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Il ministro alla cecità

Ora considerate se questo è un ministro. O anche, più banalmente, se questo è un uomo, un uomo che possa avere il senso dello Stato, delle istituzioni e della giustizia. Considerate se questo non sia semplicemente il portavoce dei biliosi che ostiano nei cessi e nei bar con la supponenza di credere che il loro buonsenso debba essere regola comune, uno di quelli che considera le pulsioni un diritto e che giudica i diritti degli altri un semplice ostacolo burocratico alla giustizia.

Il ministro Salvini rilancia la morte di un carabiniere per mano di due immigrati, rilancia la notizia di due probabili magrebini. A lui, del resto, interessa il colore della pelle, il fatto che possano essere associati ai barconi. A Salvini non interessa la vittima: lui annusa i carnefici perché potrebbero tornargli utili per qualche voto in più.

Il ministro Salvini chiede i lavori forzati. I lavori forzati da noi non esistono. In realtà non esistono più in tutti i Paesi civili: invocarli è incivile ma è un’ottima frase per scendere negli inferi a leccare gli sfinteri dei propri elettori. Che un ministro che non abbia mai lavorato in vita sua invochi i lavori forzati, poi, è una barzelletta che farebbe volare via già così.

Si scopre che l’autore dell’assassinio è un nordamericano. Si invoca la pena di morte. Il ministro Salvini la lascia aleggiare tra le sue parole sempre gonfie d’odio. Lui non odia: lui ha bisogno di instillare odio per annebbiare le menti e riuscire a parlare alle pance. Più su della pancia non sa andare. Per questo instilla odio dalla spiaggia (perché ha da riposarsi, poveretto).

Esce una foto vergognosa che è il più grande regalo alla difesa del presunto assassino. Salvini esulta. Dice che l’unica vittima è il carabiniere e cerca di lisciare i carabinieri. Peccato che proprio dall’Arma arrivi una ferma condanna a quel ragazzo bendato dentro una caserma. La differenza è che i carabinieri conoscono la legge: Salvini, no.

A chi gli fa notare che quella foto dimostra che il diritto è stato calpestato Salvini risponde che sono tutti professoroni. Lui, del resto, odia tutti quelli che pensano e che studiano e che hanno autonomia di pensiero. Infatti ama i bendati. I ciechi che sono la sua claque.

«La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente», scriveva Saramago.

Buon lunedì.

Come si muore nelle Guantanamo italiane

La manifestazione contro il decreto Salvini e i Cpr organizzata da 'Mai pi˘ lager - no ai cpr', Milano, 16 febbraio 2019. ANSA / MATTEO BAZZI

Mentre si procede, a colpi di fiducia, verso la conversione in legge del decreto sicurezza bis – di cui tanto abbiamo già scritto – emendato in senso peggiorativo dopo il passaggio alla Camera, è il caso di soffermarsi sugli effetti prodotti dalla legge 132/2018, frutto del primo decreto emanato nell’ottobre scorso. Smantellamento lento e inesorabile del sistema di accoglienza, attacco alla solidarietà, repressione del dissenso e sgomberi di centinaia di persone in emergenza abitativa, questo il risultato con conseguente aumento delle persone in strada, nell’invisibilità, mentre cresce l’odio verso chi è solidale, non solo verso migranti e rifugiati.

Fare un bilancio dei danni prodotti da questa legge che, vale la pena di ricordare, è l’ennesima riproposizione di “pacchetti”, “decreti”, “misure eccezionali” che hanno, almeno dal 2009 (pacchetto Maroni) eroso passo dopo passo lo Stato di diritto, richiederà una riflessione articolata. Intanto proviamo a concentrarci su un punto, marginale in termini quantitativi ma micidiale nell’amplificare la lesione di diritti di molti immigrati. Con la legge 132 si è riportato a sei mesi il tempo massimo di trattenimento presso i Centri di permanenza per il rimpatrio, i Cpr (ex Cie), per chi è in attesa di espulsione. E durante i lavori per l’approvazione del Dl sicurezza c’è stato persino chi in Commissione ha provato a portare a 18 mesi i tempi di detenzione.

Sin da quando la detenzione amministrativa è entrata in vigore in Italia (nel 1998 con la legge Turco Napolitano) i governi che si sono succeduti hanno dilatato o ristretto il periodo di privazione delle libertà personali di uomini e donne colpevoli unicamente di non avere i requisiti per risiedere sul territorio nazionale. Ricercatori indipendenti, esponenti politici di uno schieramento ampio, ma soprattutto funzionari di polizia impegnati quotidianamente in queste problematiche hanno sempre dichiarato che i tempi lunghi non servono. Per identificare una persona basterebbero pochi giorni, invece si preferisce estendere il trattenimento trasformando i centri in strutture simili alle carceri con tutti gli elementi di tensione che questo comporta ma senza le garanzie stabilite dall’ordinamento penitenziario. Quanto avviene nei Cpr raramente è raccontato pubblicamente.

Nel Centro di Torino, la notte del…

L’articolo di Stefano Galieni prosegue su Left in edicola dal 26 luglio


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La Toscana disinnesca il decreto Salvini

FLORENCE, ITALY - SEPTEMBER 22: An installation by the Chinese artist Ai Weiwei featuring 22 rubber boats dedicated to the refugees who risk their lives to reach Europe is displayed on the facade of Palazzo Strozzi on September 22, 2016 in Florence, Italy. The exhibition 'Ai Weiwei. Libero' will be hosted in the whole historical Palazzo Strozzi from September 23, 2016 to January 2017 and is Italy's first major retrospective of the artwork of Ai Weiwei, with installations, sculptures, videos and photographs focusing on Ai Weiwei's carreer and his strong political and social impact. (Photo by Laura Lezza/Getty Images)

Tutelare i bisogni essenziali della persona umana. Questo lo scopo di una legge approvata il 10 luglio dal Consiglio regionale della Toscana. Una legge per tutti, dedicata non solo a migranti e richiedenti asilo, come invece sostengono le opposizioni di centrodestra. Una legge contro le marginalità e la povertà assoluta. Una legge che, in sostanza, permette la continuità degli interventi sociali programmati dal sistema regionale, nonostante il decreto sicurezza di Salvini che ha calato la mannaia sul sistema nazionale di accoglienza per i profughi. Finendo col generare una situazione di maggior “insicurezza” sociale.

Secondo il presidente della regione Enrico Rossi, «questa è una legge che protegge tutti. Protegge quindi i toscani e i non toscani, gli immigrati e chi non è immigrato. Abbiamo stabilito che c’è una soglia di diritti elementari che devono essere garantiti a tutti e che la nostra società civile si impegna a garantire. Un provvedimento che indica una strada diversa da quella intrapresa dal governo ma che non per questo vuole entrare in collisione con esso. Se noi interveniamo con tutti, senza distinzioni, senza discriminazioni manteniamo una società più inclusiva e quando una società è più inclusiva, con meno veleni e meno odio, forse è meglio per tutti».
L’atto, fortemente voluto dalla Giunta regionale di centrosinistra e dal presidente, ha l’obiettivo di garantire i bisogni essenziali delle persone, fornendo a tutti tutela sanitaria, alimentazione e ricovero. Nella sola Toscana, sarebbero circa…

L’articolo di Sabrina Certomà prosegue su Left in edicola dal 26 luglio 2019


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“Vigliacchi assassini”, urlano i politici razzisti contro fantomatici nordafricani

Questo Paese e i suoi governanti hanno perso davvero la bussola della civiltà democratica. Ieri abbiamo assistito a una speculazione nazionalistica sull’omicidio del povero carabiniere Mario Cerciello che ha raggiunto al tempo stesso un odio mai visto prima nei confronti dell’immigrato con apici mai visti prima. Gli “sceriffi” hanno chiesto la pena capitale per gli immigrati ritenuti in un primo momento responsabili della morte del vicebrigadiere. Si è aperta una gara di velocità a chi sparava più velocemente sull’immigrato nordafricano colpevole e già condannato a morte. Il primo a parlare è Salvini: “lavori forzati in carcere finché campa”. Stefano Buffagli. “Tolleranza zero per questi vigliacchi assassini! Vanno trovati e sbattuti in carcere! Questi criminali devono marcire in carcere!”.

Luigi Di Maio: “Quello che è successo stanotte è un atto vile non solo nei confronti dell’Arma ma dello Stato. Non so se gli aggressori sono stranieri o no, ma se dovessero essere persone non italiane, spero che il carcere se lo facciano a casa loro. Se sono irregolari non dovrebbero stare qui”. Giorgia Meloni: “Provo rabbia e tristezza. L’Italia non può essere punto di approdo di certe bestie. Vicinanza a famiglia e carabinieri, spero questi animali vengano presi e marciscano in galera”.  Daniela Santanchè: “Questa è la dimostrazione di come i carabinieri, gli italiani, vengono dopo i clandestini”. Dopo poche ore e accertamenti di polizia più approfonditi, ci si rende conto che non si trattava di clandestini. Si scopre che “le bestie” sono cittadini americani. La “festa” è rovinata per tutti quei politici che volevano speculare sulla morte di un militare. Un carabiniere ucciso a coltellate da due extracomunitari, di là della tragedia consumatasi a Roma, sembrava una vicenda fatta apposta per fomentare la campagna giornaliera contro gli immigrati, considerata sempre utile da un punto di vista elettorale, anche quando le elezioni non sono imminenti. Un silenzio pesantissimo invece è sceso dopo le prime verifiche, quando per quel delitto sono stati fermati due studenti ventenni americani, bloccati dopo essere stati riconosciuti nel filmato di una telecamera di sicurezza.

E se non ci fosse stata la telecamera? Che cosa sarebbe potuto accadere? D’improvviso, tutti corrono a cambiare versione e ad affievolire l’immensa crudeltà e odio del proprio commento dagli accenni alla pena di morte, fermandosi solo alle espressioni di dolore e solidarietà. Fermo restando che chi scrive è sempre e comunque dalla parte di chi soffre per un crimine subito, devo evidenziare, per onestà intellettuale, come il repentino cambio di linea abbia rivelato ancora una volta l’inconsistenza con cui una politica – anche se non tutta – costruita quasi solo sulla comunicazione, invece di riflettere prima di parlare, ha usato molte, troppe, parole tutte a vanvera. Ora io mi domando: adesso ce la prenderemo con gli americani con la stessa veemenza che abbiamo usato per gli immigrati nordafricani? Credo proprio di no! Perché pensiamo tutti all’omicida e non al sacrificio della vita di Cerciello? Tutte queste polemiche sono a mio parere un insulto al sangue versato e alla vita donata da un giovane carabiniere a noi tutti e il suo senso del dovere e dello Stato viene prima delle ideologie e delle fazioni totalmente inutili in questo momento di dolore.

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Vincenzo Musacchio è giurista e docente di diritto penale  presso l’Alta Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio in Roma (2011-2012), Presidente dell’ Osservatorio Antimafia del Molise , Direttore Scientifico della Scuola di Legalità – don Peppe Diana – di  Roma e del Molise

L’agghiacciante déjà-vu del censimento etnico

«Questa mattina ho scritto ai prefetti per avere un quadro dettagliato e aggiornato delle presenze nei campi abusivi o teoricamente “regolari” di rom, sinti e caminanti, per procedere a chiusure, sgomberi, allontanamento e ripristino della legalità. #tolleranzazero». Così scrive sulla propria pagina Facebook, la mattina del 16 luglio, il ministro Matteo Salvini. Sono passati appena sei giorni dall’inchiesta del sito BuzzFeed (attualmente al vaglio dei magistrati) sulla trattativa segreta con le autorità russe per far arrivare soldi alla Lega: il sospetto è che l’accanimento contro i rom sia un modo per deviare le attenzioni da una vicenda a dir poco imbarazzante.
Le parole del ministro sono ben calibrate, mirano ad attizzare i furori popolari contro il nemico di turno, i rom: si parla di campi abusivi o «teoricamente regolari» (!), si annunciano chiusure e sgomberi (l’amata «ruspa» gialloverde…), si minacciano espulsioni, con tanto di hashtag #tolleranzazero. Un copione visto mille volte, nel quale non può mancare il fatidico appello al «ripristino della legalità».

La cosiddetta «legalità»
Da qualche parte, agli uffici del Viminale, qualcuno deve aver capito però che questa faccenda della «legalità» è un’arma a doppio taglio. I funzionari del ministero sanno bene, ad esempio, che i censimenti dei rom sono illegali, ed è difficile invocarli in nome del rispetto della legge. Sanno anche che il diritto internazionale (e a dir la verità anche quello nazionale) vieta gli sgomberi sommari, quelli che non garantiscono nessuna soluzione abitativa agli occupanti. Sanno, infine, che…

L’articolo di Sergio Bontempelli prosegue su Left in edicola dal 26 luglio 2019


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Ritorno al feudalesimo: il misero inganno dell’Autonomia differenziata

Left ha correttamente e tempestivamente individuato già nel 2018 il pericolo gravissimo della controriforma costituzionale delle “autonomie differenziate”, quella che con acume scientifico e capacità comunicativa l’economista Gianfranco Viesti chiama «secessione dei ricchi» (vedi l’intervista di Pietro Greco del 21 settembre 2018). Gustavo Zagrebelsky ha scritto: «Opporsi ad essa è la battaglia della vita per il Paese». Si sta giungendo, in questi giorni, ad una stretta decisiva. La proposta del governo disintegra l’unità nazionale, sostituita da una confusa giustapposizione di staterelli con poteri feudali, sul piano legislativo e amministrativo, abbattendo, insieme, diritti costituzionali e tutti i principali diritti universali contenuti nella prima parte della Costituzione a fondamento dello Stato di diritto e dello Stato sociale.

Il governo, i presidenti di Regione che spingono per l’autonomia differenziata raccontano frottole: la proposta è il contrario di ogni forma di federalismo solidale, di democrazia partecipativa, di prossimità. Arriveremo ad un’Italia di potestà frantumate, rette da “cacicchi”, da potentati localistici. Avremo un Paese con quattro Regioni a statuto speciale, due province autonome (Trento e Bolzano) tre Regioni (che potrebbero diventare sette) con ambiti anche tra loro differenti di autonomia rafforzata e le altre a statuto ordinario; e con lo Stato centrale che gestirebbe residui di competenze, fondi residuali, funzioni diventate marginali. Matteo Salvini ha parlato chiaro: «L’autonomia funziona se c’è quella finanziaria. Non accetteremo nessun compromesso. Chi riesce a garantire servizi efficienti riuscendo a risparmiare dovrà gestire come meglio crede queste risorse». Il M5s, per salvarsi l’anima, oltre che il proprio elettorato meridionale, chiede l’istituzione di un fondo perequativo e la determinazione di “livelli essenziali di prestazione” (Lep), prima di distribuire risorse. Ma si tratta di polpette avvelenate per far passare il complessivo impianto secessionista. Anche l’apparente passo avanti (è saltata l’assunzione diretta dei docenti e sono stati accantonati segmenti della regionalizzazione della scuola) potrebbe essere funzionale al ribadimento dell’impianto complessivo.

Siamo di fronte a miserevoli pratiche mercantili, a mediocri tattiche politiciste di fronte al progetto di abbattimento definitivo della nostra Costituzione. Resta, infatti, in piedi il meccanismo della “spesa storica” (che sta accettando anche la Campania) che è la trappola che distrugge i servizi nel Mezzogiorno. Perfino la Corte dei conti conferma che senza la perequazione non è possibile l’autonomia differenziata. È necessario che l’opera meritoria (di fronte al tentativo del governo di far passare il progetto in maniera clandestina) di disvelamento del drammatico pericolo secessionista che la nostra Repubblica corre si proietti verso una reale e permanente campagna di massa, imperniata su comitati territoriali che si stanno in questi giorni moltiplicando. Il governo tenta di nascondere i problemi, ipocritamente parla di efficienza. Noi dobbiamo rovesciare questa grammatica truffaldina, creare senso comune alternativo. Ritengo che il presidente Mattarella, massimo garante della sovranità popolare costituzionale, oltre che svolgere la sua funzione equilibratrice sottotraccia, potrebbe intervenire lanciando un messaggio al Paese. Contro il disegno leghista di populismo secessionista, ma anche contro i gravi errori del centrosinistra.

Pesa ora come un macigno la pessima riforma del titolo V della Costituzione. Pesano le inaudite responsabilità del governo Gentiloni, che ha materialmente siglato le preintese con le presidenze del Veneto e della Lombardia. Pesa la scelta inverosimile della presidenza dell’Emilia Romagna, a conduzione piddina, che, per quasi tutte la materie, si allinea al lombardoveneto. Oggi, non a caso, il Pd è muto, paralizzato, diviso al proprio interno. Sta disertando rispetto ad uno scontro decisivo per la nazione, farfugliando di mediazioni fasulle, di «autonomia differenziata moderata» che è una chiacchiera pari al doloroso ossimoro della «guerra umanitaria». I sindacati hanno espresso importanti critiche rispetto all’architettura istituzionale secessionista, partendo dalla negazione dei diritti sociali che ne conseguirebbe, dal pervasivo processo di privatizzazioni. Ma forse ora, nei tempi decisivi, possiamo attenderci che assumano la guida del nostro fronte, con una reale azione di massa che sia dissuasiva per il governo, che deve essere costretto a pagare un alto prezzo nei rapporti sociali. Chiediamo al M5s di comprendere che il suo elettorato meridionale mai accetterà soluzioni furbesche e rabberciate. Non vi è, infatti, nessuna possibilità (come hanno ripetutamente spiegato nei dettagli tutte le agenzie economico/istituzionali indipendenti), che l’autonomia differenziata possa essere fatta senza costi.

«Non toglieremo un euro al Sud» proclama Salvini. Ha dimostrato, invece, Giannola, economista meridionalista, presidente dello Svimez, che «o lo Stato aumenterà i debiti, o diminuirà i servizi». Perché non si tratta solo del trasferimento alle Regioni di qualche funzione amministrativa. Stiamo parlando, nelle 23 materie fondative dello Stato di diritto, del trasferimento della quota massima di potestà legislativa di principio. Con un effetto automatico: per numero ed ampiezza delle materie coinvolte lo Stato si priva della capacità di formulare obiettivi di politica economica e sociale. Si può ipotizzare uno scenario futuro di una macroregione comprendente gran parte del Nord Italia insieme a regioni limitrofe di Stati esteri (Baviera, Carinzia, Slovenia, parti della Mitteleuropa), con la completa marginalizzazione del Centro Italia e di Roma, che sarebbe solo capitale diplomatica, e un Sud (20 milioni di persone) non più Europa ma macroregione Mediterranea. È questa l’anatomia geopolitica che giustifica la locuzione «secessione dei ricchi». Vi è, quindi, un tema strutturale che attiene ai processi di accumulazione e di valorizzazione del capitale dentro la crisi.

Le regioni economicamente forti, con servizi più efficienti, non vogliono avere palle al piede, non vogliono redistribuire risorse. L’efficienza massima, quindi, dei propri servizi va a scapito dei servizi delle altre regioni. Solo alcune delucidazioni: cosa accadrà del Servizio sanitario nazionale, già indebolito dalle controriforme del centrodestra e centrosinistra? E del sistema di formazione e della scuola nazionale laica repubblicana? La scuola e la cultura nazionali unitarie sono fondamento della nazione. Non vedremmo più, se passasse il progetto di autonomia differenziata, asili nido, refezione scolastica, cure mediche comparabili tra Nord e Sud. E non parliamo di infrastrutture, sistema stradale e ferroviario. Come ha fatto correttamente notare il professor Massimo Villone «da un altro punto di vista, la regionalizzazione di larga parte del pubblico impiego e di materie come la tutela e sicurezza del lavoro, la retribuzione aggiuntiva, la previdenza integrativa, gli incentivi alle imprese, darà un colpo mortale al sindacato nazionale, al contratto nazionale di lavoro. Le gabbie salariali saranno istituzionalizzate. E non parliamo dell’ambiente e del ciclo dei rifiuti. Avremo, in tutti i campi, un itinerario di privatizzazioni fissato dalle singole regioni, abbattendo più facilmente normative e controlli. È quello che i padroni hanno sempre auspicato.

Ripartiamo, allora, dalla Costituzione. Spieghiamo, in una reale campagna di massa, che, mascherandosi dietro gli articoli 116 e 117 della Costituzione, il governo propone una “attuazione incostituzionale della Costituzione”. Non possono essere, infatti, violati i diritti fondamentali di eguaglianza sostanziale. Avremmo una grave torsione del concetto stesso di cittadinanza, che sarebbe determinata dalla residenza; cambia, cioè, a seconda della regione in cui risiedi, la quantità e qualità dei servizi, dei diritti, delle prestazioni. La posta in gioco è alta. È la Costituzione stessa. Non potremmo riconoscerci nell’Italia delle piccole potestà feudali che disegnerebbe l’autonomia differenziata, se non la blocchiamo. Perché la nostra è l’Italia della Resistenza, della democrazia progressiva. 

L’editoriale di Giovanni Russo Spena è tratto da Left in edicola dal 26 luglio 2019


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Pena di morte negli Usa, ecco la mappa degli omicidi di Stato

Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato la ripresa delle esecuzioni capitali per i criminali condannati dai Tribunali federali, ribaltando una moratoria sulla pena di morte in atto fin dall’amministrazione Obama. L’ultima di queste esecuzioni risaliva a 16 anni fa. É rarissimo che i tribunali federali comminino pene capitali, solo 62 detenuti si trovano oggi nel braccio della morte delle carceri federali, contro i 2743 detenuti negli statali.

William Barr, ministro della Giustizia, ha adottato un nuovo protocollo sulle iniezioni letali e ha programmato cinque esecuzioni da tenersi in una prigione federale dell’Indiana, tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Barr ha anche chiarito che la pena di morte sarà nuovamente implementata per dare giustizia alle famiglie delle vittime, e che i cinque neo condannati a morte sono tutti colpevoli di omicidio, alcuni anche di tortura o stupro di minori e anziani. Tra questi, un suprematista bianco che ha ucciso una famiglia di tre persone in Arkansas, inclusa una bambina di 8 anni; un nativo americano che, in Arizona, ha accoltellato una 63enne e la nipote 16enne; un uomo che ha freddato cinque persone; uno che ha rapito, stuprato e ucciso una teenager e un padre che ha molestato sessualmente e ucciso la figlia di due anni.

Altro grande cambiamento introdotto dal protocollo, è la modifica del cocktail letale dell’iniezione. Fino ad ora si utilizzava un insieme di tre sostanze, consistente in tiopental sodico che portava all’incoscienza, bromuro di pancuronio che causava la paralisi muscolare e l’arresto respiratorio, e cloruro di potassio che causava l’arresto cardiaco. Fin dal 2010 le case farmaceutiche si sono rifiutate di fornire il tiopental sodico agli esecutori per motivi etici o semplicemente per non essere associate alla pratica, causandone una carenza su tutto il territorio nazionale. Molte esecuzioni sono state, così, ritardate per procurarsi la sostanza oltreoceano. Alcuni Stati hanno dunque scelto di passare al pentorbarbital, un farmaco utilizzato come sedativo durante gli interventi chirurgici. Il Texas lo ha utilizzato per primo nel 2012.

Il direttore esecutivo di Amnesty International Usa, Margaret Huang, ha criticato pesantemente la mossa di Trump, definendola «oltraggiosa», nonché «l’ultimo indizio del disdegno di questa amministrazione per i diritti umani».

La sentenza capitale sembra incontrare ancora l’approvazione dei cittadini in Nord America: l’ultimo sondaggio sulla questione ha evidenziato come il 56% degli statunitensi supporti la pena per gli individui colpevoli di omicidio, mentre solo il 41% sia contrario.

Ci sono ancora 29 Stati in cui la pena è legale, al contrario un numero crescente di altri – in questo momento 21 -, stanno abolendo la misura. Ma, a quanto pare, l’amministrazione Trump vuole invertire la rotta.

La pena di morte, per le esecuzioni sia a livello federale che statale, era stata dichiarata incostituzionale nel 1972, ma poi reinstaurata nel 1988 per poche tipologie di reati, quando il Congresso approvò l’Anti-drug abuse act. Il Federal death penalty act del 1994 ha portato a 60 il numero di reati per cui è prevista tale pena.

A maggio scorso, il New Hampshire è diventato il 21esimo Stato ad abolire la pena, subito dopo la California a marzo, probabilmente grazie al declino della popolarità di tale pratica tra i cittadini, ai costi molto alti e alla difficoltà di reperimento dei farmaci utilizzati nelle esecuzioni. In più, gli attivisti per i diritti umani sostengono che i provvedimenti siano applicati in modo iniquo, spesso per ragioni di razzismo o intolleranza. Nonostante ciò, ci sono ancora parecchi Stati che la applicano regolarmente, come il Texas (che ha il maggior numero di esecuzioni dal 1976, ossia 561), la Virginia (113), l’Oklahoma (112), la Florida, l’Alabama e la Georgia. Comunque, il numero annuo di sentenze capitali è diminuito dell’85% dal 1998 al 2018, passando da 295 a 43.

A livello federale, solo tre esecuzioni sono avvenute dal 1988, la più recente nel 2003, con l’uccisione di Louis Jones Jr, a seguito dello stupro e omicidio di Tracie Joy McBride, soldato dell’esercito americano, in Texas. Timothy McVeigh, responsabile per il bombardamento di Oklahoma City del 1995 era stato invece condannato a morte nel 2001. Con Obama, le esecuzioni federali si trovavano sotto una moratoria informale: nel 2014 l’allora Presidente aveva ordinato al Dipartimento di Giustizia di condurre un’approfondita ricerca sulla pratica dell’iniezione letale e delle sostanze che venivano utilizzate a tale fine. Con la moratoria sulle esecuzioni, la linea governativa assunta dagli Usa ne sosteneva di fatto l’abolizione. Per questo motivo, quello del presidente Trump è un brusco dietrofront.

La ripresa delle condanne capitali pronunciate da Tribunali federali ha scatenato le reazioni dell’opposizione, specialmente in vista delle presidenziali del 2020. Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Kamala Harris: tutti i principali candidati esponenti del Partito democratico si sono pronunciati contro questa decisione. «Quando sarò presidente abolirò la pena di morte», scrive Sanders su Twitter. «La pena capitale è immorale e profondamente fallace. Troppi innocenti sono stati giustiziati. Abbiamo bisogno di una moratoria nazionale sulla pena di morte, non di una sua restaurazione», ha twittato Harris. Warren ha, infine, ribadito: «Il nostro sistema criminale ha una lunga storia di errori sulla pena capitale, specialmente quando si tratta di persone di colore. Non possiamo lasciare ad un sistema a pezzi il destino dei detenuti americani. Io mi oppongo alla pena di morte».

Quello che i vaticanisti (non) scrivono

Dome in Vatican reflected in a puddle.Focus on cobblestone.

L’Italia è quel Paese un po’ strano dove chi ha un tesserino da giornalista può scrivere sotto dettatura del Vaticano. I “vaticanisti” sono considerati una élite del giornalismo italiano: io li ritengo un vero e proprio scandalo.

Ovviamente tutti i Paesi del mondo hanno i propri pregiudizi. I nordamericani credono che la loro missione sia salvare il mondo; i francesi pensano che il loro modello repubblicano sia il più ugualitario e che la loro École nationale d’administration (Scuola nazionale di amministrazione) ne sia un buon esempio; gli italiani credono che i loro vaticanisti dicano la verità. Paese che vai, cecità e illusioni che trovi.

Il vaticanista è un giornalista che si è specializzato nel rendere regolarmente conto di ciò che accade in Vaticano. Come in tutte le professioni ne esistono di eccellenti, non molti, che hanno saputo preservare la propria indipendenza e ce ne sono altri, ossessionati da un’agenda conservatrice, mondana o distorta, che diffondono, spesso ciecamente, le informazioni provenienti dalle loro fonti, quelle della Santa Sede.

Il fatto che ci siano giornalisti designati come vaticanisti dalla loro redazione con il compito di coprire regolarmente l’attualità del Vaticano non è, di per sé, criticabile. Tra l’altro, esistono anche dei giornalisti “embedded” alla Casa Bianca e, in Francia, al Palazzo dell’Eliseo. Rimane più problematico il fatto che i vaticanisti privilegino le fonti vaticane rispetto all’investigazione e alla verifica dei fatti ed abbiano più a cuore gli interessi della Santa Sede rispetto a quelli dei loro lettori. È per questo motivo che non ci sono veri vaticanisti in Francia: nessuno darebbe loro credito in quanto giornalisti se fossero così tanto dipendenti dal Vaticano.

Quando scoppia un caso in Vaticano (che si tratti di un caso di pedofilia, di un documento segreto rivelato o di un libro problematico, com’è successo per il mio libro Sodoma), i responsabili della comunicazione vaticana diffondono a tutti i vaticanisti degli “elementi di linguaggio” (in gergo “Edl”), espressioni e parole chiave cioè da inserire nella storia da pubblicare affinché prenda la piega voluta. E questo accade anche all’interno delle redazioni dei giornali non di destra che almeno di facciata affermano di essere indipendenti del Vaticano.

Questi Edl per tanto tempo sono stati diffusi da Joaquín Navarro-Valls, il portavoce di Giovanni Paolo II (un numerario dell’Opus Dei che aveva scelto la castità pur essendo assolutamente omofilo), in seguito dal gesuita Federico Lombardi sotto Benedetto XVI, e poi Greg Burke (anche lui Opus Dei), sotto Francesco.

Il Vaticano per tanto tempo ha saputo sviluppare una comunicazione menzognera. Non appena venivano pubblicati inchieste o libri, questi servizi di comunicazione reagivano violentemente con smentite tanto assurde quanto buffe. Non si contano più le “menzogne di Stato” della Santa Sede a proposito di fatti che sono stati poi confermati. Questi tre moschettieri della Verità del Vaticano – Navarro-Valls, Lombardi e Burke – rimarranno nella storia per la loro arte di depistaggio dalla verità usata in modo sistematico.

Oggi i responsabili della comunicazione del papa sono più insidiosi. Un ex giornalista de La Stampa, Andrea Tornielli, è ora responsabile dei media di Radio Vaticana. Un vaticanista ufficiale del papa è diventato il portavoce ufficiale del Vaticano. Grazie a lui ma anche a Paolo Ruffini, Dario Viganò, Antonio Spadaro e Andrea Monda (direttore dell’Osservatore Romano dov’è già riuscito, appena arrivato, a fare in modo che tutte le giornaliste donne riunite intorno a Lucetta Scaraffia presentassero le dimissioni), la comunicazione della Santa Sede si è fatta più furba. Invece di smentire delle verità, preferiscono confermare alcuni degli errori.

Tutti i gerarchi vaticani alimentano i vaticanisti quotidianamente, ingozzandoli dei mille e uno segreti della Curia romana, al punto di renderli dipendenti dalle loro informazioni (ne sono testimone perché sono stato anch’io regolarmente informato ufficiosamente da alcuni responsabili della comunicazione, avendo avuto varie volte l’opportunità di incontrare a lungo Lombardi, Burke, Tornielli e Spadaro).

Se un vaticanista si prende troppe libertà rispetto alla traccia indicata, o meglio, agli “elementi di linguaggio” distillati dai responsabili della comunicazione vaticana, potrà vedersi deprivato di tutte le sue fonti e, come massima punizione, anche degli inviti ai viaggio ufficiali con il papa. A breve termine, il suo titolo di vaticanista risulterà privo di contenuto, un guscio vuoto vero e proprio e, tagliato fuori da qualsiasi informazione, inevitabilmente perderà il suo lavoro. Così i vaticanisti (principalmente uomini) sono spesso «tenuti al guinzaglio» – questa espressione è di uno di loro.

Sono peraltro numerosi i casi in cui vengono reclutati all’interno delle organizzazioni satellitari della Conferenza episcopale italiana o del movimento cattolico italiano Comunione e liberazione. Tre dei più importanti vaticanisti italiani sono legati a quest’organizzazione: le devono il loro posto di lavoro e in parte le devono rendere conto informalmente delle loro attività.

E allora non importa se i giornali per cui lavorano siano di destra o di sinistra, cattolici o più laici: i vaticanisti sono quasi sempre…

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L’articolo è stato tradotto da Catherine Penn

L’articolo di Frédéric Martel prosegue su Left in edicola dal 26 luglio 2019


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Tonino Carotone: È un mondo difficile, canto per i bimbi migranti

In un brano attualissimo scopriamo un avverbio che, di questi tempi, sarebbe importante introdurre nei discorsi: “mediterraneamente”. E gli immigrati che arrivano dal mare sono i protagonisti della favola/canzone che Tonino Carotone e il coro dell’Antoniano hanno realizzato. Si intitola Solcando le onde il nuovo singolo in cui per la prima volta a cantare dei tanti bambini che spesso arrivano (a volte no, purtroppo) da terre martoriate dalla fame, dalla guerra e dalla povertà sono altri bambini, quelli del Piccolo coro “Mariele Ventre” diretto da Sabrina Simoni. Insieme a loro, un artista che da sempre si spende per i diritti umani. Lui che nasce nei Paesi Baschi, cresce in un sobborgo di Pamplona, anche stavolta non rimane indifferente a quello che sta accadendo nei nostri mari. Il suo nome omaggia il nostro Renato Carosone, con il quale ha registrato una indimenticabile versione di “Tu vuò fa l’americano”. In Italia arriva al grande pubblico nel 2000 con il celebre Mondo difficile, ha collaborato con tanti artisti, tra cui Roy Paci, Elisa, Capossela. Tra successi e collaborazioni mondiali, tra tutte quella con Manu Chao, Antonio de la Cuesta, il suo vero nome, racconta a Left il suo impegno civile, perché, ci spiega, la solidarietà è un importantissimo valore che rende più grande un popolo. Uomo di lotta e musicista versatile, ci tiene a mantenere alta l’attenzione su una tematica che dovrebbe riguardare tutti, anche i bambini, cui dobbiamo affidare il futuro. Mi parla in “itagnolo”, come dice lui, partendo dalla sua terra per poi allargare lo sguardo sul mondo. Proprio a Pamplona, lo scorso anno, a lui e ad altri suoi compagni, sono stati intitolati un monumento ed un parco che ricordano i combattenti per la pace.

Fin da giovane, sei stato sensibile ai problemi dei diritti umani e civili. Sei un musicista versatile e la lotta ti appartiene.

Ho sempre avuto, per nascita direi, uno spirito antimilitarista. Nella mia regione in Spagna, la Navarra, nei Paesi Baschi, nessuno…

L’intervista di Alessandra Grimaldi a Tonino Carotone prosegue su Left del 19 luglio 2019


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La facciata

C’è tutta l’antropologia di un certo modo di fare politica in Virginia Raggi che ieri si è travestita da postino per recapitare alla sede di Casapound una cattivissima missiva in cui gli si chiede di rimuovere l’insegna sull’edificio che occupano abusivamente nel centro di Roma, alla faccia dei cittadini romani, degli italiani e dei contribuenti che secondo la Corte dei Conti avrebbero speso circa quattro milioni di euro per lasciarli lì dentro a pascolare mentre giocano a fare i fascisti del terzo millennio.

È simpatica questa cosa di una moderna partigiana che avrebbe coraggiosamente tolto il nome di Mussolini dal citofono negli anni addietro e che oggi invece ci regala una diretta Facebook mentre chiede a Di Stefano e soci mica di levarsi delle scatole come sarebbe giusto che sia ma che si limita a chiedere di togliere la scritta da fruttivendoli che hanno esposto sulla facciata.

La facciata. Appunto. La facciata che ha preso proprio la Raggi quando pochi minuti dopo i suoi compagni di partito alla Camera votavano contro un ordine del giorno che chiedeva invece di mandare via i fascisti piuttosto che occuparsi solo di sistemargli il fondotinta. I grillini in Parlamento hanno votato contro a un ordine del giorno che invece avevano votato in massa al Campidoglio con tanto di plauso della sindaca.

La facciata. Appunto. La politica di facciata che vorrebbe convincerci che i proclami siano azioni e debbano essere considerati alla stregua dei decreti. Ma siccome la campagna elettorale qui da noi è permanente allora tutti a fare le promesse dimenticandosi di essere loro a governare e quindi di avere tutti gli strumenti a disposizione.

È una politica di facciata, finta, e anche di facciate: le testate che continuano a darsi tra di loro Giuseppe Conte e Matteo Salvini che hanno dato due versioni contrapposte dello stesso episodio e sembra che nessuno se ne sia accorto.

«Il segreto del successo è la sincerità. Se riesci a fingerla, ce l’hai fatta», scriveva Jean Giraudoux.

Buon venerdì.