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Climate change, ecosistemi e socialismo ambientale

È passato un anno da quando Greta Thunberg ha iniziato a protestare in modo clamoroso per richiamare l’attenzione delle istituzioni e della politica sui cambiamenti climatici e sul rispetto dell’accordo di Parigi di dicembre 2015 (COP21) sul cambiamento climatico. Per merito suo l’Europa e il mondo intero hanno preso coscienza della gravità della situazione, gravità nota già da anni in ambito scientifico. Ormai non abbiamo bisogno di credere alla scienza: basta che ci guardiamo intorno. Giugno 2019 è stato il secondo giugno più caldo in Italia dal 1800. La temperatura è stata 3,3 gradi superiore alla media. Ma non solo: questo caldo “anomalo” è stato accompagnato da fenomeni che continuiamo a chiamare “estremi” come grandinate con chicchi grossi come aranci. La flora, già provata da un inverno anomalo, sta soffrendo di malattie che si diffondono velocemente.
Ma cosa hanno ottenuto le grandi mobilitazioni (i “Fridays for Future”) che sono seguite alla protesta di Greta? Sicuramente una maggiore coscienza individuale di tante persone. Molto meno si sono viste azioni concrete da parte dei governi. In Italia non è in vista alcuna azione, tutt’altro. Il caso Ilva ci insegna che si guarda altrove.

Ma la crisi ambientale non è solo crisi climatica. Ad esempio gli insetti, essenziali per i nostri ecosistemi, si stanno estinguendo a una velocità otto volte superiore rispetto a quella dei mammiferi, dei rettili e degli uccelli. Secondo i ricercatori, più del 40 per cento delle specie d’insetti conosciute è in costante declino e almeno un terzo è in pericolo (fonte: Biological Conservation).
La siccità è un altro grande problema: studi scientifici (Kate Marvel et. altri su Nature) dimostrano la correlazione tra attività umane, in particolare industriali, e inaridimento: l’Europa e in particolare l’area mediterranea verranno colpite dall’aumento dell’evaporazione e dalla riduzione delle piogge portando larghe porzioni di territorio ora fertili a diventare aride.
Potremmo portare tanti altri esempi, dallo scioglimento dei ghiacciai all’erosione del suolo, il dissesto idrogeologico, l’innalzamento dei mari, l’invasione di fauna “aliena” …
Tutti segnali che ci dicono che l’attività dell’uomo modifica gli equilibri naturali del nostro pianeta. La domanda che sorge spontanea è se l’uomo sia una forma di vita incompatibile con il mondo in cui vive. La risposta è semplice: l’uomo è compatibile, è il modello sociale in cui viviamo, basato sullo sfruttamento compulsivo delle risorse naturali e umane, che è incompatibile.

Sgombriamo subito un’ambiguità: il Pianeta non sarà distrutto dall’uomo, è sopravvissuto a catastrofi ben più grandi, basta pensare al cambiamento dell’asse di rotazione. L’uomo distruggerà se stesso o, almeno, distruggerà il modello sociale e relazionale che abbiamo conosciuto noi. Perché, e cercheremo di capirne le motivazioni in seguito, il sistema capitalistico non è compatibile con la conservazione dell’ambiente che ci circonda. Quindi, necessariamente, dovremo arrivare a un modello sociale diverso se vogliamo garantire l’esistenza della razza umana. E ci possiamo arrivare in diversi modi:

Continuando l’attuale indiscriminata corsa allo sfruttamento di tutte le risorse fino a che l’inevitabile crisi ambientale ci condurrà a disastri di tale portata – uragani, siccità, scomparsa di parte delle terre emerse, crisi alimentare, inquinamento, malattie, guerre locali e di teatro … – che, in modo violento, porteranno una forte riduzione del numero di abitanti sulla terra e un radicale cambiamento nello stile di vita dei superstiti. Ovviamente i più colpiti saranno i più deboli mentre l’1% della popolazione che già detiene la maggioranza delle “ricchezze” del Pianeta probabilmente si arricchirà ancor di più e riuscirà a crearsi delle “isole di sopravvivenza” protette e per loro appaganti. Le diseguaglianze aumenteranno ancora e in modo sempre più drammatico.
Adottando una politica di “riformismo ambientale” in grado di attenuare gli effetti devastanti dell’azione antropica sulla natura. Misure in grado di ridurre l’emissione di gas serra, di contrasto alla siccità, di contenimento dell’aumento della temperatura media, di sfruttamento della “risorsa acqua”. Mirando a “rigenerare parzialmente” le risorse naturali senza modificare il nostro modello di vita sociale e quindi senza modificare il modello di sfruttamento delle risorse umane e naturali. Politiche funzionali a continuare lo sfruttamento capitalistico di tutte le risorse travestendolo con il nome di “economia sostenibile”. Sostenibile nel senso che si cerca di sfruttare le risorse in maniera meno devastante, consumandole più lentamente, provando a creare le condizioni perché, almeno in parte, le risorse naturali si rigenerino. Un modo di rinviare la soluzione del problema, un modo di assicurarsi ancora qualche anno. Una soluzione che è una “non soluzione”.

Con una rivoluzione sociale-ambientale che in modo progressivo, pacifico ma deciso, cambi radicalmente i valori alla base della nostra società andando a sostituire modelli di sviluppo basati sulla concorrenza, l’accumulo, il consumo compulsivo e lo sfruttamento con un nuovo modello sociale che permetta lo sviluppo basato sulla conservazione delle risorse, il consumo responsabile delle risorse di vicinanza e la ricostituzione delle risorse consumate. In questo modello la competizione, l’egoismo, la sopraffazione, l’accumulo privato e il consumo compulsivo di beni spesso non indispensabili, lo sfruttamento sarebbero sostituiti dalla collaborazione, la condivisione, la felicità del tempo libero, il benessere sociale, la salute, un lavoro appagante e dall’equa ripartizione dei beni comuni nel reciproco rispetto.

Pare evidente che, bene che ci vada, allo stato dei fatti, sarà adottato il “riformismo ambientale”.
I costi, sociali ed economici che stiamo subendo, e che continueremo a subire nel caso di “riformismo ambientale” sono enormi: ma sono costi a carico della collettività, a carico delle fasce più deboli delle popolazioni occidentali e, soprattutto, a carico delle popolazioni più indifese dei paesi in via di sviluppo. Viceversa le cause della crisi in atto derivano essenzialmente dallo sfruttamento delle risorse, umane e naturali, al fine di conseguire profitti privati sempre più elevati. Lo dimostra il fatto che l’1% della popolazione già detiene la maggioranza delle “ricchezze” del Pianeta mentre il rimanente 99% si divide il poco che resta.
Viceversa solo il radicale cambiamento del modello sociale, un vero socialismo ambientale, ci consentirebbe di risolvere definitivamente le crisi in atto. E di creare un nuovo modello di sviluppo in cui economia e lavoro siano a servizio dell’ambiente e viceversa.

L’autonomia recitata

Luca Zaia e Attilio Fontana. ANSA / MATTEO BAZZI

Fontana e Zaia, in nome di Lombardia e Veneto, hanno sfogato le proprie ire contro il presidente del consiglio Giuseppe Conte colpevole, a loro dire, di non volere dare abbastanza autonomia alla Padania e quindi di non rispettare i referendum (un po’ fiacco, quello di Fontana, a dire la verità) e il volere popolare.

Autonomia, popolo, volontà popolare sono le parole che la Lega sventola da anni come eccitante dei suoi elettori insistendo a magnificare un paradiso secessionista che ovviamente non è fattibile, non è costituzionale e non troverebbe mai i numeri necessari in Parlamento. Del resto la Lega, nonostante la finzione di Salvini, ha governato parecchi anni e non ha mai mosso una foglia sul tema nonostante se ne siano scordati in molti.

Ma non è questo il punto. Quello che ci interessa è come le infattibili promesse dei leghisti in fondo siano la loro stessa gabbia: per sfamare i suoi elettori Salvini dovrebbe attuare una secessione del nord che ormai non è nemmeno nei pensieri del vicepremier eletto in Calabria e difensore della Padania. Sapendo che non ci riuscirà mai allora non gli resta che applicare un’autonomia recitata che consiste nel trovare ogni volta un nemico o un potere forte che gli impedirebbero di arrivare al risultato finale. Per questo Fontana e Zaia hanno accettato di buon grado di fare gli attori in commedia sperando di placare l’ira funesta dei loro elettori (e del resto chi fa politica con l’ira ne finisce sempre prima o poi travolto): per loro è importante che si simuli una tensione all’obiettivo, solo questo.

Del resto la voglia di autonomia che accompagna questi tempi è soprattutto il desiderio che la libertà coincida con il farsi i fatti propri, in spazi sempre più ristretti, dallo Stato alle Regioni ai Comuni fino ad arrivare all’Io, dove l’egoismo sia sdoganato per legge e reso addirittura obbligatorio per difendersi da stranieri, oziosi, terroni oppure più semplicemente gli altri.

E così è tutta una corsa ad infeltrirsi. E tutti contenti di correre. Avanti così.

Buon lunedì.

 

Perché Corbyn ora punta deciso sul Remain

British Labour Party leader Jeremy Corbyn leaves EU headquarters prior to an EU summit in Brussels, Thursday, March 21, 2019. British Prime Minister Theresa May is trying to persuade European Union leaders to delay Brexit by up to three months, just eight days before Britain is scheduled to leave the bloc. (AP Photo/Frank Augstein)

Ha fatto molto rumore l’annuncio da parte di Jeremy Corbyn di un parziale cambio di rotta del partito laburista sul fronte della Brexit. Occorre dunque mettere un poco in prospettiva la vicenda, per evitare le semplificazioni.
Innanzitutto va ricordato che nel mese di settembre 2018 il Labour, nella sua Conference annuale, il luogo dove vengono decise le linee programmatiche del partito, aveva votato all’unanimità una mozione in cui la strategia laburista per fermare la Brexit dei conservatori sarebbe stata innanzitutto quella di una battaglia in Parlamento, seguita dalla richiesta di nuove elezioni politiche. A seguito della sconfitta in Parlamento del governo (cosa che è avvenuta nel frattempo tre volte), il partito laburista avrebbe richiesto un nuovo referendum, questo diceva la mozione votata a settembre. In ogni caso, sempre a settembre, si era affermato con forza che fosse necessario fare qualunque cosa per evitare un “no deal” che consiste in una minaccia nei confronti dei diritti dei lavoratori e della qualità della vita dei cittadini del Regno Unito.

Alla luce di queste posizioni che, ripetiamo, sono le linee programmatiche del Labour da quasi un anno, non deve destare troppo scalpore il fatto che Corbyn oggi proponga un nuovo referendum sulla questione. Nel frattempo, infatti, Theresa May ha, nell’ordine: chiuso un accordo con l’Unione europea che è stato bocciato per ben tre volte in Parlamento, ha dovuto richiedere il rinvio della Brexit – inizialmente prevista per il 29 marzo 2019 – al 31 ottobre 2019 e invitato il Labour a Downing street per trovare un accordo senza però avere l’autorità per chiuderlo perché, mentre trattava con l’opposizione, il proprio partito l’ha sfiduciata e i suoi probabili successori avevano linee totalmente differenti rispetto alla sua.

Non sorprende dunque che il Labour abbia deciso di mettere tutto il proprio peso sulla richiesta di un nuovo referendum. Jeremy Corbyn si è spinto per…

https://www.youtube.com/channel/UCgV4T1wDRd4AV31qGYbY39g

 

 

L’articolo di Domenico Cerabona prosegue su Left in edicola fino al 25 luglio 2019


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Il progresso è laicità e giustizia sociale

In Irlanda, il 1913 fu un anno cruciale per il plasmarsi di una rappresentazione collettiva delle classi lavoratrici. Più di 20mila lavoratori a Dublino subirono una serrata generale oppure decisero di scioperare. Il movimento dei lavoratori ha saputo trarre forza e coraggio dall’esemplare eroismo di quelle persone; ma anche da personalità più vicine a noi come Mary Manning, la commessa della catena di supermercati irlandesi Dunnes Stores che nel 1983 si rifiutò di vendere frutta proveniente dal Sud Africa in segno di protesta contro il regime dell’apartheid. Tuttavia, la forza maggiore il movimento continua a trarla dalla collettività, ossia dalle centinaia di migliaia di persone capaci di mostrare solidarietà sul posto di lavoro nei confronti di altri cittadini come loro e di tutte le popolazioni del mondo.

In Irlanda soltanto un lavoratore su quattro oggigiorno è iscritto a un sindacato, e di questi, più della metà provengono dal settore pubblico. Nel 1980 quasi due terzi dei lavoratori irlandesi erano sindacalizzati. Ma abbiamo segni incoraggianti di un’inversione di tendenza.

Il movimento sindacale, dobbiamo ricordarcelo sempre, nasce da una orgogliosa e importante tradizione su cui hanno potuto fare affidamento, rispettivamente, i movimenti per i diritti civili, quelli che hanno combattuto contro l’apartheid e quanti hanno perseguito una società basata sull’uguaglianza.

La fede eccessiva nelle ortodossie economiche di oggi, lo spazio ridotto destinato ai nuovi saperi, e un’aderenza a quella che oramai si è rivelata essere una competenza fasulla, hanno giocato un ruolo chiave nell’agevolare, ma anche nel contrastare, una catastrofe economica e sociale configuratasi come una vera e propria Grande Recessione, recessione che ha colpito la nostra nazione assieme ad altre. Oggi, nuove circostanze richiedono un…

 

* Michael D. Higgins, presidente d’Irlanda, è anche poeta e saggista. Proviene da una famiglia di umile estrazione che ha attraversato vicende tormentate; questo anche a causa delle posizioni politiche del padre che combatté nella guerra di indipendenza contro il Regno Unito (1919-1921), e poi lottò nelle file dei repubblicani durante la guerra civile irlandese (1921-1923). Nella sua carriera accademica ha insegnato nel Dipartimento di Sociologia e scienze politiche dell’Università di Galway ed è stato Visiting professor alla Southern Illinois University. Esponente di spicco del Labour party, sindaco di Galway in due occasioni (nei bienni 1982-83 e 1990-91), nel 1993 è stato nominato ministro della Cultura, e nel 2003 eletto presidente del Labour party. Nel 2011 è stato eletto presidente d’Irlanda per la prima volta, e nel 2018 ha iniziato il suo secondo settennato con un vastissimo consenso. Le opere di Higgins tradotte in italiano sono “Il tradimento e altre poesie” (Del Vecchio Editore, 2014, a cura di Enrico Terrinoni, con prefazione di Giulio Giorello), e “Donne e uomini d’Irlanda. Discorsi sulla rivoluzione” (Aguaplano Edizioni, 2018, a cura di Enrico Terrinoni, postfazione di Salvatore Cingari). La traduzione di questo articolo è stata curata da Enrico Terrinoni

L’articolo di Michael D. Higgins prosegue su Left in edicola dal 19 luglio 2019


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Diavolo di una pillola

L’arcangelo Gabriele, nell’Annunciazione di Botticelli, porge a Maria una scatola di EllaOne, la “pillola dei 5 giorni dopo”. In alto si legge: «Usala, fa miracoli!». Con questo elaborato gli studenti dell’Istituto Giorgi-Woolf di Roma hanno vinto il primo premio dell’iniziativa “Informiamici”, promossa dalla Smic (Società medica italiana per la contraccezione). Gli elaborati sono stati votati unicamente dagli studenti su Instagram; quello vincente ha avuto più di dodicimila “like”, ed ha suscitato la violenta reazione delle associazioni autonominatesi “pro-vita”, nonché una lettera alla Federazione nazionale degli ordini dei medici e degli odontoiatri (Fnomceo), con cui il presidente dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci) invoca «provvedimenti deontologici e/o disciplinari» contro la Smic e i medici che hanno ideato l’iniziativa.

La lettera sarebbe di scarso interesse, se non fosse l’occasione per una riflessione sull’influenza dei cattolici nella nostra società e in particolare nel campo della salute e dei diritti riproduttivi.
Per il presidente dei medici cattolici l’iniziativa della Smic e l’elaborato vincente violerebbero l’art. 54 del codice di deontologia medica, costituendo una «informazione sanitaria ingannevole, che impedisce ai cittadini una scelta libera e consapevole», perché la pillola “dei cinque giorni dopo”, «nei casi in cui è avvenuta la fecondazione», sarebbe «chiaramente abortiva».

A sostegno di tale affermazione cita il vecchio bugiardino di EllaOne, nel quale si riporta, oltre al noto effetto di ritardo o blocco dell’ovulazione, un eventuale effetto antinidatorio del farmaco, tralasciando di specificare che questa parte è stata eliminata nel 2015, in linea con i pronunciamenti

dell’Ema (Agenzia europea per i medicinali) e con le evidenze scientifiche che nel frattempo si sono rafforzate; sulla base di tali evidenze si è rimosso l’obbligo di prescrizione medica per le donne maggiorenni. Ma le certezze granitiche dei medici cattolici non sono minimamente intaccate dalle evidenze scientifiche, per loro il farmaco è «chiaramente abortivo». La scienza deve utilizzare un linguaggio comune, condiviso, che non possa dare spazio a fraintendimenti o interpretazioni. I medici cattolici non accettano questo linguaggio comune: per loro vita “biologica” e vita “umana” sono sinonimi, come lo sono i concetti di pre-embrione, embrione, feto, neonato. La verità assoluta di cui sono depositari impone loro di rifiutare la definizione di aborto universalmente condivisa, ribadita dallo stesso Consiglio superiore di sanità: si parla di aborto quando si interrompe una gravidanza, il cui inizio si definisce solo quando il processo dell’impianto si sia concluso.

Quando si dice alle donne che un embrione è già un bambino, o che la contraccezione di emergenza è abortiva si dà una informazione falsa, basata su preconcetti ideologici, privi di evidenza scientifica. Di questo dovrebbe occup…

L’articolo di Anna Pompili prosegue su Left in edicola dal 19 luglio 2019


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Governo Sanchez, il gesto responsabile di Iglesias

Sanchez e Iglesias

Inutile e anche un po’ ipocrita denunciare la generale disaffezione verso le istituzioni e la politica, quando proprio chi ammonisce fa passare quasi tre mesi, dopo aver vinto le elezioni, senza riuscire a trovare un accordo per dare un governo alla Spagna. La prossima settimana inizia, con la convocazione del nuovo Parlamento, il dibattito sull’investitura del candidato socialista, Pedro Sánchez, alla presidenza del Consiglio.
Sánchez, dopo l’ultimo inconcludente confronto tra Psoe e Unidas Podemos, aveva assicurato che la richiesta di Iglesias di far parte dell’esecutivo era il principale ostacolo nei negoziati per un accordo legislativo e aveva espresso in diverse occasioni che, nel caso di una mancata nomina a capo del governo, si sarebbe finiti a nuove elezioni politiche a novembre.
Veti incrociati e esigenze irrinunciabili, mentre già aleggia il resoconto socialista che parla dell’imperdonabile Iglesias disposto a votare contro l’investitura di un presidente di sinistra se non sarà ministro. Un gioco dannoso, di ruoli e di protagonismi, interrotto alla fine della settimana con le parole diffuse sui social dallo stesso Iglesias: “non sarò la scusa per evitare il governo di coalizione”. Eccola qui la saggia e attesa decisione di fare un passo indietro se questo è davvero il solo ostacolo che impedisce il governo congiunto tra Psoe e Unidas Podemos. Ora Iglesias, che i socialisti hanno chiamato lo scoglio che impediva la formazione del governo di coalizione, non c’è più. Non ci sono più alibi, perché in definitiva di questo si è trattato, c’è solo la richiesta di poter indicare i nomi del suo partito nell’esecutivo tra quelli scelti dalla sua formazione.
In questi mesi è sembrato insignificante che oltre il 75% del popolo spagnolo si sia recato alle urne, indicando con sufficiente chiarezza di voler essere governato da una forza progressista, contro le destre e l’egemonia neo-franchista di Vox.
Pedro Sánchez ha quasi ignorato il messaggio del voto, tentato di rincorrere una trasversalità anacronistica, alla ricerca di un centro che, dalle elezioni in Andalusia, è ormai evaporato. In questi giorni ha tentato e ritentato contattando telefonicamente i leader dei principali partiti, PP, Cs e Unidas Podemos, per avere almeno un’astensione per ottenere l’investitura per “responsabilità” e, nel caso del Partito Popolare, per “reciprocità”, come conseguenza dell’astensione nel 2016 dei socialisti alla nomina di Rajoy.
Le destre fanno il loro mestiere di opposizione: Casado per il PP e Rivera per Ciudadanos insistono sul no e ripetono fino alla nausea che non c’è possibilità di cambiare l’orientamento del loro voto. Mentre l’astensione dei socialisti all’epoca richiese la cacciata di Sánchez da segretario del partito, e questo la dice lunga sul Psoe. L’obiettivo sembra far naufragare la svolta a sinistra che, proprio Sánchez, ha impresso con la sua vittoria alle primarie e l’alleanza con Unidas Podemos che presuppone.
La domanda in questi giorni non è stata perché Unidas Podemos insiste testardamente per un governo di coalizione, ma perché i socialisti vi resistono così tenacemente.
La ragione più plausibile, e inquietante, è che un governo di coalizione colpirebbe interessi e poteri corposi, perché darebbe maggiore radicalità e profondità al progetto di cambiamento, andando oltre quel bilancio concordato, per la finanziaria passata, fra Sánchez e Iglesias.
Con un governo di coalizione verrebbe derogata la legge sul lavoro e cancellata la ley mordaza di Rajoy che limita la libertà di espressione; sarebbero restituiti i diritti alle persone, da quello alla sanità e all’educazione, dal diritto alla casa a quello dell’effettiva uguaglianza fra donne ed uomini.
E’ comprensibile che Sánchez faccia fatica a persuadere poteri economici ed istituzionali, europei e spagnoli, vincolati ad altri interessi, su un progetto così.
In un rapporto difettoso le responsabilità devono essere distribuite equamente e quindi anche Pablo Iglesias e il gruppo dirigente di Unidas Podemos, ha le proprie. Non per le insistenze nel proporre il governo di coalizione con suoi ministri, ma perché lo ha fatto prescindendo dai rapporti di forza, definiti dal voto, fra i due partiti di sinistra, nettamente favorevoli al Psoe.
I socialisti hanno reagito con cautela al passo indietro del segretario di Unidas Podemos: “Senza veti o imposizioni, possiamo raggiungere un accordo. Iniziamo con i contenuti. Prima il programma, e poi il governo”. Non ci sono argomenti ragionevoli per smettere di negoziare per un esecutivo progressista per il paese e per la sua gente.

Se volere la Luna è poter fare ricerca scientifica

A picture taken on May 6, 2018 shows a woman leaning against smallscale sculptures featuring German-born physicist Albert Einstein, which are part of an installation by German conceptual artist, Ottmar Hoerl, on the Muensterplatz square in Ulm, Einstein's birth city. (Photo by Stefan Puchner / dpa / AFP) / Germany OUT / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY MENTION OF THE ARTIST UPON PUBLICATION - TO ILLUSTRATE THE EVENT AS SPECIFIED IN THE CAPTION (Photo credit should read STEFAN PUCHNER/AFP/Getty Images)

Mentre il nostro governo prosegue la sua propaganda di odio contro Ong e politiche di accoglienza, colpevolizzando chi migra per non morire, altre “navi”, cariche di migranti nostrani, lasciano l’Italia nell’indifferenza quasi totale. «Se ogni settimana gli italiani che lasciano il Paese attraversassero il mare, su un barcone ci sarebbero 2.300 italiani ogni sette giorni (di media i migranti nel 2018 sono stati 449 a settimana)». Così Massimo Anelli, docente di Scienze politiche e sociali dell’Università Bocconi, interviene al Festival dell’Economia di Trento nella sezione “Cervelli in fuga? Andamenti, politica e politiche”.

Si tratta di un flusso uscente preoccupante: dal 2008, tenendo conto anche dei rientri, l’Italia ha perso una città delle dimensioni di Bologna (circa 390mila abitanti). A migrare sono soprattutto giovani di età compresa tra i 25 e i 40 anni, la maggior parte con un titolo di studio medio-alto. Nell’ultimo rapporto Istat si legge che tra coloro che si sono dottorati nel 2014, conseguendo quindi il più alto titolo accademico, a quattro anni dal conseguimento (nel 2018), quasi uno su cinque (il 18,8%) vive all’estero. Fenomeno in crescita se si guarda ai dati degli anni precedenti: nel 2014 ad abitare all’estero era infatti il 14,7% di coloro che si erano dottorati in Italia nel 2010. Se ci limitiamo poi alle sole discipline scientifiche, le percentuali si fanno ancora più drammatiche e a risentirne è chiaramente il livello della ricerca scientifica in Italia.

Bisogna sottolineare che ciò che preoccupa è il flusso netto in uscita. Il fatto che molti giovani, dopo aver conseguito una laurea o un dottorato in area Stem (dall’inglese Science, technology, engineering and mathematics), lascino l’Italia per proseguire il proprio percorso all’estero non è, infatti, di per sé un segnale d’allarme. La spinta a partire…

L’articolo di Ilaria Maccari, Alessia Nota e Giulia Venditti prosegue su Left in edicola dal 19 luglio 2019


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Io, Agnes Heller

Agnes Heller

Un ricordo della grande filosofa ungherese Agnes Heller scomparsa oggi. Allieva di Lukacs, marxista eretica che ha avuto il coraggio di ribellarsi ai carri armati sovietici. Fra i molti e fertili incontri che abbiamo avuto con lei e con il suo insegnamento vorremmo riproporvi questa intervista apparsa su Left nel 2013  in cui rileggeva la lezione di Marx e parlava dell’intelligenza poetica di Shakespeare. Ma soprattutto metteva al centro il rifiuto della violenza. Denunciando il regime di Orban. Di seguito l’incontro con lei che la direttrice di Left Simona Maggiorelli ha moderato a Più Libri più liberi nel 2017

di Simona Maggiorelli

Quando qualcuno le chiede se è marxista lei risponde con bella fierezza: «Io sono Agnes Heller, non posso che essere me stessa». Allieva di György Lukács e fra i massimi esponenti della Scuola di Budapest che “osò” criticare l’ortodossia comunista, la filosofa ungherese di origini ebraiche (classe 1929) da bambina è scampata all’orrore nazista e da giovane studiosa ha avuto il coraggio di schierarsi pubblicamente contro i carri armati sovietici che uccidevano la primavera di Praga. Con coerenza, nei suoi lavori filosofici come in quelli più schiettamente politici, si è sempre battuta per i diritti umani e per la giustizia sociale, rifiutando la violenza, anche quella proletaria «per la conquista del potere».

E se a lungo è stata un personaggio scomodo per i regimi dell’Est, oggi lo è altrettanto per il governo conservatore di Viktor Orban. «L’attuale governo ungherese ha limitato la libertà di stampa, ha eliminato pesi e contrappesi, ha varato una Costituzione infischiandosene dell’opposizione e l’ha modificata già quattro volte. Ed ha anche cambiato la legge elettorale. Questo è un regime bonapartista» dice Agnes Heller a left. E subito aggiunge: «L’unico rimedio possibile è la vittoria dell’opposizione democratica.

Ma la precondizione assolutamente necessaria è che tutti i partiti di opposizione uniscano le forze in vista delle elezioni che si terranno nella primavera del 2014. Questa è la nostra unica chance». Attesa a Torino dove il 29 settembre tiene una conferenza sul tema del valore della scelta, cogliamo l’occasione per riprendere con lei alcuni fili rossi che percorrono tutta la sua ricerca. A cominciare dall’importanza del rifiuto della violenza. «Oggi è diventato finalmente un pensiero largamente condiviso. Non solo la violenza fisica ma anche quella mentale è considerata inaccettabile – commenta -. In molti Paesi ci sono leggi che puniscono atti di violenza sia nella sfera pubblica che in quella privata. In tutte le nazioni democratiche ci sono leggi contro lo stupro in famiglia e contro la pedofilia. Certo, la questione della violenza psichica è più complessa per un giudice, perché invisibile e talora difficile da dimostrare. Ma va riconosciuto che grossi passi avanti sono stati fatti nella pubblica opinione, è cambiata la comprensione e il giudizio della gente. E questa acquisizione culturale mi fa pensare che lo sviluppo umano sia nella direzione di una sempre minore violenza. Con ciò non voglio dire che credo nella “pace eterna”. Ma per quanto riguarda, ad esempio, un fenomeno macroscopico di violenza come lo è la guerra, penso che in Europa non ce ne saranno in un futuro immediato. E che le guerre locali che, purtroppo, segnano oggi altre parti del mondo, non sfoceranno in nuove guerre mondiali».
Dopo tante battaglie contro il totalitarismo e riflessioni critiche sul capitalismo che offre una caricatura della libertà oggi che senso ha per per lei questa parola?
La libertà è il valore più ricercato. Nella storia però è stato interpretato in modi molto diversi. La libertà può essere intesa come libertà di scelta, come piena indipendenza, come inscindibile dal rispetto delle leggi e molto altro. La modernità è caratterizzata anche dal pensiero che “tutti gli uomini nascono liberi”. Ma il fondamentalismo religioso e le ideologie totalitarie attaccano questa acquisizione. Ciò significa che nelle democrazie moderne niente è “naturale” e dato una volta per tutte. Questo è il motivo per cui le libertà democratiche devono essere praticate, riaffermate ogni giorno, perché rischiamo di perderle con facilità.

Lei è una grande studiosa di Marx. E del Marx giovane in particolare. Anche quando la sinistra si concentrava solo sulla lettura più strutturalista del Capitale. Oggi cosa resta della sua lezione?

Karl Marx è stato il primo importante filosofo radicale del XIX secolo. A mio avviso non ha perso questo significato e può essere fonte di ispirazione. Ma le sue previsioni riguardo al collasso del capitalismo non si sono dimostrate valide. Di fatto ha sbagliato anche nel preconizzare la fine dello Stato come istituzione e nel preventivare un messianico avvento del comunismo come mondo dell’abbondanza. Nessuna filosofia può essere falsificata su un terreno empirico concreto. Dunque il marxismo non è più un’opzione teoretica credibile, come del resto non lo sono più molti altri “ismi”. Oggi chi si dice marxista magari non ha nemmeno letto i suoi lavori ma condivide l’agenda politica radicalmente semplificata di un gruppo o di un partito “anticapitalista” e “antiglobalizzazione”.
Negli ultimi anni lei è tornata alla sua passione giovanile, gli studi di estetica e ha dedicato più libri a Shakespeare. Riguardo a ciò che muove l’animo umano i poeti hanno da insegnarci molto più dei filosofi?
Shakespeare per me resta una delle più significative fonti di sapienza nonché di conoscenza di noi stessi e delle altre persone. Credo che non lo batta nessuno da questo punto di vista. Ma non penso che si possa stabilire una gerarchia fra poesia e filosofia. Sono due generi letterari diversi, per me ugualmente importanti.

«È un omofobo», Porto Rico vuole cacciare il governatore. Tra le sue “vittime” anche Ricky Martin

SAN JUAN, PUERTO RICO - JULY 18: Daryana Rivera (R) joins other demonstrators near a street leading to the governor's mansion to protest against Ricardo Rossello, the governor of Puerto Rico on July 18, 2019 in Old San Juan, Puerto Rico. Protesters are demanding that the governor step down after the contents of a private chat group revealed that he and top aides made misogynistic and homophobic comments. (Photo by Joe Raedle/Getty Images)

«Siamo stanchi del cinismo. Insultano le donne, insultano la comunità Lgbt, le persone con disabilità. La corruzione è folle. Siamo stanchi, non ne possiamo più». È il cantante e attore portoricano Ricky Martin a criticare il governo dell’isola in un video su Twitter, durante le proteste che invadono le strade della capitale San Juan ormai da sette giorni. I cittadini chiedono le dimissioni del governatore Ricardo Rosselló, dopo la diffusione di 900 pagine di trascrizioni di sue chat private – avvenuta il 13 luglio -, contenenti insulti omofobi, misogini e altri commenti compromettenti. Che prendono di mira anche il celebre cantante portoricano. Nei giorni passati migliaia di manifestanti si sono scontrati con la polizia a pochi metri dalla casa del governatore e sono stati dispersi con lacrimogeni e proiettili di gomma.

I messaggi – ottenuti e diffusi dal Center for investigative journalism, un consorzio che riunisce varie testate giornalistiche internazionali – provengono da chat di gruppo della piattaforma di messaggistica Telegram che vanno dalla fine del 2018 al 20 gennaio del 2019, e coinvolgono altri 11 ministri e consiglieri. Tra i messaggi ce ne sono alcuni che mostrano la manipolazione dei sondaggi politici, al fine di promuovere l’immagine pubblica del governatore e della sua amministrazione. Altri in cui Rosselló chiama una politica newyorkese di origini portoricane «una puttana» e risponde a un consigliere che diceva di voler «sparare» alla responsabile delle finanze di Porto Rico sostenendo che gli avrebbe «fatto un favore». Includevano, inoltre, insulti omofobi contro la sessualità di Ricky Martin (il caso ha preso da qui il nome di Rickyleaks), motivo per cui il cantante, accompagnato da altri artisti e personalità portoricane del mondo dello spettacolo, ha marciato in prima linea contro Rosselló. Ancora, si scherzava sulle vittime dell’uragano Maria del 2017, il peggiore disastro della storia del Paese, con 2.975 vittime ufficiali, ma quasi 5.000 morti effettivi, secondo alcune stime.

I manifestanti protestano anche contro la corruzione del governo: due ex collaboratori dell’attuale amministrazione sono infatti stati arrestati dall’Fbi pochi giorni prima della fuga di notizie e condannati per corruzione e frode. Sono accusati di aver usato impropriamente oltre 15 milioni di dollari di fondi stanziati dopo l’uragano.

Rosselló si è scusato per i messaggi e ha promesso una svolta verso maggiore trasparenza e responsabilizzazione all’interno del governo. Alla conferenza stampa indetta dopo lo scoppio della crisi, ha anche tentato di giustificarsi inducendo come scusa il fatto di aver avuto «giorni di lavoro di 18 ore», anche se la chat mostra l’utilizzo continuo della conversazione Telegram durante tutta la giornata lavorativa. Intanto, comunque, il Segretario di Stato Luis Rivera Marin e il Responsabile per la gestione finanziaria Christian Sobrino si sono dimessi in seguito alla crisi.

Porto Rico è un isola caraibica che fa parte degli Stati Uniti – come territorio – fin dal 1898, dei quali cui vorrebbe diventare ufficialmente un Paese membro. Chiunque sia nato sull’isola, infatti, è sì considerato cittadino nordamericano ma non gode di tutti i diritti che spettano a chi proviene da uno dei 50 Stati veri e propri; per esempio, un portoricano non può votare alle elezioni presidenziali, a meno che non sia registrato in uno degli Stati.

Nella campagna per le elezioni del 2016, che vinse come candidato del Nuovo Partito Progressista, Rosselló aveva promesso che l’isola sarebbe finalmente diventata parte a tutti gli effetti della federazione. L’uragano Maria, precedentemente menzionato, rivelò le enormi inadeguatezze infrastrutturali e logistiche di Porto Rico, oltreché la ritrosia degli Stati Uniti nel fornire il supporto necessario. Rosselló fu attaccato duramente per la sua gestione del disastro, ma il recente scandalo, secondo i media internazionali, è ancora più grave per la sua immagine pubblica.

Fino ad ora il governatore si è rifiutato di dimettersi e sembra avere, al contrario, intenzione di ricandidarsi alle elezioni del 2020. Tuttavia, la tensione sfociata negli scontri con la polizia, seguiti da manifestazioni perlopiù pacifiche a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone, aumenta: ci sono state proteste anche negli Stati Uniti, tra le persone di origine portoricana.

Marte è lì che ci aspetta

This is an artist's concept of NASA's Mars Science Laboratory spacecraft approaching Mars. The Curiosity rover is safely tucked inside the spacecraft's aeroshell. The mission's approach phase begins 45 minutes before the spacecraft enters the Martian atmosphere. It lasts until the spacecraft enters the atmosphere. For navigation purposes, the atmospheric entry point is (2,188 miles (3,522 kilometers) above the center of the planet. This illustration depicts a scene after the spacecraft's cruise stage has been jettisoned, which will occur 10 minutes before atmospheric entry. The Mars Science Laboratory spacecraft is being prepared for launch during Nov. 25 to Dec. 18, 2011. Landing on Mars is in early August 2012. In a prime mission lasting one Martian year (nearly two Earth years) researchers will use the rover's tools to study whether the landing region has had environmental conditions favorable for supporting microbial life and for preserving clues about whether life existed. NASA's Jet Propulsion Laboratory, a division of the California Institute of Technology, Pasadena, Calif., manages the Mars Science Laboratory Project for the NASA Science Mission Directorate, Washington. More information about Curiosity is at http://mars.jpl.nasa.gov/msl/. Credit NASA/JPL-Caltech

Abbiamo incontrato Patrizia Caraveo in occasione di un incontro organizzato da ArciAtea alla Casa della Cultura di Milano per ricordare Margherita Hack nel sesto anniversario della scomparsa. Amica e collega della Hack e come lei, oltre che astrofisica, divulgatrice d’eccezione in un Paese che ancora deve scoprire fino in fondo l’importanza della diffusione della cultura della scienza e del metodo scientifico. Patrizia Caraveo ci ha emozionato tutti leggendo all’inizio del suo intervento un brano della poesia che un altro grande astrofisico e divulgatore, suo marito Giovanni Bignami, scomparso prematuramente due anni fa, scrisse «per Marghe» per la festa dei suoi 90 anni. Caraveo, che è dirigente di ricerca all’Istituto nazionale di astrofisica, ha da poco pubblicato per Raffaello Cortina Conquistati dalla Luna. Nel libro l’autrice ricostruisce in punta di penna, con estrema chiarezza e rigore scientifico, e il supporto di una ricca serie di suggestive illustrazioni, la storia del rapporto speciale che da sempre lega gli esseri umani alla Luna. Partiamo da qui, con lei, per il nostro viaggio immaginario nel cosmo attraverso i calendari lunari, il cannocchiale di Galileo, i racconti di Verne, la relatività di Einstein e le conquiste del XX secolo. Prossima fermata Marte.

Facciamo nostra la sua domanda che chiude la premessa al libro: Siamo stati noi umani a conquistare la Luna o è lei ad aver conquistato noi?
Ovviamente sono vere entrambe le interpretazioni. È vero che noi abbiamo conquistato la Luna ma è altrettanto vero che l’uomo ha sempre guardato con grande fascinazione alla Luna. Tutti hanno un rapporto emozionale con il nostro satellite sin da quando, nella notte dei tempi, veniva utilizzata come calendario. È così evidente nel cielo ed è così splendente che non si può non esserne colpiti. Dopo di che ciascuno di noi reagisce a modo suo. Ci si può accontentare di ammirarla oppure di farsi ispirare. Ci sono poesie dedicate alla Luna, fantastici pezzi musicali, canzoni, dipinti, romanzi di fantascienza (che è nata immaginando viaggi alla Luna). Oppure si può decidere di avere un rapporto razionale, studiando come si muove nel cielo, qual è il meccanismo che si cela dietro le eclissi, esplorandola. Passando così allo sviluppo tecnologico e all’astronautica. Dall’essere conquistati arriviamo alla conquista, attraverso le diverse branche del sapere.
Nel 1609 Galileo rischiò grosso guardando la Luna con il suo cannocchiale…
Galileo scrisse quello che lui vedeva. Lo descrisse benissimo. Sapeva perfettamente di descrivere qualcosa che non era consono e allineato con l’interpretazione aristotelica dei corpi celesti che era stata completamente sposata dalla Chiesa cattolica. Quando lui dice «che la Luna ha le montagne» sta andando in modo plateale contro la teoria che i corpi celesti siano sfere perfette. Se ne rende conto e spiega in modo molto dettagliato perché si è convinto di questa cosa. E nessuno lo ha mai contraddetto. Quando il cardinale Bellarmino chiese agli astronomi del Collegio romano di dare la loro opinione su quanto diceva Galileo, di controllare le sue affermazioni, essi risposero punto per punto che tutto quello che diceva lo scienziato pisano era corretto. Perché loro stessi si erano dotati di uno strumento simile a quello utilizzato da Galileo e avevano visto le stesse cose.
Bellarmino sapeva che Galileo aveva ragione?
Lo…

L’articolo è tratto dal numero di Left in edicola


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