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Perché a Brescia il neofascismo è ancora un problema non del tutto risolto

In un Paese che ha poca memoria, esiste un lungo filo nero che da tempo percorre sotto traccia le strade e i vicoli di Brescia. Un filo che affonda le sue origini storiche e ideologiche nei dolorosi anni Settanta e che oggi attraverso il web viaggia alla velocità della luce. Cambiano nome e mutano pelle. Ma in fondo, gli ideali dei neofascisti sono sempre gli stessi: sicurezza, ordine e patria. La galassia estremista si compone di vecchie e nuove sigle, fuochi di paglia che se non vengono monitorati a dovere rischiano di trasformarsi in bracieri incontrollabili. Negli ultimi anni le azioni dimostrative di questi gruppi sono aumentate in maniera esponenziale. E lo dimostrano gli episodi.

Nella tarda serata di venerdì 28 settembre nel quartiere Carmine, dieci naziskin hanno aggredito a cinghiate gli avventori di una birreria. Lanci di bottiglie, calci e pugni per uno scontro di matrice puramente politica. Qualche ora dopo l’aggressione nel centro bresciano, quattro militanti aderenti al Veneto Fronte Skinhead sono finiti agli arresti per rissa, mentre altri sette sono stati raggiunti da fogli di via. Trattasi di personaggi che arruolano i propri “soldati” pescandoli direttamente nella Curva Nord del Brescia. Spesso, infatti, è il calcio ad essere usato come traino e pretesto per costruire, poi, una fitta rete di violenza. Lo stadio delle Rondinelle, il “Rigamonti”, è il luogo dove le destre hanno trovato un terreno fertilissimo. Teste rasate e numerosi tatuaggi in vista, sui social network tra i profili di questi soggetti ci sono le fotografie del Ventennio e del Duce.

Spavaldi e fieri delle loro azioni, i ragazzi della Brigata Leonessa pubblicano persino autoscatti davanti a monumenti dove si cimentano nel saluto romano. Due di loro sono i camerati neonazisti del blitz nella sede di Como Senza Frontiere. Trattasi di squadristi amanti della pura violenza fisica, fedeli seguaci dell’hooliganismo anni Ottanta diffusosi in Inghilterra.

L’11 luglio 2014, in occasione del Crazy Cow Fest, la tradizionale festa della birra di Paderno Franciacorta, scatenarono l’inferno. Un’improvvisa esplosione di brutalità che causò il ferimento di cinque persone, intervenute semplicemente per sedare gli animi. A innescare la maxi rissa, appunto alcuni naziskin della Brigata, entrati in contatto con i giovani della Palestra Popolare Antirazzista. Cazzotti, botte da orbi e boccali di birra utilizzati come armi. Un attacco premeditato e studiato sebbene sia avvenuto in una festa assolutamente apolitica.

Tre settimane fa, sette componenti dell’associazione Brixia Blue Boys sono finiti al centro di un’indagine della Digos. Le ipotesi di reato sono di usurpazione di funzioni pubbliche, porto illecito di armi e strumenti atti ad offendere. Travestiti da militari effettuavano ronde notturne non autorizzate armati di manganello e con simboli fascisti. Apolitici dunque solamente di facciata, perché il loro presidente Mirko Mancini, alle ultime elezioni si era candidato nella fila di CasaPound, raccogliendo la bellezza di tre voti.

Attualmente guidata dal Partito Democratico, storicamente Brescia è sempre stata una città schierata a centrosinistra. Eppure, oggi le nostalgie dottrinali dell’ultradestra vengono ripristinate tra i seguaci di CasaPound e Forza nuova. Cavalcando le paure sociali e l’insicurezza c’è chi vuole diffondere negli strati più deboli della popolazione sentimenti di intolleranza e di odio. Il partito della tartaruga frecciata vanta aspirazioni più movimentiste e un’età media leggermente più avanzata, il secondo è invece più strutturato nella forma di partito politico e raccoglie discepoli nei licei e negli atenei universitari. Per entrambe le realtà l’elemento decisivo che ha portato voti e consensi è stato l’intenso lavoro eseguito sul territorio. Da diverso tempo, i membri di Forza nuova danno voce ai vari comitati di quartiere. Promuovono le ronde notturne nei rioni più problematici e aiutano solo e rigorosamente le famiglie italiane in difficoltà. Tutti comportamenti che vengono ricambiati in voti durante il periodo elettorale. Tuttavia, l’estrema destra è corsa divisa alle elezioni comunali del 10 giugno, naufragando clamorosamente nelle tre liste presentate, tutte finite sotto l’uno per cento.

L’universo nero abbraccia anche altri pianeti, come la sigla Brescia ai Bresciani, il cui leader Andrea Boscolo vanta trascorsi da militante di CasaPound. La provincia della Leonessa si costituisce di una miriade di realtà che si differenziano anche per aspetti minimi. In Val Camonica ci sono i Nazionalisti camuni, mentre a nord della città c’è Valtrompia identitaria. Sui social si fa propaganda, si augura la morte ai politici di turno e si incita di continuo ad affrontare il nemico in piazza.

Ormai gli eredi del “Boia chi molla” sono così tanti al punto da riuscire a entrare persino in consiglio comunale. Nel 2017 a Mura, paese di seicento anime in Val Sabbia, tre membri del movimento Fascismo e libertà sono stati eletti consiglieri di minoranza. Da diversi anni una trentina di persone si ritrovano ciclicamente a cena in una trattoria della città. Mangiano, si confrontano e discutono di politica. Lo fanno all’ombra della runa di Opalan, simbolo di Avanguardia nazionale, l’organizzazione politica neofascista, dichiarata fuorilegge dal ministero dell’Interno il 7 giugno 1976. Le riunioni sono documentate da numerose fotografie diffuse su Facebook senza filtri. I segni di riconoscimento e i dirigenti sono gli stessi di un tempo. A rispondere “presente” alle riunioni ci sono infatti Kim Borromeo e Danilo Fadini, condannati nel 1973 per aver fatto saltare con il tritolo la sede del Psi. Ha destato poi polemiche la partecipazione regolare a queste cene di Laura Castagna, candidata sindaco alle ultime elezioni comunali con Azione sociale e Forza nuova (0,7% di preferenze). Esiste per di più un blog nazionale con una sezione bergamasca molto attiva e ricca di eventi in calendario.

Risale inoltre al 7 luglio scorso la celebrazione del cinquantottesimo compleanno di Avanguardia. A Roma, in un ristorante sulla via Tiburtina, centinaia di camerati provenienti da tutta Italia hanno festeggiato la ricorrenza tra cori e saluti romani. Nel corso della storia, l’organizzazione estremista ha rappresentato un ruolo di punta all’interno dei meccanismi di provocazione messi in atto dalla Strategia della tensione. Un movimento che personificava la manovalanza neofascista del crimine eversivo. Il suo fondatore, Stefano Delle Chiaie, compare nelle inchieste sulle più importanti stragi neofasciste del nostro Paese. Altre cene sociali di Avanguardia nazionale sono state fissate per il 29 novembre, in contemporanea a Brescia e a Roma.

Siamo in un Paese in cui ci sono la Legge Scelba e la Legge Mancino ma i giudici non sempre puniscono tutte le manifestazioni del disciolto partito fascista. La storia nera sembra dunque tornare. Resuscita tradizioni superate e alimenta uno sdoganamento che sotto le nuove forme del populismo nazionalista è destinato solamente a crescere. Brescia, ancora profondamente ferita dalla strage di Piazza Loggia, non ha bisogno di tutto questo.

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Qui la prima puntata dell’inchiesta di Federico Gervasoni sui neofascisti a Brescia

Sei errori (facili facili) nella smania di cambiare

Un momento della manifestazione Italia a 5 stelle al Circo Massimo. Roma, 20 ottobre 2018 ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Forse piuttosto che affezionarsi alla storia delle tessere del reddito di cittadinanza, stampate o non stampate, l’ennesima bufala mischiata alla propaganda, sarebbe il caso di discutere della voglia di cambiare. Un po’ perché esausti, un po’ perché disperati di una situazione che appare immutabile, succede a tutti di avere voglia di cambiare, semplicemente, consapevolmente superficiali, pur di illudersi che passino i problemi che ci affliggono.

La situazione attuale è in buona parte figlia della voglia di cambiare, inutile nascondersi: l’aver votato gli altri è stato (anche) un modo di liberarsi di questi e (nonostante questi fingano di non saperlo) la disaffezione generale non è figlia solo di questi ultimi mesi. In molti dicono di avere votato dall’altra parte, banalmente. È una motivazione debole? Può essere. Meritano di essere derisi? Sicuramente no.

Però la smania di cambiare comporta qualche rischio che forse sarebbe il caso di analizzare, per non sprecare energie e tempo:

Cambiare senza sapere dove andare: presi dalla voglia di cambiare si rischia di non chiedere agli altri cosa avrebbero intenzione di fare, si rischia di accontentarsi solo di una sintesi degli intenti senza scendere nei particolari e così succede che sui temi che non sono stati affrontati alla fine avvenga l’esatto contrario di ciò che ci aspetteremmo. Segnatevelo.

Sostituire qualcuno non basta: detronizzare qualcuno non è una qualità, è questione di congiunzioni, di umori e di tempismi ma non indica assolutamente alcun altro merito. Il meno peggio è una lunga, desolante, caduta verso il baratro. Sempre.

Anche la liberazione non basta: liberarsi degli altri è un sollievo che dura pochissimo. Qualsiasi scelta ha bisogno di gratificare con ciò che sarà piuttosto che con ciò che ha smesso di essere. Liberarsi di qualcuno significa assistere a un modo diverso di fare le cose nei fatti, nei modi e nei risultati.

Per cambiare il mondo bisogna essere capaci di farsi cambiare dal mondo: la delega totale a qualcuno per invertire la rotta è un errore madornale. È comodo credere che qualcuno possa cambiarci e a noi basti un voto. Ma non funziona, no.

Non perdere il senso critico: se ci capita di lasciare passare qualcosa che prima ritenevamo imperdonabile non c’è stato nessun miglioramento intorno. Ci siamo assuefatti noi. Ed è una pessima notizia.

Non c’è conservazione peggiore del finto cambiamento. Come diceva Ludwig Börne: «Niente è duraturo come il cambiamento». Se pensate che non cambi mai niente sappiate che si sono succeduti sempre presunti rivoluzionari. Senza scomodare il Gattopardo si potrebbe dire che non si vince mai un’elezione promettendo che tutto rimanga com’è, qui, in Italia. Sembra banale ma ce lo scordiamo presto.

Buon venerdì.

Sinistra. Il fiume che può nascere dalla confluenza di molti rivoli

Non so quanti siano i partiti di sinistra in Italia, né mi interessa francamente.
Se esistono, è perché ci sono persone che hanno deciso di partecipare così alla vita politica, e questo è comunque un bene.
Non ha alcun senso comprimere identità, organizzazioni, comunità piccole e grandi in nome dell’unità.
Ci proviamo da anni e l’unico, paradossale risultato è la dispersione di energie e impegno.
Sarei quindi per lasciare perdere e passare ad altro, se il tema è evitare che la frammentazione diventi sinonimo di inefficacia dell’iniziativa.
Dobbiamo chiederci come coniugare la tendenza storica e oggi particolarmente accentuata a produrre forme quasi pulviscolari di aggregazione politica a sinistra, con la necessità di raggiungere una massa critica utile a essere non solo percepiti, ma addirittura incisivi sulla scena politica e sociale.
La risposta potrebbe essere la confluenza.
Se la direzione è comune, l’obiettivo lo stesso, così come la volontà, è possibile collaborare pur indossando divise diverse.
D’altra parte non è ciò che abbiamo fatto nelle campagne vittoriose per l’acqua pubblica e i beni comuni e per la difesa della Costituzione?
Non è ciò che abbiamo sperimentato in tante realtà con l’esperienza delle Coalizioni civiche e delle Città in Comune?
Perché non dovremmo provarci sul piano nazionale, mettendo chiunque si riconosca in una piattaforma di cambiamento nella condizione di collaborare per realizzarla?
Immaginate che qualcuno si assuma l’onere di avanzare una proposta minima, che indichi un senso di marcia, alcuni valori non negoziabili e una regola aurea: qualsiasi decisione fondamentale sarà sottoposta a voto democratico.
Immaginate che questa proposta possa essere sottoscritta da individui e collettivi, attivisti politici, sociali e culturali.
Immaginate poi una intensa fase di partecipazione democratica, in cui questa proposta possa essere concretizzata in programmi e linee di azione locali e nazionale.
Immaginate che tutto questo diventi una piattaforma aperta e trasparente, dove ogni persona e gruppo possa mettere in rete le proprie iniziative, per creare informazione condivisa e cercare la collaborazione di altri.
Immaginate che assuma l’impegno di presentarsi sempre alle elezioni, vincolando tutti gli aderenti ad un metodo democratico di scelta su programmi, candidature e alleanze.
Immaginate che impegni i suoi eletti a rispondere costantemente al mandato ricevuto e a versare parte dei propri compensi a progetti di mutualismo.
Immaginate che non abbia padroni, perché lotta per una società di liberi e uguali.
Io so che in Italia ci sono decine di migliaia di persone che sarebbero disposte ad impegnarsi per un progetto democratico di cambiamento radicale del nostro Paese.
So che molte di loro sono deluse dalla politica, mentre altre non saprebbero vivere senza.
Molte sono iscritte a partiti e molte di più considerano i partiti parte del problema.
C’è chi milita quotidianamente e chi dedica alla politica l’attenzione di un momento.
Chi si sente comunista, chi socialista, chi ecologista, chi considera tutte le definizioni una perdita di tempo, ma crede comunque che questo mondo sia intollerabile.
A nessuna di loro voglio dire cosa deve essere e come deve organizzarsi, ma a tutte vorrei dare uno strumento di unità e di lotta comune.
Questo chiamo confluenza, di mille rivoli, che diventano torrenti, e insieme fanno il grande fiume.

Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana.

L’editoriale di Giovanni Paglia è tratto da Left in edicola dal 30 novembre 2018


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Luigi de Magistris: Non è tempo di restare a guardare

L’incontro promosso dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris che si tiene a Roma, al Teatro Italia in questo 1 dicembre, è il prodotto di un percorso che parte da lontano. Da tempo, il presidente di DeMa ha dichiarato di voler costruire un fronte ampio, democratico, in opposizione al governo e alle politiche nazionali ed europee determinate da un ben più ampio arco di forze. Nei mesi passati si sono svolti incontri con forze politiche, di movimento, associative, realtà civiche per trovare convergenze.
Ne ragioniamo con De Magistris per capirne le prospettive future. E diamo come punto di partenza le piazze che a novembre hanno visto proteste contro il ddl Pillon e il decreto Salvini, per il diritto allo studio, fino alla oceanica manifestazione di Non una di meno del 24 novembre. Piazze piene ancora prive di reale rappresentanza politica.
Il movimento a cui allude il sindaco di Napoli può diventarne punto di riferimento?
Io lo vedo da tempo. C’è una opposizione sociale forte in questo Paese, e anche opposizione “di governo”, penso all’esperienza napoletana. Noi stiamo lavorando per costruire una alternativa politica direttamente dal basso. Non ci interessa parlare di “quarto polo”, puntiamo ad una alternativa che è fatta da movimenti, associazioni, storie di lotta, reti di militanti, amministratori, laboratori politici come quello di Napoli che rappresentano esperienze importanti nel Paese. Mi piacciono molto queste piazze che attraversiamo e che rappresentano anche la nostra storia.
Rispetto alle questioni determinate sia dalle politiche xenofobe che dai contenuti del decreto Salvini, ora convertito in legge, da sindaco e magari in futuro con un ruolo politico di livello nazionale o europeo, cosa intendi fare?
La nostra esperienza insegna che costruendo comunità aperta realizzi felicità. Abbiamo dimostrato che l’infelicità non è causata dalla persona o dal colore della pelle diverso ma dagli oppressori e quindi dal “sistema”. Questo governo è in continuità col sistema che crea diseguaglianza e infelicità. La nostra linea è proprio quella che…

L’intervista di Stefano Galieni a Luigi de Magistris prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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Il decreto Salvini viola la Costituzione e qualsiasi norma di civiltà, ribellarsi è doveroso

Il corteo contro il razzismo e il decreto sicurezza, Roma, 10 novembre 2018. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Il dl Salvini è stato approvato alla Camera dei deputati, la sera del 27 novembre, col voto di fiducia e senza alcun dissenso da parte del M5s. Addirittura il relatore alla camera, presidente della Commissione Affari Costituzionali è stato lo stesso che aveva espresso pubblicamente critiche tanto al contenuto quanto alla tempistica di un testo destinato a stravolgere la vita sociale e democratica non solo di migranti e richiedenti asilo. Sono ottanta pagine, in gran parte impugnabili per eccezioni di costituzionalità, con cui si vanno a limitare le forme di protezione, si disincentiva la buona accoglienza e l’inclusione sociale, si contrastano le forme di opposizione e dissenso rendendo anche i blocchi stradali o l’occupazione di edifici reati gravi e si combatte non la povertà, come aveva promesso il “governo del cambiamento” ma i poveri, istituzionalizzando la punizione dell’accattonaggio molesto, considerando la vita in miseria forma di degrado e non questione sociale. E se la sera stessa delle votazioni finali, sotto il parlamento, occupanti di case, attivisti, studenti, settori di società non anestetizzata sono riusciti ad improvvisare anche un corteo di protesta, le mobilitazioni continuano.

Sabato 1 dicembre, alle 14, partirà da P.zza della Repubblica, a Roma, un corteo che non è “soltanto” contro le nuove leggi razziali. Il percorso “sei una di noi / uno di noi”, nato agli inizi dell’autunno, si pone infatti l’obiettivo di portare a Roma, in piazza, problematiche fra loro legate e, insieme, i soggetti che ne sono protagonisti o vittime. Il diritto all’abitare, ad una buona politica della accoglienza, il contrasto alle mafie e alla zona grigia che governa la città, il bisogno di vedere esigibili quei diritti che garantiscono sicurezza sociale, saranno al centro di questa mobilitazione indetta da uomini e donne a partire dalla propria condizione individuale, ma in cui troveranno posto forze sociali, associazioni impegnate nei diversi settori, occupanti di case, studenti, forze politiche. Si vedranno, negli auspici di chi ci ha lavorato, i primi risultati del tentativo di coinvolgere, attraverso iniziative tematiche, i territori diversi della città, i diversi ambiti di attivismo civico e democratico, le vertenze che faticano a trovare un punto di incontro nella capitale.

Più o meno in contemporanea, partirà da Milano un altro corteo, organizzato su dimensione regionale che partirà da Piazza Piola per dirigersi verso il centro di accoglienza di Via Corelli, destinato a ritornare in tempi brevi a diventare Cpr (Centro permanente per i rimpatri) ovvero la nuova denominazione (ideata da Minniti), dei Cie, ovvero centri di detenzione per migranti in cui si potrà restare rinchiusi fino a sei mesi, senza aver commesso reato, in attesa di essere rimpatriati. Il corteo, indetto da una numerosa rete di realtà unite attorno allo slogan No Cpr, No Decreto Salvini è frutto di un lungo e certosino lavoro di preparazione attorno alle disposizioni che diventeranno presto legge dello Stato. I promotori sono consapevoli della necessità di fornire informazioni reali e concrete sui danni micidiali che la sua applicazione potrà produrre oggi soprattutto sulla vita di uomini e donne migranti, in tempi brevissimi su chiunque dimostri di essere espressione di dissenso non compatibile o i “colpevoli di povertà”. Cercando fra le 80 pagine prodotte da persone che hanno bellamente saltato negli studi di giurisprudenza ogni esame di diritto costituzionale, si legge chiaramente infatti l’impianto ideologico che è proprio del testo. Gettare le basi per uno Stato fortemente autoritario, in cui la mendicità, il blocco stradale, l’occupazione di case, diventano reati molto più gravi di quelli commessi e per cui è stato condannato in blocco il partito di riferimento del ministro che rivendica tali misure.

Ricorda una canzone di De Gregori “ruba una mela e finirai in galera / ruba un palazzo e ti faranno re”, altro che sicurezza e retorica del “prima gli italiani”. I Cpr, la diffusione delle crudeli inutili “galere etniche” per altro richieste dall’Europa e avallate anche dall’ex ministro Minniti, rappresentano l’apice visibile di una intera politica, peraltro reiterata con maggiore o minore crudeltà negli ultimi 20 anni, utile a far ingrassare qualche finta cooperativa, a produrre lutti, a rimpatriare le persone più fragili e a creare, mediante la detenzione amministrativa, il primo fondamentale esempio di diritto differenziato che ora si espande con vere e proprie limitazioni del diritto alla difesa, rifiuto della presunzione di innocenza, sistema penale di fatto differenziato per chi non è italiano DOC. Una brutta pagina di storia contro cui le mobilitazioni sono necessarie e urgenti e contro cui bisogna necessariamente ricostruire uno spazio pubblico di discussione e di azione concordata capace di espandersi, di parlare nei luoghi in cui ha conquistato più spazio il pensiero razzista del governo giallo verde. Di appuntamenti in preparazione ce ne sono ancora prima delle feste, dalla manifestazione “Get Up”, Stand Up” indetta dall’Usb a Roma per il 15 dicembre all’assemblea che si terrà sempre a Roma il giorno dopo per riprendere il percorso iniziato con la manifestazione del 10 novembre di #Indivisibili. Il decreto è diventato legge ma gli spazi e le esperienze per disobbedire vanno praticati in ogni modo.

Palestina, 70 anni di resistenza per non scomparire

Da oltre 70 anni il popolo palestinese tutto, sia quello che vive nella Palestina occupata, sia quello che vive fuori la Palestina, sia quello della diaspora, ovunque, vive sulla sua pelle il peso dell’occupazione israeliana che si è fatta sempre più cruenta, spietata e strisciante, forte del sostegno dell’imperialismo degli Usa e del silenzio e l’omertà tifosa di gran parte della comunità internazionale. Nonostante questo il popolo palestinese, sebbene ferito fino nel profondo della sua anima, ha lottato e lotta per affermare la sua esistenza e per strappare i suoi diritti affrontando qualsiasi difficoltà ed ostacolo, forte della sua ragione e della sua causa giusta. Il popolo palestinese ha lottato e lotta per affermare la sua esistenza che i sionisti volevano e vogliano cancellare.

Infatti, all’indomani della nascita dello stato di Israele il progetto di pulizia etnica israeliano si è palesato: l’esercito sionista e le sue bande criminali invasero la Palestina terrorizzando i suoi abitanti, bruciando i villaggi e le coltivazioni, uccidendo e massacrando, provocando decine di migliaia di morti e feriti, oltre 800 mila persone sfollate dalle loro case, più di 480 i villaggi palestinesi completamente evacuati e distrutti. Tutto ciò con l’obiettivo di annullare l’esistenza del popolo palestinese. E dal 1948 a oggi la politica di occupazione ha avuto solo ed unicamente questo obiettivo.

Ben Gurion, il padre fondatore di Israele, disse: «I vecchi rifugiati moriranno, i giovani dimenticheranno» ma le cose non sono andate secondo i suoi piani. È vero i vecchi sono morti ma i giovani palestinesi non hanno dimenticato, il popolo palestinese non può dimenticare perché ogni giorno, tutti i giorni continuano a lottare e morire non solo vecchi ma anche giovani nel fiore degli anni, donne e bambini.

Dal 2000 al 2017 (secondo DCIP Defence for Children Inernational Palestine) 2.022 bambini palestinesi hanno perso la vita per mano delle forze di occupazione israeliana, in media 25 bambini al mese, tutti in modo atroce come il piccolo Alì Saad Daubasha di appena 18 mesi arso vivo nell’incendio della sua casa appiccato da coloni nel luglio del 2015. Dal 2000 ad oggi oltre 8.500 bambini palestinesi sono stati arrestati con l’accusa più ricorrente del lancio di sassi, quindi processati davanti a tribunali militari ed incarcerati, sottoposti anche a torture e maltrattamenti. Nel solo mese di settembre 35 minori palestinesi sono stati arrestati e alle famiglie sono state imposte multe superiori a 12.600 dollari. Di questi, 14 minori sono stati picchiati durante la detenzione, 20 condannati a pene da 31 giorni a 9 mesi e 2 trattenuti in detenzione amministrativa.

La violenza cieca israeliana in 70 anni di occupazione non ho conosciuto tregua e si è manifestata e si manifesta in tutta la Palestina occupata, in Cisgiordania come nella Striscia di Gaza.

In Cisgiordania continua incessante la costruzione di nuove colonie e l’espansione di quelle già esistenti. Negli ultimi 25 anni il numero degli insediamenti israeliani e dei coloni che li abitano è quadruplicato, passando dai 105.000 coloni nel 1992 agli oltre 413.000 nel 2017 nonostante gli insediamenti siano considerati illegali dal diritto internazionale e perché tali condannati in numerose risoluzioni ONU. Israele, però, ha sempre considerato il diritto internazionale come lettera morta e così nel mese di giugno il governo di Netanyahu ha annunciato la creazione di altre 2.800 unità abitative che verranno costruite in 30 colonie della Cisgiordania e che saranno ultimate entro la fine dell’anno.

Per la costruzione degli insediamenti israeliani vengono ogni giorno confiscate terre palestinesi, demolite case, sradicati alberi. Infatti, sono migliaia gli alberi di ulivo, molti dei quali secolari, che ogni anno vengono abbattuti soprattutto in prossimità della raccolta, come è accaduto quest’anno a metà ottobre agli abitanti di Turmusayya, un villaggio palestinese tra Ramallah e Nablus, nella parte centrale della Cisgiordania occupata, che dopo aver ricevuto il permesso delle autorità israeliane per andare a raccogliere le olive dei loro alberi, una volta arrivati nei loro campi hanno trovato gli alberi abbattuti e squarciati con i rami carichi di olive lasciati marcire a terra. Senza dimenticare che questo permesso di andare nei loro terreni viene concesso ai palestinesi solo due volte all’anno: due giorni in primavera per coltivare la loro terra e due giorni in autunno per raccogliere le olive.

Quotidiano è anche il furto delle risorse palestinesi, in particolare quelle idriche. Mentre ai palestinesi della Cisgiordania dal 1967 non è consentito lo scavo di nuovi pozzi e quelli vecchi molti sono oramai non più operativi, gli israeliani continuano a scavare pozzi molto profondi che hanno già da tempo causato una forte riduzione del livello idrico della falda e svuotato alcuni pozzi e sorgenti vicine palestinesi. Inoltre, dal 1982 per il volere dell’allora ministro della Difesa Ariel Sharon, il sistema di rifornimento idrico di tutta la Cisgiordania è stato trasferito alla compagnia idrica nazionale israeliana, la Mekorot, per la cifra simbolica di uno shekel israeliano. La Mekorot garantisce un consumo domestico palestinese di circa 70 litri pro capite al giorno (contro i 100 litri pro capite raccomandati dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità) mentre il consumo domestico israeliano è in media di 300 litri pro capite al giorno. Questo perché gli insediamenti israeliani vengono riforniti da ampie condutture ad alta pressione, le città palestinesi, invece, nonostante molto più popolate, sono fornite da condutture dal diametro molto ridotto che limita il flusso d’acqua. Ed inoltre la Mekorot riduce regolarmente la distribuzione/quantità di acqua fornita alle comunità palestinesi durante i caldi mesi estivi, quando il consumo dei coloni raddoppia.

Il 5 settembre la Corte suprema israeliana ha autorizzato la demolizione dell’intero villaggio palestinese di Khan Al Ahmar, e, quindi, anche la demolizione della famosa scuola di gomme costruita dalla ong italiana Vento di terra per i bambini di cinque piccole comunità beduine della zona. La distruzione del villaggio palestinese di Khan al Ahmar è stata autorizzata per consentire così ampliamento degli insediamenti illegali di Maale Adumim e Kfar Adumim autorizzando così un crimine di guerra. Infatti, la quarta Convenzione di Ginevra e l’art. 8 dello Statuto di Roma del Tribunale Penale Internazionale considerano crimine di guerra la deportazione o trasferimento, totale o parziale, della popolazione di un territorio occupato. Khan Al Ahmar però,è solo una delle 46 comunità palestinese della Cisgiordania centrale che lo stato ebraico vuole trasferire per posto ai suoi insediamenti illegali e realizzare così il progetto di espansione coloniale nella zona E1, una striscia di terra da Gerusalemme fino verso Gerico, un progetto maledetto che spaccherebbe la Cisgiordania a metà, impedendo così definitivamente la nascita di uno Stato palestinese con un territorio continuo .

Nella Striscia di Gaza la situazione non è diversa: Gaza che dal 2000 ad oggi ha vissuto 4 guerre e tantissime incursioni ed operazioni militare, dopo 12 anni di assedio è oramai considerata la più grande prigione del mondo a cielo aperto e tutta la popolazione civile vive una drammatica e disumana crisi umanitaria e sociale: razionate le ore di energia elettrica e la quantità di acqua potabile molto al di sotto ai livelli minimi raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità (la media delle 6 ore di energia al giorno nei primi 6 mesi del 2018 è scesa negli ultimi due mesi 4 ore, 70 litri di acqua procapite al giorno contro i 100 raccomandati), azzerate le scorte di cibo e di medicinali ed il ministro della sanità palestinese ha annunciato la chiusura nei prossimi giorni degli ospedali per l’imminente esaurimento del combustibile utilizzato per far funzionare i generatori durante le interruzioni di energia elettrica, ospedali che in questi mesi sono stati chiamati a curare gli oltre 22.000 feriti delle marce di ritorno che dal 30 marzo ogni venerdì migliaia di palestinesi stanno facendo lungo il confine con Israele e che puntualmente le forze di occupazione ed i cecchini israeliani soffocano sangue con oltre 220 morti fino ad oggi.

Per i palestinesi che vivono in Israele le cose non cambiano, da sempre considerati cittadini di serie Z in quello stato che ipocritamente è considerato il solo esempio di democrazia nel Medio Oriente e che finalmente si è palesato anche agli occhi di chi per anni ha finto di non vedere. Infatti, il 18 luglio il parlamento israeliano ha approvato una legge che stabilisce che Israele è solo per gli ebrei, gli arabi sono cittadini di seconda classe e che gli abitanti palestinesi non esistono. Comunque, questa è una legge molto importante perché mette la parola fine alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico” perché questa combinazione non è possibile non solo nella pratica , per quello che Israele ha fatto in questi 70 anni in termini di politiche di occupazione, discriminazione ed apartheid, ma ora anche nella teoria. Infatti, la Knesset ha stabilito che Israele è ebraica, è lo stato nazione del popolo ebraico ma una democrazia non può basarsi sull’origine etnica dei suoi cittadini. Questa legge dice esplicitamente che la terra biblica di Israele è la patria storica degli ebrei e al suo interno è stato fondato lo stato d’Israele e che “il popolo ebraico ha un diritto particolare all’autodeterminazione”. Inoltre “lo Stato considera lo sviluppo dell’insediamento ebraico come valore nazionale ed agirà per promuovere il suo consolidamento” per cui la nuova legge afferma che lo Stato promuoverà l’immigrazione ebraica e a sancire anche formalmente questo regime di apartheid stabilisce che l’arabo non sarà più lingua ufficiale di Israele. Una legge pericolosa, dunque, perché apertamente e spudoratamente razzista e discriminatoria che però non suscitato nessuna reazione ufficiale da parte dei governi ed istituzioni internazionali, sebbene sia anche in netto contrasto con quanto stabilito con la risoluzione 181 .

Nonostante tutto questo, in questi 70 anni di brutale occupazione il popolo palestinese ha sempre lottato e resistito per affermare la sua esistenza e rivendicare i suoi diritti , dal 1987 ad oggi ha conosciuto 3 Intifada con circa 7.000 morti, scioperi e manifestazioni quotidiane e ogni altra possibile forma di protesta dal lancio di pietre contro carri armati e soldati armati fino ai denti, al bruciare copertoni di gomme, al lancio di aquiloni incendiari …. Tutto questo perché in questi 70 anni i sionisti hanno potuto rubare terra e risorse palestinesi , demolire case, sradicare alberi, costruire muri ed insediamenti, uccidere uomini donne vecchi e bambini ma non potuto rubare ed uccidere la dignità del popolo palestinese.

La dignità del popolo palestinese che Trump con le sue decisioni e mosse di politica estera quotidianamente ignora e calpesta, e lo ho fatto ancor prima di diventare presidente quando all’indomani dell’ennesima risoluzione del Consiglio di Sicurezza di condanna degli insediamenti israeliani, del 23 dicembre 2016, approvata però questa volta senza il veto USA, affermò che con lui alla Casa Bianca le cose sarebbero andate diversamente. E così è stato … Oggi Trump, con la sua scellerata decisione di trasferire l’ambasciata americana a Gerusalemme riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e con il suo incondizionato appoggio alla politica di occupazione ed aggressione israeliana, dimostra a parola e nei fatti non solo di non rispettare la causa palestinese ma anche gli altri stati che nel corso di questi anni hanno condannato l’occupazione israeliana ed anche dimostra di non rispettare il diritto internazionale.

Infatti, i nordamericani, oltre a riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele nonostante quella stessa risoluzione che sancisce la nascita dello stato israeliano accanto a quello palestinese ne riconosca lo status internazionale, hanno tagliato i fondi all’agenzia delle Nazioni Unite UNRWA per i profughi palestinesi, si sono ritirati dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU ipocritamente accusato di un “pregiudizio cronico” nei confronti di Israele, hanno chiuso gli uffici dell’OLP a Whashington. Inoltre, gli americani che non hanno mai ratificato il trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale dell’Aja, hanno minacciato di sanzioni esemplari i giudici della Corte Penale Internazionale qualora decidessero di indagare su gli Usa, Israele o i loro alleati …

Tutto questo mentre sempre meno ascoltata è la voce di quelle poche diplomazie ufficiali che osano prendere la distanza, però solo a parole, dalla insensata politica di Trump. Infatti, l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato con il voto favorevole di ben 128 paesi una risoluzione per condannare la decisione di Trump di trasferire l’ambasciata ma la sua cerimonia di inaugurazione è stata trasmessa in diretta come un evento epocale per la pace in Medio Oriente anche dalla televisione italiana. Anche il mondo arabo che aveva detto che l’attacco a Gerusalemme e allo status dei profughi avrebbe portato a una guerra mondiale resta a guardare mentre le conseguenze delle scelte americane ricadono solo ed unicamente sui palestinesi. Infatti, paesi arabi, come Arabia Saudita ed Egitto, hanno oramai apertamente voltato le spalle alla dirigenza palestinese in quanto troppo interessati a non compromettere i loro rapporti con l’amministrazione Trump ed avvicinarsi ad Israele.

La dirigenza palestinese ha dimostrato di essere incapace a fronteggiare la drammatica evoluzione che ha avuto la causa palestinese in questo ultimo anno. Infatti, Abu Mazen in questi mesi ha girato in lungo e largo per mezzo mondo, è andato anche all’Onu a condannare la decisione di Trump e a richiedere la convocazione di una conferenza internazionale senza ottenere però nulla se non strette di mano e sorrisi di circostanza.

Ecco perché di fronte alla quotidiana drammatica conta di morti e feriti palestinesi, ai quotidiani soprusi e alle continue sistematiche violazioni dei più elementari diritti umani, noi che ancora riusciamo ad indignarci di fronte a tutto ciò non possiamo stare in silenzio ma ora non basta solo esprimere la nostra indignazione dobbiamo reagire, abbiamo il dovere di reagire …

Oggi più che mai c’è la necessità di costruire una solidarietà internazionale forte per tutelare quel poco che rimane dei diritti del popolo palestinese che nonostante sia consapevole di essere più che mai solo a combattere contro la continua occupazione israeliana e l’oramai sistematica aggressione dell’amministrazione americana che con Trump sta cercando di smantellare i diritti inalienabili e le tutele giuridiche riconosciute ai palestinesi da organismi internazionali, continua appunto a lottare per difendere la sua dignità di popolo fiero e forte.

Solo costruendo una reale solidarietà internazionale forte, capace di incidere e fermare l’occupazione israeliana e l’aggressione americana possiamo stare realmente vicini al popolo palestinese, un popolo che da oltre 70 anni continua a lottare e a morire per i suoi diritti di libertà e di dignità che alla fine sono diritti di tutti. Perciò , facciamo in modo che quest’anno il 29 novembre, giornata istituita nel 1977 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese, non sia solo una sterile giornata celebrativa ma il punto di partenza per costruire una consapevole ed incisiva solidarietà internazionale a difesa dei diritti di libertà e dignità del popolo palestinese.

Infatti, nel 1977 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (risoluzione 32/40 B) ha individuata questa data per il significato che essa riveste per il popolo palestinese:il 29 novembre del 1947 l’Assemblea Generale approvò la Risoluzione n. 181 che prevede l’istituzione di uno Stato ebraico e di uno Stato palestinese e Gerusalemme corpus separatum sotto un regime internazionale speciale. Con l’istituzione di questa giornata l’Assemblea Generale ha voluto ricordare che purtroppo ancora oggi la questione palestinese non è risolta e che i Palestinesi devono poter godere di quei diritti inalienabili che l’Assemblea Generale ha loro riconosciuto: diritto all’autodeterminazione senza interferenze esterne, il diritto all’indipendenza e alla sovranità nazionale, il diritto di poter far ritorno alle case e proprietà che i palestinesi hanno dovuto abbandonare.. .

Quest’anno la giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese ricorre in un momento molto difficile perché c’è la ferrea determinazione da parte della amministrazione americana di Trump di far passare il suo progetto , il cosiddetto progetto del secolo che si propone di trovare una soluzione, di mettere un tappo alla questione palestinese al netto di Gerusalemme, della soluzione dei profughi e di tutti i diritti fondamentali dei palestinesi e di ridurre la questione palestinese a semplice problema di carattere umanitario e minoranza etnica all’interno dello stato ebraico.

Infatti, con la già ricordata legge sullo stato-nazione approvata lo scorso 18 luglio dalla knesset Israele è diventato ufficialmente “la casa nazionale del popolo ebraico” così come già più di 100 anni la Gran Bretagna con la Dichiarazione di Lord Balfour si impegnò a trasformare la Palestina in un “National home “per il popolo ebraico nonostante la popolazione della Palestina all’epoca fosse costituita da oltre il 90 % di arabi, una scellerata dichiarazione e giuridicamente illegittima (perché all’epoca la Palestina come gran parte del medio Oriente era sotto il controllo dell’impero ottomano) di appena 67 parole che però ha cambiato il corso della storia per ebrei, palestinesi e resto del mondo.

Dunque, oggi che la dichiarazione di Balfour, grazie al sostegno complice dell’amministrazione americana di Trump, è divenuta purtroppo ufficiale possiamo dire che la ricorrenza quest’anno della celebrazione della giornata della solidarietà con il popolo palestinese cade in un momento particolarmente difficile perché le condizioni oggettive e soggettive sono favorevoli per Israele e per americani e perché la causa palestinese non può contare più sul sostegno dei paesi arabi, troppo impegnati a non compromettere i loro rapporti con gli americani e a normalizzare i loro rapporti con Israele.

Occorre costruire una reale rete di solidarietà internazionale, dunque, non solo di piazza e movimenti, ma ciascuno con i mezzi a sua disposizione, anche cominciando dal boicottaggio dei prodotti israeliani, deve aver il coraggio di schierarsi tra un popolo che da 70 anni lotta per la sua libertà e la difesa dei suoi diritti ed uno stato che quotidianamente quei diritti calpesta.

«Per favore salvate i miei libri dalle ruspe»

Anche a Gallarate c’è un sindaco leghista che (come capita spesso, sempre di più, purtroppo non solo tra i leghisti) sa fare politica solo rovistando tra le macerie. È quel sindaco, per chi se lo fosse perso, che si fece fotografare tutto satollo mentre pagava il biglietto ad alcuni migranti a cui non era stata accettata la richiesta d’asilo per “mandarli al Milano al sindaco Sala”. So che sembra incredibile ma è accaduto davvero. Del resto dal ministro dell’inferno in giù anche i rimpatri (come la sicurezza, i porti chiusi e la voce grossa contro l’Europa) sono solo slogan privi di senso: fingono di risolvere le emergenze spostando pattume da un angolo all’altro per mostrarsi operosi, indifferenti del fatto che nei loro pacchi ci siano anche delle persone.

C’è da scommettere che il sindaco Andrea Cassani in queste ore starà festeggiando quel Decreto Sicurezza che crea emergenza per incutere paura e proporsi poi di nuovo come unica soluzione. Un trucco da prestigiatori dilettanti che contribuirà a mungere la bomba sociale determinando un enorme spreco di risorse umane e materiali per cancellare di fatto qualsiasi tentativo di integrazione e marginalizzare ancora di più (attenzione: mica risolvere, marginalizzare) gli indifesi. Creare macerie chiamandole pulizia. Come le ruspe, appunto.

Non potendo aspirare a azioni di governo il sindaco di Gallarate ultimamente si è dedicato anima e corpo allo smantellamento di un campo sinti in città. Ha cominciato con la rimozione di un container che ospitava il doposcuola per i ragazzi del campo (il binomio “straniero+cultura” effettivamente è qualcosa che fa esplodere il cervello, ai leghisti) e ha continuato sgomberando il tutto, con ruspe ovviamente in bella vista, ovviamente senza preoccuparsi di trovare nessuna soluzione. Al solito: fanno deserto e la chiamano pace, com’è nel costume degli inetti. Tra l’altro l’azione di propaganda è costata (per ora) 49mila euro che sono stati tolti alla “manutenzione ordinaria degli immobili comunali”, contravvenendo totalmente l’antico adagio del “prima gli italiani”.

Ieri mentre le ruspe continuavano la loro opera di demolizione una volontaria è uscita con uno scatolone in mano e gli occhi lucidi. Aveva appena preso in consegna un pacco preparato da una ragazzina del campo, che frequenta con ottimi risultati le scuole medie in città. Temendo lo sgombero ha recuperato tutti i libri di scuola e li ha ordinatamente rinchiusi in una scatola. «Salvate i miei libri per favore, non voglio vengano distrutti dalle ruspe», ha detto ai volontari che cercano di salvare il salvabile.

Ed è un gesto piccolo, un evento minimo, che risuona più delle lamiere che si accartocciano intorno: in un tempo di frastuoni e di azioni che durano il tempo di essere strillate in un tweet lei, una ragazzina, ha ancora uno sguardo lunghissimo, così diverso dalla miopia fessa delle persone che ne governano la vita, e vede nei libri il suo riscatto possibile al di là delle macerie. Ed è un bel mondo, in futuro, immaginato così.

Buon giovedì.

No, non fu l’epilessia a uccidere Stefano Cucchi. Il processo continua, verso la verità

Non fu l’epilessia ad ammazzare Cucchi. «Non ci sono elementi per suffragare l’ipotesi», ha spiegato in aula professor Federico Vigevano, il neuropsichiatra a cui il pm ha affidato una consulenza tecnica. L’ennesima udienza del processo a cinque carabinieri, tre dei quali per omicidio preterintenzionale, non è stata clamorosa come quelle che l’hanno preceduta: medici, neurologici, psichiatri e anche due parenti sono stati chiamati a testimoniare sulle condizioni di salute prima dell’arresto. «Cucchi non aveva epilessia attiva in quel periodo – ha detto il prof. Vigevano – dagli atti consultati non ci sono elementi per suffragare l’ipotesi di epilessia quale causa della morte». Certo è che emerge l’esistenza di un «disturbo post-traumatico da stress durante la degenza in ospedale» e comunque emerge anche «un atteggiamento di chiusura del paziente sul piano psicologico, atteggiamento che rientra nei sintomi dei disturbi post-traumatici». Da ricordare che i periti ai quali, nel corso dell’incidente probatorio, in fase d’indagine di questo procedimento, il gip affidò un accertamento tecnico, conclusero per la non certezza sulla causa della morte di Cucchi. Per loro si trattò di una morte improvvisa e inaspettata, con la supposizione di due ipotesi: causata da epilessia, o correlata a trauma. La prima ipotesi, a loro avviso, era dotata di maggiore forza e attendibilità nei confronti della seconda.

Pochi giorni prima del suo arresto, però, Stefano Cucchi stava bene. A raccontarlo è stata oggi in aula la cugina Viviana, che insieme con alcuni familiari incontrò il giovane a cena a inizio ottobre 2009: «Fu lui ad organizzare una cena in un ristorante sull’Appia andammo a mangiare una pizza. Ricordo che stava bene, si muoveva normalmente, mangiò molto con appetito». La ragazza ha ricordato anche che il mese precedente, Stefano andò a casa sua; «era un po’ giù di morale, aveva avuto problemi di tossicodipendenza e sapevamo che si stata riattivando. La sua difficoltà era perché non era facile; aveva scarsa autostima e cercai di tirarlo un po’ su. Ci raccontò che faceva sport, che gli piaceva. La sua forma fisica era normale, buona». Anche l’ex cognato Luca: «Negli ultimi mesi della sua vita, a parte il fatto che era magro, mi sembrava in normali condizioni fisiche. Mi raccontava che faceva pugilato, che si allenava tanto. Era per lui un modo per riprendere la vita, rispetto a un pregresso per la tossicodipendenza. Lui di costituzione è sempre stato molto magro; voleva combattere». L’ultimo loro incontro, il primo ottobre 2009. «Aveva organizzato una festa in un ristorante con i parenti più stretti. Quella sera non notai alcun segno particolare, a parte la magrezza. Camminava normalmente».

Insomma, era certamente magro ma stava bene. Ecco il quadro che esce dall’udienza. Dopo l’estate 2009, al ritorno in palestra, «Stefano lo vidi dimagrito, pesava poco oltre i 40 chilogrammi, secondo me non era idoneo per fare uno sport da combattimento, per allenarsi con me», ha testimoniato Salvatore Palmisano, chef e istruttore di palestra. «Gli consigliai di fare un periodo di sala pesi per recuperare un po’ di forma fisica – ha aggiunto – che io mi ricordi, comunque Stefano non manifestò mai difficoltà negli allenamenti. A volte ero io a frenarlo perché lui si allenava con grande foga; aveva molta voglia di allenarsi. E vedendolo, io non pensavo avesse problemi; si allenava con una tale foga!». Anche il proprietario della stessa palestra frequentata da Cucchi ha confermato che l’ultima volta che lo vide «magro, ma stava bene. Lui frequentava gli allenamenti con passione e costanza». Ha comunque ricordato che una volta chiamò il medico di famiglia del giovane, manifestando perplessità sullo stato di salute. «Mi disse che il certificato di sana e robusta costituzione che aveva rilasciato era valido e che poteva fare palestra». E così fu, la strisciata del suo badge testimonia che ci andò anche l’ultima sera, poche ore prima di incontrare quelli che, secondo l’accusa, sarebbero stati i suoi carnefici.

«Consulenti di neurologia e psichiatria, il cognato, la cugina e anche l’allenatore, l’usciere del Comune di Frascati e una compagna di palestra, tutti confermano che non si può morire di epilessia – commenta l’attivista di Acad che ha seguito anche questa udienza – che la tossicodipendenza non ha interazioni con essa. Le ultime persone che lo hanno visto quel giorno dicono che era magro ma che stava bene e soprattutto camminava spedito e non avevo nessun segno in faccia. Eppure la difesa dei carabinieri imputati continua a insistere sul fatto che era solo un denutrito, tossico, epilettico».

Intanto è stato ufficialmente sospeso il procedimento disciplinare di destituzione del carabiniere Francesco Tedesco, che, con la sua denuncia, ha fatto luce sul pestaggio che avrebbe subito Cucchi. La circostanza è emersa in udienza con una richiesta di acquisizione di documenti fatta dall’avvocato Eugenio Pini, difensore di Tedesco. La Corte allo stato non ha acquisito la documentazione, ritenendo la stessa potrà eventualmente transitare nel fascicolo processuale dopo l’esame dell’imputato. Nelle carte si ricostruisce l’iter di un procedimento disciplinare cui è da tempo sottoposto il carabiniere-imputato per la morte di Cucchi. Si parte con la nota di avvio dell’inchiesta disciplinare, e si continua con una serie di memorie, col primo diniego della richiesta di sospensione della destituzione, con la copia di un ricorso al Tar, fino all’accoglimento della nuova richiesta di sospensione del provvedimento di destituzione. L’avvio del procedimento disciplinare è stato motivato dall’Arma col ritenere il comportamento del vicebrigadiere Tedesco «contrario ai principi di moralità e di rettitudine proprio del giuramento prestato, del grado rivestito, nonché dello status di militare in generale e di appartenente all’Arma dei carabinieri in particolare» ma anche «lesivo dell’immagine dell’Istituzione».

Nelle successive memorie proposte nel tempo, il militare nega con forza tutti i fatti-reato contestatigli, contestando anche la ricostruzione fatta della vicenda. Segue il testo di un ricorso al Tar Puglia, proposto per contestare il no alla richiesta di sospensione dell’inchiesta disciplinare. Ultimo documento – quello ritenuto più importante – è il provvedimento di sospensione del procedimento disciplinare che ha fatto seguito proprio al ricorso al Tar proposto. Il Comando generale dell’Arma, considerato che Tedesco risulta imputato e che la procura di Roma ha aperto un nuovo fascicolo d’indagine successivo alle sue dichiarazioni accusatorie, prende atto «dell’indeterminatezza conseguente alla mancanza di elementi conosciutivi per definire con margini di sufficiente certezza la posizione disciplinare del militare e del concreto rischio di assumere decisioni che potrebbero rivelarsi in netto stridore con quanto sarà poi eventualmente statuito dal giudice penale», e «considerato la particolare complessità dell’accertamento relativo al fatto addebitato», determina «la sospensione dei termini del procedimento» disciplinare «fino alla data in cui l’Amministrazione avrà avuto conoscenza integrale della sentenza irrevocabile che conclude il procedimento penale». «Il Comando Generale, appresi i fatti – ha detto ancora Pini – ha convenuto che la vicenda nella quale il vice Brigadiere, suo malgrado, è rimasto coinvolto è oltremodo complessa e, pertanto, è doveroso, oltre che opportuno, un preventivo accertamento definitivo ed irrevocabile da parte dell’Autorità Giudiziaria».

Ecco Vlad, il vademecum legale (e gratuito) per difendersi dagli abusi in divisa

«Vlad è on line da pochi minuti!», esclama Riccardo Bucci, che Left ha conosciuto seguendo le udienze del processo per l’omicidio di Stefano Cucchi. Bucci è un legale, uno dei giovani avvocati di AlterEgo-Fabbrica dei diritti, associazione nata tra le macerie del terremoto del Centro Italia, «per informare chiunque dei propri diritti, gratuitamente, perché la conoscenza della legge deve essere il primo diritto, e per denunciare gli abusi nelle situazioni di emergenza. Legge, giustizia e umanità dovrebbero coesistere». Da allora i legali hanno incontrato gli attivisti di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, con cui hanno compilato Vlad: «Vademecum Contro gli Abusi in Divisa», scandisce Bucci, curatore, assieme a Rossella Scarponi di Acad di questo strumento scaricabile gratuitamente qui (anche in pdf per averlo sempre sul cellulare). «Si tenta così di ricostruire le normative da cui gli abusi traggono origine e si alimentano, e di spiegare, nel contempo, i diritti di cui ciascun cittadino è titolare davanti alle forze dell’ordine, raccontando infine storie di ordinaria repressione», prosegue il legale romano.

Vlad, che ha “debuttato” in pubblico in uno spazio occupato nel quartiere romano di San Lorenzo, l’ex Cinema Palazzo, è dunque un lungo viaggio all’interno del quale si tenta di approfondire le pratiche e le leggi ingiuste che, negli ultimi decenni, hanno segnato una deriva securitaria nel nostro Paese. È uno strumento work in progress, il primo aggiornamento è stato proprio determinato in queste ore dal decreto Salvini che, oltre all’indecente sottrazione di diritti verso le persone migranti, rende più angusto lo spazio per l’agibilità politica dei movimenti per il diritto all’abitare e del conflitto sociale più in generale.

«Gli abusi, in questo senso – continua Bucci – assumono le vesti della “divisa del legislatore” che, attraverso provvedimenti aspramente razzisti e repressivi, ha deformato il nostro Stato di Diritto, creando sacche di soggetti destinatari di una “giustizia minore”. Proprio queste categorie, diventano oggetto di un diritto penale-amministrativo del nemico: senzatetto, accattoni, prostitute, spacciatori, venditori ambulanti, parcheggiatori abusi ma anche attivisti e militanti diventano elementi di disturbo di un “decoro” divenuto valore fondante di una società incattivita, di cui la conversione in legge del Decreto Sicurezza “Salvini” di ieri è l’ultimo tassello. Nello spazio delle nostre città si gioca quotidianamente una lotta contro i soggetti poveri o ribelli, con abusi messi in campo dalla “divisa di sindaco-sceriffo” cui si attribuiscono poteri inediti per la tutela della sicurezza urbana».

In questo quadro di criminalizzazione, potenziamento dei poteri punitivi e di uno smantellamento progressivo dei diritti e delle garanzie costituzionali, «trova terreno fertile l’abuso in divisa delle “forze dell’ordine” – dice Bucci – conseguenza di un assetto normativo che lascia spesso ampia discrezionalità ai tutori dell’ordine, non ponendo in essere quelle minime forme di tutela (si vedano i numeri identificativi sulle divise degli agenti o  un reato di tortura degno di questo nome) che porterebbero quantomeno ad una maggiore tutela del cittadino dinanzi a chi detiene, per lo Stato, il monopolio della forza».

«Quando abbiamo fondato Acad – spiega anche Rossella Scarponi – avevamo un’urgenza, quella di trovare strumenti, da mettere a disposizione di tutte e tutti, perché non avvenissero più storie come quelle che ci siamo trovati a condividere con le vittime di abusi di polizia e con i loro familiari. Così è nato il numero verde (da utilizzare solo per le emergenze in corso!), così sono venute le altre campagne. Fino a Vlad, appunto. Il vademecum legale è, nella memoria delle nostre lotte, uno strumento storico di consapevolezza, condivisione e salvaguardia. La mancanza di conoscenza ci rende inconsapevoli di fronte al potere, ci subordina e ci impedisce qualsiasi rimostranza».

Vlad, con un linguaggio più semplice possibile prova a ricostruire la normativa che riguarda identificazioni, perquisizioni, misure preventive e cautelari, «evidenziando – aggiunge Bucci – per ciascuno di questi istituti i diritti di cui ciascuno è titolare, i presupposti di applicazione, i limiti che le forze dell’ordine non possono mai superare. Ma all’interno del Vademecum trova spazio anche lo studio delle forme di auto-organizzazione. Perché tra gli strumenti di lotta oltre alla conoscenza dei nostri diritti deve trovar posto la conoscenza delle strutture che possiamo costruire e per mezzo delle quali possiamo difenderci sia da un punto di vista organizzativo (collettivi, associazioni e cooperative) sia da un punto di vista della comunicazione della lotta (social-media e giornalismo). Infine, tentiamo di analizzare alcune delle attività di movimento: cortei e presidi, iniziative pubbliche, occupazioni, le lotte territoriali legate alla terra, alla montagna e al mare, fino ad analizzare lo stadio, il luogo di principale sperimentazione della “cura repressiva”».

Le donne due volte vittime: della violenza e dell’emarginazione. I dati di una ricerca sulle periferie

Proseguono i traslochi degli abitanti di Scampia verso nuovi alloggi, Napoli, 11 Novembre 2016. Il passaggio nelle nuove case avverrà a gruppi di 6-7 nuclei familiari, un calendario di 19 giorni, che prevede l' assegnazione dei primi 115 appartamenti. ANSA/CESARE ABBATE

Doppiamente svantaggiate. Perché donne e perché residenti in aree socialmente degradate dove i servizi sono carenti e gli effetti duraturi della cultura patriarcale e della violenza pesano più che altrove. Se, infatti, la violenza contro le donne è trasversale alle classi sociali e al livello di istruzione, le donne che vivono in contesti socio-economici svantaggiati, spesso, non possiedono le risorse (soprattutto economiche) per fuoriuscire da condizioni violente. Talvolta sono prive, anche, di quelle culturali per riconoscerla, soprattutto quando (non) si manifesta nelle forme meno esplicite.

Anche perché, dai dati elaborati nella ricerca Voci di donne dalle periferie, condotta da Ipsos e curata da We World, emerge che la quotidianità della maggior parte delle intervistate – abitanti a San Basilio a Roma, a Scampia a Napoli, a Borgo Vecchio a Palermo e a Milano Nord – è caratterizzata da un elevato grado di isolamento sociale, fatta di accudimento dei figli, di spesa alimentare, di cura dei mariti e di pulizie domestiche. Attività totalizzanti che limitano la loro vita di relazione alla cerchia familiare e al quartiere in cui risiedono.
«Un elemento comune a molte donne, infatti, è l’identificazione quasi completa nel ruolo di mogli e madri, accompagnato da una sorta di annullamento di sé (…) trascurando il proprio benessere psicofisico», si legge nelle pagine della ricerca.

Una abnegazione che le respinge anche ai margini del mercato lavorativo: i due terzi delle donne intervistate non hanno mai lavorato per l’impossibilità di conciliare la cura dei figli con una professione. Non solo, il 45 per cento di loro ha rinunciato a lavorare per il controllo del marito sulle scelte lavorative. Una condizione, dice la ricerca, che «è l’anticamera di altre forme di violenza più esplicita». Alcune molto lontane dalla consapevolezza che «il lavoro non è solo un impegno che porta a trascurare i figli e l’andamento domestico (e che, invece) sia uno strumento di realizzazione personale»: le loro storie raccontano di un vissuto condizionato da una cultura fortemente discriminatoria nei confronti delle donne (che ne ha impedito anche l’accesso all’istruzione) che le ha rese spettatrici di una rigida divisione dei ruoli, riconosciuta, dalla maggior parte di loro, “come la normalità”. Prese dagli aspetti materiali, relativi all’accudimento, trascurano quelli profondi, accettando con passività e fatalismo, questioni rilevanti: d’altronde, fare i conti con un contesto culturale permeato da una mentalità basata su una forte asimmetria di potere tra uomini e donne, risulta difficilissimo, soprattutto quando entra nel rapporto di coppia, costringendole a mettersi in gioco senza la capacità di sfruttare le risorse che possiedono ma che non sanno di avere.

Cosicché, rileva la ricerca, la modalità di relazione prevalente è quella dell’aggressività e della violenza: su trentasette donne intervistate, ben diciotto hanno dichiarato di aver vissuto una qualche forma di violenza a opera dei mariti ma la diffusione della violenza domestica all’interno del proprio quartiere è percepita come contenuta. Spesso perché i campanelli d’allarme non vengono riconosciuti, altre volte per episodi taciuti: «Io non dissi niente a mia mamma, non so perché non glielo dissi, forse perché mi minacciava talmente tanto dicendo che avrebbe fatto del male a loro e a mia figlia che tendevo sempre di più a omettere certe cose. Perché, poi, lui davanti era molto carino con loro, faceva passare me come matta che in gravidanza non stava bene, che c’aveva i cambiamenti di umore… li aveva quasi un po’ plasmati, manipolati. Vedevo che nessuno era dalla mia parte e io ero sola», racconta Giulia di Roma, ventisette anni, separata, con una figlia. La presenza dei figli è, il più delle volte, la molla per trovare il coraggio di denunciare. E, spesso, di ricominciare.

Ma la condizione delle donne delle periferie italiane, denuncia la ricerca, risiede, oltre che nella mancanza di riferimenti affettivi soldi che facilita l’interiorizzazione di modelli disgregati, anche in alcune carenze strutturali del sistema: la scuola ha un’enorme responsabilità «perché non è in grado di educare al bello, quel bello che ti fa andare oltre, (che) dovrebbe far andare oltre alle difficoltà e che, forse, ti permette di appropriarti di una parte della tua personalità che manco conosci»; e nell’assenza di cura per la crescita culturale degli individui da parte delle istituzioni e degli amministratori. Così, l’azione del governo, d’accordo con le Regioni e l’Anci, che si appresta a mettere a bando un miliardo e seicento milioni di euro per progetti comunali di riqualificazione delle periferie (e per la loro sicurezza, che nelle iniziative dell’esecutivo pentastellato è la parola d’ordine) risulterà vana se non sarà integrata da attività di senso sociale. Come a dire che ogni intervento infrastrutturale che non sia accompagnato da investimenti di natura sociale non sarà in grado di liberare le energie inespresse delle periferie.