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Grandi manovre contro la libertà d’insegnamento

Ci stanno sottoponendo ad un’attività inedita, in un Paese democratico: esercizio all’indagine. L’autonomia differenziata, cavallo di battaglia della Lega, per nulla sgradito al Pd (in particolare nella versione solo apparentemente soft richiesta dal governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini), inserita al punto 20 (per inconsapevolezza?) del “contratto di governo” (sic!) dal M5s, è top secret. Da quando, il 28 febbraio 2018, esautorato da qualsiasi attività che non fosse il disbrigo degli affari correnti (si era a 4 giorni dalle elezioni) il governo Gentiloni (Pd) firmò le pre-intese con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, sono stati fatti enormi passi avanti verso la realizzazione del provvedimento, ispirando ogni fase ad una precisa condizione: tenere alla larga gli “intrusi” (i cittadini), fare in modo che le riunioni fossero segrete (ce ne sono state un centinaio circa), che i media restassero sottotono, che le carte fossero accessibili a pochissimi. Missione compiuta. Senza parlare di altri documenti mai citati nelle baruffe chiozzotte tra “alleati” di governo e nelle rassicuranti parole del premier, garante del processo: il parere stroncatorio del dipartimento affari giuridici e legislativi; l’opinione nettamente contraria dell’ufficio parlamentare di bilancio. Quisquilie, dettagli.

Ma caparbiamente Massimo Villone, Gianfranco Viesti, Marco Esposito e pochi altri hanno optato per la contro-informazione (cioè, per l’informazione): lavorare indefessamente per far emergere le verità nascoste del e dal governo gialloverde e dalle regioni coinvolte; contenuti, numeri, (im)praticabilità, contraddizioni, violazioni che quel processo andava negoziando nelle segrete stanze. Le carte sono state rese note solo dal sito Roars, che in febbraio e in luglio è meritoriamente riuscito a pubblicare le bozze di intesa nella loro redazione precedente di un paio di mesi e dunque – dato l’indefesso lavorio dei nostri – presumibilmente poi rivisitate. Eppure, non stiamo parlando di un fatto tra privati; e neppure stiamo raccontando trattative tra servizi segreti; ma una vicenda che, se e quando dovesse andare in porto, sfigurerebbe completamente il volto dell’Italia “una e indivisibile”; renderebbe principi e diritti costituzionali poco più che orpello retorico; consegnerebbe al certificato di residenza la possibilità di accedere ai diritti universali; cancellerebbe decenni di lotte e di conquiste dei lavoratori. Non abbastanza – secondo chi ci governa – per considerare tutto ciò interesse generale. Pochi milioni di cittadini hanno potuto pronunciarsi sulla vicenda; quelli interpellati dai referendum politici di Veneto e Lombardia. Un’anteprima delle differenze: ai restanti 45 milioni quel diritto non è stato riservato; ma, addirittura, si dice loro: non disturbate i manovratori.

Tra un tweet e una diretta Fb (questo il tenore degli atti istituzionali nella agonica fase della democrazia che stiamo attraversando), 23 materie che riguardano la nostra vita quotidiana (dall’istruzione alle infrastrutture, dalla sanità all’ambiente, dai beni culturali alla ricerca scientifica, alla sicurezza sul lavoro) rischiano di finire nelle mani di regioni voraci, incapaci di pensare un mondo fatto di uguaglianza e solidarietà, di un patrimonio collettivo di diritti e appartenenza comune; dal prima gli italiani al prima i veneti/lombardi/emiliani il passo è breve. La posta in gioco è ricca, sia dal punto di vista economico che del potere politico: un mix esplosivo di avido egoismo, eugenetica reddituale; paghiamo più tasse e quindi le tratteniamo e gestiamo noi; esigiamo più..

L’articolo di Marina Boscaino prosegue su Left in edicola dal 26 luglio 2019


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Il decreto sicurezza bis passa alla Camera nel giorno in cui avviene una nuova strage in mare

Oggi è avvenuta un’altra strage in mare. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati parla di 150 morti. Medici senza frontiere di 70 cadaveri in mare, un centinaio i dispersi. E oggi il decreto sicurezza bis ottiene il via libera alla Camera. A Montecitorio il risultato finale è stato 322 sì, 90 no e un astenuto – 17 deputati 5S non hanno partecipato al voto, mentre il presidente Roberto Fico è uscito dall’aula poco prima della votazione.

In questo quadro drammatico ricordiamo quale è stato l’iter e cosa contiene il decreto sicurezza bis, lo facciamo con Stefano Galieni che ne ha scritto, per noi e per a-dif.org:

Il decreto legge sicurezza bis (Dl 53/2019) dopo essere passato dalle commissioni riunite Affari costituzionali e giustizia della Camera, procede nel suo iter a colpi di fiducia. Un percorso già dall’inizio accidentato, che ha poi  risentito dell’effervescenza politica e di dinamiche estranee al provvedimento stesso. Il dibattito c’è stato ma alla fine, a colpi di emendamenti, il testo uscito è assai peggiore di quello approdato alle Commissioni.

L’esame è iniziato il 25 giugno, si è quindi già in ritardo, tenendo conto che entro il 13 agosto il decreto legge 53/2019 va convertito in legge, ed entro quel termine va approvato anche al Senato. In caso contrario finirebbe col decadere. Come sarebbe auspicabile e forse pure possibile se  i parlamentari che si oppongono sfruttassero le contraddizioni della maggioranza, arrivando anche al limite dell’ostruzionismo.

Il decreto, come molti ricorderanno, nasce soprattutto in seguito al fatto che, nonostante il primo decreto sicurezza (legge 132/2018), le navi umanitarie delle Ong hanno continuato, fra mille difficoltà, a salvare persone in acque internazionali e i loro equipaggi a svolgere un prezioso lavoro di testimonianza in quel tratto di mare che si vorrebbe deserto e totalmente alla mercé della cosiddetta Guardia costiera libica. Ma c’è un’altra ragione. Al governo erano sfuggiti, nel primo testo, altri punti su cui poter intervenire soprattutto in merito alla repressione del dissenso sociale e, visto il successo riscontrato col primo tentativo, pur non sussistendo i requisiti di necessità e urgenza previsti per tali misure, ma da anni ampiamente ignorati nella decretazione d’urgenza, si è fatto ricorso a un decreto sicurezza bis, n.53/2019, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 14 giugno scorso.

La originaria stesura del decreto, prima delle elezioni europee,  aveva creato un certo imbarazzo, vi si proponeva ad esempio di punire le Ong e gli armatori, con una sanzione pecuniaria  per ogni persona salvata. Una sorta di “tariffario delle vite umane” che lo stesso Presidente della Repubblica, per il resto sin troppo prudente e silenzioso, ha considerato inaccettabile. Si è giunti, nel testo di decreto legge presentato alla Camera per la conversione, a ipotizzare una cifra forfettaria, con un massimo di 50 mila euro ad imbarcazione. Per velocizzare i lavori, si è deciso di discuterlo congiuntamente nelle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia, quanto segue è l’iter del percorso fin qui seguito. Da lunedì 22 luglio dovrebbe cominciare l’esame del provvedimento nell’aula della Camera, prima di passare al Senato.

All’apertura dei lavori in commissione, dopo la relazione introduttiva si è avuto il primo assaggio del livello della discussione. La deputata della Lega Simona Bordonali, relatrice, si è infatti appellata, per spiegare le ragioni delle misure contro le Ong, all’art 19 comma 2 della Convenzione di Montego Bay ritenendo che le imbarcazioni vadano fermate in quanto il loro passaggio nelle acque territoriali sarebbe «pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato». Una valutazione che dà per scontato il carattere illegale dei soccorsi operati in acque internazionali da navi private che,  in assenza di navi militari, svolgono attività di ricerca e salvataggio. Poco importa che il resto della Convenzione di Montego Bay (Unclos) sia stato ampiamente disatteso, e che siano state del tutto ignorate le altre due Convenzioni di diritto del mare, la Convenzione di Amburgo (SAR) e la Convenzione Solas. Come risulta violato il principio di non respingimento affermato dall’art.33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Solo due, e di carattere preliminare, gli interventi in opposizione al decreto. La maggioranza ha operato come un rullo compressore, malgrado i litigi quotidiani  tra i suoi  maggiori  esponenti, ignorando la immediata precettività degli articoli 10 e 117 della Costituzione, che avrebbero dovuto impedire una valutazione favorevole in merito alla costituzionalità degli articoli 1 e 2 del decreto, che prevedono la cd. chiusura dei porti e le sanzioni contro le Ong che salvano vite in mare. Due ulteriori riunioni si sono poi tenute il 26 giugno e il 9 luglio senza alterare molto il progetto presentato per la conversione in legge. Il giorno successivo, il 10 luglio, sono stati presentati diversi emendamenti che inaspriscono ulteriormente il testo originario.

Molti di questi emendamenti portano la firma di esponenti della Lega, altri di Forza Italia e di FdI, tutti sono accomunati dall’intento di aumentare l’effetto repressivo del Decreto legge 53/2019. In alcuni casi si supera veramente ogni limite derivante dalla normativa europea e dalla Carta costituzionale, dall’emendamento  che porta da 6 a 18 mesi i tempi di trattenimento nei Cpr, all’abrogazione del reato di tortura, all’utilizzo in maniera sistematica della polizia municipale per mansioni non compatibili con il suo ruolo, all’affondamento delle imbarcazioni delle Ong, all’introduzione del reato di “integralismo islamico”. L’opposizione, in particolare rappresentata da parlamentari di Leu, dei Radicali italiani e di alcuni esponenti del Pd, ha avanzato proposte per tamponare gli effetti del nuovo dispositivo normativo, ma in un’aula che è parsa sorda e cieca persino  di fronte ai richiami alla Costituzione. In tutto sono stati presentati 546 emendamenti, in gran parte dichiarati inammissibili dalla Presidenza.

Il 15 luglio, nella Sala del Mappamondo, si è trovato il tempo per alcune audizioni informali, il 16 si è tornati in Commissione. Una riunione lunga, del resto il dibattito avveniva in sede referente, con lavori interrotti spesso da numerose scontri. Si era nel pieno della vicenda Sea-watch 3, ogni occasione di propaganda era dunque buona, anche in sede parlamentare, mentre stava esplodendo sui giornali il caso dei cosiddetti “fondi russi” e l’atmosfera rimaneva incandescente per tutta la giornata.

Le due sedute del 17 e 18 luglio, sono state caratterizzate da un incontro con esponenti del governo che sono intervenuti voltando le spalle ai parlamentari dell’opposizione con le reazioni conseguenti. Nonostante un impegno ancora più forte di alcuni parlamentari che hanno tentato di modificare il provvedimento in senso  conforme alle normative internazionali ed alla Costituzione, sono state approvate modifiche sostanziali che inaspriscono le sanzioni  contro le Ong. Multe fino a 1 milione di euro per chi opera soccorso in mare e prova a cercare un Place of safety sulle coste italiane, misure per facilitare la requisizione e, entro due anni, la demolizione delle imbarcazioni sequestrate alle Ong.

Ora il testo arriva in aula, dove non è improbabile che vengano presentati ulteriori emendamenti peggiorativi, anche se ormai sembra prevalere la fretta di portare a casa il risultato. Il decreto legge deve essere approvato entro il 13 agosto ed i parlamentari stanno già facendo le valige per le ferie, mentre il quadro politico è sempre più confuso. Si può quindi prevedere una vera e propria blindatura del testo in Senato. Seguiremo costantemente l’iter  di questo pessimo, e per molti aspetti propagandistico, tentativo di criminalizzare ancora più drasticamente la solidarietà e il dissenso sociale con il ricorso a sanzioni penali-amministrative sempre più gravi. Comunque venga approvato definitivamente questo decreto, aumenterà  in Italia ed all’estero la mobilitazione contro gli effetti nefasti della sua applicazione, e si moltiplicheranno i ricorsi giurisdizionali, come si è già sperimentato con il primo decreto legge sicurezza,  adesso legge n.132/2018, fortemente ridimensionato nella sua portata applicativa dalle sentenze pronunciate dai giudici. Questo ennesimo attacco allo stato di diritto non passerà.

Intanto dopo la sessione alla Camera di lunedì 22 giugno il giorno successivo il governo ha posto la “questione di fiducia” sul testo, togliendo spazio ad ogni ulteriore emendamento. Malgrado diffusi malumori, l’esito della votazione, e dunque l’approvazione del provvedimento, col supporto di FdI e Forza Italia, sembra scontato. In occasione della discussione si è registrata una scarsa presenza in aula delle forze di governo, mentre gli interventi delle opposizioni, per quanto fondati su richiami alla Costituzione ed alle Convenzioni internazionali, ben poco hanno potuto, di fronte ad un percorso decisionale ormai deciso dalla maggioranza con una ennesima forzatura dei regolamenti parlamentari.

Vittime di tratta in Ue: una su quattro è minorenne. E in Italia cresce lo sfruttamento sessuale

«Un quarto delle vittime di tratta presunte o identificate in Europa sono minorenni e l’obiettivo principale dei trafficanti di esseri umani è lo sfruttamento sessuale». È quanto rivela l’ultimo report di Save the children, Piccoli schiavi invisibili 2019, da poco diffuso. Sulle 20.532 vittime di questa pratica disumana, registrate nell’Unione europea nel biennio 2015-16, il 56% dei casi riguarda infatti la tratta a scopo di sfruttamento sessuale, con un pur consistente 26% legato allo sfruttamento lavorativo, una vittima su quattro ha meno di 18 anni, due su tre sono donne o ragazze. In Italia le vittime di tratta accertate (sempre tra il 2015 e il 2016) sono 1.660, con un numero sempre maggiore di minorenni coinvolti, cresciuti anche in percentuale da un anno all’altro, dal 9% al 13%. Un trend in aumento confermato anche dal riscontro diretto degli operatori del progetto “Vie d’uscita” di Save the Children, che solo nel 2018, in sole cinque regioni – Marche, Abruzzo, Veneto, Lazio e Sardegna -, hanno intercettato 2.210 vittime di tratta minori e neo-maggiorenni (dai 12 ai 24 anni), un numero cresciuto del 58% rispetto alle 1.396 vittime del 2017. Questi dati rappresentano solo la superficie di un fenomeno perlopiù sommerso – i minori o neo-maggiorenni sfruttati sessualmente in Italia sarebbero, dunque, diverse migliaia.

Il business dello sfruttamento sessuale nel nostro Paese recluta le sue vittime in Nigeria (64%), Romania, Bulgaria e Albania (34%), e cambia modalità operative per rimanere sommerso. Provengono da questi Paesi le ragazze che sono maggiormente esposte al traffico delle organizzazioni e reti criminali che poi gestiscono in Italia un circuito della prostituzione in continua crescita.

«Quest’anno abbiamo deciso di orientare il rapporto attraverso le testimonianze di diversi operatori su tutto il territorio nazionale a differenti livelli: dalle istituzioni a chi opera sul campo quotidianamente – ci racconta Antonella Inverno, responsabile Politiche per l’infanzia di Save the Children -. Il quadro che ne emerge è statistico, e quello dei dati è il primo problema quando si parla di tratta. Basti pensare che abbiamo 78 vittime minorenni accertate in tutta Italia nel 2018, ma le nostre unità di strada, che sono attive in cinque regioni, ne hanno conteggiate più di 1.200». Il problema principale, dunque, è riuscire a mappare il fenomeno, tutto ciò che non emerge.

A livello internazionale, l’Ufficio delle Nazioni unite contro la Droga e il crimine (Unodc) ha pubblicato il suo ultimo rapporto a gennaio 2019 e i dati cui fa riferimento riguardano il triennio 2014-2016. Per quanto riguarda l’Italia, i casi di tratta di esseri umani per i quali sono state svolte indagini sono stati 1.193 nel 2014, 1.163 nel 2015 e 996 nel 2016, a fronte di un numero di vittime che è stato di 597 nel 2014, 626 nel 2015 e 663 nel 2016.

Oltre il 70% sono state donne e ragazze minorenni, con particolare rilevanza di queste ultime, che hanno sempre rappresentato circa il 50% dei casi: in particolare, 326 vittime bambine e ragazze nel 2014, 275 nel 2015 e 307 nel 2016. Lo sfruttamento sessuale continua a rappresentare la principale forma di perpetrazione del reato: se nel 2014 in Italia sono stati registrati 773 casi di sfruttamento sessuale a fronte dei 19 per sfruttamento lavorativo, nel 2015 ne sono stati registrati 607 a fronte di 85, e nel 2016 610 a fronte di 69.

 

 

Le differenti criticità del fenomeno, rilevate nel report, riguardano sia il momento dell’aggancio e della fuoriuscita dalla situazione di sfruttamento, sia il percorso di emancipazione e integrazione nel nostro Paese. «Innanzitutto, molte vittime di tratta fanno richiesta di protezione internazionale, ma, come conseguenza del decreto sicurezza, è stata annullata l’accoglienza negli Sprar proprio per i richiedenti di protezione internazionale. Oggi le vittime devono stare in grandi centri di accoglienza dove non c’è personale qualificato per svolgere un lavoro specifico e dove, anzi, le ragazze a volte vengono intercettate e reclutate dalla rete criminale», continua Antonella Inverno.

Altre criticità sono legate alle modalità di sfruttamento: «Per le ragazze nigeriane, ad esempio, si passa sempre di più da una visibilità estrema – sfruttamento nelle classiche vie della prostituzione – ad uno sfruttamento che da un lato si attesta su quelli che vengono definiti come “giri walk” ossia itinerari appositi che contemplano spazi in strade secondarie e meno visibili, e che dall’altro diventa quello delle “connection houses”, equiparate a delle case chiuse gestite e frequentate anche da connazionali. Infine, c’è il fenomeno dello sfruttamento online. In questi tre casi per le unità di strada l’individuazione è più difficile».

Il fenomeno della tratta, in passato, era prevalentemente caratterizzato da donne che arrivavano da Paesi extraeuropei, mentre, ad oggi, molte delle vittime sono rumene e bulgare e c’è anche un ritorno forte delle ragazze albanesi. Secondo Inverno, «quando parliamo di fuoriuscita e percorso di integrazione nel nostro territorio, i problemi riguardano la burocrazia italiana: avere un permesso di soggiorno bloccato oppure non riuscire a iscriversi al Servizio sanitario nazionale sono solo alcune delle difficoltà. E poi, purtroppo, si rischia di offrire lo stesso tipo di percorso a ragazze anche molto diverse tra di loro, dimenticandosi che ogni ragazza è un unicum con desideri, aspirazioni, competenze e capacità differenti».

Nel report, Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children, sostiene che «lo sfruttamento sessuale di vittime così giovani e vulnerabili lascia nelle loro vite un segno indelebile con gravissime conseguenze. Anche nel caso più fortunato di una fuoriuscita, sono diversi gli ostacoli che le giovanissime vittime devono superare durante il percorso di inclusione e integrazione indispensabile per poter costruire un futuro dignitoso e autonomo. (…) Un fenomeno di questa gravità e di queste proporzioni necessita di un intervento nazionale coordinato tra tutti gli attori, in grado di garantire gli standard necessari ad una vera e propria azione di prevenzione, che deve scattare con tempestività appena le potenziali vittime entrano nel nostro Paese, e deve anche fornire i mezzi più efficaci per promuovere la fuoriuscita delle vittime e il loro percorso di integrazione».

Alcune soluzioni potrebbero essere il rinnovo del “piano tratta”, scaduto a dicembre, facendo si che le risorse destinate siano sufficienti a coprire tutte le spese dell’accoglienza o cercare di scardinare i meccanismi burocratici per cui a fronte di diritti accertati per legge, come la salute, non ci sia poi un effettiva garanzia degli stessi. «Quando arrivano in Italia, non avendo documenti e non volendo incappare nelle associazioni perché hanno già gli sfruttatori che le aspettano, molte ragazze dicono di essere maggiorenni – prosegue Antonella Inverno -. C’è un protocollo già licenziato diversi anni fa, che aspetta l’adozione definitiva dalla conferenza Stato-Regioni sull’accertamento multidisciplinare dell’età. Andrebbe utilizzato in ogni caso di incertezza, non solo nel dubbio di una dichiarazione mendace ma a maggior ragione quando una ragazzina evidentemente più piccola si dichiara maggiorenne. Servono protocolli e convenzioni territoriali che formalizzino il lavoro sul territorio. Una forma istituzionale di collaborazione tra pubblico, privato, privato sociale e mondo produttivo».

E allora l’autonomia differenziata?

Left ha correttamente e tempestivamente individuato già nel 2018 il pericolo gravissimo della controriforma costituzionale delle “autonomie differenziate”, quella che con acume scientifico e capacità comunicativa l’economista Gianfranco Viesti chiama «secessione dei ricchi» (vedi l’intervista di Pietro Greco del 21 settembre 2018). Gustavo Zagrebelsky ha scritto: «Opporsi ad essa è la battaglia della vita per il Paese». Si sta giungendo, in questi giorni, ad una stretta decisiva. La proposta del governo disintegra l’unità nazionale, sostituita da una confusa giustapposizione di staterelli con poteri feudali, sul piano legislativo e amministrativo, abbattendo, insieme, diritti costituzionali e tutti i principali diritti universali contenuti nella prima parte della Costituzione a fondamento dello Stato di diritto e dello Stato sociale.

Il governo, i presidenti di Regione che spingono per l’autonomia differenziata raccontano frottole: la proposta è il contrario di ogni forma di federalismo solidale, di democrazia partecipativa, di prossimità. Arriveremo ad un’Italia di potestà frantumate, rette da “cacicchi”, da potentati localistici. Avremo un Paese con quattro Regioni a statuto speciale, due province autonome (Trento e Bolzano) tre Regioni (che potrebbero diventare sette) con ambiti anche tra loro differenti di autonomia rafforzata e le altre a statuto ordinario; e con lo Stato centrale che gestirebbe residui di competenze, fondi residuali, funzioni diventate marginali. Matteo Salvini ha parlato chiaro: «L’autonomia funziona se c’è quella finanziaria. Non accetteremo nessun compromesso. Chi riesce a garantire servizi efficienti riuscendo a risparmiare dovrà gestire come meglio crede queste risorse». Il M5s, per salvarsi l’anima, oltre che il proprio elettorato meridionale, chiede l’istituzione di un fondo perequativo e la determinazione di “livelli essenziali di prestazione” (Lep), prima di distribuire risorse. Ma si tratta di polpette avvelenate per far passare il complessivo impianto secessionista. Anche l’apparente passo avanti (è saltata l’assunzione diretta dei docenti e sono stati accantonati segmenti della regionalizzazione della scuola) potrebbe essere funzionale al ribadimento dell’impianto complessivo.

Siamo di fronte a miserevoli pratiche mercantili, a mediocri tattiche politiciste di fronte al progetto di abbattimento definitivo della nostra Costituzione. Resta, infatti, in piedi il meccanismo della “spesa storica” (che sta accettando anche la Campania) che è la trappola che distrugge i servizi nel Mezzogiorno. Perfino la Corte dei conti conferma che senza la perequazione non è possibile l’autonomia differenziata. È necessario che l’opera meritoria (di fronte al tentativo del governo di far passare il progetto in maniera clandestina) di disvelamento del drammatico pericolo secessionista che la nostra Repubblica corre si proietti verso una reale e permanente campagna di massa, imperniata su comitati territoriali che si stanno in questi giorni moltiplicando. Il governo tenta di nascondere i problemi, ipocritamente parla di efficienza. Noi dobbiamo rovesciare questa grammatica truffaldina, creare senso comune alternativo. Ritengo che il presidente Mattarella, massimo garante della sovranità popolare costituzionale, oltre che svolgere la sua funzione equilibratrice sottotraccia, potrebbe intervenire lanciando un messaggio al Paese. Contro il disegno leghista di populismo secessionista, ma anche contro i gravi errori del centrosinistra.

Pesa ora come un macigno la pessima riforma del titolo V della Costituzione. Pesano le inaudite responsabilità del governo Gentiloni, che ha materialmente siglato le preintese con le presidenze del Veneto e della Lombardia. Pesa la scelta inverosimile della presidenza dell’Emilia Romagna, a conduzione piddina, che, per quasi tutte la materie, si allinea al lombardoveneto. Oggi, non a caso, il Pd è muto, paralizzato, diviso al proprio interno. Sta disertando rispetto ad uno scontro decisivo per la nazione, farfugliando di mediazioni fasulle, di «autonomia differenziata moderata» che è una chiacchiera pari al doloroso ossimoro della «guerra umanitaria». I sindacati hanno espresso importanti critiche rispetto all’architettura istituzionale secessionista, partendo dalla negazione dei diritti sociali che ne conseguirebbe, dal pervasivo processo di privatizzazioni. Ma forse ora, nei tempi decisivi, possiamo attenderci che assumano la guida del nostro fronte, con una reale azione di massa che sia dissuasiva per il governo, che deve essere costretto a pagare un alto prezzo nei rapporti sociali. Chiediamo al M5s di comprendere che il suo elettorato meridionale mai accetterà soluzioni furbesche e rabberciate. Non vi è, infatti, nessuna possibilità (come hanno ripetutamente spiegato nei dettagli tutte le agenzie economico/istituzionali indipendenti), che l’autonomia differenziata possa essere fatta senza costi.

«Non toglieremo un euro al Sud» proclama Salvini. Ha dimostrato, invece, Giannola, economista meridionalista, presidente dello Svimez, che «o lo Stato aumenterà i debiti, o diminuirà i servizi». Perché non si tratta solo del trasferimento alle Regioni di qualche funzione amministrativa. Stiamo parlando, nelle 23 materie fondative dello Stato di diritto, del trasferimento della quota massima di potestà legislativa di principio. Con un effetto automatico: per numero ed ampiezza delle materie coinvolte lo Stato si priva della capacità di formulare obiettivi di politica economica e sociale. Si può ipotizzare uno scenario futuro di una macroregione comprendente gran parte del Nord Italia insieme a regioni limitrofe di Stati esteri (Baviera, Carinzia, Slovenia, parti della Mitteleuropa), con la completa marginalizzazione del Centro Italia e di Roma, che sarebbe solo capitale diplomatica, e un Sud (20 milioni di persone) non più Europa ma macroregione Mediterranea. È questa l’anatomia geopolitica che giustifica la locuzione «secessione dei ricchi». Vi è, quindi, un tema strutturale che attiene ai processi di accumulazione e di valorizzazione del capitale dentro la crisi.

Le regioni economicamente forti, con servizi più efficienti, non vogliono avere palle al piede, non vogliono redistribuire risorse. L’efficienza massima, quindi, dei propri servizi va a scapito dei servizi delle altre regioni. Solo alcune delucidazioni: cosa accadrà del Servizio sanitario nazionale, già indebolito dalle controriforme del centrodestra e centrosinistra? E del sistema di formazione e della scuola nazionale laica repubblicana? La scuola e la cultura nazionali unitarie sono fondamento della nazione. Non vedremmo più, se passasse il progetto di autonomia differenziata, asili nido, refezione scolastica, cure mediche comparabili tra Nord e Sud. E non parliamo di infrastrutture, sistema stradale e ferroviario. Come ha fatto correttamente notare il professor Massimo Villone «da un altro punto di vista, la regionalizzazione di larga parte del pubblico impiego e di materie come la tutela e sicurezza del lavoro, la retribuzione aggiuntiva, la previdenza integrativa, gli incentivi alle imprese, darà un colpo mortale al sindacato nazionale, al contratto nazionale di lavoro. Le gabbie salariali saranno istituzionalizzate. E non parliamo dell’ambiente e del ciclo dei rifiuti. Avremo, in tutti i campi, un itinerario di privatizzazioni fissato dalle singole regioni, abbattendo più facilmente normative e controlli. È quello che i padroni hanno sempre auspicato.

Ripartiamo, allora, dalla Costituzione. Spieghiamo, in una reale campagna di massa, che, mascherandosi dietro gli articoli 116 e 117 della Costituzione, il governo propone una “attuazione incostituzionale della Costituzione”. Non possono essere, infatti, violati i diritti fondamentali di eguaglianza sostanziale. Avremmo una grave torsione del concetto stesso di cittadinanza, che sarebbe determinata dalla residenza; cambia, cioè, a seconda della regione in cui risiedi, la quantità e qualità dei servizi, dei diritti, delle prestazioni. La posta in gioco è alta. È la Costituzione stessa. Non potremmo riconoscerci nell’Italia delle piccole potestà feudali che disegnerebbe l’autonomia differenziata, se non la blocchiamo. Perché la nostra è l’Italia della Resistenza, della democrazia progressiva. 

L’editoriale di Giovanni Russo Spena è tratto da Left in edicola dal 26 luglio 2019


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Antigone: le carceri italiane le più sovraffollate d’Europa e per i detenuti una vita disumana

Un detenuto impegnato nella lettura all'interno della sua cella nel carcere di Secondigliano, a Napoli, in un'immagine d'archivio. ANSA / CIRO FUSCO

Più affollate di quelle di tutta l’Unione europea, con un tasso di detenzione più alto di quello dei Paesi nordici e della Germania e più basso solo dei Paesi dell’Est Europa, le centonovanta carceri italiane, a oggi, detengono sessantamila e cinquecentoventidue reclusi. Aumentati di 1.763 nell’ultimo anno e di ottocentosessantasette negli ultimi sei mesi. Quelli che Antigone ha analizzato, presentandone i risultati oggi 25 luglio, per rilevarne numeri e criticità.

La prima è che nel 30 per cento delle carceri visitate dagli operatori dell’Associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, manca lo spazio vitale, inferiore ai tre metri quadri a detenuto e nel 31 per cento delle strutture i detenuti non possono muoversi mai in autonomia. Cosicché, la vita dietro le sbarre peggiora, essendo sempre più carenti gli spazi verdi e i luoghi di incontro. Che mancano, pure, virtualmente: nonostante la legge lo preveda, nel 65 per cento delle prigioni è vietato avere contatti via Skype, nell’81 per cento non è mai possibile collegarsi a internet e la corrispondenza per mail non è un diritto ma un servizio concesso a pagamento.

Rimangono nella solitudine della vita ristretta e a oziare nel vuoto della cella: nell’ultimo mese, secondo quanto riferito da Antigone, sono stati chiusi diversi corsi scolastici in Campania e nel Lazio e nella casa circondariale di Rebibbia a Roma, l’anno scolastico venturo sarà precluso a circa cento detenute per insufficienza di classi. Nell’anno scolastico ormai concluso, invece, solo il 23 per cento delle persone detenute era coinvolto in corsi d’istruzione. Diritto fondamentale della persona libera o reclusa, negarlo a quest’ultima diventa oltretutto controproducente in termini di sicurezza, oltre a essere una forma straordinaria di prevenzione criminale, se si pensa che chi finisce in carcere, arriva da situazioni di estrema povertà culturale: oltre mille detenuti sono analfabeti – doppiando gli analfabeti liberi – di cui ben oltre trecentocinquanta italiani e seimila e cinquecento hanno la licenza elementare.

Sebbene sia ancora prematuro valutare l’impatto della riforma penitenziaria conclusasi nell’ottobre scorso, con tre decreti legislativi e iniziata con la sentenza Torreggiani (adottata dalla Corte europea dei diritti umani l’8 gennaio 2013 che ha condannato  l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani ndr), e sventoli ancora alta la bandiera della certezza della pena, nel primo semestre di quest’anno, le persone arrestate sono state ventitremila e quattrocentoquarantadue e la tendenza al decremento coinvolge anche gli stranieri che passano dal 44 per cento dello stesso periodo del 2017 al 41 per cento del 2019 e, in dieci anni perdono oltre tre punti percentuali, incidendo sulla popolazione carceraria solo per il 33 per cento ma con una distribuzione regionale poco equilibrata: a contenere il maggior numero di detenuti stranieri è la Sardegna, con l’80 per cento collocato a Is Arenas e il 78 per cento a Nuoro, località individuate con l’obiettivo di isolarli dai territori di vita precedente; il Lazio ne ospita 2.515 ossia un ottavo del totale e la Lombardia un sesto con 3.723 presenze. Che calano di oltre un terzo quando il riferimento è alla popolazione proveniente dalla Romania: oggi sono 2.509 i rumeni reclusi mentre nel 2013 erano 3.661, effetto dell’integrazione e delle seconde generazioni.

Minoranze percettivamente sovrastimate ma in alcuni casi dimenticate: le donne, al 30 giugno, sono 2.632, pari al 4,3 per cento del totale della popolazione ristretta, ospitate in quarantanove carceri italiane e con loro cinquantaquattro bambini. Mentre a casa, ad aspettare che il genitore esca dal carcere, ce ne sono sessantunomila. Sempre che il genitore recluso non vada ad allungare il lungo elenco dei morti in prigione: dall’inizio dell’anno, si sono tolte la vita ventisei persone, di cui dieci nell’ultimo mese. Di carcere si muore ancora: le pene inflitte sono troppo lunghe e senza alternative e la vita in prigione coincide con la vita in cella.

Si oppongono. Tra loro

Capiamoci: per giornate come ieri 24 luglio non serve nemmeno scrivere un editoriale, basta la cronaca nuda. C’è un ministro dell’interno che dice di conoscere di vista Gianluca Savoini e di non averlo invitato con lui nel viaggio in Russia in cui lo stesso Savoini ha pateticamente provato a farsi pagare dai russi (perché questi difendono l’Italia da Macron ma sono pronti a fare da zerbino a Putin, un sovranismo sguercio).

Il ministro dell’Interno viene chiamato in aula per spiegare cosa ha fatto quel giorno e per provare a chiarire le continue bugie che ci propina sulla vicenda (all’inizio quasi aveva negato di conoscere Savoini, tanto per fare un esempio) e decide che la questione non è importante, dimenticando che non sta a lui la scelta ma agli elettori e al Parlamento.

Il presidente del consiglio (le minuscole sono tutte volute) va a fare da supplente al ministro in una buffa inversione dei ruoli, scegliendo di riferire al Parlamento (non si capisce bene per cosa) e in sostanza scarica Salvini: «Non ho ricevuto informazioni dal ministro competente», dice Conte. Aggiungendo: «Sulla base delle informazioni disponibili alla presidenza del consiglio posso precisare che il signor Savoini non riveste e non ha rivestito incarichi formali di consulente esperto di questo governo. Era presente a Mosca il 15 e 16 luglio 2018 a seguito del ministro Salvini»

Mentre parla Conte il M5s decide di uscire dall’Aula. Come rimostranza nei confronti di Salvini, dicono. Il loro alleato di governo. Conte si incazza. Qualcuno del Movimento ammette che forse quella mossa è stata una cazzata: «Oggi, pochi istanti prima dell’intervento del premier in Senato, con un messaggio non firmato ci è stato chiesto di abbandonare l’aula. Dissociandomi dall’iniziativa, che non mi appartiene nel metodo e nel contenuto, sono restato al mio posto insieme a molti miei colleghi. Credo che, anche per il bene del Movimento 5 stelle, sia giunto il momento di valutare attentamente le decisioni unilaterali del “capo” e della comunicazione che lo consiglia» ha detto Mattia Crucioli.

Il Pd decide di voler presentare una mozione di sfiducia. Salvini dice di esserne orgoglioso e la paragona agli attacchi delle Ong (ma lui è scappato come un coniglio) e agli attacchi dei Casamonica. L’opposizione dipinta come mafia.

Ecco. Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Buon giovedì.

Con Boris Johnson ora anche il Regno Unito ha il suo Trump

epa07735383 Conservative party leader Boris Johnson departs to his office after he was announced as the new Conservative party leader at an event in London, Britain, 23 July 2019. Former London mayor and foreign secretary Boris Johnson on 23 July 2019 was announced the winner in the party contest to replace Theresa May as leader of the Conservative Party. As the winner, Johnson will also take up the post of Britain's prime minister on 24 July 2019. EPA/ANDY RAIN

Un trionfo annunciato quello di Boris Johnson, nuovo leader dei Tory e da oggi premier britannico, a cui ha contribuito anche il suo stile comunicativo poco ortodosso che ne ha fatto una “figura eccessiva” a detta di molti, grazie alle gaffe, alle battute pesanti e al disprezzo totale per il politicamente corretto. Il neoeletto numero uno dei Tory ha ricevuto questo pomeriggio l’incarico di premier britannico dalla regina, e preso possesso della residenza al numero 10 di Downing Street. Ora si attendono le nomine del futuro team che affiancherà il primo ministro, dopo il passaggio di consegne da Theresa May, premier uscente, che oggi ha affrontato l’ultimo Question time ai Comuni e ha rassegnato le dimissioni nelle mani della regina a Buckingham Palace.

«Attuare la Brexit, unire il Paese, sconfiggere Jeremy Corbyn». Sono questi gli obiettivi indicati da Johnson nel discorso della vittoria dopo la sua elezione al ballottaggio con Jeremy Hunt. Johnson ha ribadito di voler portare a termine l’uscita del Regno Unito dall’Ue entro «il 31 ottobre», ha parlato della necessità di «ridare energia» al Paese e al partito, di essere positivi, e ha assicurato di non aver paura «della sfida». Ha poi invitato «in questo momento cruciale nella storia» del Paese e del partito, a «riconciliare» due aspetti che finora sono apparsi inconciliabili: «L’amicizia con gli alleati europei» e «il contemporaneo desiderio di un governo democratico autonomo in questo Paese».

Johnson – 55 anni, paladino della Brexit, ex ministro degli Esteri e già sindaco di Londra – ha stravinto la sfida col suo successore al Foreign office, il 52enne Jeremy Hunt, ministro degli Esteri ottenendo 92.153 voti (il 66%) contro i 46.656 di Hunt, nel ballottaggio affidato ai 160mila iscritti del Partito conservatore britannico. L’affluenza è stata dell’87,4%, mentre le schede respinte sono state 509. Secondo il sistema britannico, non è previsto un voto di fiducia, salvo che a chiederlo sia il leader dell’opposizione, in questo momento il laburista Jeremy Corbyn. Scenario rinviato presumibilmente a dopo la pausa estiva del Parlamento, visto che Westminster chiuderà i battenti giovedì 25 luglio per riaprirli il 3 settembre.

La Bbc ha annunciato subito la scelta di Dominic Cummings, ideatore della campagna Vote leave al tempo del referendum sulla Brexit nel 2016, fra coloro che saranno i principali consiglieri del neo premier. Una scelta gradita agli euroscettici, ma criticata dal fronte opposto. Al contrario, Philip Hammond si è dimesso dall’incarico di Cancelliere dello Scacchiere (equivalente al nostro ministro dell’Economia, ndr): «Ho appena consegnato la mie dimissioni a Theresa May», ha scritto Hammond su Twitter. «È stato un privilegio servirla come Cancelliere dello Scacchiere per gli ultimi tre anni», prosegue il tweet. Theresa May, si è subito congratulata col suo successore: «Molte congratulazioni a Boris Johnson eletto leader dei Conservatori, ora abbiamo la necessità di lavorare insieme per arrivare a una Brexit che funzioni per tutto il Paese e per tenere Jeremy Corbyn fuori dal governo. Avrai il mio pieno sostegno dalle retrovie».

Il leader dei laburisti, Jeremy Corbyn, ha reagito chiedendo elezioni generali, in modo che siano gli elettori stessi e non solo gli iscritti al Partito conservatore a scegliere il premier: «Boris Johnson ha vinto il sostegno di meno di 100mila membri non rappresentativi del Partito conservatore promettendo tagli alle tasse per i più ricchi, presentandosi come l’amico dei banchieri e spingendo per una Brexit senza accordo dannosa. Ma non ha ottenuto il sostegno del nostro Paese. La gente del nostro Paese dovrebbe decidere chi diventa il premier in una elezione generale», ha sottolineato.

Tra i primi a complimentarsi, anche il presidente americano Donald Trump: «Congratulazioni a Boris Johnson per essere divenuto il nuovo premier del Regno Unito. Sarà fantastico!». Già durante la campagna elettorale Trump aveva, infatti, annunciato pubblicamente il suo favore verso l’ex sindaco di Londra. Johnson è già stato etichettato come il nuovo “Trump britannico” dal Presidente stesso, un modo particolare per segnalare come la storica special relationship Usa-Uk stia per diventare “speciale” in modi completamente nuovi, almeno nel breve periodo. Invero, anche con Theresa May il tycoon statunitense era partito bene – ricordiamo le foto in cui camminavamo mano nella mano nei corridoi della Casa bianca -, ma i rapporti erano peggiorati a seguito dei rimproveri di lei sugli interventi statunitensi non richiesti negli affari britannici. Comunque, rimane quasi una certezza il primo viaggio ufficiale di Johnson a Washington, per sancire la nuova “armonia transatlantica“, tra una moina e l’altra. La vera domanda è se queste premesse si trasformeranno in una concreta convergenza di politiche o meno.

Un’altra delle prime preoccupazioni di Johnson, comunque, dovrebbe essere calmare i rapporti con Tehran. Recentemente, il Regno Unito ha sequestrato una petroliera iraniana nei pressi di Gibilterra, sospettando che stesse trasportando petrolio verso la Siria, e l’Iran ha risposto sequestrando a sua volta una petroliera britannica nello stretto di Hormuz. La faccenda si complica, poiché una risoluzione bilaterale Uk-Iran potrebbe scontentare gli Usa. Difatti, il Regno Unito, insieme ad altri alleati americani in Europa, era stato reclutato più volte da Washington per unirsi alla campagna di “massima pressione” sull’Iran, che in parte era scemata con l’accordo sul nucleare del 2015. La crisi nel Golfo potrebbe comunque rappresentare una buona opportunità per il neo primo ministro e anche Trump è ansioso di impedire lo scoppio di un vero e proprio conflitto. «Il Presidente Trump sembrerebbe più interessato ad una vittoria che a una guerra, e potrebbe voler aiutare Johnson», ha detto Peter Westmacott, l’ex ambasciatore britannico a Washington. «Magari potrebbe esserci un nuovo approccio collaborativo nei confronti dell’Iran, (…) potrebbe valerne la pena».

Da ultimo, anche l’Ue incassa la notizia, apparentemente in modo propositivo. «Non vediamo l’ora di lavorare con Boris Johnson in modo costruttivo, quando assumerà il suo incarico, per facilitare la ratifica dell’accordo di ritiro e arrivare a una Brexit ordinata. – ha detto il capo-negoziatore Ue per la Brexit, Michel Barnier – Siamo pronti anche a rielaborare la dichiarazione concordata su una nuova partnership» tra Ue e Regno Unito, ha aggiunto, ma «all’interno delle linee guida fissate dal Consiglio Ue». La presidente eletta della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è congratulata così: «Aspetto con ansia di lavorare con lui, abbiamo tempi difficili di fronte a noi, dobbiamo costruire una relazione di lavoro forte», Von der Leyen ha anche ringraziato Theresa May per «l’ottimo lavoro fatto insieme in un contesto difficile, dimostrando molto coraggio e dignità, ha voluto servire al meglio gli interessi britannici».

Tra il dire e il fare c’è di mezzo Bibbiano

Proviamo con calma a ricapitolare, cercare di capirsi, non scendere nei gironi dell’isteria generale che vorrebbero rivenderci come politica e tentiamo di dividere il grano dalla pula per riconoscere la differenza tra le azioni e le dimostrazioni.

Ieri il ministro dell’interno Matteo Salvini aveva una giornata libera (da comizi, eh, beninteso) e ha pensato bene di andare a Bibbiano. Fin qui non ci sarebbe nulla di male se il ministro avesse deciso di provare a toccare con mano la situazione confrontandosi con le autorità locali, con le associazioni e tutto il resto. E invece no. Niente di tutto questo. Salvini è andato a Bibbiano a fare un comizio. Proprio così. Come quelli che si vestono eleganti per farsi fotografare alla camera ardente di qualche vip fresco defunto.

Allora ho pensato che volesse darci qualche informazione, dire qualcosa di concreto. E invece no. Mi sbagliavo anche in questo caso. Troppo ottimismo. Salvini ha comiziato come suo solito dicendo che era lì da ministro e da padre. Perché essere padre dovrebbe essere garanzia di credibilità me lo continuo a chiedere da quando il ministro ha cominciato a usare questa forma: Totò Riina era padre, per dire. E quindi?

Quindi ci ha detto che i colpevoli devono pagare doppio, che detta così sembra proprio una bella frase, di uno che si è incazzato davvero. Ma poi, se ci si pensa per un secondo, viene da chiedersi: doppio di cosa? Delle pene stabilite dalla giustizia e quindi comminando una pena che non rispetti la legge? Non credo. Forse voleva dirci che ha pronta una proposta di legge per aumentare le pene che riguardano i reati sui minori? No, figurati. Avrebbe dovuto lavorare, scriverla, illustrarla. Troppa fatica. Quindi una frase senza nessun senso compiuto, a ben vedere.

Se invece ha intenzione di formare una commissione d’inchiesta sulle case famiglia (che per carità male non fa) allora dovrebbe spiegarci perché non sia rimasto nel suo ufficio per pensare alle finalità e alle modalità di questa eventuale commissione in modo da spiegarci minuziosamente come la vorrebbe fare. Spiegare, lavorare: fare politica, insomma.

E invece niente. Semplicemente Bibbiano è il luogo dove ci si garantisce presenza di giornalisti. Tutto qui. Tanto per occupare un po’ di spazio sui giornali.

E pensare che il ministro dell’interno invece dovrebbe spiegarci, in termini di sicurezza che è la sua materia, cosa sia successo l’altro ieri a Firenze che ha bloccato la circolazione ferroviaria e spaccato in due l’Italia. Ma, dico, ve lo vedete Salvini fare il suo lavoro di fianco a un traliccio? Meglio Bibbiano, ovviamente.

Buon mercoledì.

Carlo Augusto Viano: Il ’68 fu una rivolta contro la scienza

Il ’68 fu una forma di assestamento di una società che usciva, in un passaggio rapido, dalla società contadina, per entrare in una fase industriale relativamente moderna» dice il filosofo Carlo Augusto Viano.

«Gli operai che avevano accettato una forte disciplina di tipo fordista cominciarono a ribellarsi, anche contestando i propri sindacati. Mentre i giovani – dice l’autore di Laici in ginocchio (Laterza) – non accettavano più una società in cui l’essere giovani significava soprattutto prepararsi per il lavoro futuro. Volevano vivere da giovani. E questo non riguardava solo l’Italia ma investiva tutti i Paesi occidentali. Era un fatto di trasformazione sociale.
Fra i pensatori di riferimento del ’68, un ruolo centrale l’ebbe Foucault che, però, rivendicava fra i suoi maestri Heiddeger, il filosofo dell’«essere per la morte». Come lo spiega?
Accadeva perché tutta la cultura del ’68 fu una rivolta contro la scienza, identificata tout court con l’attività industriale. Si diceva “basta repressione”. Marcuse colse questo aspetto. E la scienza stessa veniva sentita come una forma di repressione. Da qui la rivolta. Da questo punto di vista il ’68 fu un movimento essenzialmente retorico. Tutto era facile, si poteva ottenere qualunque cosa. Il fatto che il pensiero scientifico mostri che i mezzi adeguati sono lontani, sono difficili, veniva avvertito con insofferenza. Per questa via antiscientifica, il riferirsi a Foucault e la riscoperta di Heiddeger.
E in questa chiave si può leggere La storia della follia e il suo assunto di fondo: la malattia mentale non esiste?
Foucault negava l’esistenza della malattia mentale, percepita come fatto di repressione sociale.
Pensatori del ’68 come Deleuze con il suo Anti-Edipo e lo stesso Foucault si riferivano a un conservatore come Freud che pretendeva di imporre un controllo razionale sull’inconscio, teorizzato come perverso. Una contraddizione in termini?
Certamente. Il ricorso a Freud rientra nel primato della letteratura sul sapere, che fu tipico del ’68. In quegli anni si usò Freud più che altro come strumento di decostruzione per smontare le cose, per trovare la macchinazione dietro quella che sembrava la realtà superficiale delle cose. Ebbero meno peso le istanze di tipo razionalistico. La ragione personale era una ragione nata dalla scarsità. Sartre lo sosteneva. Ora c’era l’abbondanza. Il ’68 era un’illusione di abbondanza.
Perché la rivolta è fallita?
Un po’ perché le rivolte estemporanee quasi sempre falliscono. E poi gli intenti del ’68 non erano del tutto chiari. Anche se alcuni suoi miti sono ancora presenti. Di fatto in Italia c’era una contraddizione abbastanza chiara: il ’68 era “per una società della liberazione”. Però, fino alla recente crisi della società industriale, ha creato una società irreggimentata. Gli studenti universitari protestavano e insieme volevano delle carriere “postali”, come si diceva allora, essere super assistiti.

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Intervista tratta dal libro edito da Left “1968, fu solo un inizio”

La politica gne gne

No, non è politica. No. È una continua, ossessiva ricerca della giusta narrazione per non dire ciò che si fa o non fare ciò che si era detto, tutti concentrati solo nel mettere il vestito buono alle fandonie più indicibili e alle retromarce che non si vogliono spiegare.

Così da una parte accade che il Movimento 5 Stelle, nella persona di Luigi Di Maio, continui la sua inversione a u come se niente fosse, liscio come l’olio, come se le regole e le promesse siano prodotti a scadenza breve al pari del latte o dello yogurt. E, badate bene, il problema non è nel cambiare idea (che tra l’altro può essere invece segno di maturità e intelligenza) ma nel non assumersene la responsabilità. Così il M5S (quello che non doveva allearsi con nessuno e governa con la Lega) ora apre nuove strade: dicevano che non ci si sarebbe mai spostati dai due mandati e invece arriva il mandato zero e così possono essere tre («Abbiamo deciso di introdurre il cosiddetto “mandato zero”. Che cos’è il mandato zero? È un mandato, il primo, che non si conta nella regola dei due mandati, cioè un mandato che non vale», la frase pronunciata da Di Maio è uno spasso letterario), dicevano che non ci doveva essere struttura e invece arrivano i facilitatori regionali, dicevano nessuna alleanza e invece ora si apre alle alleanze. Capolavoro.

Dall’altra il Pd (che non perde mai occasione quando c’è da sbagliare) decide di rispondere all’orribile strumentalizzazione su Bibbiano (e sui bambini usati come clava politica) informandoci che uno degli indagati è difeso da un avvocato appartenente al Movimento 5 Stelle. In pratica per stigmatizzare un comportamento decidono di comportarsi allo stesso modo, fregandosene del dolore che tutta questa storia contiene. Altro capolavoro.

Niente di politico, niente che riguardi le riforme per il Paese, niente che sia di un minimo spessore culturale. La chiamano politica e invece è un lungo, disdicevole gne gne.

Buon martedì.