Home Blog Pagina 572

Banchi vuoti, la vergogna degli abbandoni scolastici

«Ecco quello è lo Zen». Dall’elicottero le operatrici indicano il quartiere e poi mostrano che è parte di Palermo. Combattere la dispersione scolastica può essere anche questo. Perché per ragazzi come Salvatore, 15 anni, lo Zen è lo Zen e Palermo è altro, è la città.
Per Saro, lo Zen è un quartiere come gli altri, non lo vede pericoloso o diverso. Quando va in centro, lui, come gli altri abitanti della zona, dice: «Vado a Palermo». La sua giornata inizia e finisce lì tra quei palazzi che sembrano una fortezza. In quell’isola di 16mila abitanti con un tasso di criminalità tra i più alti della città palermitana.

Il problema della dispersione scolastica in Italia non può essere affrontato senza conoscere le storie di ragazzi come Saro. Per molti non è reale. Non si riesce ad immaginare che un bambino di 7 anni non vada a scuola perché i genitori non lo svegliano e non lo accompagnano, nel migliore dei casi perché sono al lavoro per tutta la giornata e nel peggiore perché dormono ubriachi sul sofa. I numeri e le storie intorno a questo fenomeno però dimostrano come il welfare italiano e l’ascensore sociale in Italia siano precipitati e fatichino a risalire. Va detto subito che l’abbandono prematuro della scuola non è un fenomeno facile da misurare, perché, come sottolinea il centro studi Openpolis, richiederebbe dati in grado di tracciare il percorso scolastico del singolo studente. La scelta metodologica adottata a livello europeo è utilizzare come indicatore indiretto la percentuale di giovani tra 18 e 24 anni che hanno solo la licenza media (vedi grafico a pag. 32).

Saro poteva essere uno dei 130/140 mila alunni italiani che si calcola siano a rischio dispersione scolastica ogni anno (dati Save the Children 2017). Aveva anche lui rinunciato all’idea di prendere la licenza media prima di incontrare le operatrici di Varcare la soglia, il progetto della Fondazione Albero della vita attivo a Palermo. Ma quanti sono quelli che il percorso di studi non lo terminano e che abbandonano la scuola senza ottenere alcuna qualifica? Il loro futuro quale sarà? L’indicatore europeo sugli Early school leavers stima che nel 2018 in Italia il 14,5% dei giovani…

L’articolo di Eleonora Aragona prosegue su Left in edicola dal 13 settembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

Un mare di accoglienza e di possibilità

Se decollerà un nuovo governo Pd-M5s all’altezza dei problemi del Paese dovrà rappresentare una svolta reale rispetto al primo governo Conte. Non basta cambiare i nomi, cosa peraltro piuttosto complicata. Bisogna cambiare radicalmente la visione e le prospettive del nostro Paese, a partire da una rinascita del Mezzogiorno, e dalla proiezione dell’Italia verso il Mediterraneo.

Purtroppo, anche per i modi in cui è maturata la crisi e si sono determinate le condizioni che potrebbero portare ad un auspicabile rovesciamento di fronte, nei punti elencati da Zingaretti, al di là della genericità, non si coglie il rovesciamento dell’approccio al modello di sviluppo del nostro Paese, che ha prodotto un’Italia diventata sempre più diseguale sul piano sociale e territoriale. Né alcun richiamo ad una diversa politica verso il Mediterraneo. Come certifica l’ultimo Rapporto Svimez, la diseguaglianza tra Nord e Sud è diventata una voragine che rischia di travolgere l’intero Paese. Ed il Sud, in un’Italia aggrappata alle Alpi sarà sempre marginale. Né serve parlare di Mezzogiorno come un’appendice al programma generale di governo, come si è fatto per tanto, troppo tempo, (la scuola, la sanità, i giovani, le donne… e bla bla bla). Nel contempo noi continuiamo ad essere sempre più dentro il Mediterraneo e alle dinamiche complesse che in quest’area si producono, a cominciare dai fenomeni migratori, senza una politica mediterranea ad ogni livello.

Men che meno con una strategia di accoglienza, inclusione, assimilazione, integrazione, da cui i nostri governi e tante nostre comunità locali fuggono per non rischiare l’impopolarità. E quando una comunità locale come Riace mostra la praticabilità e la ricchezza di un altro approccio al fenomeno, diventando un modello ed un simbolo a livello mondiale, viene…

L’articolo di Tonino Perna e Mimmo Rizzuti prosegue su Left in edicola dal 13 settembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

L’Amazzonia continua a bruciare e solo gli indios difendono la grande foresta

Un «universo monumentale». Con queste parole l’antropologo Claude Lévi-Strauss definì l’Amazzonia dopo il suo viaggio in Brasile, nel quale tratteggiò il ritratto di tribù mai venute in contatto con la civiltà. Oggi, quell’universo e quelle tribù, sono sotto attacco. Legittimati dalle sciagurate politiche ambientali di Bolsonaro – che ad aprile si autonominava «capitan motosega» – gli agricoltori brasiliani, e in particolare i grandi latifondisti, hanno preso ad innescare incendi per abbattere la foresta pluviale e ottenere così terre da coltivare e pascoli. Ma anche per mettere in fuga le popolazioni indigene che la abitano, considerate un ostacolo per i loro affari, oppure ancora per cancellare le prove delle proprie attività di disboscamento illegale. I dati comunicati dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali brasiliano, l’Inpe, indicano nel 2019 un aumento dell’80 per cento degli incendi nella grande foresta pluviale rispetto al 2018 (e pure un +103% in Bolivia e un +143 in Guyana). I roghi censiti dall’Istituto in tutto il Brasile dall’inizio dell’anno (fino a fine agosto) sono stati 82.285, il 51,9% dei quali si è sviluppato nel bioma amazzonico. E secondo le informazioni della Nasa, raccolte dal progetto Global fire atlas, i fuochi divampati da gennaio negli Stati di Amazonas (12.577) e Rondônia (12.955), nella zona nord-ovest del Paese, sono superiori al totale dei tre anni precedenti. «Ma – osserva Yurij Castelfranchi, professore associato di Sociologia dell’Università federale di Minas Gerais – sono gravissimi anche il restante 30% degli incendi in Brasile, quelli innescati nel bioma Cerrado, la savana tropicale, perché colpiscono un’area ad altissima biodiversità, di straordinaria importanza ecologica. E un altro indicatore da tenere in considerazione, sono le emissioni di Co2, anche quelle in spaventoso aumento».

Nei nove Stati brasiliani del bacino amazzonico il volume di anidride carbonica sprigionata in atmosfera nei primo otto mesi del 2019 è il più alto dal 2010 (considerando le intere annate), stando ai grafici del programma Ue di monitoraggio ambientale Copernicus. Ma come nascono questi incendi, professore?

Bisogna fare una premessa: pressoché ogni incendio che si sviluppa in Amazzonia è provocato direttamente dall’essere umano. Perché per dare fuoco alla foresta, in una zona con un tasso di umidità così alto, è necessario prima abbatterla, poi lasciare che il sole secchi le foglie e i tronchi disposti a terra, un processo che può durare settimane o mesi.

Se dunque l’emergenza è diventata solo ora visibile, gran parte della devastazione è stata compiuta nei mesi precedenti. Sempre secondo l’Inpe, la deforestazione è cresciuta del 278% a luglio e di oltre l’80% a maggio e giugno: cifre che superano ampiamente quelle rilevate nello stesso periodo del 2016, 2017 e 2018. E Bolsonaro solo nelle ultime settimane ha annunciato degli interventi.

Spesso gli agricoltori hanno dato fuoco alla foresta confidando in amnistie a posteriori, che poi in effetti sono arrivate, anche con i governi precedenti. Il motivo principale alla base di questi roghi è la spinta espansiva dell’agrobusiness, dell’industria dell’allevamento e della soia, usata per sfamare il bestiame.

Latifondisti e grande industria agricola che possono vantare numerose sponde politiche. «Già i governi Rousseff e Temer avevano portato avanti politiche ambientali disastrose, ma con Bolsonaro le cose sono peggiorate. Il Parlamento brasiliano è dominato da tre lobby, quella delle armi, quella dei fondamentalisti religiosi e quella, appunto, dell’agrobusiness. Mentre Lula era riuscito ad arginare queste pressioni, Bolsonaro si è mostrato totalmente asservito a questi gruppi. In questo modo ha indebolito gli organi di prevenzione e controllo in campo ambientale, rimuovendo dirigenti, modificando le competenze.

Ad esempio?

Ad esempio, proponendo di spostare parte delle competenze del Funai, l’organizzazione governativa che si occupa della protezione dei popoli indigeni, sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura, che è il “dicastero del latifondo”. Mentre a capo del ministero dell’Ambiente siede un negazionista climatico. Senza considerare tutte le calunnie verso gli scienziati, i professori e le università che diffondono i dati reali sull’emergenza ambientale.

Un clima che di certo non frena gli appetiti di chi lucra sulle grandi piantagioni di soia e sugli allevamenti intensivi di bestiame.

Per loro è facile provare una sensazione di impunità. In generale, le tecnologie agricole avanzate hanno peggiorato le condizioni dell’Amazzonia, perché hanno permesso a piante che non avrebbero avuto alcuna chance di essere coltivate in maniera competitiva in quel tipo di suolo di crescere, penso ad esempio ad alcune varietà di canna da zucchero, e di incentivare così i latifondisti a deforestare e ampliare i loro terreni.

Con il benestare di Bolsonaro. Che ha sempre guardato con favore anche all’operato e agli interessi dei produttori di legname pregiato e dei garimpeiros, i cercatori d’oro. Una cinquantina di loro, a fine luglio, ha invaso armi in pugno la terra indigena Waiãpi, nello Stato settentrionale dell’Amapá, al confine con la Guyana Francese, e ha ucciso il leader della comunità Emyra Waiãpi.

Non c’è più legge, è un nuovo Far West. La situazione degli indigeni è molto grave, siamo al limite della catastrofe umanitaria. Sono diversi i casi di uccisioni. Gli ultimi gruppi di indios isolati – in tutto sono un milione quelli che vivono in Amazzonia – sono fortemente minacciati, senza considerare il crescente pericolo di epidemie. E spesso i crimini nei loro confronti restano impuniti. Non sono molti i giudici e le forze di polizia che hanno il coraggio di difenderli davvero.

Dagli stessi indigeni è partita l’opposizione alle politiche di Bolsonaro.

Si sono dimostrati ancora una volta una colonna portante della democrazia brasiliana. Sono in lotta e a metà agosto si è tenuta la prima marcia delle donne indigene, e in loro difesa e a tutela dell’ambiente contro Bolsonaro ci sono mobilitazioni in tutte le grandi città del Paese.

Life on Mars, nuove pratiche di resistenza culturale

Cosa significa resistenza culturale? Dobbiamo resistere? A cosa? E se stiamo resistendo, in che modo lo stiamo facendo? Queste sono state le prime domande che hanno dato il via a “Life on Mars”, evento di networking nato con lo scopo di favorire l’incontro, avviare discussioni e scambi, condividere pratiche e metodologie che caratterizzano o che stanno influenzando il settore culturale in ambito internazionale e in Italia. Partendo dalla mia ricerca in corso che si focalizza sull’analisi del rapporto tra le politiche culturali e il ruolo della società civile individuando proprio il contesto culturale come arena privilegiata di analisi, “Life on Mars – Toward a Metamorphosis?” ha riunito rappresentanti di reti internazionali e istituzioni culturali come European Cultural Foundation, IETM – International network for contemporary performing arts, Assitej International, On the Move; tanti istituti di rappresentanza culturale come Goethe, Institut français, Creative Scotland; e ancora, reti locali dal Portogallo, istituzioni dalla Bulgaria, Corea del Sud, Francia, organizzazioni e movimenti LGBTQ+ Croati, spazi di creazione in Ungheria, rappresentati dalla Commissione Europea, le fondazioni bancarie italiane e tanti altri.

Tutti, speaker e partecipanti, sono stati invitati a condividere i propri programmi, strategie e pratiche in risposta alla diffusa crisi politica, culturale ed economica.  Ma a cosa resistiamo? E quali sono i modelli che possono effettivamente introdurre delle pratiche culturali e politiche innovative a sostegno di una società inclusiva e democratica?

“Life on Mars” è stato preceduto da una road-map, un giro d’Italia fatto di workshop, laboratori, riflessioni collettive, sviluppato nella primavera-estate 2019 e che ha portato all’individuazione di parole-chiave, contraddizioni e necessità che riguardano il settore culturale. Tra questi, ad esempio, la necessità di avere tempo per creare e per trovare strategie che superino la frammentazione che sta incidendo significativamente sulla qualità del lavoro creativo e politico. Some emerse parole come resilienza, che è apparsa purtroppo come un’attitudine indispensabile per rimettere al centro il diritto di esistere nelle nostre diversità; attivismo culturale, inteso come determinazione a salvaguardare valori democratici di inclusione culturale attraverso concreta pratiche artistiche. Altre parole emerse sono state empatia, ma al tempo stesso, manipolazione e paura; e poi passione, ma anche instabilità e poi comunità e cittadinanza, legacy e sostenibilità.

Dove siamo oggi?

Quelli riportati sono solo alcuni dei concetti emersi in pochi mesi, ma che riflettono uno stato di difficoltà generalizzata e che vanno collocati in uno scenario allargato. Il riaffermarsi del concetto di frontiera, la riduzione drastica del supporto economico degli operatori pubblici e privati, la crisi ambientale e l’impatto di forme neo-liberiste nelle nostre vite hanno significativamente cambiato il modo di produrre cultura. A questo si è collegata la persistente introduzione di parametri di valutazioni quantitativi ad opera di istituzioni nazionali, europee ed internazionali che ha mortificato la forza trasformativa del rapporto qualitativo che si innesca tra organizzazioni locali, spettatori e cittadini, a cui si aggiungono le tante forme di individualismo politico e la frammentazione e privatizzazione dei welfare nazionali, che hanno ridotto i nostri spazi di cooperazione e immaginazione.

Siamo in un nuovo ordine glocale. In questo ambiente le città assumono sempre più la forma di spazi in cui nuove sperimentazioni culturali e politiche prendono corpo, anche se talvolta portano alla luce evidenti difficoltà nel rapporto con le aree rurali e gli spazi più periferici. Accade in Europa, basti pensare alla Brexit, negli Stati Uniti, con le elezioni di Donald Trump, e prende sempre più forma in Brasile, Hong Kong e in altri luoghi del pianeta. Come appreso dal diffondersi delle proteste nel 2011, queste trasformazioni acquisiscono forza se collegate in una prospettiva globale. Del resto, siamo sempre più consapevoli che il nostro agire locale è interconnesso indissolubilmente con le narrative globali.

Osservando il contesto culturale, la definizione di un nuovo ordine glocale, sta avvenendo a causa di una mancata strategia culturale dei governi nazionali. Ad esempio, alla drastica riduzione delle risorse finanziarie pubbliche si è accompagnata una preoccupante assenza di visione di politica culturale, in grado di sopperire a tale crisi tramite la creazione di infrastrutture culturali e sociali; ciò ha inoltre generato da parte delle organizzazioni culturali, e delle città stesse, la necessità di intraprendere strategie di sostenibilità miste, fatte di servizi individuati a base locale, finanziamenti Europei diretti, forme cooperative a base mutualistica e spesso di carattere transfrontaliere. Sempre più spesso, in questo scenario, la cooperazione culturale cross-border si è presentata come l’ultima spiaggia per mantenere una vitalità e libertà artistica (nonché di espressione in genere).

Tutto questo vive all’interno della complessa e spesso conflittuale relazione tra le forme ‘top-down’ del fare politica e la spinta ‘bottom-up’ della società civile, dell’attivismo politico e culturale. In questo, il settore culturale si presenta ancora – nonostante i tanti limiti istituzionali – come uno spazio simbolico e concreto in cui queste forze, anche sul territorio del conflitto, possono incontrarsi e generare nuovi modelli di cooperazione e di forme di democrazia a base partecipativa.

Verso un rinnovato senso di cooperazione culturale?

A nostro avviso è necessario un rinnovato progetto politico e culturale che non può prescindere dai significativi cambiamenti di sistema e dalle istanze che nuovi modelli stanno portando alla luce. Se è vero che le istituzioni culturali rischiano spesso di assumere forme monolitiche, è vero anche che hanno la potenzialità di essere spazi in cui contraddizioni, diversità, conflitti e nuove forme di politica culturale vengono sperimentate. In questa prospettiva si colloca il concetto di resistenza culturale, che non è un’attitudine passiva, ma piuttosto una forma trasformativa che si basa su processi di immaginazione, o meglio co-immaginazione, capaci di costruire nuovi modelli in risposta alle pressioni di una politica neoliberista globale che riduce gli spazi di creazione ed immaginazione (culturale, politica, sociale). Come detto da Chantal Mouffe, questa non è l’unica possibilità per le nostre democrazie.

Azioni di resistenza, e quindi attivismo culturale, sono rintracciabili all’interno delle istituzioni (locali, nazionali, europee, globali) ad opera di pochi motivati dirigenti o funzionari che cercano di sostenere – anche se in modo discontinuo – il settore creativo che con difficoltà trova canali di espressione. Oppure ad opera di nuove organizzazioni definite ‘intermedie’ che, in risposta al vuoto della politica culturale, propongono nuovi indirizzi di policy prendendosi carico del rischio d’impresa. O ancora, all’interno di progetti di cooperazione culturale transfrontaliera che insistono sull’inclusione sociale e che creano processi attraverso cui integrare i ‘nuovi’ cittadini, che sperimentano forme leaderless di gestione, che generano laboratori politici in giro per l’Europa portando al centro nuove esplorazioni di democrazia partecipativa. Ed anche ad opera di artisti che sempre più agiscono su territori non deputati cercando di generare spazi di socialità fondamentali per nutrire una società frammentata, spaventata, mal informata, che si muove in un contesto economico incerto. 

Come affermato dal sociologo Pascal Gielen, le azioni civili a base culturale portano alla luce ciò che non è visibile ed offrono l’opportunità di vivere i confini, le periferie, gli spazi pubblici comuni differentemente, attribuendo un rinnovato valore al vivere civile e civico. Pertanto, co-immaginare può significare favorire processi artistici (e sociali) che includano i diversi segmenti delle nostre società; si riferisce alla consapevolezza del nostro ruolo sociale, artistico e politico che si colloca tra la sfera locale e quella globale; offre l’opportunità di superare la distinzione tra il “noi” e “loro” e andare oltre la paura ed il senso di incertezza su cui diversi governi hanno costruito le proprie agende populiste (non ultima la recente storia italiana). Procedere alla volta di un processo di co-immaginazione significa favorire la creazione di procedimenti legali e infrastrutturali che mettano in sicurezza l’effettiva partecipazione della partecipazione della società civile e promuovano maggiore democrazia e inclusione.

Questo è il motivo per il quale, a nostro avviso, la cultura non è un luogo sicuro ed imparziale. Perché ha la capacità di generare trasformazioni sociali e politiche attraverso i propri processi artistici, senza alcuna restrizione dell’immaginazione artistica.

scritto in collaborazione con Cristina Carlini, Cristina Cazzola, Carlotta Garlanda, Giulio Stumpo, ed Eleonora De Caroli

Life on Mars  è stato curato dall’impresa sociale Liv.in.g. – Live Internationalization Gateway, fondata da Cristina Carlini, Cristina Cazzola, Carlotta Garlanda, Giuliana Ciancio, Giulio Stumpo, con la collaborazione di Eleonora De Caroli e con il contributo di Fondazione Cariplo e Regione Lombardia, “Life on Mars” – nella sua edizione 2019 intitolata “Toward a Metamorphosis?” – ha individuato come tema centrale proprio quello della “resistenza culturale”.

Questione meridionale, che fare per non sbagliare più

Con l’insediamento del nuovo governo potrebbe aprirsi una stagione nuova riguardo l’autonomia differenziata ed il Sud, viste le dichiarazioni, anche recenti, del neo ministro agli Affari regionali, Francesco Boccia, e dato che il suo collega al Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, è vice direttore di Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), e soprattutto in virtù della loro profonda e diretta conoscenza delle problematiche che attanagliano il Meridione. Restano in sospeso, dal precedente governo, anche altre questioni urgenti che riguardano il Sud, quali l’estensione della decontribuzione per le nuove assunzioni, a partire dai giovani, la nomina di Invitalia a “braccio operativo”degli enti locali, per sveltire la realizzazione di opere infrastrutturali, e l’istituzione di un adeguato polo bancario per aiutare le Pmi meridionali ad accedere al credito in maniera più conveniente. Per non parlare poi delle vertenze industriali. Impossibile prevedere cosa di questo sarà ripreso o meno dal nuovo esecutivo.

La Questione meridionale si ripropone ancora instancabilmente da decenni, mentre tutto il Mezzogiorno sprofonda sempre di più inesorabilmente nelle statistiche economiche e non solo. Il paradigma consueto, frutto di stereotipi duri a morire e di una idea spesso grottesca dei problemi del Meridione, aggravati da accenti spesso apertamente razzisti, fomentati per soli scopi elettorali, ripropone anche l’urgenza di una rappresentanza politica territoriale, per dare le giuste risposte e tenere in evidenza nel dibattito politico le esigenze del Sud. Cosa che solo una formazione politica con visione ed obiettivi gramsciani può garantire.

Il rilancio del Paese passa obbligatoriamente da…


Natale Cuccurese è presidente e segretario nazionale del Partito del Sud-meridionalisti progressisti

L’articolo di Natale Cuccurese prosegue su Left in edicola dal 13 settembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

“Poesia e civiltà”, così Giovanni Truppi racconta il mondo

Giovanni Truppi lo si potrebbe semplicemente definire un cantautore impegnato perché predilige i temi forti, quelli politici e sociali, con frasi esplicite e zeppe di riflessioni. Canta della borghesia, di ricchezza e povertà, ma spesso di rapporti umani, di incontri e di addii, anche di desiderio. I suoi brani non sono mai verbosi, anzi, sono ironici e sapienti, amari e tristi, ma non abbandonano la speranza. Testi che poco hanno a che fare con i tormentoni estivi, ma che ci riconciliano con il tradizionale cantautorato. E infatti lo hanno ispirato musicisti come De André, Battiato, Paolo Conte, insieme a Bach, per via dei suoi studi classici. Completano la sua formazione gli americani Gershwin e Cole Porter. Laureato in Etnomusicologia, Giovanni Truppi studia pianoforte, si diploma in solfeggio, poi tanto jazz, canto, anche la chitarra, ma da autodidatta.

Questo è il suo quarto album di inediti cui ha dato un titolo che riassume tutto ciò di cui intende parlare oggi, con un linguaggio rinnovato, meno spigoloso e anarchico: Poesia e civiltà. Undici brani per raccontare il mondo che lo circonda, ma anche il suo di mondo. Una ricerca della dimensione spirituale che ha a che fare con l’introspezione, ma non con la religione anche se ne parla in modo ironico. Ne parliamo con lui durante il tour –  il 14 settembre sarà al Rise festival di Padova e il 15 settembre a Bologna, festival Tutto molto bello.

Definisci principi ispiratori Poesia e civiltà, il titolo del tuo nuovo album, che potremmo anche chiamare una doppia utopia, in questi tempi che di poetico e di civile non hanno poi molto.
È difficilissimo dare la definizione di poesia. Per me, poesia è quando si aggiunge qualcosa alla realtà per come la percepiamo. La civiltà è l’insieme di norme che ci diamo per stare insieme. In questo momento storico avevo l’esigenza di rimarcare in maniera così forte questi due argomenti che ho affrontato nel disco.

Sempre parlando di civiltà, e di utopie, nel brano “Ancient society” parli dell’aumento della ricchezza, che è diventata incontrollabile e va a danno degli uomini, ma arriverà, dici tu, il tempo in cui dominerà il benessere.
In realtà, le parole sono di Lewis Henry Morgan, un antropologo statunitense che ha le ha scritte quasi 150 anni fa. Io non ho una risposta, come evidentemente non l’aveva lui. Quando le ho lette, queste parole mi hanno commosso perché ho pensato che 150 anni fa questa persona già guardava una realtà come quella che vediamo adesso. Mi sembrano parole molto attuali e mi commuove che una persona potesse avere così tanto ottimismo e quindi ho pensato che mi sarebbe piaciuto molto rimetterle in circolo, insieme all’ottimismo. In realtà, tutto quello che vedo intorno a me, non mi fa pensare a niente di ottimistico.

Nelle tue canzoni parli dell’identità delle persone, di bellezza, del modo con cui ci poniamo nei confronti degli altri.
Per come sono cresciuto, il pubblico e il privato comunicano molto tra di loro: canto dei valori che vivo nel privato, ma anche di come mi rapporto nella realtà e nell’attività artistica. Le mie sono canzoni sentimentali, ma anche molto attuali, per esempio racconto anche il giorno delle elezioni (quelle del 2018 ndr).

Non pensi che invece della spiritualità, di cui parli, basterebbero il rispetto, l’accoglienza, il dialogo, l’ascolto nei riguardi dell’altro?
Sicuramente sono tutte cose importanti, ma a me sembra che quando riesco a dedicare a me stesso dei momenti di introspezione, poi miglioro anche sugli altri fronti. La spiritualità è indimostrabile; io la chiamo così, ma potremmo parlare anche di introspezione e riflessione.

Dall’introspezione, alle parole per poi arrivare al rapporto dal vivo con il pubblico.
Mi piace scrivere, ma soprattutto fare concerti. Uno dei motivi per cui ho scelto la musica è che mi permette di dare voce al mio corpo.

I rimorsi di non avere detto ai genitori

So che non è un argomento da buongiorno, o forse sì, ma è capitato a tutti di vedere andarsene un genitore e di rosolare nel rimorso di non avergli detto tutto, di essersi negato un abbraccio, un ti voglio bene, qualcosa che si è rimandato convinti che tanto ci sarà un domani, un altro spazio in cui fare ciò che c’è da fare e invece niente. La morte è infame, arriva quando hai ancora tutte le carte sul tavolo e tu eri andato a dormire dicendoti che tanto sistemerai tutto domattina.

Ci vorrebbe un libro delle cose non dette perché non si è fatto in tempo. Sarebbe il romanzo più scorticante, doloroso, vero e bellissimo che si possa leggere in giro. Qualcosa che sanguina amore come quelle foto dei tempi in cui anche le macchine fotografiche erano un lusso eppure quando le guardi riesci a intuire tutti i movimenti e le parole dei dieci minuti prima e quelli dei dieci minuti dopo.

Il rimorso di non avere detto qualcosa ai genitori è la distanza tra quello che siamo e quello che vorremmo essere, il burrone che ci ritroviamo tutti a percorrere prima o poi nella vita ed è una di quelle cose che anche se te la spiegano in cento non la impari mai, non ci riesci a metterla in pratica, ci anneghi anche solo a pensarci.

Pensa se fossimo tutti, quelli che sono orfani e anche quegli altri, a compiere quel passo e a vivere ogni giorno con il cuore spalancato. Pensa quanto sarebbero risibili i piccoli odi quotidiani che qualcuno vuole sventolare come veritieri, come sarebbero piccole le persone che ci incitano a diventare impermeabili.

Vorrei un giorno, tutto il giorno, stare lì, in quel guado, perdermi a leggere tutto e scriverci un editoriale che sembrerebbe quello di un matto, un inno a quelli che riescono a essere quello che vorrebbero, un invito a viverla aperta questa vita che molti vorrebbero costringere negli schemi di un’anaffettività difensiva.

E mentre ci pensavo alla fine l’ho scritto.

Buon venerdì.

W la scuola – Sommario

INTRODUZIONE

W la scuola! di Matteo Fago

 

Il diritto al sapere

Un bene comune da difendere di Donatella Coccoli

Per una scuola aperta al mondo di Dorina Di Sabatino e Gisella Speranza

Insegniamo a porsi le domande di Elisabetta Amalfitano e Paola Gramigni

La lingua come diritto di cittadinanza di Giuseppe Benedetti

Accendere la passione per la conoscenza di Marco Rovelli

Imparare a leggere è un po’ scoprire se stessi di Assunta Amendola

Quale conoscenza se i manuali sono di parte di Maria Panariello

Salviamo la storia per un futuro diverso di David Armando

 

Lo scontro con la politica e con la religione

La Lip è viva, viva la Lip! di Marina Boscaino

Lettera aperta alla sinistra di Annamaria Calò

Riscoprire Gramsci fa bene alla scuola di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli

Professioni ultra fortunate: gli insegnanti di religione di Federico Tulli

Educazione civica al posto dell’ora di religione di Roberto Grendene

Con l’autonomia differenziata aumenta l’ignoranza di Enrico Panini

Se uno Stato tratta le famiglie come clienti di Alvaro Belardinelli

La scuola dove tutto ha un prezzo di Leonardo Filippi

Se i test entrano all’asilo di Renata Puleo

Infanzia senza nido di Leonardo Filippi

Gustavo Zagrebelsky: Contro i rottamatori della cultura di Simona Maggiorelli

Margherita Hack: La Bibbia al posto di Darwin? Fantascienza… di Federico Tulli

 

Universo scuola

Gli insegnanti come veri ricercatori di Giuseppe Bagni

Cronache dal pianeta chiamato Invalsi di Alessia Barbagli

Il tempo in classe non è quello del consumismo di Diana Donninelli

A scuola impariamo a essere liberi di Elisabetta Amalfitano

Adolescenti, il gruppo fa star bene di Letizia Del Pace

 

Così parlarono i ministri

Luigi Berlinguer: A scuola di pensiero critico di Simona Maggiorelli

Maria Chiara Carrozza: Nuovo patto con i giovani di Simona Maggiorelli

Valeria Fedeli: Non sono una improvvisatrice di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli

Emigrare controcorrente

«La scelta di andare via deve essere una scelta libera e spontanea e non l’alternativa unica». Così Marianna Pozzulo, fondatrice dell’associazione Bentornati al Sud, riassume lo spirito di chi parte per studiare o lavorare e decide poi di tornare ad investire nell’area più “impopolare” d’Italia, il Meridione. Contro chi dice che da quelle parti è bene andarci solo per farsi una vacanza, Pozzulo ha creato una rete che mette in contatto chi ha deciso di scommettere sul territorio dove è nato oppure di cui si è innamorato pur arrivando da altre terre.

Quello che da una parte potrebbe sembrare il principale deterrente di questa operazione, è anche un punto di forza. Scommettere su un territorio in cui molte cose mancano dà anche la possibilità di ritagliarsi il proprio posto nel mondo, in campi dove altrove sarebbe molto più difficile, se non impossibile. «Il fatto stesso che molte cose manchino può essere l’alternativa affinché qualcuno ci pensi e le porti. Dove c’è tutto non ci si può inventare niente di nuovo», spiega Marianna Pozzulo.

L’invenzione, è questo un po’ il filo rosso delle storie di chi è tornato. Come Ines, avvocato che dopo aver esercitato la professione per cinque anni ha deciso di cambiare strada. In seguito al trasferimento prima in Francia, a Parigi e Reims, e poi a Londra, Ines ha scelto di tornare nella sua Puglia. Oggi è l’amministratore delegato di una società di comunicazione e marketing che opera nel settore dei matrimoni e ha fatto la sua comparsa nella lista delle mille donne che stanno cambiando il Paese stilata da StartupItalia. Sul suo sito web scrive che ha deciso di dedicarsi all’industria del wedding dopo essersi resa conto che in Italia…

L’articolo di Alessia Gasparini prosegue su Left in edicola dal 13 settembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA

Bentornati al Sud

Misureremo il governo sul progetto strategico, senza aperture di credito politiciste, eccessive. Gli errori del passato ci sono oggi vietati, con le destre sovraniste, nazionaliste, populiste in agguato.

Uno dei temi di verifica maggiore mi sembra l’interrogarsi sull’apertura immediata di una politica meridionalista. Dopo, infatti, quattro decenni di silenzi sul Sud, dopo anni in cui è ripresa l’emigrazione meridionale, soprattutto giovanile, è giunto alfine il tempo di aprire la “nuova questione meridionale”, in un tornante storico di ricollocazione dei poteri nazionali ed internazionali, a più di 150 anni dall’Unità nazionale, da quel Risorgimento che Gramsci giudicò una rivoluzione fallita. Fin dal 1920, infatti, Gramsci tratta la “questione meridionale” come specifica determinazione del capitalismo e considera la necessità di dare «importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come problema di rapporti di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale», cioè come uno degli aspetti, fondamentale, della questione nazionale. Qui siamo. Continueremo a scrivere ed informare per eliminare dal campo il diabolico progetto secessionista della autonomia differenziata, eversiva sul terreno costituzionale, “secessione dei ricchi” antimeridionale sul piano sistemico.

Vi è ora l’occasione di cambiare radicalmente punto di vista, evitando strambi compromessi al ribasso che ci apparirebbero incomprensibili. La crisi strutturale sta, infatti, avendo effetti asimmetrici tra le regioni italiane: il Sud è più dipendente dalla domanda interna e le politiche recessive hanno “picchiato” molto di più, per i tagli alla spesa, la precarizzazione totale del mercato del lavoro, l’intreccio tra economia legale, “grigia”, criminale. Non può ancora una volta il governo parlare genericamente di interventi al Sud. Non si può tutto ridurre ad un accordo con Confindustria, con meri interventi di incentivazioni finanziarie agli investimenti e sgravi contributivi. Bisogna rimettere in discussione modelli produttivi, rilanciare progetti di sviluppo autocentrato sulle risorse del territorio e sulle esigenze della popolazione, delle comunità territoriali, rompere la spirale dello sviluppo duale Nord/Sud. Anche sul reddito di cittadinanza, nome usurpato per un provvedimento del governo gialloverde sbagliato, punitivo, razzista, di controllo sociale, occorre intervenire per cambiarne ispirazione e filosofia. Credo occorra rilanciare il “reddito di dignità”. Si deve agire, ovviamente, anche sul piano europeo. Finora esso eroga soltanto 7 miliardi di investimento. Poca cosa se non si interviene sui vincoli di spesa collegati alle regole europee, rimettendole in discussione e al patto di stabilità interno.

Vi è, in definitiva, l’occasione (a suo modo storica) di riproporre, nelle pratiche politiche e di governo, l’irrisolto tema dell’identità meridionale e del destino strategico del Sud. Esso allude alla contraddizione tra capitale e vita, che sta ricostruendo, in forme a volte caotiche, la filiera dei territori. I quali non sono parassitismo, nicchie di arretratezza, ma epifenomeni della globalizzazione, luoghi in cui scorrono vite (soprattutto giovanili) precarizzate.

Vanno riletti i “tanti Sud”, le forme inedite della nuova dipendenza, dello “sviluppo diseguale”. Le giovani generazioni sono schiacciate all’interno di un aspro rapporto di dominio biopolitico. Siamo giunti ad un livello di precaria tenuta democratica, insidiata anche dalla pervasività delle economie e dei comandi mafiosi. Presidi democratici, autoorganizzazioni conflittuali, occupazioni, ribellioni, reti sociali, vanno fatti esprimere, non repressi.

La ricostruzione sociale nel Sud riconnette resistenza conflittuale, condivisione popolare e mutualismo. Se il Nord, insomma, guarda alla Baviera, alla Carinzia, alla macroregione mitteleuropea, per l’inserimento subalterno del proprio sistema produttivo di piccole e medie aziende, dal Sud può ripartire una critica serrata all’Unione europea, per invertire baricentro e priorità e perché sia valorizzato il ruolo del Sud come cerniera privilegiata (socialmente, culturalmente, anche geopoliticamente) tra Europa e Mediterraneo. Sia l’Europa che il Mediterraneo vivono, oggi, nel terremoto.

Da qui si può ripartire per definire nuovi equilibri. Il Sud è, infatti, oggi, un tragico ma anche fecondo ed innovativo laboratorio di temi produttivi, ecologici, antropologici (penso alle grandi migrazioni). Le lotte per i lavori di qualità, per il reddito possono rilanciare il sindacalismo territoriale delle vecchie “Camere del lavoro” oggi appannate dall’assenza di vertenzialità. Le esperienze di cooperazione Nord/Sud ma soprattutto Sud/Sud possono alimentare nuove ragioni di scambio, nuove aree economiche integrate.

Il Sud, in definitiva, non è un punto di programma tra gli altri; ma un paradigma di riorganizzazione dei luoghi di lavoro, degli spazi di vita.

L’editoriale di Giovanni Russo Spena è tratto da Left in edicola dal 13 settembre 2019

SOMMARIO ACQUISTA