo in avanti rispetto alle politiche dell’odio e dei porti chiusi, ma certamente non basta per affrontare la questione strutturale delle migrazioni, su cui la crisi climatica ha effetti evidenti. Basti dire che secondo un rapporto della Banca mondiale, se non si agirà per ridurre il riscaldamento globale, entro la metà del XXI secolo gli spostamenti interni di popolazioni nell’Africa sub-sahariana, in Asia meridionale e in America Latina riguarderanno più di 140 milioni di persone. Ora spetta alla politica il compito di agire.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 27 settembre 2019

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