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Beni comuni, lotta alla precarietà e difesa dell’ambiente: dalla Toscana un progetto alternativo a sinistra

Se la crisi di governo è stata archiviata, e con essa nuove elezioni politiche, tra fine ottobre e maggio 2020, molti cittadini saranno chiamati alle urne per le regionali: dalla Toscana all’Emilia Romagna, passando per la Liguria, l’Umbria, le Marche, fino al Veneto.
Le consultazioni saranno, ancora una volta, un banco di prova per il neo governo, e il nuovo assetto politico nazionale sta smuovendo le acque anche in ambito locale. La Toscana è, insieme all’Emilia Romagna, una delle osservate speciali: regione tradizionalmente rossa, ha però conosciuto ripetute débacle alle amministrative.

Dopo la clamorosa sconfitta a Livorno nel 2014 con l’elezione del primo cittadino grillino Filippo Nogarin, altre città toscane hanno nel tempo cambiato colore, virando a destra: Cascina, Arezzo, Pisa, Siena, Cortona e Piombino. La Lega, forte delle ultime vittorie, ha più volte ribadito il desiderio di espugnare una delle regioni simbolo del centrosinistra.

Tommaso Fattori, consigliere regionale di Sì Toscana a Sinistra, coalizione che raggruppa movimenti, associazioni e partiti di sinistra, è un veterano della politica dal basso e dei movimenti. Organizzatore del primo Forum Sociale Europeo e portavoce del Social Forum di Firenze del 2002, Fattori è stato tra i principali promotori dei referendum del 2011 a favore dell’acqua pubblica riportando una storica vittoria con il 96% dei sì. Nel 2014 si è candidato alle europee con la lista L’Altra Europa per Tsipras per poi approdare nel Consiglio regionale toscano nel 2015.

Dal 20 al 22 settembre si è svolta a Calambrone (PI) la tre giorni di Sì Toscana a Sinistra, il cui claim è “Costruiamo l’alternativa per la Regione Toscana”. Quale è l’alternativa che ha in mente?

Alternativa significa nuova visione del mondo e costruzione di un modello ecologico e sociale in grado di assicurare protezione, restituendo la speranza in un orizzonte di felicità collettiva. Sì, protezione: dalla precarietà, dall’impoverimento, dalla mancanza di servizi, ormai assottigliati e privatizzati, e dal disastro ecologico. L’obiettivo primario è accrescere la ricchezza comune: garantire una sanità regionale davvero pubblica e universale, contrastandone la privatizzazione e il definanziamento; assicurare un tetto sulla testa a chiunque ne abbia bisogno, mentre si lasciano vuoti immensi contenitori nelle nostre città; finanziare un sistema di trasporto pubblico capillare al servizio dei pendolari, quando si è invece speso un miliardo di euro solo per scavare un cratere vuoto, che forse un giorno ospiterà un’inutile cattedrale dell’alta velocità, simil Tiburtina.

E ancora: elaborare un piano di gestione dei rifiuti centrato sulle fabbriche dei materiali, con tecnologie circolari per recuperare materia anziché distruggerla attraverso vecchi inceneritori o nuovi pirogassificatori; investire sulla ricerca e sul polo scientifico universitario, anziché sul nuovo aeroporto di Firenze; gestire pubblicamente l’acqua, anziché permettere a pochi di estrarre profitti da un bene di tutti; utilizzate le tecnologie per migliorare le nostre vite anziché renderle strumenti di arricchimento e controllo nelle mani di pochi.

E dunque alternativi a chi, alla Lega o al Pd?

Alternativi al modello privatizzatore e antiecologico che rende Pd e Lega molto più sovrapponibili di quanto non appaia. Pure sui temi dell’immigrazione e delle ossessioni securitarie, in questi anni, le differenze fra Pd e Lega sono state più di stile che di sostanza, e non sto solo parlando dei lager libici ai tempi di Minniti, ma anche dei Cpt, dell’obbrobrio sulla legittima difesa, delle ordinanze democratiche di sindaci democratici contro i mendicanti, delle “ruspe umanitarie” di Nardella nei campi Rom e via di questo passo.

Tutto fatto in giacca e cravatta e con toni educati anziché sbraitando contro le “zingaracce”, il che, per carità, almeno non getta nell’immediato benzina sul fuoco razzista, ma chi, per almeno vent’anni, ha fatto scelte di destra è pericoloso quanto una destra che fa la destra, e non mi pare che al momento si stia voltando pagina, purtroppo. Noi invece siamo la parte che desidera creare un altro mondo, la parte che aspira a liberare gli esseri umani e l’ecosistema dallo sfruttamento e dall’ingiustizia, la parte che coltiva utopie concrete, tenendo assieme ideali e pragmaticità. Con una nostra agenda, non inseguendo le agende altrui.

La tre giorni sarà l’occasione per ufficializzare la sua ricandidatura alle regionali. Crede di superare lo sbarramento del 5% stabilito dalla legge elettorale toscana, tenuto conto che alcuni dei suoi vecchi alleati- Sinistra Italiana- hanno da poco aperto ad un possibile appoggio al Pd?

Per la verità discuteremo di programmi e solo nei prossimi mesi di candidature. Quanto a Sinistra Italiana, è da sempre parte integrante del progetto regionale e  sono sicuro che anche nella primavera prossima saremo tutti assieme. Un accordo dovrebbe infatti avvenire su base programmatica e la distanza con il Pd toscano di oggi, che poi è lo stesso della primavera 2015, è abissale, dunque ho motivo di credere che fra qualche mese tutti avranno verificato l’impossibilità di colmare questa distanza.

Aggiungo che sarebbe poco sensato depotenziare uno dei pochi esperimenti innovativi a sinistra che hanno dimostrato di funzionare, sia elettoralmente, sia nella costruzione di relazioni sui territori, oltre che nel lavoro istituzionale. In Consiglio abbiamo fatto un’opposizione propositiva, in coerenza con il nostro nome Sì – l’opposto di no – condensando in proposte di legge, mozioni, risoluzioni il nostro modello alternativo di governo. Anche grazie al nostro metodo di lavoro partecipativo, in questi anni si sono avvicinati tante liste di cittadinanza, comitati locali, oltre a gruppi di delusi del M5S, in fuga durante la fase di governo con la Lega.

Insomma, questo progetto collettivo è cresciuto rispetto a quando, nel 2015, prendemmo il 6,3%, un paio di mesi dopo essere nati. E vorremmo che il popolo della sinistra toscana potesse riprovare l’emozione, così rara, di votare due volte lo stesso simbolo, dando continuità al medesimo percorso, senza ogni volta smantellare tutto e ripartire da capo. Continuiamo a costruire, rifuggendo la pulsione autodistruttiva che abbiamo visto troppo spesso all’opera.

Anche in Toscana si parla da anni di grandi opere, prima fra tutte l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze, fortemente voluto dal Pd, che presenta molteplici profili di criticità per l’ambiente e per il tessuto urbanistico. In una delle ultime sedute del Consiglio regionale si è assistito ad un’opposizione piuttosto morbida del M5S, storicamente contrario all’opera.
Siamo di fronte ad un’alleanza giallo-rossa anche in chiave toscana, dopo l’apertura ad un possibile accordo Pd/M5S per le regionali umbre?
Pensa che la battaglia contro l’aeroporto abbia ancora qualche probabilità di vittoria?

È probabile che Pd e M5S provino a replicare l’alleanza anche in Toscana, perché questo assicurerebbe loro il governo della Regione, ma i toni del M5S si erano già ammorbiditi durante la fase di governo con la Lega, favorevole al nuovo aeroporto tanto quanto il Pd. Il Tar, nel frattempo, ha annullato il decreto di compatibilità ambientale (Via) e di conseguenza il Ministero delle infrastrutture ha dovuto sospendere l’esecuzione del decreto che ratificava la conclusione della conferenza dei servizi, fermando tutto. Ovvio che la battaglia non può essere condotta solo sul piano giudiziario né essere confinata nel perimetro delle aule consiliari, serve l’iniziativa e la mobilitazione di cittadini attivi, di associazioni e comitati, ma gli spazi per continuare a vincere ci sono tutti, perché la popolazione dell’intera piana non vuole l’aeroporto, stanca di essere considerata la pattumiera di Firenze, come non lo vogliono i sindaci.

La nuova pista lì semplicemente non ci può stare, essendo un’area iperurbanizzata, fra le più inquinate d’Europa, satura di complessi produttivi e opere impattanti di ogni genere, autostrade comprese. Insieme ce l’abbiamo fatta ad impedire la costruzione dell’inceneritore di Case Passerini, ce la faremo anche realizzare il parco agricolo della piana e a sviluppare il polo universitario anziché la nuova pista.

Nel marzo scorso, insieme all’altro consigliere di Sì Toscana a Sinistra, Paolo Sarti, avete denunciato l’esistenza di un accordo tra la Regione Toscana e il Forum delle Associazioni Familiari che prevede la possibilità per le associazioni private antiabortiste di entrare nei consultori pubblici, a favore del quale è stato inoltre stanziato un contributo di 195 mila euro in tre anni.
L’autodeterminazione delle donne è un valore ancora così difficile da affermare politicamente e culturalmente?

Assolutamente sì, le spinte conservatrici provengono sia dalla società, sia dalla politica. Le donne guadagnano meno degli uomini, fanno meno carriera, vengono discriminate, in certi casi violentate e persino ammazzate per il solo fatto di essere donne. Al tradizionale modello maschile tossico, alla diffusa e mai sradicata mentalità patriarcale, al preoccupante aumento dei medici obiettori di coscienza, che limitano la piena applicazione della legge 194, adesso si somma la recrudescenza di una destra fortemente maschilista nel linguaggio e nelle proposte programmatiche, come il famigerato Ddl Pillon, fortunatamente archiviato. E il corpo stesso delle donne è, da sempre, anche terreno di profitti.

Dietro l’accordo fra Regione Toscana e Forum delle famiglie c’è la crociata antiabortista dei soliti noti e allo stesso tempo c’è il business degli affidi gestito dai gruppi antiabortisti integralisti. Il lato positivo di questa penosa vicenda è l’intelligenza, la costanza e la fantasia con cui le donne di Non Una di Meno hanno organizzato la protesta, nel corso di questi mesi, per ottenere il ritiro del provvedimento. Un’azione che rafforza anche la nostra battaglia consiliare per l’annullamento dell’accordo e che ha già portato almeno al congelamento delle erogazioni di denaro. D’altro canto le manifestazioni delle donne, assieme a quelle del movimento LGBTQI, sono fra le più partecipate e creative, nel nostro Paese.

Ancora non è chiaro chi saranno i suoi prossimi avversari. Nel Pd, che forse andrà alle primarie, si fanno i nomi dell’attuale assessora alla sanità, la renzianissima Stefania Saccardi, e del presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, mentre l’europarlamentare Simona Bonafé -altra renziana di ferro – sembra essersi smarcata definitivamente preferendo rimanere a Strasburgo. Per il M5S potrebbe scendere in campo l’ex sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, mentre per il centrodestra, tramontata l’ipotesi del giornalista Mediaset Paolo Del Debbio, è ritornato in auge il nome della super salviniana Susanna Ceccardi, ex sindaca di Cascina ora europarlamentare.
Sarà una campagna elettorale impegnativa. Chi teme di più come avversario politico?

Non temo gli avversari, temo il Toscanellum, ossia una legge elettorale incostituzionale congegnata da Renzi e Verdini per trasformare artificialmente una minoranza nella società in una maggioranza di seggi nel parlamento regionale. Il che è molto rischioso: è una legge che stravolge il principio di eguaglianza del voto di ciascun cittadino e che limita la rappresentatività del Consiglio attraverso sbarramenti, premi di maggioranza, ballottaggio, listini bloccati.

Per questo abbiamo presentato una proposta di legge proporzionale, per cambiare sistema elettorale. Pd e M5S stanno discutendo a livello nazionale di una legge elettorale simile, sarebbe incomprensibile che non volessero discutere la nostra proposta per la Toscana. È giusto e necessario dotarci di un sistema che ristabilisca piena proporzionalità fra i voti ottenuti dalle varie forze politiche e i seggi assegnati. Così tutti i voti pesano in ugual modo e hanno il medesimo valore e così il Consiglio può rispecchiare effettivamente tutti i territori e le volontà di tutti gli elettori, in uguale misura. Questa è una svolta necessaria in epoca di crescente distacco e disaffezione dei cittadini dalla politica, che si traduce in alto astensionismo e in una democrazia dimezzata.

Lei ha sempre fortemente contestato al Pd il Jobs Act, la riforma sanitaria toscana- che ha smantellato molti settori della sanità pubblica- e la mancata attuazione dei referendum sull’acqua pubblica del 2011. A suo avviso c’è ancora spazio per un’azione politica di contrasto a tali provvedimenti?

Lo spazio c’è per il semplice fatto che la maggioranza delle persone la pensa come noi. Il nodo irrisolto è come trasformare queste maggioranze sociali in maggioranze politiche. In altri termini, se andiamo per strada e chiediamo a chi incontriamo se è d’accordo a superare la precarietà, reintrodurre l’articolo 18, avere una sanità davvero pubblica e universale o l’acqua gestita senza profitti, ci risponderanno di sì, come ha appunto limpidamente dimostrato il referendum del 2011.

Poi però entriamo in un’aula elettiva e lo scenario è diverso, precarizzatori e privatizzatori sono in maggioranza. Lo stesso si potrebbe dire su casa, reddito, previdenza, perché ovviamente le persone vogliono anche una casa dove vivere, e, incredibile a dirsi, persino una pensione, possibilmente da non percepire il giorno prima di morire. Si tratta dunque di costruire una proposta politica all’altezza delle maggioranze sociali, con metodi e forme nuove. Ma tornando al Consiglio regionale, nei prossimi mesi manderemo al voto in aula le nostre proposte di legge sui beni comuni, a partire da quella per la ripubblicizzazione del servizio idrico, e sarà un modo per capire se esiste in concreto la volontà di invertire la rotta neoliberista o se tutto resta immobile.

L’avanzata delle destre in Italia potrebbe spaventare e convincere molti elettori indecisi a votare per i partiti di centrosinistra, come già successo in diverse occasioni alle ultime amministrative.
C’è ancora spazio per una forza politica di sinistra?

Certamente il cosiddetto voto utile, che poi non è affatto utile, è la più forte delle insidie e nella dimensione regionale rischia di incidere più che nella dimensione municipale, dove la conoscenza diretta dei candidati gioca un ruolo essenziale. Ma dall’altro lato, il lavoro che abbiamo fatto in questi anni ha seminato tantissimo e sono molte le persone, i gruppi e i comitati che si sono avvicinati al nostro progetto politico regionale.

Ma vorrei anche dire che l’automatismo che spinge a ritenere che occorre votare Pd altrimenti vince la destra, al di là del moto istintivo, dovrebbe presupporre la risposta ad una domanda di fondo: cosa vogliamo far vincere, noi di sinistra? Un sistema di potere locale incistato in un intreccio fra affari, relazioni, appalti? Chi propugna mega opere inutili ma profittevoli? Chi toglie l’articolo 18? Chi privatizza i servizi essenziali e pezzi della sanità pubblica, a partire dalla specialistica e dalla diagnostica? Chi privatizza le scuole dell’infanzia comunali o vara la ‘buona scuola’? Per carità, se il Pd stesse covando una svolta ideale e programmatica, sarei il più felice del mondo, ma per ora ho visto la passeggiata di Zingaretti al tunnel Tav, la sua rivendicazione del jobs act e del sì al referendum per picconare la Costituzione.

C’è uno spazio potenziale per la sinistra perché i contenuti della sinistra sono forti nella società. Si tratta di costruire forme organizzative innovative e all’altezza di questa sfida, non certo rassegnarci e ad accomodarci nella falsa alternativa fra Ursula von der Leyen e Trump, fra troika e fascionazionalismi, fra globalizzazione neoliberista e muri.

In passato è stato candidato con L’Altra Europa per Tsipras per le europee, e non ha mai nascosto simpatia per Podemos. A luglio il premier greco uscente Alexis Tsipras non è stato rieletto mentre Podemos non è riuscito ad imporre le proprie “condizioni” (tre ministeri “sociali”, sanità, lavoro e università) a Pedro Sanchez per la formazione del nuovo governo spagnolo, e questo comporterà il ritorno alle urne, per la quarta volta in quattro anni, previsto per il 10 novembre prossimo.
Come vede il futuro per la sinistra europea?

Conservare lo status quo è la cosa più semplice del mondo, basta assecondare la corrente prevalente e gli interessi dominanti, ribaltarlo invece è difficilissimo. Per mutare i rapporti di forza dobbiamo prima di tutto uscire dalla frammentazione, a tutti i livelli, che significa necessaria ricomposizione sociale, dopo anni di polverizzazione del mondo del lavoro, ma anche organizzazione su scala quantomeno europea. Né Syriza né Podemos, da soli, hanno possibilità di modificare lo stato delle cose presenti, come si è visto nel caso greco, né lo potranno fare le lotte sociali, se restano disperse e non coordinate.

È un tema su cui ho sempre insistito: occorre porsi all’altezza in cui si decidono i nostri destini e la sinistra o è in grado di coordinarsi davvero, e strutturalmente anche in una dimensione europea, o perderà tutte le battaglie decisive. Serve insomma una capacità di mobilitazione paneuropea dei movimenti sociali, come serve un progetto politico transnazionale consistente, capace di porre come centrale la trasformazione di questa Europa.

Quindi lei, che è anche presidente della Commissione per le politiche europee e gli affari internazionali del Consiglio regionale, come trasformerebbe questa Europa?

L’attuale Europa è uno strano ibrido, le cui regole sono basate sulla teoria economica neoliberista e dove l’unica istituzione eletta direttamente dai popoli europei è quella che conta meno di tutte. Questo ibrido è di fatto ostaggio delle scelte dei governi più forti, la Germania e in parte la Francia. Anche se tutto sembra far pensare che si intenda conservare lo status quo, è evidente che la situazione è insostenibile e peraltro alimenterà, in giro per il continente, nuovi fascioleghismi.

Le due alternative che abbiamo davanti sono, per motivi diversi, altrettanto impervie: il ritorno agli Stati nazionali o la costruzione di un’Unione Europea sovrana e federale, quella a cui pensava Altiero Spinelli, in grado di dotarsi di una politica fiscale ed estera comune e di armonizzare le politiche sociali, impedendo il dumping interno all’Unione. Ovviamente la mia strada è la seconda, quella di un’Europa fondata sulla sovranità popolare, in grado di fronteggiare il neoassolutismo dei mercati finanziari e dei nuovi poteri economici globali. La lotta alla povertà o al cambiamento climatico richiedono tanto un’azione locale che un’azione internazionale, che sia quantomeno europea. E sarebbe illusorio pensare che i singoli Stati nazionali del nostro continente, nel mondo globalizzato, abbiano modo di riacquisire lo spazio di manovra necessario ad attuare politiche redistributive e protezione sociale. Rimanere nell’attuale situazione di stallo è certamente la via più semplice ma anche la più pericolosa.

Ultima domanda. Lei è sempre stato uno strenuo difensore dei diritti sociali, ma anche del diritto all’ambiente nella sua declinazione di economia circolare e rifiuti zero. Greta Thunberg è riuscita a smuovere le coscienze di molti giovani e meno giovani, e i temi ambientali sono finalmente entrati nel dibattito pubblico. Quando, però, entreranno anche nelle agende politiche?

Mi verrebbe da rispondere quando, grazie a nuova consapevolezza e a mutati rapporti di forza, saremo pronti a cambiare radicalmente il nostro modello economico, e il tempo che ci resta non è molto. Il capitalismo finanziario ed estrattivista non è compatibile con una svolta verde, per questo occorre lavorare ad un’alternativa di sistema. E così torniamo a quanto stavo dicendo or ora, si tratta di una rivoluzione che può essere condotta solo su una scala quantomeno continentale.

Abbiamo costruito un meccanismo che si basa sullo sfruttamento di altri esseri umani e sulla distruzione dell’ambiente ma questo non è un pianeta di prova né noi siamo ‘altro’ dalla natura, la cui circolarità è stata spezzata da processi produttivi lineari persino in agricoltura. Un progetto di sinistra per questo nostro millennio deve tenere assieme questi due elementi, senza separare giustizia sociale e ambientale, costruendo un orizzonte di felicità che è appunto salute, un mare pulito in cui nuotare o un bel bosco in cui passeggiare, conoscenza, beni relazionali, amicizie, tempo per gli affetti.

Qual è il messaggio politico della risoluzione Ue sul comunismo equiparato al nazismo

Plenary session - Opening of the sitting

La Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa 2019/2819 è tanto grave quanto imbarazzante per chi l’ha prodotta e per chi l’ha votata. Frutto abborracciato delle tesi revisioniste di Ernst Nolte e di Francois Furet – ed utilizzando la categoria scarsamente significativa dal punto di vista ermeneutico di totalitarismo – equipara comunismo a fascismo e nazismo.

Non solo: facendo discendere in un trascendente ed assoluto nesso causale il nazismo come risposta al comunismo, attribuisce a quest’ultimo, di fatto, la responsabilità di aver fatto deviare la storia dal regno della Libertà autoavverata del liberalismo. Un po’ come accusare i partigiani delle stragi fasciste e naziste di civili. Attribuire al Patto Molotov-Ribbentropp la Seconda Guerra Mondiale non è che il maldestro tentativo di trovare riscontro nella storia di un presupposto che storico non è, al quale tra le altre basterebbe contrapporre l’antecedente Patto di Monaco, testimonianza della collusione antisovietica fra Gran Bretagna e Germania nazista.

Una risoluzione tutta politica per un verso, tesa a tenere dentro il perimetro costituente europeo proprio quei Paesi come Polonia ed Ungheria i cui governi – a parole – si vorrebbero criticati per il loro sovranismo nazionalistico ma sostanzialmente assolti in quanto vittime del male assoluto rappresentato dal comunismo, rappresentato in veste metafisica come sinonimo del Male.

Così come tutto politico è l’attacco e l’ingerenza nei confronti della Russia, e non al governo putiniano, proprio per quanto ancora rimanda all’esperienza dell’Ottobre, utilizzando le posizione dei Paesi baltici. Aspetto singolare e degno di nota come il ritorno nel regno della libertà dei Paesi dell’est non coincida solo con l’adesione all’Unione, ma primariamente al far parte della Nato, aspetto che tradisce il dato di verità. Non all’Europa hanno aderito in prima battuta tali Paesi, ma all’alleanza militare degli Usa in funzione prima anti Urss e successivamente di contenimento della Russia a potenza regionale anche militarmente accerchiata ed all’ideologia di liberismo economico e sociale di Reagan.

In ultima istanza, uno strumento nelle mani degli Usa proprio per condizionare il temuto protagonismo politico dell’Unione. In maniera paradossale, inoltre, molti dei problemi che attraversano l’attuale Europa derivano proprio dall’allargamento ad Est dell’Europa a 28, promossa durante la presidenza di Romano Prodi. E non si tratta solo dei differenziali regionali che minano un’unità fatta solo di moneta unica e di parametri che costituzionalizzando l’austerità neoliberista ampliano e moltiplicano diseguaglianze e spinte centrifughe.

Se c’era una memoria condivisa dei Paesi che avevano dato vita all’Unione ed all’Unione originaria, pur nel tornante ’89-’91, era proprio il tratto antifascista delle proprie Costituzioni, il riconoscimento avuto dalle espressioni politiche del movimento operaio sia nella veste socialista che comunista nella sconfitta del fascismo e del nazismo, il riconoscimento politico del pluralismo di classe della rappresentanza istituzionale, lo stato sociale e l’obbiettivo della piena e buona occupazione.

La Risoluzione, nel criticare le esperienze dei regimi autoritari, ne fa propri due aspetti costitutivi: la Storia di Stato ed il giudizio morale sugli accadimenti storici, ma forse il livello degli estensori e dei votanti ha fatto premio su questa piccola intrinseca contraddizione. Per il rispetto della storia, per i milioni di morti che fieri dei simboli che si vorrebbero mettere al bando, armi alla mano, hanno contrastato e sconfitto fascisti e nazisti non possiamo assistere inerti e senza reagire. Lo ha fatto l’Anpi, l’erede morale della Resistenza, lo facciano in Italia tutti coloro che singolarmente di quella Storia – grande anche nella tragedia hanno fatto parte.

Facciano sentire alta e forte la loro voce quelle associazioni figlie di quella storia, rifondate nell’Italia democratica da uomini e donne che dei simboli del lavoro e del riscatto menavano vanto. Quello che la maldestra Risoluzione criminalizza non è lo Stalinismo, dubbia categoria dello Spirito, ma la stessa speranza e possibilità che la Storia non sia contenuta nell’ambito dell’esperienza storicamente determinata del Capitalismo, nella sua forma liberale di primato dell’impresa e della proprietà: che questo si faccia nella fase che vede l’incipiente divorzio tra capitalismo e democrazia fa scorrere qualche motivato brivido.
Maurizio Brotini è segretario Cgil Toscana

Gli uomini grigi che odiano i colori

A Bassano del Grappa, dove evidentemente hanno un bel vivere se riescono ad avere il tempo di occuparsi di queste inezie, Fratelli d’Italia lancia un accorato allarme per un pericolosissimo volantino che è comparso negli asili. O mio dio, cosa è successo, direte voi, cosa può esserci scritto di così terribile da provocare un terremoto politico e un innalzamento del livello di guardia?

La frase incriminata, giuro, è questa: «Facciamone di tutti i colori! Narrazione & laboratorio per famiglie di tutti i tipi». I grigi (che sono quelli che vorrebbero spegnere i colori degli altri perché non si noti il loro spessore slavato e l’incapacità di colorare il mondo) hanno deciso che in quelle torbidissime parole si nascondesse il pericolo gender, che ormai equivale all’uomo nero delle favole, appunto.

La Lega di Bassano, ovviamente, è salita sul carro degli uomini grigi e ha urlacciato perché quelle “famiglie di tutti i tipi”, dicono, “può prestarsi a qualsiasi tipo di interpretazione”. Del resto è tipico degli occhi marci vedere marcio dappertutto.

Bene, qualche giorno fa c’è stato il primo incontro. Cosa è successo di così terribile? Lo scrive benissimo il giornale locale: «Quella andata in scena ieri pomeriggio nella piazzetta di vicolo da Ponte è stata semplicemente una lettura animata. Come tante che ogni giorno vengono svolte da professionisti su tutto il territorio. Ed è filata lascia con una ventina di bambini accompagnati dai genitori, che hanno ascoltato le storie raccontate da Stefano Torresan, che per l’occasione ha portato anche la sua cargo bici Marlene. Da qui ha estratto alcuni libri per l’infanzia e si è messo a narrare».

Paura, eh?

A proposito: l’ex assessore a Bassano (delle precedente giunta di centrosinistra) ha chiarito che quel “famiglie di tutti i tipi” si riferisce a bambini con genitori separati, magari risposati, oppure dati in affido, oppure orfani e accompagnati dai nonni. E che la manifestazione è organizzata con le associazioni del territorio, anche cattoliche.

Ma si sa che gli uomini grigi sono incapaci anche solo di immaginarli, i colori. Sembra una fiaba di Rodari. Ora vieteranno anche lui.

Buon lunedì.

Come farla finita con i porti chiusi

Djibril, 24, a rescued migrant from Tchad, watches the sea from the desk of the 'Ocean Viking' rescue ship, operated by French NGOs SOS Mediterranee and Medecins sans Frontieres (MSF), during an operation in the Mediterranean Sea on August 12, 2019. - Mediterranean and MSF rescued another 105 migrants off the coast of Libya on August 12, 2019, bringing to 356 the number of those aboard the Ocean Viking ship now seeking a safe port. (Photo by Anne CHAON / AFP) (Photo credit should read ANNE CHAON/AFP/Getty Images)

La domanda è di contenuto: prima di esprimere giudizi in merito al nuovo governo è possibile avanzare proposte su cui chiamare al confronto le forze politiche e coloro che agiscono fuori dalle istituzioni? Partendo dal tema cavalcato, in maniera spregiudicata, dagli esecutivi precedenti, l’immigrazione, è ipotizzabile riprendere a ragionare non in maniera emergenziale (emergenze reali su questo fronte non esistono), ma di prospettiva? Il Primo ministro ha parlato di «nuovo umanesimo» e i dirigenti dei partiti al governo della necessità, garantendo «sicurezza», di politiche di «integrazione».

Si è parlato di una nuova legge sull’immigrazione e da ciò partiamo. Andrea Maestri, ex parlamentare di Possibile aveva promosso, nella precedente legislatura, una proposta di legge (la nr. 4551, presentata alla Camera il 15 giugno 2017) poi assegnata in sede referente alle commissioni Affari costituzionali e Esteri. Condivisa anche da deputati di Si e del Pd, prevedeva: visti di ingresso per ricerca lavoro, regolarizzazione permanente per chi è in Italia, abrogazione del “reato di clandestinità”, istituzione di una autorità indipendente contro le discriminazioni, diritto di voto alle elezioni amministrative per gli stranieri regolarmente soggiornanti.

Oggi tutto sembra concentrarsi sui «porti chiusi» e sul proibizionismo, e non è facile uscire da tale distorsione. Maestri insiste: «Una nuova legge organica dovrebbe portare all’abrogazione della “Bossi-Fini” e di tutti i decreti Sicurezza che si sono rivelati peraltro fallimentari – dichiara -. Bisognerebbe oggi pensare alla regolarizzazione di chi è privato di tale possibilità e vive nel nostro territorio, spesso lavorando in nero, restando invisibile. E bisognerebbe farlo, più che con la logica dei rimpatri, con quella di una inclusione, senza gli esborsi richiesti nelle antiche “sanatorie”, che favorivano traffici poco trasparenti. Sono convinto, e ne scrivevo nella nostra proposta, che…

L’inchiesta di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola fino al 26 settembre

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Stalin come Hitler e Mussolini? A chi giova la risoluzione Ue che equipara il comunismo al nazifascismo

La risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 dal titolo “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa” che in sostanza equipara il nazifascismo e il comunismo è tra gli atti più pericolosi che siano mai stati votati in quella sede. Pericolosa per la mistificazione del revisionismo che esprime. Pericolosa per la falsità delle motivazioni dichiarate. Pericolosa per le conseguenze che determinerà, ma che in effetti coincidono con finalità inespresse e sottese. L’Assemblea parlamentare, con la risoluzione n.1481 del 25 gennaio 2006 aveva già richiamato l’attenzione sui regimi comunisti e sulla violazione di massa dei diritti umani che aveva comportato la morte nei campi di concentramento, la persecuzione con torture e deportazioni, assassinii con privazioni e terrore.
Con quella risoluzione tuttavia, al di là degli altisonanti richiami alle libertà fondamentali, l’Unione europea, attraverso il Parlamento, non aveva di certo la finalità di condannare tutte le espressioni di privazione delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili, perché se così fosse stato, avrebbe dovuto estendere, non necessariamente nello stesso documento, gli stessi anatemi contro Israele per le persecuzioni contro i palestinesi, tanto per citare un esempio eclatante e contemporaneo, oppure i crimini giapponesi del secolo scorso, definiti come l’olocausto asiatico, ma queste omissioni confermano che le finalità erano altrove.
In realtà con la risoluzione 1481/2006 il Parlamento europeo si accingeva ad instillare nel dibattito pubblico europeo, il germe del revisionismo negando, di fatto, il sacrificio umano di milioni di sovietici morti per liberarci dal regime nazista e tracciando un confine impalpabile entro il quale consentire la libertà di espressione e oltre il quale invece negarla, con atteggiamento censorio, costruendo la base giuridica delle limitazioni alle espressioni politiche, ma soprattutto cominciando a costruire la base giuridica di una deriva anticomunista, in totale dissonanza dalla configurazione democratica dei partiti comunisti europei.
Nel 2006 i partiti socialisti e comunisti negli Stati dell’Unione, mantenevano ancora un bilanciamento contro lo stritolamento ordoliberista, e dunque quella risoluzione mantenne un profilo più limitato. Il salto negazionista e censorio si è avuto con la risoluzione del 19/9/2019, un documento che ha marcato la contraddizione nelle sue asserzioni, in maniera sfacciata e dialetticamente violenta, in un momento storico in cui i partiti comunisti e socialisti in alcuni Paesi, come ad esempio l’Italia, non hanno alcuna rappresentanza parlamentare.
I parlamentari europei italiani, espressione della piccola borghesia e del capitale finanziario, tutti rigorosamente di destra, in parte hanno votato a favore della risoluzione (Pd-FI-Lega) e in parte si sono pilatescamente astenuti (M5S). È pur vero che i parlamentari europei e italiani attuali mostrano una assoluta incapacità di distinguere un processo storico da una narrazione da cronaca, e sono dunque incapaci di dare una valutazione storica allo stalinismo ma lo strumentalizzano per arrivare al vero obiettivo: introdurre in Europa una politica anticomunista sollecitandone finanche la rimozione dei simboli, incuranti del fatto che quei simboli sono gli stessi che celebrano la vittoria sul nazismo.
L’Unione europea ha come obiettivo quello di cancellare una memoria storica, distorcendola su un giudizio già scontato, ovvero quello sullo stalinismo, perché questa narrazione serve al capitale finanziario che ieri finanziava Hitler e che oggi sostiene l’Ue. Cui prodest? Il comunismo e il socialismo, nella declinazione contemporanea, e non solo, restano strumenti ideologici per consentire alle masse di avviare processi di autocoscienza per contrastare lo sfruttamento delle classi lavoratrici, e nel momento in cui il comunismo accompagna in tutta Europa processi democratici di lotta allo sfruttamento, colpirne la simbologia significa colpire ideologicamente la forza delle masse sfruttate, svilendole a mere faccenduole di ordine pubblico.
La risoluzione del Parlamento europeo, per quanto non vincolante, vuole essere il paravento delle politiche capitalistiche, ormai l’unica cifra di una Unione Europea nella quale hanno spazio di affermazione solo i gruppi di potere finanziario, le multinazionali, le corporation, le quali esprimono solo classi politiche asservite, sbarrando la rappresentanza in ogni modo a chi non è asservito. Se la reale finalità del Parlamento europeo fosse stata quella di condannare gli eccidi, le torture e le repressioni, non avrebbero dovuto finanziare né il nazismo ucraino né la repressione turca, o i campi di concentramento libici, e inoltre avrebbero dovuto rivolgere concreta attenzione agli Stati Uniti e ai 30 milioni di morti che hanno causato in tutta la loro storia, per non parlare dei milioni di morti causati dal cristianesimo.
Dunque in termini quantitativi parliamo di cifre di gran lunga superiori a quelle causate da Stalin ma assai difficilmente troveremo parole di condanna contro gli Usa, ora che la Ue sta progressivamente sovrapponendosi alla politica di aggressione della Nato e anzi, nella risoluzione contro il comunismo, le parole di condanna esplicite contro la Russia fanno presagire politiche di attacco diretto. Quanto al crocifisso, simbolo di morte e tortura da duemila anni, anziché relegarlo in via definitiva al culto privato, c’è una reale possibilità che venga adottato come simbolo della UE perché è il simbolo che più di altri si avvicina, in assoluto, alla croce uncinata.

Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia Atea e coordinatrice nazionale di Potere al Popolo

Billy Bragg: La credibilità fa la differenza a sinistra

GLASTONBURY, ENGLAND - JUNE 24: Labour Party leader Jeremy Corbyn (R) leaves next to Billy Bragg after speaking to crowds at Left Field Stage at Glastonbury Festival Site on June 24, 2017 in Glastonbury, England. Labour Party leader Jeremy Corbyn addressed crowds at Glastonbury at both the Pyramid Stage and Left Field Stage. During the 2017 General Election Mr Corbyn surprised many as he made significant gains with his party, partially due to galvanising young voters when 61.5% of under 40's voted Labour. (Photo by Chris J Ratcliffe/Getty Images)

Il 20 settembre esce in Italia Best of Billy Bragg at Bbc 1983-2019. Una raccolta di performance live del Bardo di Barking, voce dello storico sciopero dei minatori inglesi a cavallo tra il 1984 il 1985 e del movimento laburista. Questa sua nuova uscita di pezzi registrati negli studi della Bbc, anticipata dal singolo “New England”, che contiene tutti i grandi classici di Bragg, compresa la monumentale ballad dedicata al movimento operaio “There is power in a Union”, è stata l’occasione per una discussione a tutto tondo sulla politica, sull’impegno sociale dei giovani, sull’importanza delle canzoni tradizionali della sinistra e, ovviamente, sulla Brexit.

Esattamente quattro anni fa cantavi “The Red Flag” (inno del partito laburista, ndr) insieme a Jeremy Corbyn per festeggiare la sua elezione a leader del Labour. Pensavi che Corbyn sarebbe riuscito a guidare i laburisti così a lungo?
Ad essere onesto ero pessimista su come avrebbe reagito il Paese, e in particolare la potente macchina della propaganda dei Tories, all’idea di un leader così radicale. Il fatto che i Tories non siano riusciti a spazzare via Corbyn, soprattutto a causa della variabile impazzita della Brexit, ci dà la misura di quanto la politica britannica sia cambiata profondamente, in un modo che non era immaginabile durante la campagna congressuale del 2015. Ammetto che all’inizio pensavo che per Jeremy sarebbe stata molto dura.

La campagna di Corbyn, congressuale prima ed elettorale poi, è stata in grado di avvicinare, per la prima volta, alla politica una nuova generazione di ragazzi. Pensi che il dialogo che si era instaurato con loro sia ancora aperto o che in questi due anni, con la questione Brexit, quel canale si sia chiuso?
Penso che i giovani stiano ancora dalla sua parte, che sentano di essere ascoltati e di poter avere un impatto diretto sulla politica attraverso il Labour di Corbyn. I Tories al momento sono il partito delle vecchie generazioni e anche se i LibDem appaiono più giovanilisti hanno votato insieme a Cameron tutti i provvedimenti di austerità che hanno danneggiato moltissimo le giovani generazioni. Per questo credo che…

L’intervista di Domenico Cerabona a Billy Bragg prosegue su Left in edicola dal 20 al 26 settembre

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La memoria emotiva che aiuta nella lotta all’Alzheimer

Il 21 settembre è la giornata mondiale dell’Alzheimer, istituita nel 1994 per iniziativa dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità). Un’occasione per approfondire la conoscenza di una malattia molto diffusa e con un’eziologia specifica ancora in parte da capire. Saranno molte le iniziative, i congressi e gli incontri in tutta Italia. Per guardare a questa malattia da un punto di vista inedito abbiamo chiesto a Valentina Ruggiero, operatrice socio sanitaria che da anni lavora in un centro Alzheimer, di parlarci della sua innovativa iniziativa: il laboratorio di teatro per pazienti Alzheimer.
Perché proprio il teatro?
Perché è una mia grande passione, insieme al cinema, su cui sapevo avrei potuto contare e che avrei potuto trasmettere ai partecipanti al corso. È importante poter fare affidamento su una forte spinta interiore perché un laboratorio come questo può essere molto faticoso da portare avanti: bisogna non arrendersi mai e proporre in maniera sempre diversa e costante contenuti e attività, che permettano agli attori di memorizzare il lavoro fatto.
Non è un controsenso proporre a dei pazienti Alzheimer un’attività in cui la memoria ha un ruolo così importante?
Al contrario. È proprio grazie al fatto che queste persone siano spinte a ricordare una parte, un movimento, un’intenzione che questo corso può avere un’importanza fondamentale per loro. La perdita di memoria (amnesia), o addirittura la perdita della capacità di riconoscere oggetti e persone (agnosia), sono infatti alcuni degli aspetti più invalidanti del morbo di Alzhaimer. Con un laboratorio di teatro essi diventano proprio gli scogli da superare, i limiti da valicare. È una continua lotta per riappropriarsi del terreno interiore che è sempre in pericolo di venir perduto. È ovvio, non tutti i pazienti possono affrontare questa impresa ma per molti è possibile e auspicabile. Deve essere un lavoro costante, questa è la cosa più importante, perché così diventa sempre presente, e memorizzabile. Un’attività continuativa con un obiettivo chiaro, la messinscena finale, è proprio quello di cui hanno bisogno. Il mio lavoro è questo: proporre loro un obiettivo, in un ambiente stimolante e divertente; una routine di riscaldamento, esercizi e giochi che permetta di loro di ritrovare la “terra sotto i piedi” e poi un rapporto di fiducia, con me e con gli altri operatori coinvolti, e di ricerca, con la parte e la dimensione artistica che comunque è presente. In maniera a volte sorprendente.
Il legame con chi conduce il corso è quindi importante?
Basilare è quello che permette agli allievi di costruire la memoria emotiva che dipana davanti a loro la strada da seguire per ritrovare il mondo di immagini costruito insieme.
E i risultati?
Enormi. Queste persone amano moltissimo questa attività, questa possibilità: anche alcuni pazienti più gravi. Per loro è una gioia enorme. Gli spettacoli sono sempre molto emozionanti e con performance anche di alto livello. Le famiglie poi spesso sono felici e partecipano con trepidazione, si commuovono perché è un’esperienza bellissima vedere i loro cari così coinvolti e vincenti.

Il centrosinistra sia più coraggioso su eutanasia e diritti delle donne

La ministra Elena Bonetti ha detto che lo scellerato ddl Pillon sull’affido condiviso rimarrà «chiuso in un cassetto» ma sono ancora tanti i diritti civili a rischio o da conquistare. Ne parliamo con la senatrice Pd Monica Cirinnà, madrina della legge sulle unioni civili varata nel 2016.
Il ddl Pillon voleva colpire la libertà delle donne già nel momento in cui si vogliono separare, obbligandole alla mediazione. Se non fai almeno una seduta di mediazione non puoi neanche pensare concretamente alla separazione, una follia. Ci sono però altri diritti a rischio, perché l’oscurantismo (in particolare dei leghisti) porta con sé la demolizione della libertà della donna garantita da due leggi fondamentali, quella sul divorzio e quella sull’interruzione di gravidanza. L’attacco fortissimo alla legge 194 non avviene solo a parole, non è portato avanti solo dalle loro associazioni ultra cattoliche, ma viene attuato anche direttamente con atti depositati in Parlamento, sia alla Camera che al Senato. A firma Gasparri sono depositati due ddl pericolosissimi che intendono dare riconoscimento giuridico all’embrione. Che l’embrione sia un grumo di cellule (e non persona) è un’acquisizione scientifica, non è quella pericolosa eretica di Monica Cirinnà a dirlo! Attribuirgli personalità giuridica significa dire che l’interruzione di gravidanza è omicidio. È inaccettabile.

È in atto una guerra continua ai diritti conquistati?
Cercano di eliminare diritti e lo fanno in modo subdolo. Qualche tempo fa io ed Emma Bonino siamo riuscite a sminare un emendamento che puntava a imporre che le dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) fossero depositate nel Comune di nascita. Ora, solo per fare un esempio, un uomo come mio padre che ha 89 anni, che vive a Roma da 40, dovrebbe recarsi in provincia di Messina a depositare le sue dichiarazioni anticipate di trattamento? Il lavorio contro i diritti civili delle persone è un lavoro carsico che loro fanno giorno per giorno, erodono dove possono erodere.

La Corte costituzionale ha dato al governo tempo fino al 24 settembre per fare una legge sull’eutanasia. Cosa fare?
Ormai i tempi molto stretti i tempi. I testi depositati alla Camera e al Senato (dal Pd) giacciono perché nessuno li fa chiamare. Nello scellerato contratto del precedente governo non c’era una riga sui diritti civili. E non sono stati portati in Aula temi fuori dal contratto. Sul tema del fine vita, va detto, ci sono dei dissidi anche dentro le forze del centrosinistra.

Lei non è d’accordo con la proposta del senatore Pd Andrea Marcucci?
La mia posizione è diversa da quella predominante nel gruppo Pd in Senato. Io non ho firmato la proposta Marcucci perché la trovo debole: prevede la sedazione profonda ma non il farmaco letale in caso di malattia irreversibile. Per il fine vita dobbiamo pretendere dignità, non accanimento, poter sospendere alimentazione e idratazione forzate, dobbiamo consentire che la sofferenza non sia prolungata inutilmente.

Una legge sull’eutanasia, a suo avviso, dovrebbe riguardare i casi di malattia organica non più curabile?
Esclusivamente. Io sono contraria all’eutanasia nel caso di malattie psichiatriche. È totalmente diverso. La Corte costituzionale parla di un farmaco in grado di provocare rapidamente la morte in caso di malati affetti da patologie irreversibili sottoposti a sofferenze intollerabili. È chiaro che si tratta di malattia organica. Su questi temi che toccano i valori fondanti della sinistra riformista dobbiamo avere coraggio.

Pensa che il suo partito dovrebbe aprirsi di più alle battaglie sui diritti civili?
Se davvero il Pd vuole tornare ad essere un grande partito popolare di sinistra, se vuole essere un partito riformista deve uscire dall’imbarazzo del dover fare sempre “più uno” solamente sui diritti sociali. Il diritto sociale e quello civile fanno capo alla dignità della persona. Zingaretti dice: «Prima le persone». Io dico sì, prima le persone con tutti i loro diritti. La dignità non è solo quella sociale del lavoratore, ma è anche quella del riconoscimento della propria soggettività.

C’è ancora molto da fare per la piena accettazione della differenza e dell’identità delle donne?
Sì, per la piena affermazione della differenza di genere. Ecco perché le battaglie sui diritti vanno portate avanti in piena intersezionalità. Io faccio la battaglia per le donne, per i gay, per i migranti, per gli homless, per tutti. Perché se tu affermi un diritto lo fai per tutti. Il valore delle battaglie intersezionali va rilanciato altrimenti siamo tutti piccoli gladiatori dentro a piccoli ghetti.

Intervista di Simona Maggiorelli

La secessione dei ricchi in Europa ha già fallito

E se molti dei guai in cui sta l’Unione europea dipendessero da essersi costituita seguendo una sorta di autonomia differenziata, come quella regionale ora in discussione in Italia? Vediamo e ragioniamo. Secondo l’indagine del 2018 dell’Health consumer powerhouse, ente di ricerca svedese molto accreditato tra le istituzioni europee, che valuta i sistemi sanitari (e assegna loro un punteggio) in base al mix di dati statistici ufficiali e al livello di soddisfazione dei cittadini, considerando 46 parametri di riferimento, l’Italia si attesta al ventesimo posto in Europa.

Gravano sul nostro sistema soprattutto le fortissime differenze regionali, che vanificano elementi positivi – come l’alta aspettativa di vita – registrati ad esempio da un’altra classifica, quella di Bloomberg. Ma molto forti sono anche le differenze rilevate tra i diversi Paesi in Europa.

In testa è balzata la Svizzera con 893 punti. Poi Olanda con 883, Norvegia con 857, Danimarca con 855. La Francia sta a quota 796; la Germania a 785, la Spagna a 698 e l’Italia a 687. Ultima l’Albania a 544. Appena meglio Romania, 549, Ungheria, 565, Polonia, 585. Le differenze dunque sono assai marcate. E stiamo parlando, ricordiamolo, di un elemento fondamentale della nostra vita, quale è la salute.

Tali disparità non riguardano solo i Paesi dell’Est, ultimi entrati, ma anche i membri storici, tra i quali le distanze sono comunque significative. Distanze legate anche a modelli operativi diversi visto che all’interno della Unione europea per i singoli Stati permane la piena autonomia di scelta e gestione del proprio sistema sanitario.
In Francia e Germania, ad esempio, si prevede il finanziamento con l’iscrizione obbligatoria all’assicurazione sanitaria, che rimborsa le spese mediche ai cittadini. In Italia invece si prevede…

L’articolo di Roberto Musacchio prosegue su Left in edicola dal 20 al 26 settembre

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La violenza della negazione

La sentenza con la quale l’11 settembre scorso Vincenzo Paduano è stato definitivamente condannato all’ergastolo suona come una conferma del valore simbolico che questa storia ha assunto, fin da quando la notizia del terribile omicidio della bella e giovanissima Sara Di Pietrantonio cominciò a diffondersi.

Basti pensare che il movimento internazionale Non una di meno, che ha segnato la nascita di una nuova stagione femminista in Italia, dopo il profondo torpore nel quale era caduto lo slancio che aveva animato le lotte degli anni settanta, si è sviluppato nel nostro Paese nel giugno 2016, subito dopo la morte di Sara, come reazione all’ennesimo femminicidio letto in chiave di delitto passionale. E, per una volta, la domanda di cambiamento che proviene dalla società civile sembra trovare una risposta. 

Una risposta che, riconoscendo il ruolo determinante dello stalking, oltre a dettare un nuovo orientamento giurisprudenziale di fondamentale importanza in tema di violenza di genere, rappresenta una speranza e un inizio di risarcimento, non solo e tanto per la famiglia e gli amici di Sara che nessuno potrà mai veramente risarcire, ma per le donne e per i minori vittime di abusi, colpiti da una forma di violenza, tecnicamente definita vittimizzazione secondaria, agita dalle istituzioni, dalla società, dalla cultura, cioè proprio da chi sarebbe chiamato a difendere e proteggere le vittime di violenza.

Non è difficile immaginare la durezza dell’impatto con il sistema giudiziario su chi ha subito gravi lesioni fisiche e psichiche, a partire dalla necessità di riferire ad estranei la propria dolorosa esperienza. Ma il peggio comincia quando la vittima viene messa nelle condizioni di dover dimostrare la veridicità del suo racconto, partendo dal presupposto che potrebbe mentire. Non potrò mai dimenticare la rabbia disperata con cui una ragazzina di quattordici anni che aveva subito uno stupro da parte di un gruppo di ragazzi mi raccontava gli interrogatori, durante i quali di quando in quando le venivano chiesti di nuovo gli orari precisi degli eventi che aveva già ricostruito, con l’intento evidente di trovare contraddizioni e incoerenze. Poi c’è sempre in agguato il giudizio morale, che finisce spesso per coincidere con una vera e propria colpevolizzazione della vittima, basata sul principio a priori che la violenza debba essere in qualche modo conseguenza di un suo comportamento. E ancora, molto spesso le vittime assistono impotenti alla sottovalutazione della violenza che hanno subito, perfino da parte del personale medico che presta i primi soccorsi, ma soprattutto, come si legge tristemente nelle cronache, quando denunciano i propri persecutori e non ottengono protezione. Al di là delle reali carenze strutturali e di formazione all’interno del sistema giudiziario e sanitario, che sono oggetto di politiche di difficile attuazione è evidente che il nucleo più profondo della dinamica della rivittimizzazione è la negazione della violenza.

Rileggere Primo Levi è forse più utile, per capire, che studiare la letteratura prodotta negli ultimi decenni dalla vittimologia. Perché non si tratta solo della menzogna cosciente e criminale del negazionismo, ma di negazione non cosciente, della quale la nostra cultura è intrisa, basata com’è sull’ideologia plurimillenaria secondo la quale la violenza e la distruzione sono connaturate all’essere umano. In questi giorni abbiamo visto esempi dell’una e dell’altro, nei commenti sul caso di Elisa Pomarelli, uccisa per Il Giornale dal «gigante buono» Massimo Sebastiani, che anche per Valerio Varesi di Repubblica è un uomo «sbigottito perfino da se stesso», che confessa in lacrime di aver fatto «una stupidaggine », vinto dal caldo di un pomeriggio d’agosto e da qualche bicchiere di troppo, fino a commettere «l’ennesimo femminicidio per motivi passionali». Mentre le donne continuano a morire con il solito agghiacciante ritmo, la vicenda giudiziaria del caso di Sara non è solo un lenitivo per le vittime che subiscono l’ulteriore violenza della negazione, gravissima per la disperazione e la ripetizione che induce, rispettivamente nelle vittime e nei carnefici.

La storia di Sara ha fatto emergere, senza ambiguità, una verità che ha la forza innovativa di superare l’idea anacronistica e complice del delitto passionale. Una verità che può essere trovata solo con il coraggio di guardare a fondo nelle dinamiche del rapporto uomo-donna e usare un linguaggio chiaro, che «dà un nome alle cose» (come diceva Marcella Fagioli in uno degli Incontri di ricerca psichiatrica del 1997) agli «accadimenti umani» (come li definisce la Corte di Cassazione), rendendoli comprensibili. Ci si può domandare perché questo sia stato possibile in questo particolare caso. Una risposta – che nulla toglie al lavoro di tutti quelli ai quali dobbiamo questo grande risultato – è forse nell’universalità di questa storia, la stessa che le conferisce il suo valore simbolico. È la storia di due ragazzi “normali”, nella quale tanti si sono riconosciuti o hanno temuto di poter riconoscere i propri figli, col terrore di essere esposti a un pericolo mortale. Una bella ragazza piena di vita, di aspirazioni, di speranze, di impegni, di interessi, di amici, che incontra un ragazzo schivo, solitario, giovane e istruito, con un lavoro sicuro, ma già privo di aspettative.

È in questa disparità, sempre più frequente nel rapporto uomo-donna, che matura la violenza. Le parole che definiscono nelle sentenze la violenza di Paduano suonano come una condanna dell’identità maschile così come si è costituita nella cultura patriarcale: un’identità razionale e anaffettiva, che riduce la donna e il bambino a esseri inferiori e il rapporto umano a possesso, priva della vitalità necessaria per il cambiamento, per le passioni, per accettare i rischi dell’amore e delle separazioni. La lotta contro la violenza non può più prescindere dalla ricerca sulla violenza “invisibile”, che nega e annulla l’identità umana dell’altro diverso, e dopo aver armato la mano del sadico e dell’assassino, lo giustifica con la “negazione della negazione”: il male che sarebbe proprio della nostra natura e dei rapporti umani.

Barbara Pelletti è psichiatra, psicoterapeuta e presidente della associazione Cassandra

 

L’editoriale di Barbara Pelletti è tratto da Left in edicola dal 20 al 26 settembre

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