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Il pietismo come clava

BOLOGNA, ITALY - JANUARY 20: Italian musician and composer Ezio Bosso conduces the Mozart Orchestra in a concert to honour the graet musician Claudio Abbado at Teatro Manzoni on January 20, 2019 in Bologna, Italy. (Photo by Roberto Serra - Iguana Press/Getty Images)

Il politicamente corretto che vorrebbe (giustamente) contrapporsi alla marmaglia di cattivisti che popolano questa nostra contemporaneità questa volta è inciampato su se stesso, meritandosi una piccata risposta direttamente dalla persona in causa, il direttore d’orchestra Ezio Bosso.

È notizia di qualche giorno fa (ma era una notizia davvero o forse era una giusta notizia per un giorno in cui nessuno sapeva cosa scrivere?) che il musicista si sarebbe “ritirato” dalle scene a causa della malattia degenerativa che lo affligge. I titoloni sparati a piena pagine erano tutti lacrimevoli addii a un pianista che pianista non è mai stato (Ezio Bosso è un direttore d’orchestra e un ottimo compositore che come tutti i direttori d’orchestra e compositori suona anche il pianoforte) tanto per spingere un po’ sul pietismo che consente di avere qualche clic in più.

La risposta migliore è di Ezio Bosso:

«Comunicazione di servizio. Chiariamoci bene: SONO MOLTO FELICE PERCHÉ FACCIO IL MIO MESTIERE DI DIRETTORE

Ieri abbiamo parlato di tante cose belle all’incontro (alla Fiera del Levante di Bari, ndr), di etica, società, bellezza e soprattutto di musica. E facciamo cose ancor più belle con le orchestre. Quelle che sogno e ho sognato tutta la vita

Purtroppo è stato dato inutile risalto in maniera sciacalla come sempre al pregiudizio su di me. E questo si che fa male.

Ho solo risposto (come dovreste aver notato) che non faccio più concerti da solo al pianoforte perché lo farei peggio che mai e già prima ero scarso cosa che avevo già annunciato 2 anni fa. MA CONTINUO A FARE MUSICA E MEGLIO DI PRIMA! NON MI SONO RITIRATO.

Sono felice di ciò che faccio tantissimo! Ma mi addolora quando si insiste col pianoforte perché non so dire di no, faccio molta fatica e non ho abbastanza qualità. Ma soprattutto perché non si vede la bellezza di altro, quello per cui lotto.

E mi addolora che per quanto combatta contro le strumentalizzazioni, si scade sempre in quel pietismo sensazionalistico e queste cose si che mi farebbero ritirare davvero…»

In fondo ha ragione lui: le persone peggiori sono quelle che usano il pietismo per nascondere la forza di qualcuno e sbattere in prima pagina le sue debolezze come se fossero l’unica matrice del suo stare al mondo. Peggio dei cattivi ci sono i finti buoni che infilano il coltello con la faccia dolce e impietosita e come quegli altri sono capaci solo di raccontare una persona attraverso gli unici particolari che ne colgono. Perché sono ineducati alla complessità, anche loro.

Buon mercoledì.

Ora che Renzi se n’è andato

Matteo Renzi al bar della sede Rai di via Teulada prima della registrazione di "Porta a porta", Roma, 17 settembre 2019. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Riceviamo e pubblichiamo l’opinione di Gabriele Beccari dottorando in Economia e Finanza.

Scrivo di getto dopo aver letto che finalmente Matteo Renzi ha abbandonato il Partito Democratico. La notizia era già da tempo nell’aria ma adesso che è diventata ufficiale e la linea è stata tracciata, c’è l’auspicio che chi resta guardi al passato per chiedersi cosa sia successo in questi 15, forse 16, anni e perché un partito di sinistra abbia potuto lasciare che un uomo di destra diventasse presidente della Provincia di Firenze a 29 anni, sindaco di Firenze a 34, segretario nazionale a 38 e presidente del Consiglio a 39, sotto i suoi simboli.

Uno potrebbe fare una semplice considerazione, e cioè quella che il Partito Democratico non è un partito di sinistra, che non è altro che quello che in gergo politologico viene definito un partito pigliatutto, ovvero una formazione politica con ideali interpretabili, e trattabili, pur di allargare lo spazio d’influenza.

Certamente la conclusione a cui si arriva alla fine di ogni ragionamento, alla fin fine, è sempre questa, ma nonostante tutto continua a non soddisfarmi in pieno perché il Pd non è sempre stato il partito di Matteo Renzi, e lo so che a dirla oggi sembra una cosa difficile da credere, ma ricordo che c’è stato un momento in cui la sua componente di sinistra era predominante, fosse anche solo per un fatto di tradizione.

In altre parole il Pd si è ammalato, e adesso che l’agente patogeno ha fondato un nuovo partito, dobbiamo indagare le cause della malattia, studiare i sintomi e cercare di capire perché in 15 anni gli anticorpi non hanno funzionato.

Partiamo da quello che riusciamo a ricordarci dei primi anni: nel 2007 chi scrive iniziava il liceo, nel centro di Firenze, in un turbinio di problemi adolescenziali, e iniziava anche ad appassionarsi di politica. Il Partito Democratico stava nascendo dalla fusione tra i Democratici di Sinistra e la Margherita, per ricercare la sintesi tra l’ala sinistra della Democrazia Cristiana e il vecchio Partito Comunista, con l’eccezione di Rifondazione che se n’era andata dal Pci già nel 1991, per cambiare il sistema partitico italiano in senso bipolare.

Renzi era già presidente della Provincia, anche se per la grande maggioranza degli elettori restava uno sconosciuto. Fu eletto nel giugno 2004 con il 58,74% dei voti all’interno di una larghissima coalizione che comprendeva i Ds (37,12%), la Margherita (9,10%), i Comunisti italiani (4.63%), i Verdi (3,47%) e altri partiti minori. Non c’era Rifondazione, che invece si presentò con un proprio candidato e prese in solitaria il 9,06%.

Degli anni fino al 2007 però, politicamente, non mi ricordo granché: ero troppo piccolo… sarebbe interessante una ricerca più approfondita perché è curioso notare come Renzi non fosse uno dei Ds bensì segretario provinciale de la Margherita, partito in larga minoranza all’interno della coalizione dominata invece dai Ds, che però nel 2004 esprimeva al livello nazionale il leader unitario dell’Ulivo Francesco Rutelli.

Leggendo i giornali del tempo viene anche il sospetto che Renzi venti anni fa non fosse tanto diverso da com’è ora: titolava infatti la Repubblica il 9 luglio 2004 “Renzi vara la giunta, malumore ds”. A leggerlo adesso, un titolo adatto a molte situazioni, basta sostituire ds con Pd.

Qualche anno dopo, nel 2008, la campagna delle primarie per il sindaco di Firenze è nel vivo; a sfidarsi ci sono numerosi candidati: Graziano Cioni “lo sceriffo”, Daniela Lastri, Lapo Pistelli (con cui collaborava Luca Lotti), Michele Ventura (sostenuto allora da una giovanissima avvocatessa, Maria Elena Boschi) e Matteo Renzi. Nessuno si aspettava che vincesse Renzi ma, come succede quando tutto deve andare storto, in pochi mesi ci fu il patatrac, e prima che qualcuno ci capisse qualcosa, quello che non doveva succedere successe.

Successe quindi che Graziano Cioni, membro della giunta uscente, famoso per essersene uscito fuori con un’ordinanza anti mendicanti e anti lavavetri che fece parlare a livello nazionale, finì a processo per corruzione per poi essere assolto anni dopo in Cassazione. A Cioni venne comunque chiesto di ritirarsi dalla corsa; non era un granché come candidato e in pochi se ne dispiacquero.

Tra quei pochi c’era però lo stesso Cioni che rilasciò una dichiarazione ai giornalisti: «Mi ritiro perché mi avete cacciato. Però resto nel Pd ma non resterò a guardare», e in molti capirono, come sottolineò anche Il Tempo in un articolo di quel periodo, che queste parole non erano altro che un “«avvertimento» al fatto che i suoi voti (sarebbero confluiti) su Matteo Renzi”.

Nel frattempo il Pd a livello nazionale non se la passava bene: la segreteria di Veltroni aveva perso tutte le elezioni in cui il partito si era presentato, e i malumori si facevano sentire. È in questo clima di generale spaesamento, e in mezzo a varie accuse (da più parti) di aver invitato al voto elettori di centrodestra, che Matteo Renzi vinse le primarie, e dato che è Matteo Renzi, le vinse con il 40% dei voti, diventando candidato sindaco.

Fu una cosa davvero inaspettata, Pistelli incredulo non chiamò personalmente Renzi per le congratulazioni ma fece sbrigare la formalità al suo capo staff, così girava voce; Daniela Lastri disse: «Adesso dovremo aprire una riflessione nel Pd: c’è stata una frammentazione nell’ambito dell’elettorato di sinistra». Fuori dal Pd, il candidato di Rifondazione Prof. Valdo Spini disse: «La domanda è: dove è finita la sinistra fiorentina?».
In pratica, tutti sapevano che era stato eletto un tipo di destra, non c’erano dubbi: lo sapevamo anche noi ragazzi del liceo.

Da cui appunto la vera domanda: dove era finita la sinistra fiorentina, e dopo di lei, dov’è finita la sinistra nazionale? Siamo partiti con l’idea che Matteo Renzi fosse la causa della malattia del Pd, ma se fosse invece la conseguenza di un sistema immunitario già debilitato?

Renzi è sempre stato Renzi, non si è mai presentato come un rivoluzionario, casomai come rottamatore. Mentre era sindaco venne proposto un cimitero dei feti a Trespiano, quando era segretario di partito l’Unità ha chiuso e da presidente del Consiglio ha attaccato la Costituzione, com’è possibile che la sinistra abbia permesso tutto questo?

Bisogna insomma capire perché non è stato notato che un Renzi qualunque voleva sparare cannonate contro quello che rimaneva della sinistra, con i voti della sinistra.

Adesso che se n’è finalmente andato forse potrebbe essere un po’ più semplice capire, ma questa è una riflessione che va fatta alla svelta, perché non sono molto fiducioso che il Governo Conte II riuscirà a tenere lontano Salvini a lungo, e quando ritorneremo a votare la sinistra avrà la responsabilità politica di non far cadere il Paese nelle mani della destra.

Sarà meglio che per allora abbia le idee chiare, perché a non averle si fanno pasticci facendo credere alle persone che Renzi sia di sinistra o peggio che sia l’unico argine a Salvini; e questa credo sarebbe una cattiveria.

E moh, Calenda?

Carlo Calenda, durante il dibattito ?Il bivio della sinistra? in occasione dei 10 anni de Il Fatto Quotidiano, presso il Parco la Versiliana, Marina di Pietrasanta, (Lucca) 31 agosto 2019. ANSA/ FRANCO BOLZONI

L’ondata di giubilo che ha attraversato il Paese per il parto del Contebis è stata turbata da un cruccio: “E moh, che fa Calenda?”. Questa la domanda che turba le notti italiane di fine estate. No, Calenda non è d’accordo. Si è iscritto da poco al Pd, ma minacciando subito di lasciarlo, e già quella minaccia seminò il panico. Ora, da parlamentare europeo del Pd in calzoncini corti, il gemello cicciotello di Renzi dichiara a stampa e Tv unificate che lui no, non è d’accordo.

Ora la domanda “E moh, che fa Calenda?” sarebbe meno drammatica se non fosse preceduta da un’altra domanda ancora più diffusa e inquietante: “Ma chicazzè Calenda?”, che ha fatto costui nella sua giovane vita, da dove viene, chi o che cosa rappresenta? Ah, saperlo, saperlo!

Il fatto è che fra i poteri del potere è decisivo – lo sappiamo bene tutti – il monopolio dell’informazione (le eccezioni come Left si contano sulle dita della mano di Capitan Uncino), ma questo terribile potere non consiste solo nell’occultare le notizie, consiste anche nel creare ex nihilo (dal nulla) le cose, e le persone.

Che l’informazione occulti le notizie che non si devono sapere lo sappiamo tutti. Per dirne una soltanto: qualcuno ci dice che fine ha fatto il venezuelano Guaidò, colui che si autoproclamò presidente del Venezuela, ricevendo subito oltre al plauso unanime dei media arruolati anche il pronto riconoscimento internazionale, in testa la Ue e la piddina Mogherini? Di Guaidò non ne sappiamo più nulla. Qualche maligno potrebbe spiegare questo assordante silenzio con il semplice fatto che il golpe targato Usa è stato sconfitto dal governo e dal popolo del Venezuela. Non ce lo fanno sapere, non lo sapremo mai.

È certo terribile, e ormai para-criminale, questo potere dei media del potere di non far sapere, ma non è meno importante il potere di creare dal nulla. Ogni tanto costoro si inventano qualcuno, qualche faccia, qualche personaggio, di solito qualche politico. Lo citano, lo intervistano, ne fanno il centro di progetti e proposte, e alle masse in attesa non resta che votarlo ubbidienti, quando dovranno farlo. Poi lo lasciano cadere.

Chi crea può anche annichilire. Qualcuno ricorda il banchiere Passera, o il buon Pisapia che – pochi mesi or sono – dovevano fare il Capo del Governo o l’atteso leader di tutta intera la “sinistra”? Lo stesso fu prima ancora (ricordate?) per Montezemolo, detto Luchino, ma almeno lui riportava il bastone ad Agnelli quando glielo tirava ai giardinetti per divertirsi. Ma uno come Pizzarotti? Perché dobbiamo sapere come la pensa il sindaco di una città medio-piccola come Parma, mentre non sappiamo nulla di cosa pensa il sindaco di Cremona o quello di Viterbo?

E Cottarelli, ricordate Cottarelli? Per un pomeriggio fu addirittura sul punto di presiedere il governo, ora si sa solo che ha vinto un lucrosissimo premio para-letterario. E la Polverini? Creata dal nulla con un bel po’ di apparizioni televisive a Ballarò, questa modesta sindacalista e di destra fu persino eletta presidente della regione Lazio.

Che ne è di lei? Persino Marco Rizzo, di cui si erano perse le tracce dopo che aveva votato con il governo D’Alema per i bombardamenti in Jugoslavia, ci dice ora la sua in Tv dalla Gruber o sulle colonne del Corriere della sera, con la modesta auto-qualifica di segretario del Partito Comunista (ma senza la ‘I’ finale), mentre altri segretari di altri partiti comunisti, nonostante tutto un po’ più consistenti, non si vedono né si sentono mai.

L’elenco degli inventati sarebbe troppo lungo, e davvero poco piacevole. E di solito questi creati dal nulla sono delle nullità.
Per ora accontentiamoci di capire che la creazione dei personaggi politici è parte non indifferente del potere mediatico che distrugge la democrazia assorbendola. Nel frattempo ci resta, irrisolto, il terribile rovello: “E moh che fa Calenda?”.

Il partito dell’Ego

Former Italian Prime Minister and PD (Democratic Party) Senator Matteo Renzi delivers a speech at the Senate, in Rome, Italy, 20 August 2019. ANSA/ ETTORE FERRARI

Alla fine è la sua natura: preferisce essere capo, esiste solo da capo e pur di fare il capo accetta di essere il capo di pochi, abbandonando un partito di molti. L’ego di Matteo Renzi è il suo principale avversario politico (sembra un alleato ma alla fine finisce sempre così, con tutti) e in nome del suo ego oggi l’ex segretario del Pd annuncerà la sua uscita dal partito per dedicarsi a una sua nuova creatura.

Lo farà da Vespa, e anche questo non stupisce: il salotto televisivo è un luogo in cui mostrarsi per intero, nella figura di leader come lo intendono questi politici 2.0, tutti spremuti a essere figure intere concentrate nel loro personale reality. E così il prode Matteo (l’altro, quello che avrebbe abbandonato la politica se avesse perso il referendum che poi ha perso) alla fine ha capito benissimo che facendosi il partito tutto suo (e i “suoi” gruppi alla Camera e al Senato) risulta indispensabile nella tenuta del governo, pur essendo minuscolo, come gli hanno insegnato gi andreottiani stili su cui si è formato.

E in fondo è solo un ulteriore passo della politica dell’Ego che sta prendendo piede in questi anni e che è riuscita a trasformare una pratica comunitaria e sociale (la politica, appunto) in un palcoscenico di protagonisti e di seguaci, senza nessuna funzione assembleare e senza nessun spirito che funga da collante.

Come nel film di Nanni Moretti la domanda che attanaglia molti (troppi) è sempre la stessa: “mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in disparte”? La funzione pubblica è riservata all’accrescimento della propria popolarità. Solo questo.

E ora, c’è da scommettere, sarà Renzi il nuovo Matteo che scorrazzerà tra le righe del governo illudendosi di poter fare il bello e il cattivo tempo. Perché il problema resta sempre lo stesso: cambiare i modi, oltre che le persone.

Buon martedì.

Cristiano Godano e il gioco della scrittura

Leggendo il libro Nuotando nell’aria (La nave di Teseo) mi ha colpito innanzitutto come tu sia stato capace di metterti a nudo. Per chi non ti conosce, potrebbe essere una sorpresa sapere come tu sia in realtà una persona molto sincera, passionale e diretta. Lo sei sempre stato. Tuttavia ora, che festeggiate i trent’anni di carriera, senti che qualcosa è cambiato in te?
Non riesco a vivere queste ricorrenze con il peso che si presume si porterebbero dietro. Non ci penso, e dunque non penso molto al fatto che siano passati trent’anni – e se ci penso mi stupisco più che altro con un bel “wow” interiore di autocompiacimento. Di sicuro sono sempre stato uno che non ha mai amato l’ipocrisia delle paraculaggini, per cui di ciò che poteva riguardare i Marlene Kunto il sottoscritto nella loro intima essenza o nei confronti col mondo, ho sempre gradito non nascondere nulla o quasi, né fingere una cosa al posto di un’altra, come invece si usa fare in genere per ovvie convenienze. È un tratto caratteristico che potrebbe a volte aver nuociuto alla nostra carriera. Giusto un po’. Ma tant’è: siamo ancora qua…

Ho trovato molto interessanti i numerosi spunti che dai riguardo al momento creativo della scrittura dei testi. Ad esempio, quando parli della sensazione di “tensione” che si prova nel tentativo di arrivare alla giusta soluzione e del “rilassamento” quando si giunge a un punto. Ribadisci anche in questo libro che la scrittura per te ha a che fare con il “gioco”. Comprendo bene quanto intendi: un “gioco” degli incastri per tradurre delle immagini in parole che suonano bene dentro a uno schema musicale. Tuttavia a mio parere, alla base della scrittura c’è sempre un guizzo della fantasia, quell’“araba fenice” che nasce nella «convivenza del sogno e della veglia» per citare Montale da te riportato, che l’esperienza del mestiere aiuta a sapere incanalare meglio. Ovvero: quella sensazione di tensione non è solo paura del foglio bianco, ma l’araba fenice stessa. Possiamo affermare una cosa simile?
Certo che sì: quanto ho detto non cozza con quanto sostieni tu. Non negano, le mie parole, la componente della fantasia, che anzi ritengo – e come potrebbe essere altrimenti? – essenziale. La fantasia poi può esserci in grande quantità o meno e proprio grazie al gioco essa può essere favorita e spremuta. Come spero di aver dimostrato nel libro, non si tratta di un gioco banale: si tratta semplicemente di capire che un buon componimento arriva da qualche stratagemma utilizzato dall’autore, dando per scontato, o cercando di dimostrarlo, che un testo per una canzone non arriva come per incanto bello e finito da quel guizzo di fantasia di cui parli. Quel guizzo, al limite, regala all’autore uno o due versi (il “sogno” stando a Montale), ma poi il resto arriva grazie agli stratagemmi dell’autore (la “veglia”, sempre secondo Montale). E io, per necessità di sintesi, ho individuato nel “gioco” la parola che potesse riassumere questi..

L’intervista di Giulia Villari prosegue su Left del 6 settembre 2019

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Nuove accuse di molestie contro il giudice antiabortista nominato da Trump

epa07150004 YEARENDER OCTOBER 2018 US President Donald J. Trump, with Supreme Court Associate Justice Brett Kavanaugh (L), delivers remarks prior to the ceremonial swearing-in in the East Room of the White House in Washington, DC, USA, 08 October 2018. Justice Kavanaugh was sworn in as the 114th Justice of the Supreme Court on the evening of 06 October. EPA/SHAWN THEW

Negli Stati Uniti si torna a parlare di impeachment. Questa volta non per il presidente Trump ma per un giudice della Corte suprema da lui nominato, Brett Kavanaugh. Un articolo del New York Times ha portato alla luce un ulteriore caso di presunte molestie sessuali contro una donna a carico del togato, dopo quello denunciato da Christine Blasey Ford lo scorso ottobre che aveva fatto discutere in merito alla sua nomina. Stavolta è Deborah Ramirez che sarebbe stata molestata da Kavanaugh ai tempi di Yale. Durante l’inverno del suo primo anno all’università, Ramirez si sarebbe imbattuta a una festa in Kavanaugh, il quale, molto ubriaco, avrebbe tentato di coinvolgerla in attività sessuali che lei non desiderava. 

Si moltiplicano dunque i casi di comportamenti sessualmente inappropriati che vedono il giudice come protagonista. L’articolo del New York Times anticipa un libro in cui sono raccolte ulteriori testimonianze contro Kavanaugh. Mentre si era dubitato della veridicità della vicenda di Christine Blasey Ford, adducendo come scusa i tanti anni passati nel silenzio, il caso di Deborah Ramirez non era passato inosservato già negli anni Ottanta, quando accadde il fatto. Secondo Robin Pogrebin e Kate Kelly, le autrici del libro The education of Brett Kavanaugh: an investigation, l’episodio della festa al campus sarebbe stato oggetto di discussione tra gli studenti e almeno sette persone, tra cui la madre di Ramirez, sarebbero state al corrente dell’accaduto. In più Max Stier, un compagno di corso di Kavanaugh, ha raccontato che durante il suo anno da matricola lo aveva visto ubriaco e senza pantaloni a una festa in dormitorio. L’episodio era già stato segnalato all’Fbi in precedenza, che però non ha proseguito le indagini dicendo che la ragazza coinvolta non aveva voluto essere interrogata e che i suoi amici non ricordavano l’episodio.

Le nuove accuse al giudice Kavanaugh assumono un peso politico, oltre che giudiziario, in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2020. Nonostante manchi ancora più di un anno, l’atmosfera è già calda soprattutto per i candidati del Partito democratico, che si stanno fronteggiando nelle primarie. La senatrice Kamala Harris, che viene data tra i primi cinque nella classifica di chi si aggiudicherà il ruolo di candidato ufficiale alla Casa Bianca, ha twittato che Kavanaugh, durante il suo processo, ha mentito al Senato e al popolo americano e che per questo deve essere cacciato. Harris era tra i legali che lo scorso ottobre hanno analizzato le carte del procedimento contro di lui. Solo un giudice nella storia della Corte suprema è stato coinvolto in un processo per impeachment, ed è stato assolto. L’anno? Il 1805.

Anche altri candidati Dem stanno seguendo la linea di Harris, compresi Julian Castro, Elizabeth Warren e Beto O’Rourke. Alcuni, come Joe Biden e Bernie Sanders, hanno chiesto solo di approfondire le indagini, ma senza arrivare a parlare di impeachment. Voci di forte protesta vengono anche da alcune delle deputate di The Squad, il gruppo di rappresentanti attaccate a luglio dal presidente Donald Trump per le loro presunte origini straniere. Ayanna Pressley, che lo scorso anno aveva presenziato insieme alla collega Alexandria Ocasio-Cortez a numerose manifestazioni di piazza contro la nomina di Kavanaugh, ha twittato un breve messaggio chiuso dall’hashtag #ImpeachKavanaugh. Anche Ilhan Omar, rappresentante del Minnesota alla Camera, ha dichiarato che aprire un processo per impeachment non solo contro Kavanaugh, ma anche contro Trump è un dovere costituzionale dei deputati. 

Anche Ilhan Omar, rappresentante del Minnesota alla Camera, ha dichiarato che aprire un processo per impeachment non solo contro Kavanaugh, ma anche contro Trump è un dovere costituzionale dei deputati.

Il valore politico della Corte suprema è enorme perché è un organo fondamentale negli Stati Uniti, avendo il compito di emettere (o abrogare) sentenze che hanno valore di legge federale. Un caso tra tutti è la storica “Roe contro Wade”, decisione del 1976 che rende l’aborto legale in tutta la nazione. Kavanaugh è un convinto antiabortista, che non avrebbe problemi a votare a favore dell’abrogazione della Roe. Attualmente i Repubblicani detengono la maggioranza non solo al Senato, dove si discuterebbe l’impeachment, ma anche alla Corte (cinque giudici contro quattro). A causa dei diversi problemi di salute che hanno colpito la giudice Ruth Bader Ginsburg, nominata nel 1993 da Bill Clinton, non è così improbabile che chi vincerà le elezioni 2020 si trovi nella condizione di nominare un nuovo giudice. Se verrà riconfermato Donald Trump alla Casa Bianca, i Repubblicani cementerebbero così la loro maggioranza alla Corte sottraendo un seggio ai Dem.

La politica con il fiato corto

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, durante le comunicazioni sul Consiglio europeo del 20 e 21 giugno nell'aula di Montecitorio, Roma, 19 giugno 2019. ANSA/ETTORE FERRARI

Ora è la legge elettorale ma l’esempio è altamente simbolico e significativo: ciò che preoccupa più di tutto nella classe dirigente politica continua a essere il futuro prossimo per garantire la propria piccola rendita personale.

Non ci vuole un genio ad esempio per capire che la progettazione di una nuova legge elettorale sia un punto fondante per il buon funzionamento della democrazia: una buona legge elettorale permette una buona rappresentanza parlamentare e gli ultimi mesi della politica ci hanno raccontato perfettamente quanto il Parlamento sia organo sovrano per le scelte del governo.

Ci si aspetterebbe quindi che la classe dirigente (una classe dirigente degna di questo nome) affronti la discussione su un’eventuale riforma raccontandoci quali siano i vantaggi di una formula rispetto a un’altra, in termini di rappresentatività, di governabilità, di rispetto delle minoranze, di contrappesi della democrazia.

Invece niente. Invece è tutto un inseguire una previsione sulla prossima campagna elettorale (nessuno con uno sguardo un po’ più lungo delle prossime elezioni) cercando il meccanismo migliore per mettere fuori gioco l’avversario di turno. Si pensa alla legge elettorale come clava da agitare sulla testa del proprio nemico senza nessun rispetto allo spessore che il dibattito richiederebbe.

E, se ci pensate, funziona così anche per le scissioni di partito, le alleanze girevoli e mutevoli e per le riforme su economia e lavoro: si tratta la politica e il proprio ruolo nella politica come il servizio a un ristrettissimo arco temporale senza sentire nessun dovere di avere fiato e visioni lunghe.

E così tutto si riduce a discussioni sull’ieri e a immaginazioni solo fino a domani, come un chiacchiericcio senza nessuna pretesa, con una responsabilità ridotta al non affondare.

Ditemi chi di voi affiderebbe la conduzione della propria azienda, a un consiglio di amministrazione così.

Buon lunedì.

Studierai con… dolore e umilierai le donne

A gust of wind lifts bishop's mantle during at the end of an audience with Catholic schools at St Peter's square on May 10, 2014 at the Vatican. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

«Qualche volta viene quasi voglia di prendere a schiaffi i ragazzi per fargli tirar fuori un po’ di virilità…. Bisogna obbligarli a soffrire un po’ per costringerli a mettere da parte il proprio piacere, renderli più virili e condurli a maturare davvero. Una sofferenza moderata, certo, in conformità alla loro età e alle loro condizioni, non troppa ma neppure troppo poca». Chad Ripperger è un sacerdote statunitense seguace della Chiesa preconciliare e, stando a Wikipedia, è anche teologo, filosofo ed esorcista. Oltre ai tradizionali canali “ecclesiastici”, Ripperger è solito spargere le sue perle di saggezza oscurantista attraverso video su Youtube, con l’evidente consapevolezza di quanto questo sito sia frequentato dagli adolescenti. Il brano citato fa parte di un suo intervento di oltre un’ora intitolato “Come si forma un uomo”. La traduzione integrale in italiano a cura di Stefano Dal Lago è stata rilanciata in Italia su alcuni siti cattolici tradizionalisti. E fin qui nulla da dire anche perché saranno frequentati da qualche decina di nostalgici dell’Inquisizione et similia.

Ciò che invece vale la pena approfondire è il risalto che la scuola parentale San Pancrazio di Albano ha deciso di dare alle idee di Ripperger pubblicando alla fine di agosto sul proprio sito l’intero testo, probabilmente per meglio chiarire la mission educativa che in home page viene sintetizzata così: «Per riuscire nella missione educativa, vogliamo che i nostri figli siano formati cristianamente in tutti gli ambiti, istruendosi, educandosi e santificandosi. A questo rispondiamo con tre progetti: la scuola, il convitto e la spiritualità». E ancora: «La scuola cattolica, come la vollero i Papi, non è soltanto una scuola di cattolici. È una scuola dove tutto l’ambiente profuma di dottrina cristiana, dei suoi principî, della sua morale, delle sue esigenze come anche delle sue ricchezze spirituali. È una scuola dove l’intelligenza degli studenti è nutrita di cultura, ma anche illuminata dalla Fede. Vi si coltivano dei veri uomini, ma al contempo vi si forgiano dei veri cristiani». Cosa si intende per veri uomini in questo istituto scolastico privato che si trova all’interno di un collegio dei Padri levebfriani – preconciliari come Ripperger – e già tristemente noto alle cronache per aver ospitato le esequie del criminale nazista Erich Priebke, lo si evince dai brani del sacerdote nordamericano che alcune testate locali hanno riportato prima che l’articolo venisse eliminato dal sito e più in generale dal web (noi l’abbiamo recuperato dalla copia cache della Confederazione Triarii). 

«Oggi il maschio davvero attraente per una donna è…

L’inchiesta di Federico Tulli prosegue su Left in edicola dal 13 settembre 2019

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La rivoluzione culturale di Federico II

La leggenda del Puer Apuliae, il ragazzo discendente della dinastia sveva degli Hohenstaufen e, in quanto figlio di Costanza della stirpe normanna degli Altavilla, anche re di Sicilia, da quando Dante lo condannò nel canto X dell’Inferno tra gli eretici «che l’anima col corpo morta fanno» percorre sottotraccia, come un fiume carsico, la storiografia minoritaria dell’Europa laica.

Riemerge nel Novecento, quando il classico studio di Ernst Kantorowicz, sfidando lo zolfo della fama di Anticristo, nel 1927 raccontò di Federico II bambino che circolava libero per le strade della Palermo multietnica e trilingue dove, come già Apuleio aveva scritto nell’antichità, con il greco e il latino risuonava il “punico”. Dal IX secolo, con l’occupazione islamica durata oltre duecentocinquanta anni, l’idioma degli empori fenici dell’isola divenne l’arabo, lingua di una cultura raffinatissima rispetto a quella dell’Europa medievale, da lui appresa assieme al latte della balia.

Precocemente orfano di padre, dalla madre che si vociferava strappata alla vocazione monacale Federico fu affidato a Innocenzo III, pontefice preoccupato soprattutto della morsa in cui si sarebbe trovato, stretto tra nord e sud. Presto insofferente della custodia, il giovane si ribellò, ristabilendo militarmente il suo potere in Germania, per giungere all’avventurosa incoronazione a imperatore e poi a quella di re di Sicilia. Ingaggiando con il papato uno scontro epocale, provocò una sequenza di scomuniche, fino alla deposizione nel 1245. Un’enciclica dell’energico Gregorio IX giunse perfino ad accusarlo di proclamare che i profeti delle religioni monoteiste, Mosè, Cristo e Maometto, erano tre impostori. Affermazione che divenne nei secoli il manifesto dell’ateismo.
Sovrano eclettico e poliglotta, scelse…

L’articolo di Noemi Ghetti prosegue su Left in edicola dal 13 settembre 2019

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Solo le Ong ostacolano i trafficanti di uomini nel Mediterraneo

Il divieto di sbarco per il profughi a bordo della Mare Jonio, la nave di soccorso della missione Mediterranea, è stato uno degli ultimi colpi di coda del governo giallonero. Firmato da Matteo Salvini, Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli è rimasto in vigore dal 28 agosto al 2 settembre ed è stato seguito da un incredibile epilogo. Mentre l’autorità portuale concedeva il permesso di entrare in acque territoriali e far scendere a terra i migranti per «motivi sanitari», le Fiamme gialle consegnavano alla ong una multa da 300mila euro per aver violato la legge Salvini. Ora al governo la Lega non c’è più ma ci sono i Cinquestelle che hanno approvato le leggi sicurezza dell’ex alleato e controfirmato i suoi divieti. E c’è il Partito democratico che molto ha insistito sulla questione della discontinuità con l’esecutivo precedente come condizione per formare un nuovo governo insieme al Movimento5s.

Chissà se la discontinuità varrà anche in tema di immigrazione. Ne parliamo con Alessandra Sciurba, portavoce di Mediterranea.

La discontinuità, qualora ci fosse, dovrebbe avvenire non solo rispetto a questi ultimi 14 mesi. L’inizio di questa fase di disumanità ha una data, il 2 febbraio 2017, quando un ministro del Partito democratico riesce a far firmare al presidente del Consiglio Gentiloni il Memorandum di intesa con la Libia. È lì che si è passato il messaggio che pur di difendere le frontiere si può vendere l’anima, facendo accordi con un Paese che all’epoca non era in guerra civile, certo, ma era già governato da milizie, era costellato da centri di detenzione dove le persone venivano torturate, che non aveva firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Sei giorni e cinque notti. Tanto è durata l’ultima odissea di Mare Jonio. A bordo, assieme allo staff di volontari della ong c’erano 98 sopravvissuti. Profughi, strappati alle onde del mare la mattina del 28 agosto. Tra loro, 22 bambini sotto i dieci anni, altri sei minorenni, 26 donne, di cui almeno otto in stato di gravidanza. In fuga da violenze indicibili. Ma c’è chi ancora punta il dito contro le Ong.

Sono stati costruiti pregiudizi ad arte, che hanno creato una realtà parallela e spento lo spirito critico di una parte del Paese che non considera più i dati oggettivi e le sentenze dei tribunali. La verità è che la nostra è l’unica vera azione di disturbo nei confronti dei trafficanti, perché quando arriviamo noi, loro, travestiti da Guardia costiera, non possono ricatturare i profughi, per torturarli di nuovo, estorcergli ancora denaro, e così via.

Dopo aver salvato 237 esseri umani nel 2019, tra cui 27 bambini di meno di nove anni, almeno 10 sotto i due anni, con 7 missioni di soccorso effettuate grazie a 800 iniziative di sostegno in Italia e poco più di un milione di euro di crowdfunding (grazie al contributo di cittadini comuni, l’offerta media è di 25 euro) Mediterranea annuncia di non volersi piegare ad alcun ricatto.

Il grimaldello formale utilizzato per fermarci verrà presto distrutto in via giudiziale.