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Per fare ricerca bisogna saper pensare in modo nuovo

Intuizione, capacità di andare contro i luoghi comuni, fantasia, sono importanti nel lavoro scientifico. Non bastano studio e rigore negli esperimenti. Lo scrive il vice direttore dell’Accademia dei Lincei Lamberto Maffei nel libro Elogio della ribellione

Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che l’esprime. Che cambi in esempio» scriveva Albert Camus nei Taccuini (1935-59). Il neurobiologo e vice direttore dell’Accademia dei Lincei Lamberto Maffei ne ha fatto l’esergo di un suo personale Elogio della ribellione (Il Mulino), scritto dal punto vista di un medico che ha trascorso molti anni a insegnare in Normale e a fare ricerca. Un’attività che, scrive Maffei, chiede di «essere aperti alla meraviglia del nuovo e dell’incontro».
L’intuizione, la capacità di mettere in discussione dogmi e tradizione, la fantasia, accompagnano da sempre le scoperte scientifiche. Dall’eliocentrismo che mandò gambe all’aria il sistema aristotelico tomistico alla relatività di Einstein che apriva alla quarta dimensione, fino al Bosone teorizzato da Higgs, solo per fare degli esempi.
Professor Maffei, oltre all’impegno nello studio, quanto conta nella ricerca sapersi ribellare?
È una questione che sento molto avendo fatto il ricercatore tutta la vita. La scienza è il nuovo, saper pensare diversamente. Ma spesso le congiunture economiche spingono a seguire certe direttive, perché solo così si trovano i fondi nella ricerca applicata. E questo riduce anche lo studioso più fantasioso a schiavo. Così diventa davvero difficile fare ricerca: che è andare contro, è fantasia, è ribellarsi ai luoghi comuni, tentare di rovesciarli, guardando al futuro. Non a caso la fanno soprattutto i giovani. L’azzardo del pensiero è importante per aprire nuove strade.
Quanto è praticabile per i ricercatori in Italia?
Qui la loro condizione è precaria, mancano i fondi, spesso devono sottostare a persone che gli indicano cosa fare o non fare. Sovente il ricercatore non ha neanche la libertà di seguire un proprio pensiero perché c’è qualcuno che è economicamente più forte, più potente, che decide per lui. Per chi fa ricerca essere libero di pensare è la ricompensa, è ciò che vuole fare. È molto difficile per il ricercatore italiano oggi ribellarsi, se non andandosene via. Alla scuola Normale, dove ho insegnato per tanti anni, tutti gli allievi prima della laurea sono già impegnati all’estero e pochi ritornano. Anche l’insegnate a un certo punto ne è contento. È vero che perdiamo delle grandi menti, ma almeno questi giovani si realizzano come ricercatori, come individui.
In Elogio della ribellione lei sottolinea l’importanza dell’infanzia, quando si è più recettivi e aperti al nuovo. Qual è il compito della scuola?
La scuola dovrebbe stimolare il pensiero critico. È importante perché i ragazzi crescano senza essere condizionati dalle risposte preconfezionate che offono i media. Fondamentali in questo senso sono le materie umanistiche, ovvero tutte le discipline che sono guidate dalla curiosità, dal desiderio di conoscenza, fra le quali includo anche la biologia, la fisica eccetera. Così il ragazzo si abitua a ragionare, a porsi delle domande, è stimolato a pensare e non a credere. Se uno presta fede a tutte le fandonie che ci vorrebbero imporre, allora si forma un cittadino succube a ciò che gli viene detto e – uscendo un po’ dal mio campo – vi vedo un pericolo per la democrazia.
Le macchine non hanno un pensiero emotivo, lei scrive, dunque i robot non potranno mai sostituire l’umano. Tuttavia il ruolo delle nuove tecnologie è importante, cosa ne pensa?
Le nuove tecnologie sono una grande scoperta, la rete permette scambi e circolazione delle informazioni. Non a caso i dittatori cercano di controllare e censurare i social network. Però, anche le tecnologie hanno effetti collaterali. Come li hanno gli antiobiotici e farmaci che hanno salvato tante vite. Fra gli effetti collaterali della rete c’è quello di diffondere bufale, false informazioni, messaggi religiosi, penso ai fondamentalisti. Anche per fare un buon uso della rete serve un pensiero critico. Grazie alla rete oggi i giovani si collegano con i loro compagni di tutto il mondo. Ma stando da soli in una stanza. E poi ci sono gli anziani che usano altri linguaggi e rischiano l’emarginazione. La globalizzazione e le nuove tecnologie paradossalmente creano anche solitudine.
Lei studia le malattie neurodegenerative: c’è un modo di “ribellarsi” a malattie oggi senza terapie efficaci come l’Alzheimer?
Il cervello ha bisogno di stimoli esogeni e endogeni come quelli provenienti dalla memoria. Un cervello senza stimoli è “in coma”. Da un punto di vista medico si può aiutare l’anziano ridandogli degli stimoli. Se ha rapporti umani, se riceve stimoli cognitivi, motori, e di altro tipo – per esempio la musica è molto efficace – allora le sue capacità mentali, cerebrali, indubbiamente migliorano. Per sempre? No, ma rallentano i processi di invecchiamento che oggi non di rado hanno un esito crudele come l’Alzheimer: sta diventando una malattia pandemica. Se possiamo rallentarne il corso, se riusciamo a tenere queste persone in uno stato di attività cerebrale normale o para normale, è una grande opera, medica, umana e da ultimo economica. Un paziente Alzheimer “costa” da 50 a 100mila euro l’anno. In Italia le persone che ne sono affette sono 1 milione circa. Nel mondo, 36 milioni.
Dormire e sognare è fondamentale per la salute psico-fisica?
Vengo da una scuola che era famosa per lo studio del sonno, il metabolismo di molte catene molecolari, se non si dorme, va in tilt, si perde la memoria, l’attività muscolare e così via. L’ideale sarebbe dormire 7-8 ore. Ma oggi in media sono 6, incombe il mondo della produzione, del consumismo. Io la vedo come una cosa piuttosto pericolosa che tutto debba essere consumato e buttato, serve solo ad aumentare l’enorme iato fra la stragrande maggioranza di poveri e l’un per cento dei super ricchi. Un insulto all’umanità.
Nasce anche da qui il suo elogio della ribellione ?
Penso che la ribellione debba essere in primo luogo mentale. Abbiamo una mente diversa da quella degli animali. Nella foresta il leone e la tigre hanno le loro leggi, quelle della sopravvivenza, noi siamo sottoposti alle stesse leggi biologiche, ma abbiamo la possibilità di scegliere, di dire no. Perché sfruttare il mio amico? Perché l’altro dovrebbe essere diverso da me? Fra tutti gli esseri umani c’è un’uguaglianza di base. Stabilire differenze fra uno spazzino, un professore o un imprenditore è un’offesa all’intelligenza.

 

Beni comuni, lotta alla precarietà e difesa dell’ambiente: un progetto alternativo a sinistra

Se la crisi di governo è stata archiviata, e con essa nuove elezioni politiche, tra fine ottobre e maggio 2020, molti cittadini saranno chiamati alle urne per le regionali: dall’Emilia Romagna alla Toscana, passando per la Liguria, l’Umbria, le Marche, fino al Veneto.
Le consultazioni saranno, ancora una volta, un banco di prova per il neo governo, e il nuovo assetto politico nazionale sta smuovendo le acque anche in ambito locale. La Toscana è, insieme all’Emilia Romagna, una delle osservate speciali: regione tradizionalmente rossa, ha però conosciuto ripetute débacle alle amministrative.

Dopo la clamorosa sconfitta a Livorno nel 2014 con l’elezione del primo cittadino grillino Filippo Nogarin, altre città toscane hanno nel tempo cambiato colore, virando a destra: Cascina, Arezzo, Pisa, Siena, Cortona e Piombino. La Lega, forte delle ultime vittorie, ha più volte ribadito il desiderio di espugnare una delle regioni simbolo del centrosinistra.

Tommaso Fattori, consigliere regionale di Sì Toscana a Sinistra, coalizione che raggruppa movimenti, associazioni e partiti di sinistra, è un veterano della politica dal basso e dei movimenti. Organizzatore del primo Forum Sociale Europeo e portavoce del Social Forum di Firenze del 2002, Fattori è stato tra i principali promotori dei referendum del 2011 a favore dell’acqua pubblica riportando una storica vittoria con il 96% dei sì. Nel 2014 si è candidato alle europee con la lista L’Altra Europa per Tsipras per poi approdare nel Consiglio regionale toscano nel 2015.

Dal 20 al 22 settembre si è svolta a Calambrone (PI) la tre giorni di Sì Toscana a Sinistra, il cui claim è “Costruiamo l’alternativa per la Regione Toscana”. Quale è l’alternativa che ha in mente?

Alternativa significa nuova visione del mondo e costruzione di un modello ecologico e sociale in grado di assicurare protezione, restituendo la speranza in un orizzonte di felicità collettiva. Sì, protezione: dalla precarietà, dall’impoverimento, dalla mancanza di servizi, ormai assottigliati e privatizzati, e dal disastro ecologico. L’obiettivo primario è accrescere la ricchezza comune: garantire una sanità regionale davvero pubblica e universale, contrastandone la privatizzazione e il definanziamento; assicurare un tetto sulla testa a chiunque ne abbia bisogno, mentre si lasciano vuoti immensi contenitori nelle nostre città; finanziare un sistema di trasporto pubblico capillare al servizio dei pendolari, quando si è invece speso un miliardo di euro solo per scavare un cratere vuoto, che forse un giorno ospiterà un’inutile cattedrale dell’alta velocità, simil Tiburtina.

E ancora: elaborare un piano di gestione dei rifiuti centrato sulle fabbriche dei materiali, con tecnologie circolari per recuperare materia anziché distruggerla attraverso vecchi inceneritori o nuovi pirogassificatori; investire sulla ricerca e sul polo scientifico universitario, anziché sul nuovo aeroporto di Firenze; gestire pubblicamente l’acqua, anziché permettere a pochi di estrarre profitti da un bene di tutti; utilizzate le tecnologie per migliorare le nostre vite anziché renderle strumenti di arricchimento e controllo nelle mani di pochi.

E dunque alternativi a chi, alla Lega o al Pd?

Alternativi al modello privatizzatore e antiecologico che rende Pd e Lega molto più sovrapponibili di quanto non appaia. Pure sui temi dell’immigrazione e delle ossessioni securitarie, in questi anni, le differenze fra Pd e Lega sono state più di stile che di sostanza, e non sto solo parlando dei lager libici ai tempi di Minniti, ma anche dei Cpt, dell’obbrobrio sulla legittima difesa, delle ordinanze democratiche di sindaci democratici contro i mendicanti, delle “ruspe umanitarie” di Nardella nei campi Rom e via di questo passo.

Tutto fatto in giacca e cravatta e con toni educati anziché sbraitando contro le “zingaracce”, il che, per carità, almeno non getta nell’immediato benzina sul fuoco razzista, ma chi, per almeno vent’anni, ha fatto scelte di destra è pericoloso quanto una destra che fa la destra, e non mi pare che al momento si stia voltando pagina, purtroppo. Noi invece siamo la parte che desidera creare un altro mondo, la parte che aspira a liberare gli esseri umani e l’ecosistema dallo sfruttamento e dall’ingiustizia, la parte che coltiva utopie concrete, tenendo assieme ideali e pragmaticità. Con una nostra agenda, non inseguendo le agende altrui.

La tre giorni sarà l’occasione per ufficializzare la sua ricandidatura alle regionali. Crede di superare lo sbarramento del 5% stabilito dalla legge elettorale toscana, tenuto conto che alcuni dei suoi vecchi alleati- Sinistra Italiana- hanno da poco aperto ad un possibile appoggio al Pd?

Per la verità discuteremo di programmi e solo nei prossimi mesi di candidature. Quanto a Sinistra Italiana, è da sempre parte integrante del progetto regionale e  sono sicuro che anche nella primavera prossima saremo tutti assieme. Un accordo dovrebbe infatti avvenire su base programmatica e la distanza con il Pd toscano di oggi, che poi è lo stesso della primavera 2015, è abissale, dunque ho motivo di credere che fra qualche mese tutti avranno verificato l’impossibilità di colmare questa distanza.

Aggiungo che sarebbe poco sensato depotenziare uno dei pochi esperimenti innovativi a sinistra che hanno dimostrato di funzionare, sia elettoralmente, sia nella costruzione di relazioni sui territori, oltre che nel lavoro istituzionale. In Consiglio abbiamo fatto un’opposizione propositiva, in coerenza con il nostro nome Sì – l’opposto di no – condensando in proposte di legge, mozioni, risoluzioni il nostro modello alternativo di governo. Anche grazie al nostro metodo di lavoro partecipativo, in questi anni si sono avvicinati tante liste di cittadinanza, comitati locali, oltre a gruppi di delusi del M5S, in fuga durante la fase di governo con la Lega.

Insomma, questo progetto collettivo è cresciuto rispetto a quando, nel 2015, prendemmo il 6,3%, un paio di mesi dopo essere nati. E vorremmo che il popolo della sinistra toscana potesse riprovare l’emozione, così rara, di votare due volte lo stesso simbolo, dando continuità al medesimo percorso, senza ogni volta smantellare tutto e ripartire da capo. Continuiamo a costruire, rifuggendo la pulsione autodistruttiva che abbiamo visto troppo spesso all’opera.

Anche in Toscana si parla da anni di grandi opere, prima fra tutte l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze, fortemente voluto dal Pd, che presenta molteplici profili di criticità per l’ambiente e per il tessuto urbanistico. In una delle ultime sedute del Consiglio regionale si è assistito ad un’opposizione piuttosto morbida del M5S, storicamente contrario all’opera.
Siamo di fronte ad un’alleanza giallo-rossa anche in chiave toscana, dopo l’apertura ad un possibile accordo Pd/M5S per le regionali umbre?
Pensa che la battaglia contro l’aeroporto abbia ancora qualche probabilità di vittoria?

È probabile che Pd e M5S provino a replicare l’alleanza anche in Toscana, perché questo assicurerebbe loro il governo della Regione, ma i toni del M5S si erano già ammorbiditi durante la fase di governo con la Lega, favorevole al nuovo aeroporto tanto quanto il Pd. Il Tar, nel frattempo, ha annullato il decreto di compatibilità ambientale (Via) e di conseguenza il Ministero delle infrastrutture ha dovuto sospendere l’esecuzione del decreto che ratificava la conclusione della conferenza dei servizi, fermando tutto. Ovvio che la battaglia non può essere condotta solo sul piano giudiziario né essere confinata nel perimetro delle aule consiliari, serve l’iniziativa e la mobilitazione di cittadini attivi, di associazioni e comitati, ma gli spazi per continuare a vincere ci sono tutti, perché la popolazione dell’intera piana non vuole l’aeroporto, stanca di essere considerata la pattumiera di Firenze, come non lo vogliono i sindaci.

La nuova pista lì semplicemente non ci può stare, essendo un’area iperurbanizzata, fra le più inquinate d’Europa, satura di complessi produttivi e opere impattanti di ogni genere, autostrade comprese. Insieme ce l’abbiamo fatta ad impedire la costruzione dell’inceneritore di Case Passerini, ce la faremo anche realizzare il parco agricolo della piana e a sviluppare il polo universitario anziché la nuova pista.

Nel marzo scorso, insieme all’altro consigliere di Sì Toscana a Sinistra, Paolo Sarti, avete denunciato l’esistenza di un accordo tra la Regione Toscana e il Forum delle Associazioni Familiari che prevede la possibilità per le associazioni private antiabortiste di entrare nei consultori pubblici, a favore del quale è stato inoltre stanziato un contributo di 195 mila euro in tre anni.
L’autodeterminazione delle donne è un valore ancora così difficile da affermare politicamente e culturalmente?

Assolutamente sì, le spinte conservatrici provengono sia dalla società, sia dalla politica. Le donne guadagnano meno degli uomini, fanno meno carriera, vengono discriminate, in certi casi violentate e persino ammazzate per il solo fatto di essere donne. Al tradizionale modello maschile tossico, alla diffusa e mai sradicata mentalità patriarcale, al preoccupante aumento dei medici obiettori di coscienza, che limitano la piena applicazione della legge 194, adesso si somma la recrudescenza di una destra fortemente maschilista nel linguaggio e nelle proposte programmatiche, come il famigerato Ddl Pillon, fortunatamente archiviato. E il corpo stesso delle donne è, da sempre, anche terreno di profitti.

Dietro l’accordo fra Regione Toscana e Forum delle famiglie c’è la crociata antiabortista dei soliti noti e allo stesso tempo c’è il business degli affidi gestito dai gruppi antiabortisti integralisti. Il lato positivo di questa penosa vicenda è l’intelligenza, la costanza e la fantasia con cui le donne di Non Una di Meno hanno organizzato la protesta, nel corso di questi mesi, per ottenere il ritiro del provvedimento. Un’azione che rafforza anche la nostra battaglia consiliare per l’annullamento dell’accordo e che ha già portato almeno al congelamento delle erogazioni di denaro. D’altro canto le manifestazioni delle donne, assieme a quelle del movimento LGBTQI, sono fra le più partecipate e creative, nel nostro Paese.

Ancora non è chiaro chi saranno i suoi prossimi avversari. Nel Pd, che forse andrà alle primarie, si fanno i nomi dell’attuale assessora alla sanità, la renzianissima Stefania Saccardi, e del presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani, mentre l’europarlamentare Simona Bonafé -altra renziana di ferro – sembra essersi smarcata definitivamente preferendo rimanere a Strasburgo. Per il M5S potrebbe scendere in campo l’ex sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, mentre per il centrodestra, tramontata l’ipotesi del giornalista Mediaset Paolo Del Debbio, è ritornato in auge il nome della super salviniana Susanna Ceccardi, ex sindaca di Cascina ora europarlamentare.
Sarà una campagna elettorale impegnativa. Chi teme di più come avversario politico?

Non temo gli avversari, temo il Toscanellum, ossia una legge elettorale incostituzionale congegnata da Renzi e Verdini per trasformare artificialmente una minoranza nella società in una maggioranza di seggi nel parlamento regionale. Il che è molto rischioso: è una legge che stravolge il principio di eguaglianza del voto di ciascun cittadino e che limita la rappresentatività del Consiglio attraverso sbarramenti, premi di maggioranza, ballottaggio, listini bloccati.

Per questo abbiamo presentato una proposta di legge proporzionale, per cambiare sistema elettorale. Pd e M5S stanno discutendo a livello nazionale di una legge elettorale simile, sarebbe incomprensibile che non volessero discutere la nostra proposta per la Toscana. È giusto e necessario dotarci di un sistema che ristabilisca piena proporzionalità fra i voti ottenuti dalle varie forze politiche e i seggi assegnati. Così tutti i voti pesano in ugual modo e hanno il medesimo valore e così il Consiglio può rispecchiare effettivamente tutti i territori e le volontà di tutti gli elettori, in uguale misura. Questa è una svolta necessaria in epoca di crescente distacco e disaffezione dei cittadini dalla politica, che si traduce in alto astensionismo e in una democrazia dimezzata.

Lei ha sempre fortemente contestato al Pd il Jobs Act, la riforma sanitaria toscana- che ha smantellato molti settori della sanità pubblica- e la mancata attuazione dei referendum sull’acqua pubblica del 2011. A suo avviso c’è ancora spazio per un’azione politica di contrasto a tali provvedimenti?

Lo spazio c’è per il semplice fatto che la maggioranza delle persone la pensa come noi. Il nodo irrisolto è come trasformare queste maggioranze sociali in maggioranze politiche. In altri termini, se andiamo per strada e chiediamo a chi incontriamo se è d’accordo a superare la precarietà, reintrodurre l’articolo 18, avere una sanità davvero pubblica e universale o l’acqua gestita senza profitti, ci risponderanno di sì, come ha appunto limpidamente dimostrato il referendum del 2011.

Poi però entriamo in un’aula elettiva e lo scenario è diverso, precarizzatori e privatizzatori sono in maggioranza. Lo stesso si potrebbe dire su casa, reddito, previdenza, perché ovviamente le persone vogliono anche una casa dove vivere, e, incredibile a dirsi, persino una pensione, possibilmente da non percepire il giorno prima di morire. Si tratta dunque di costruire una proposta politica all’altezza delle maggioranze sociali, con metodi e forme nuove. Ma tornando al Consiglio regionale, nei prossimi mesi manderemo al voto in aula le nostre proposte di legge sui beni comuni, a partire da quella per la ripubblicizzazione del servizio idrico, e sarà un modo per capire se esiste in concreto la volontà di invertire la rotta neoliberista o se tutto resta immobile.

L’avanzata delle destre in Italia potrebbe spaventare e convincere molti elettori indecisi a votare per i partiti di centrosinistra, come già successo in diverse occasioni alle ultime amministrative.
C’è ancora spazio per una forza politica di sinistra?

Certamente il cosiddetto voto utile, che poi non è affatto utile, è la più forte delle insidie e nella dimensione regionale rischia di incidere più che nella dimensione municipale, dove la conoscenza diretta dei candidati gioca un ruolo essenziale. Ma dall’altro lato, il lavoro che abbiamo fatto in questi anni ha seminato tantissimo e sono molte le persone, i gruppi e i comitati che si sono avvicinati al nostro progetto politico regionale.

Ma vorrei anche dire che l’automatismo che spinge a ritenere che occorre votare Pd altrimenti vince la destra, al di là del moto istintivo, dovrebbe presupporre la risposta ad una domanda di fondo: cosa vogliamo far vincere, noi di sinistra? Un sistema di potere locale incistato in un intreccio fra affari, relazioni, appalti? Chi propugna mega opere inutili ma profittevoli? Chi toglie l’articolo 18? Chi privatizza i servizi essenziali e pezzi della sanità pubblica, a partire dalla specialistica e dalla diagnostica? Chi privatizza le scuole dell’infanzia comunali o vara la ‘buona scuola’? Per carità, se il Pd stesse covando una svolta ideale e programmatica, sarei il più felice del mondo, ma per ora ho visto la passeggiata di Zingaretti al tunnel Tav, la sua rivendicazione del jobs act e del sì al referendum per picconare la Costituzione.

C’è uno spazio potenziale per la sinistra perché i contenuti della sinistra sono forti nella società. Si tratta di costruire forme organizzative innovative e all’altezza di questa sfida, non certo rassegnarci e ad accomodarci nella falsa alternativa fra Ursula von der Leyen e Trump, fra troika e fascionazionalismi, fra globalizzazione neoliberista e muri.

In passato è stato candidato con L’Altra Europa per Tsipras per le europee, e non ha mai nascosto simpatia per Podemos. A luglio il premier greco uscente Alexis Tsipras non è stato rieletto mentre Podemos non è riuscito ad imporre le proprie “condizioni” (tre ministeri “sociali”, sanità, lavoro e università) a Pedro Sanchez per la formazione del nuovo governo spagnolo, e questo comporterà il ritorno alle urne, per la quarta volta in quattro anni, previsto per il 10 novembre prossimo.
Come vede il futuro per la sinistra europea?

Conservare lo status quo è la cosa più semplice del mondo, basta assecondare la corrente prevalente e gli interessi dominanti, ribaltarlo invece è difficilissimo. Per mutare i rapporti di forza dobbiamo prima di tutto uscire dalla frammentazione, a tutti i livelli, che significa necessaria ricomposizione sociale, dopo anni di polverizzazione del mondo del lavoro, ma anche organizzazione su scala quantomeno europea. Né Syriza né Podemos, da soli, hanno possibilità di modificare lo stato delle cose presenti, come si è visto nel caso greco, né lo potranno fare le lotte sociali, se restano disperse e non coordinate.

È un tema su cui ho sempre insistito: occorre porsi all’altezza in cui si decidono i nostri destini e la sinistra o è in grado di coordinarsi davvero, e strutturalmente anche in una dimensione europea, o perderà tutte le battaglie decisive. Serve insomma una capacità di mobilitazione paneuropea dei movimenti sociali, come serve un progetto politico transnazionale consistente, capace di porre come centrale la trasformazione di questa Europa.

Quindi lei, che è anche presidente della Commissione per le politiche europee e gli affari internazionali del Consiglio regionale, come trasformerebbe questa Europa?

L’attuale Europa è uno strano ibrido, le cui regole sono basate sulla teoria economica neoliberista e dove l’unica istituzione eletta direttamente dai popoli europei è quella che conta meno di tutte. Questo ibrido è di fatto ostaggio delle scelte dei governi più forti, la Germania e in parte la Francia. Anche se tutto sembra far pensare che si intenda conservare lo status quo, è evidente che la situazione è insostenibile e peraltro alimenterà, in giro per il continente, nuovi fascioleghismi.

Le due alternative che abbiamo davanti sono, per motivi diversi, altrettanto impervie: il ritorno agli Stati nazionali o la costruzione di un’Unione Europea sovrana e federale, quella a cui pensava Altiero Spinelli, in grado di dotarsi di una politica fiscale ed estera comune e di armonizzare le politiche sociali, impedendo il dumping interno all’Unione. Ovviamente la mia strada è la seconda, quella di un’Europa fondata sulla sovranità popolare, in grado di fronteggiare il neoassolutismo dei mercati finanziari e dei nuovi poteri economici globali. La lotta alla povertà o al cambiamento climatico richiedono tanto un’azione locale che un’azione internazionale, che sia quantomeno europea. E sarebbe illusorio pensare che i singoli Stati nazionali del nostro continente, nel mondo globalizzato, abbiano modo di riacquisire lo spazio di manovra necessario ad attuare politiche redistributive e protezione sociale. Rimanere nell’attuale situazione di stallo è certamente la via più semplice ma anche la più pericolosa.

Ultima domanda. Lei è sempre stato uno strenuo difensore dei diritti sociali, ma anche del diritto all’ambiente nella sua declinazione di economia circolare e rifiuti zero. Greta Thunberg è riuscita a smuovere le coscienze di molti giovani e meno giovani, e i temi ambientali sono finalmente entrati nel dibattito pubblico. Quando, però, entreranno anche nelle agende politiche?

Mi verrebbe da rispondere quando, grazie a nuova consapevolezza e a mutati rapporti di forza, saremo pronti a cambiare radicalmente il nostro modello economico, e il tempo che ci resta non è molto. Il capitalismo finanziario ed estrattivista non è compatibile con una svolta verde, per questo occorre lavorare ad un’alternativa di sistema. E così torniamo a quanto stavo dicendo or ora, si tratta di una rivoluzione che può essere condotta solo su una scala quantomeno continentale.

Abbiamo costruito un meccanismo che si basa sullo sfruttamento di altri esseri umani e sulla distruzione dell’ambiente ma questo non è un pianeta di prova né noi siamo ‘altro’ dalla natura, la cui circolarità è stata spezzata da processi produttivi lineari persino in agricoltura. Un progetto di sinistra per questo nostro millennio deve tenere assieme questi due elementi, senza separare giustizia sociale e ambientale, costruendo un orizzonte di felicità che è appunto salute, un mare pulito in cui nuotare o un bel bosco in cui passeggiare, conoscenza, beni relazionali, amicizie, tempo per gli affetti.

Eutanasia legale, fondamentale diritto civile in uno Stato laico

Un mese cruciale, questo settembre, per l’autodeterminazione sul fine vita. Un fondamentale diritto civile laico su cui a breve interverrà la Corte costituzionale, dopo aver concesso una proroga di undici mesi a un parlamento rimasto immobile. C’è chi l’ha chiamata «incostituzionalità differita» questa sospensione di giudizio da parte della Consulta sul caso che vede imputato Marco Cappato per il reato di aiuto al suicidio. Comunque sia, il differimento sta per scadere e il 24 settembre, con tutta probabilità, sarà decretata l’incostituzionalità parziale dell’art. 580 c.p. e smantellato il reato di aiuto al suicidio, ora punito in maniera spietata con la reclusione da cinque a dodici anni.

Troppo libertario ottimismo? Può essere. Viviamo pur sempre nel Paese in cui il Consiglio di Stato ha stabilito che il crocifisso è simbolo di laicità e in cui le ingerenze ecclesiastiche fanno sentire i loro effetti sul processo legislativo. Stavolta l’uno-due clericale ha visto dapprima scendere in campo il papa, che a inizio mese ha lanciato il suo monito contro l’eutanasia; e a seguire il presidente dei vescovi card. Bassetti, che alla testa delle associazioni cattoliche no-choice riunite in convegno in Vaticano ha chiesto una legge al Parlamento, dando precise direttive: «Va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente». Amen.

Proprio perché sappiamo che non va mai abbassata la guardia, non è mancato e non mancherà l’impegno per far sentire la voce laica. Il 9 settembre l’Uaar e la Consulta di Bioetica hanno organizzato alla sala Isma del Senato il convegno “Per il diritto al suicidio medicalmente assistito: un’urgenza non più rimandabile”, che ha visto la partecipazione di medici, giuristi, filosofi e anche parlamentari delle attuali forze di governo, durante il quale è stato lanciato un appello alla Corte Costituzionale contenente le buone ragioni a sostegno del diritto all’autodeterminazione nel fine vita. Lo scorso fine settimana i circoli Uaar si sono mobilitati nelle piazze di diverse città e il 19 settembre saremo tutti alla manifestazione-concerto #LiberiFinoAllaFine, organizzato dall’associazione Luca Coscioni nei giardini intitolati a Piergiorgio Welby a Roma.

Su una cosa c’è da mettere da parte qualsiasi ottimismo: se verrà aperto il varco del diritto di morire con dignità e nel rispetto della volontà individuale, esercitare tale diritto sarà un processo denso di ostacoli e, probabilmente, di sofferenza. Dal 1978 si può abortire, ma conosciamo la piaga dei medici obiettori e le vessazioni che causa alle donne. Dal 1989 è un diritto non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, che però troppe volte si traduce in discriminazione infantile tra le mura dell’istituzione che dovrebbe essere accogliente per eccellenza, la scuola pubblica. E che dire del testamento biologico? La legge è stata finalmente approvata nella scorsa legislatura, a fine 2017, ma la sua attuazione è ancora in alto mare.

Non per questo bisogna arrendersi. Anzi, di laicità e della sua affermazione concreta c’è gran bisogno. Dopo aver reso onore a quel XX Settembre che per noi resta una festa, si concluda il mese celebrando il trentennale della storica sentenza n. 203 del 1989, con la quale la Corte Costituzionale ha riconosciuto la laicità come supremo principio costituzionale. L’Uaar lo farà con due giornate di convegno: il primo all’università di Firenze, nella sede di Villa Ruspoli, e il secondo nell’auditorium della Regione Toscana, il 27 e 28 settembre prossimi. Il titolo è “30 anni di Laicità dello Stato. Fu vera gloria?”. L’obiettivo è colmare le carenze che sull’argomento la nostra classe politica mostra con tutta evidenza.

L’articolo del segretario nazionale Uaar, Roberto Grendene, è stato pubblicato su Left del 20 settembre 2019

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Sevizio pubblico

Qualcuno dica ai maggiorenti della Rai che possono anche smettere di fare i falsi sovranisti per leccare ministri che non sono più ministri e magari potrebbero, allo stesso tempo, occuparsi di fare il servizio pubblico così come previsto dall’atto costitutivo e magari smetterla di essere un sevizio pubblico che continua a lasciare spazio a ignobili conduzioni e a tutte le bugie che qualcuno insiste nel propinarci.

Qualcuno ad esempio potrebbe dire a Bruno Vespa che sulla violenza sulle donne ci sono decine di esperte e di esperti che potrebbero spiegargli come sia stato capace di usare tutti i peggiori luoghi comuni (oltre ai putridi risolini) mentre intervistava, appunto, una donna vittima di violenze riuscendo nella memorabile impresa di rivittimizzare la vittima un’altra volta.

Qualcuno potrebbe anche fare notare a Salvini (che insiste nel dire che con lui sono diminuiti gli sbarchi e sono diminuite le vittime nel Mediterraneo) che i dati del ministero che lui presiedeva lo smentiscono in toto certificando ben 1.369 vittime (ben più di Minniti che aveva avuto a che fare con un numero maggiore di partenze) e gli sbarchi che dice di avere bloccato sono tutti avvenuti in porti che non sono mai stati chiusi. Sarebbe bello che qualcuno glielo facesse notare, del servizio pubblico.

E, più in generale, forse sarebbe il caso che ci si ricordi che il lavoro del giornalista consiste nel porre domande e non nell’essere megafono delle opinioni di chi sta al potere. Sarebbe un bel modo anche per ricordare il compleanno mancato di Giancarlo Siani, che era giornalista giornalista.

A proposito: Siani era un precario sottopagato. Sarebbe da tenersi a mente anche questo. Visto che i giornali che lo stanno celebrando potrebbero farsi un esame di coscienza.

Buon venerdì.

Per approfondire, leggi Left in edicola dal 20 al 26 settembre

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Yemen, oltre la fine della guerra

Si intitola “Yemen, nonostante la guerra” il documentario di Laura Silvia Battaglia in onda su Rai3 giovedì 19 settembre in seconda serata. Il video, prodotto da Todos Contentos y yo Tambien Napoli e GA&A in collaborazione con Rai Doc3, è frutto del lavoro di Laura Silvia Battaglia, giornalista italo-yemenita, voce di Radio3 Mondo e collaboratrice di Left, che ha vissuto per alcuni anni in Yemen, da cui si è allontanata temporaneamente all’inizio della guerra, per poi rientrarci più volte durante il conflitto. E sono storie di resistenza della società civile quelle che racconta nel documentario. Come questa uscita su Left, di cui pubblichiamo alcuni stralci.

Faris al Shaibani osserva con soddisfazione i chicchi rossi di caffè, appena depositati sui tavoli da lavoro da Ruwad al Hayma. Ruwad, contadino, è arrivato da sud e ha percorso molti chilometri per essere qui, in questo cortile dentro la città di Sana’a pieno di tavole su cui una serie di lavoranti, muniti di cappellini, procede alla selezione delle bacche e alla loro essiccazione.

Eppure, nonostante la strada e la tensione, Ruwad non sembra provato. Aspetta di sapere se Faris, guardando la qualità dei frutti dei suoi alberi da caffè, accetterà che lui possa essere il cinquantesimo tra i coltivatori yemeniti dell’etichetta Qima Coffee, nonché il primo coltivatore dalla località di Ans, nel governatorato di Dhamar. Faris, dopo avere scrollato la capigliatura nerissima e atteso che il muezzin del minareto aggettante sulla sua fabbrica smetta di richiamare il circondario alla preghiera, guarda Ruwad e dice: «Benvenuto, le tue piante sono buone».

Ruwad allarga in un sorriso il viso cotto dal sole e sformato da una guancia troppo grossa, per le frequenti masticature del qat (la droga da meditazione locale, ndr), poi i due si stringono la mano e si abbracciano. Il contadino non fa nemmeno in tempo a eclissarsi tra i banchi da lavoro per l’essiccazione del caffè, portando in giro la sua preziosa mercanzia, che un altro pick up strombazza davanti al portone. «È una giornata impegnativa – dice Faris -. Ho molte audizioni con diversi agricoltori provenienti da altre provincie».

Il sogno di Faris sta diventando, a poco a poco, realtà. Questo bel giovane yemenita con un accento britannico perfetto ha deciso di giocarsi il tutto per tutto e ci sta riuscendo. Il suo amore per il caffè è un concentrato di piaceri, doveri e interessi: piaceri nei confronti della materia prima; doveri nei confronti del suo tributo al Paese di origine della sua famiglia, migrata cinquant’anni fa in Inghilterra; interessi perché Faris è, prima di tutto, un imprenditore: «Mi sono imbattuto nel caffè innanzitutto perché lo amo, e anche perché in Yemen il caffè è una merce prodotta dalla comunità dei coltivatori. E ho pensato: se mi posso occupare di questo, venderlo e produrne una buona qualità, forse posso connettere i coltivatori al business, dare loro indietro dei ricavi e migliorare la loro vita durante la guerra»…

Il racconto completo di Laura Silvia Battaglia si può leggere nel libro: Il giro del mondo in 15 reportage

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Caro governo, ascolta le donne

A display of hundreds of red shoes spread as protest against violence toward women in Israel at Habima Square in Tel Aviv, Israel, Tuesday, Dec. 4, 2018. A nationwide strike in protest of violence against women commemorating the 24 victims of domestic violence with thousands of men and women calling on the government to take action against domestic abuse. (AP Photo/Oded Balilty)

Mentre assistevamo alla crisi politica più stramba della storia repubblicana, se ne consumava un’altra meno visibile, meno raccontata, meno indagata a fondo dai media. Una crisi che in realtà si verifica senza soluzione di continuità durante tutto l’anno, ma è quello estivo uno dei periodi in cui i centri antiviolenza registrano il maggior picco di richieste di accoglienza da parte di donne in fuga – da sole o con i loro figli – da relazioni pericolose per la loro incolumità psicofisica. Certo non per colpa del caldo. «I periodi festivi in genere sono sempre quelli di maggior lavoro per i centri antiviolenza» ci racconta Francesca Innocenti, presidente del Centro donna Lilith di Latina, che è in grado di fare una statistica attendibile in quanto dal 1991 a oggi più di tremila donne vi sono state ospitate, e dal 2003 almeno 200 bambini vi hanno trovato rifugio con le loro mamme.

La casa rifugio del centro Lilith con soli sette posti letto disponibili potrebbe sembrare una piccola realtà, ma i numeri rendono bene l’idea di quanto sia importante la sua presenza sul territorio. Considerando anche che sono gli unici posti disponibili in tutta la provincia di Latina dopo che l’altra casa rifugio della zona è stata chiusa. E questo purtroppo non è un caso isolato. Come i nostri lettori sanno, più volte purtroppo ci siamo trovati a denunciare la scarsa sensibilità delle amministrazioni locali di fronte al ruolo sociale che ricoprono i centri antiviolenza. Si pensi alla Casa internazionale delle donne di Roma che è sotto sfratto. Oppure al Centro di Tor Bella Monaca che ha rischiato di scomparire più volte per mancanza di fondi. Siamo in uno dei quartieri più “problematici” della Capitale e qui nel 2015 è stata inaugurata la biblioteca “Marie Anne Erize”. Questo polo culturale interamente aperto al pubblico con il patrocinio del VI Municipio di Roma e delle Ambasciate d’Argentina e di Francia vanta un patrimonio di oltre 3mila volumi. Ed è impossibile non pensare a quello che sta accadendo sempre a Roma, dove lo sgombero della casa delle donne Lucha y siesta ha privato la capitale del 60% dei posti letto disponibili in case rifugio (secondo la Convenzione di Istanbul dovrebbero essere trecento, ora non arrivano a cinquanta). Allargando lo sguardo sulla situazione italiana, l’associazione D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) ha rilevato che nel 2017 in Italia i centri antiviolenza hanno accolto 13.956 nuovi casi, di cui il 15% erano donne tra i 18 e i 29 anni. Anche questo dato ci fa capire che la situazione è critica, ma dal nuovo governo non arrivano segnali incoraggianti.

Nel programma del Conte II – che su 21 ministri conta solo 7 ministre – si parla soltanto una volta delle donne, e in chiave imprenditoriale. Dire che la prevenzione dei femminicidi e la lotta alla violenza sulle donne resta marginale è dire poco. E non si può certo pensare di aver risolto la questione con il Codice rosso, basti pensare ai dieci omicidi – tra cui quelli di Elisa Pomarelli, Atika Gharib ed Eleonora Perraro – avvenuti dall’8 agosto in poi, giorno in cui è entrata in vigore la legge 69/19. Una norma pensata anche per velocizzare l’iter giudiziario delle denunce contro un uomo violento. Ma la velocità è proprio il difetto più grande di questa misura. «Il Codice rosso non considera il volere delle donne», osserva Francesca Innocenti. Quello che ha rilevato nel suo centro antiviolenza di Latina, infatti, è che non si rispettano i tempi, diversi per ciascuna donna, necessari a prendere consapevolezza della violenza subita che molto spesso non lascia lividi ma è invisibile perché agisce a livello psicologico. «Lavorare…

L’inchiesta di Alessia Gasparini prosegue su Left in edicola dal 20 settembre 2019

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Libere di vivere

La politica dell’odio, della discriminazione, del fondamentalismo religioso non abita più al Viminale. Con nostro grande sollievo. Ma ancora nella sua versione tribale è andata ancora in scena a Pontida, in un tripudio di frasi ingiuriose contro gli immigrati, i terroni, gli ebrei e contro chi fa informazione.

Il pensiero di destra è elementare, si basa sul principio vita mea mors tua, vorrebbe imporre un’idea di società chiusa, egoista, cementata dalla costruzione di un nemico, basata sull’ideologia del clan padrone a casa propria.

Quella che Salvini e i suoi volevano imporre a tutti noi è una visione della società basata sul sangue, sul possesso, sulle sedicenti ed escludenti radici cristiane dell’Europa. La volevano imporre per legge con provvedimenti come il ddl Pillon che resuscitava una oppressiva figura di paterfamilias inquisitore di donne e bambini.

Di fronte a questo scenario è certamente una buona notizia che la ministra delle Pari opportunità e per la famiglia, Elena Bonetti, abbia dichiarato di non avere alcuna intenzione di prendere in considerazione e discutere il ddl Pillon («inadeguato e dannoso»). Purtroppo, però, non basta allontanare i leghisti per debellare la piaga di politiche confessionali e lesive della laicità che è principio supremo dello Stato (vedi la sentenza della Consulta del 1989 ricordata dal segretario Uaar, Grendene). Il cardinale Bassetti, capo della Cei, tuona: «Va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente». La Chiesa, che sa di poter contare su ampie frange di politici italiani genuflessi, ha fatto e fa molta pressione perché l’Italia non abbia una legge sul fine vita degna di uno Stato moderno e civile. L’arretratezza dell’Italia su questo punto, rispetto al quadro europeo è efficacemente tratteggiata in questo sfoglio dall’inchiesta di Antonini.

Il governo Conte II promette azioni di riformismo sociale, parlando di salario minimo, interventi nelle periferie, investimenti nella sanità, nella scuola, per uno sviluppo ecosostenibile. Noi di Left vorremmo sollecitarlo e incalzarlo perché affronti anche questioni fondamentali che riguardano i diritti delle persone e la lotta alla violenza sulle donne.
L’Italia è un Paese sicuro, con il numero di omicidi e di aggressioni costantemente in calo, ma i dati del Viminale dicono anche che le donne sono le principali vittime: dei 145 morti ammazzati nel contesto familiare tra il 1 agosto 2018 e il 31 luglio 2019, il 63,4% sono donne, uccise non da stranieri, come blaterano le destre, ma da compagni, familiari, amici. Le leggi non bastano a fermare questa strage, tornano a denunciare Non una di meno, Di.re e altre associazioni chiedendo al governo un’interlocuzione. (La manifestazione del 27 settembre contro il ddl Pillon è stata sospesa, ma non annullata, avvertono). Né servono provvedimenti emergenziali.

«I femminicidi, purtroppo, non sono un’emergenza temporanea», come scrive Alessia Gasparini raccogliendo voci di attiviste ed esperte e come documenta qui in modo ampio e scientifico Maria Giuseppina Muratore. Per questo, oltre alla piena applicazione del protocollo di Istanbul, serve fare prevenzione, per questo occorre un cambiamento radicale di paradigma culturale che non è ancora avvenuto completamente in Italia (su cui grava la presenza del Vaticano, ma anche una granitica struttura patriarcale che dalla romanità è arrivata fino ad oggi). Come donne abbiamo conquistato diritti civili ma è ancora ampiamente negato il nostro diritto a realizzare un’identità culturale e sociale. Sono state proprio scelte di rifiuto, di separazione, di autonomia da parte delle donne a far scattare la violenza assassina di uomini come l’«amico» di Elisa Pomarelli, che Il Giornale scandalosamente ha definito «gigante buono», che «l’amava tanto», mentre Repubblica ha parlato di amore respinto, uccidendola assieme una seconda volta. Dove c’è violenza non c’è amore, che è rapporto profondo, interesse per l’altro, per la sua realizzazione. Dove c’è violenza ci sono rapporti patologici che nulla hanno a che fare con il desiderio. Molto c’è ancora da fare perché le donne stesse aprano gli occhi sulla violenza non solo fisica ma psichica e “invisibile” che si può nascondere dietro comportamenti apparentemente solleciti, di impetuoso corteggiamento, di gelosia, maschera di un asfissiante controllo.

La violenza non è un dato connaturato alla natura umana come la Bibbia ci vorrebbe far credere, asserendo che saremmo tutti figli di Caino. Lo abbiamo scritto tante volte e continueremo a farlo, la stampa, i media hanno uno grande responsabilità. Se la tv pubblica fa disinformazione parlando di «amore criminale» (un vero ossimoro!), se i giornali continuano a parlare di «raptus», di «eccesso di passioni» ogni volta che si trovano a dover raccontare un femminicidio, abdicano al proprio dovere costituzionale di fare corretta informazione. Con i libri di Left Contro la violenza sulle donne e Libere di essere e di pensare, con il lavoro assiduo su questi temi che abbiamo svolto dal 2006 e con questa storia di copertina che si avvale degli autorevoli contributi della psichiatra Barbara Pelletti e delle avvocate Teresa Manente e Stefania Iasonna vogliamo continuare a dare un contributo attivo per un radicale cambiamento culturale. Non è un caso che siano state proprio loro a collaborare perché Sara Di Pietrantonio avesse giustizia e perché non solo la violenza fisica ma anche la violenza psicologica dello stalking fosse riconosciuta nella sentenza, come è accaduto nelle settimane scorse, facendo fare un passo avanti ai diritti di tutte e di tutti.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 20 settembre

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«Il Parlamento non si dimentichi del fine vita», l’associazione Coscioni in piazza per l’eutanasia legale

Militanti del Partito Radicale in Piazza Montecitorio, davanti alla Camera dei Deputati dove depositeranno gli scatoloni con le firme per il referendum sull'eutanasia legale, il 13 settembre 2013 a Roma. ANSA/ GUIDO MONTANI

Una manifestazione che è anche un concerto. Si chiama Liberi fino alla fine e si terrà stasera, 19 settembre, dalle 17 in poi a Roma, nei giardini intitolati a Piergiorgio Welby (in piazza San Giovanni Bosco). L’evento è promosso dall’associazione Luca Coscioni, di cui fa parte Marco Cappato, che nel 2017 accompagnò Fabiano Antoniani (in arte Dj Fabo) in una clinica in Svizzera dove si sottopose al suicidio assistito.

La manifestazione ha lo scopo di fare pressione sul Parlamento affinché entro il 24 settembre si esprima in merito al divieto di aiuto al suicidio previsto dall’articolo 508 del Codice penale, come richiesto dalla Corte costituzionale. Il 24 settembre, ricordiamo, è la data in cui la Consulta ha fissato l’udienza pubblica su Istigazione o aiuto al suicidio – incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione. Sulla violazione dell’articolo 508 è stato improntato tutto il processo a Cappato, che dopo aver accompagnato Antoniani in Svizzera si è autodenunciato. Durante il processo alla Corte d’appello di Milano, però, sono stati sollevati dei dubbi sulla legittimità e l’attualità dell’articolo, che risale al Codice Rocco del 1931, rimandando la decisione alla Corte costituzionale. Secondo l’ordinamento attuale, Cappato rischia da 5 a 12 anni di carcere per aver aiutato Antoniani a mettere fine alla sua vita, che verteva ormai in una condizione che lui giudicava insopportabile. Una legge di iniziativa popolare sul fine vita è stata depositata sei anni fa, ma non ha mai avuto seguito in Parlamento.

Nel frattempo, dalla Conferenza episcopale italiana sono già partite le critiche e gli ammonimenti ai giudici in merito al decidere sulla incostituzionalità dell’articolo 508. Secondo il cardinal Gualtiero Bassetti, a capo della Cei, «vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente». 

 

Per approfondire, leggi l’inchiesta di Checchino Antonini e l’articolo del segretario Uaar, Roberto Grendene, su Left in edicola dal 20 settembre

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C’è già il futuro. Mancano gli occhi

Mi ha colpito molto leggere una notizia che ha dato il Corriere della Sera in cui si racconta di questo asilo a Prato in cui si insegnano tre lingue (il lunedì e il martedì si parla in italiano, il mercoledì e il giovedì in cinese mentre il venerdì e il sabato si parla in inglese) frequentato da bambini italiani, francesi, peruviani, marocchini, egiziani, rumeni e cinesi dai tre ai sei anni.

Prato, del resto, è una città con altissima immigrazione (le cifre ufficiali parlano di almeno trentamila persone) e ha inevitabilmente dovuto fare i conti con l’integrazione al di là dell troppe cretinate a cui dobbiamo assistere per ignoranza e per propaganda.

In tutto questo c’è anche il fatto che l’asilo “Isola felice” (perché sì, si chiama proprio così) è gestito da cinesi ma non è per niente una scuola cinese come ci si potrebbe aspettare seguendo la solita retorica delle comunità chiuse. La direttrice  Giulia Hu infatti si sente in dovere di chiarire: «Attenzione però, noi non siamo una scuola cinese di cinese c’è solo la gestione, siamo una materna parificata e dunque seguiamo gli standard ministeriali italiani». Evidentemente abituarsi a uno scambio bidirezionale è un’impresa.

Poi c’è la frase di una mamma italiana che racconta perché ha deciso di iscrivere il figlio: «Semplice: oltre a imparare tre lingue i bambini si abituano a vivere e a pensare in modo globale e multietnico. Il metodo pedagogico è eccellente, la scuola ben attrezzata, funzionale, ha ottimi servizi. Il futuro è multiculturale. Bisogna abituarci a convivere con più culture sin da piccoli».

E mentre leggevo la notizia pensavo che in fondo il futuro, quello che viene declamato con tanto ardore da alcuni aspiranti progressisti molto innamorati di se stessi, è già qui: immagino cosa pensano alla sera questi bambini e i loro genitori e questi insegnanti quando sentono filosofeggiare di modelli di integrazione che in realtà in Italia esistono già e funzionano benissimo. E chissà che non si sentano in colpa anche i dirigenti dei media, quelli che avrebbero l’obbligo di raccontare che l’integrazione funziona mica solo nei programmi elettorali, perfino negli asili funziona.

Buon giovedì.

Il coraggio di una visione di sinistra

«Quando mi sono messo a scrivere e riscrivere questo libro mi sono accorto che avremmo avuto il peggior governo della storia repubblicana, al netto di Tambroni», racconta Salvatore Veca parlando delle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere il libro Qualcosa di sinistra, idee per una politica progressista (Feltrinelli). «Ciò che mi faceva impressione è che pochi parlassero, pochi proponessero idee, pochi prendessero in considerazione il senso della sinistra nel XXI secolo», approfondisce. «La mia generazione ha tentato di fare qualcosa in questo senso, ora il nostro dovere è passare il testimone, trasmettere un sapere, fare in modo che certe culture politiche permangano» dice il filosofo a proposito dei temi ai Dialoghi di Trani sono stati al centro di un incontro al quale ha partecipato anche la filosofa e saggista Elena Pulcini.

Professor Veca, una sinistra degna di questo nome dovrebbe lavorare, innanzitutto, per la piena applicazione dell’articolo 3 della Carta che parla di uguaglianza e di rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona?
È questo il punto centrale. L’articolo 3 della nostra Costituzione è la stella polare. Ma dei due commi dell’articolo 3 il ceto politico contemporaneo temo non sappia nulla, o quasi. Allargando lo sguardo al quadro europeo è importante rimettere al centro l’articolazione della pari dignità delle persone, cardine della carta di Nizza. Gli obiettivi e gli ostacoli da rimuovere? Li troviamo anche nell’agenda 2030 approvata dall’assemblea generale dell’Onu nel 2015: riguardano lo sviluppo sostenibile, la lotta alla povertà, la parità di genere, la lotta alle disuguaglianze, al cambiamento climatico, alla desertificazione. E poi lavoro dignitoso per le persone, economia circolare, inclusione.

L’agenda politica per una sinistra del XXI secolo deve avere alla base indirizzi di giustizia intergenerazionale, come lei ha scritto.
Dobbiamo far coincidere giustizia sociale e ambientale. Sono principi inestricabilmente connessi all’idea di una nuova umanità e di un solo pianeta. “Abbiamo una tecnologia tale che potremmo distruggere un intero pianeta, ma non ne abbiamo abbastanza per costruirne un altro”, diceva uno scienziato come Stephen Hawking. Dunque il compito principe delle formazioni politiche è ridurre le disuguaglianze, in una visione non solo europea, ma universalistica, globale. Dobbiamo impegnarci per la globalizzazione della giustizia, dei diritti, contro la globalizzazione dei mercati, che oggi sono oligopoli globali. Lo vediamo ogni giorno con le politiche distruttive di Trump, di Bolsonaro in Amazzonia e di Putin che fa bruciare la Siberia, mentre la Cina sta ridisegnando profili di green economy per un predominio globale.

Contro tutto questo si stanno muovendo le nuove generazioni, sta emergendo una nuova sensibilità?
Mentre stavo scrivendo questo libro lessi un trafiletto su un giornale: parlava di una ragazzina che andava davanti al Parlamento per parlare di equità sociale e ambientale, di sviluppo sostenibile. L’impegno di Greta Thunberg mi colpì subito moltissimo. La questione sollevata dai giovani dei Fridays for future è dirimente. Serve una prospettiva di sviluppo multidimensionale non di crescita unilaterale. Quale visione ha delle persone e della responsabilità la sinistra? Vorrei si ragionasse su questo. Senza visione non ci può essere un vero cambiamento. È stato detto che le ideologie non esistono più. Ma alcune forme persistono, eccome: il populismo è ideologia. Il liberismo è una ideologia. Lo è il sovranismo, che racconta balle, leggende metropolitane. Perché non dovremmo contrastarle sul piano della visione e proporne una nostra contro gli imprenditori politici della paura e i trafficanti della disumanità?

Oltre ad un bagno di realtà alla sinistra oggi servirebbe uno scatto di immaginazione e di coraggio?
Il dato di realtà ci dice che oggi le sinistre in Europa sono ormai in una situazione di declino severo. Ad eccezione della Spagna e del Portogallo il centrosinistra è in crisi ovunque, se guardiamo alla Francia i socialisti sono ridotti ai minimi termini. Nelle regioni scandinave le socialdemocrazie storiche sono fronteggiate da forme di populismo e altre forme reazionarie. In Italia abbiamo visto un declino costante del Pd e anche Leu, Sinistra italiana ecc. non raggiungono grandi numeri. L’Austria che era straordinariamente modellata dalla socialdemocrazia oggi è in preda alle destre. La Germania riunificata ha visto crollare l’Spd, mentre avanza l’estrema destra. È vero, il Labour guidato da Corbyn è un’altra cosa, ma la patria del parlamentarismo oggi si ritrova con Boris Johnson che come Carlo Stewart vuole sospendere il Parlamento.

Dove affondano le radici di questa crisi diffusa?
Non è facile rispondere in modo sintetico. Comincerei col notare che oggi le forme di azione collettiva (come lo erano i partiti di massa a largo insediamento sociale) si sono modellate su una certa pelle della società. Una volta al centro c’era la classe operaia in lotta contro lo sfruttamento e si faceva avanzare il benessere lottando per i diritti di coloro che ne erano privati. Il corpo a corpo con il capitalismo è stato questo nella nostra tradizione, una intensa dialettica sulla base di una visione e sulla base di una utopia realistica.

Ora questo tipo di società ha subito una grossa trasformazione?
Certe élite dirigenti delle sinistre non si sono accorte che stavano perdendo progressivamente la base, hanno cercato di nascondere l’emorragia di rappresentanza politica e sociale. E hanno semplicemente cercato di ottenere i migliori compromessi negoziali con il capitalismo mondiale.

E non hanno più parlato in termini di classe?
È difficile oggi ragionare in termini di classe perché la società è fortemente individualizzata. Gli operai ci sono, non è che siano spariti. In termini numerici ci sono ancora, ma è la classe operaia che è venuta a mancare. Non ci sono più i luoghi di produzione che hanno accompagnato il fordismo, il toyotismo eccetera. Oggi il massacro del lavoro è una realtà mondiale. E chi ha preso in carico, in modi nefasti, le sofferenze della società? La Lega, l’Afd, la Le Pen, Forza nuova. Se non hai una visione, non una prospettiva utopistica in senso negativo, ma una prospettiva di emancipazione che apra archi di speranza, non riesci a comunicare a milioni di persone.

Esiste sperò una realtà diffusa di movimenti di opposizione alle politiche razziste e di esclusione.
C’è l’Italia del volontariato, dei movimenti di base, dell’impegno civile, l’Italia di chi è utile a sé e agli altri, c’è l’Italia che fa integrare gli immigrati, ma non viene valorizzata, se tu non fai leva sulla visione sei preda di quelli che predicano il cinismo, sei preda dei professionisti della paura o dei Masaniello, diciamoci la verità.

Pensa che la «politica del disumano, razzismo, fascismo strisciante» abbia finalmente subito una battuta d’arresto, dopo questa crisi di governo? C’è stata una tenuta parlamentare e democratica che ha fatto un cordone sanitario intorno a chi chiedeva pieni poteri…
Della parlamentarizzazione della crisi va dato atto anche al presidente del Consiglio Conte, che è apparso come… una specie di Zelig. Dalla fine di luglio Conte ha assunto una certa autonomia, ha ordinato al ministro dell’Interno Salvini di far sbarcare almeno i minori a bordo della nave della Ong Open Arms . Ho avuto anche l’impressione che questa crisi di governo riaccendesse l’interesse della popolazione verso la politica. Anche il Pd è rientrato in gioco (anche se su questo dovremmo mettere della clausole di prudenza). Il tentativo di Zingaretti di tenere insieme una comunità politica, l’atteggiamento di interesse espresso dai cittadini sono cose molto positive, innescate dalla più goffa e suicida manovra parlamentare di uno “stupido” che ha chiesto pieni poteri dimenticandosi che c’è un Parlamento, che c’è un presidente della Repubblica, che ci sono contrappesi democratici ecc.

Qual è la sfida ora?
La vera sfida adesso è cercare di costruire un governo di legislatura. Ci sono cose, purtroppo, che non puoi non fare. È chiaro che purtroppo questa finanziaria sarà una catastrofe sulla pelle delle persone. Però non puoi non farla. Bisogna disinnescare l’aumento dell’Iva, bisogna riportare l’economia sotto i paramenti europei che però, potranno anche essere ammorbiditi. Andare alle elezioni a novembre era irresponsabile, ma se dopo una manovra lacrime e sangue non sono in grado di mettere in moto un’agenda democratica e di legislatura allora lasceranno un grande campo alla destra.

Prioritaria è l’abolizione dei due decreti sicurezza su cui anche il presidente Mattarella ha fatto importanti rilievi?
È fondamentale. Io avrei preferito che il presidente Mattarella non li firmasse. Io sono stato fra quelli che hanno lanciato una petizione perché evitasse di firmare perché sono due provvedimenti totalmente e chiaramente incostituzionali e contro il diritto internazionale. Anche qui è una questione di visione. Non servono tattiche momentanee, occorre vedere che l’immigrazione è un fenomeno strutturale. Se hai questa visione della migrazione allora sì che puoi avere voce in Europa.

Prioritario è anche un piano di investimenti per la scuola e la ricerca?
Siamo molto al di sotto dei parametri previsti dal trattato di Lisbona per quanto riguarda gli investimento in education, ricerca, scuola, università. L’idea dello sviluppo sostenibile non è solo un obiettivo etico di responsabilità verso se stessi e verso il mondo e le generazioni future, ma è anche un’opportunità di lavoro. Dobbiamo ripartire dall’articolo 1 della Costituzione perché oggi il lavoro è diventato un’avventura di schiavitù, di precariato, di caporalato al sud come al nord con i migranti costretti a lavorare per un euro e 50 all’ora. In questo quadro una manovra lacrime e sangue è accettabile solo c’è una grande agenda di costruzione del futuro. I ragazzi van via perché non hanno futuro. Pretendiamo un’agenda per il futuro e per ragionevoli speranze.