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Meno sicurezza: per scelta del governo

L’abolizione della cosiddetta “protezione umanitaria” tra i motivi per la concessione di un diritto alla permanenza regolare, in astratto può avere senso, limitando la scelta solo tra concessione dello status di rifugiato e suo rifiuto. Molti paesi hanno in effetti solo queste due possibilità: ma proprio per questo sono molto più generosi di noi nella concessione dell’asilo. Noi avevamo questa forma intermedia, molto usata anche nei casi di persone già inserite in percorsi lavorativi e di integrazione, e concedevamo pochi riconoscimenti pieni di asilo: il rischio è che rimangano pochi i riconoscimenti, e sparisca la forma intermedia, con il risultato di ritrovarci più irregolari per strada, dato che difficilmente i non riconosciuti saranno espulsi. Nella stessa direzione va lo spostamento delle persone che non hanno ancora ricevuto il riconoscimento di rifugiati dagli Sprar (i servizi di accoglienza organizzati dai comuni, mediamente abbastanza efficaci) ai centri di accoglienza: ciò che sfavorirà i percorsi di inclusione. Dunque meno integrazione: e cioè meno sicurezza.

Con gli sbarchi ridotti quasi a zero, e la filiera degli arrivi irregolari diventata irrilevante, sarebbe il momento ideale per occuparsi dell’integrazione più veloce possibile di chi c’è già, e programmare i futuri flussi regolari. E invece la linea è ancora quella di aumentare le difficoltà dell’integrazione piena: per esempio, raddoppiando i tempi per l’ottenimento della cittadinanza.

Meno rilevante a questo punto è la mancata firma del cosiddetto “global migration compact”: un’iniziativa simbolica, non vincolante. Ma il fatto di essere in compagnia dei paesi dell’Est e degli USA, e contro l’Europa occidentale, ci isola ulteriormente: in un settore, quello delle migrazioni, che – per definizione, trattandosi di persone che vanno da un paese all’altro – solo nella collaborazione internazionale può trovare risposte efficaci.

La sensazione è insomma che si continui a voler fare politica anziché politiche, come se si fosse ancora all’opposizione anziché al governo, per continuare a sventolare il vessillo dell’immigrazione come problema contro cui scagliarsi, e degli immigrati come soggetti da punire: come emerge dall’emendamento al decreto fiscale sui money transfer, che aggiunge un’odiosa tassa in più proprio sui soldi che dovrebbero aiutare gli immigrati a casa loro, come pure spesso si dice che sarebbe opportuno fare.

Mentre si continuano a eludere i problemi veri, quelli che ci costeranno davvero cari: come la drammatica recessione demografica che stiamo vivendo – e che, come la storia insegna, quasi sempre si traduce in recessione economica. Solo la riduzione della platea di lavoratori apre scenari inquietanti: oggi ci sono 3 lavoratori attivi ogni 2 pensionati; nel 2050, in assenza di immigrazioni, saranno 1 contro 1, con una perdita secca di 10 milioni di lavoratori attivi. Ne vogliamo parlare?

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L’insicurezza del decreto sicurezza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Bologna”, 2 dicembre 2018, editoriale, p.1

Le parole necessarie di Pierluigi Cappello

Luce, erba, pioggia. Tre delle parole preferite di lui. Per nominare lei: la vita, il “limite e soglia” dentro cui si sbozzola la poesia di Pierluigi Cappello. Una vita col desiderio di librarsi nella luce (il poeta che voleva diventare pilota di aerei; il bambino che abitava in cima a un colle, più vicino alle nuvole, al cielo) e la volontà di correre lontano, sull’erba (lunghe gambe inquiete di velocista allenato). All’improvviso, la pioggia, fittissima. Quel temporale in forma di incidente, che trancia il cavo elettrico del midollo e spegne per sempre la lampadina del suo corpo. È lì che iniziano a “farsi avanti le parole”, dove le gambe non possono più arrivare. È lì che il ciclo luce-erba-pioggia si attiva fecondo, inarrestabile, per compiersi e culminare in questo libro, che contiene tutte le poesie, ma non tutta la poesia di Pierluigi Cappello: Un prato in pendio (Bur) uscito a un anno dalla scomparsa dell’autore e corredato di preziosi inediti.
“Dalla scomparsa dell’autore” è un modismo che Pierluigi forse non perdonerebbe; esplicitare, facilitare è spesso arrendersi alla lingua appiattita, barbarica, della comunicazione, ben lontana da quella “disperata e elegante consegnataci dalla tradizione letteraria”, su cui lui faticava e avrebbe faticato all’infinito. Il suo scrivere a matita – Un prato in pendio ce ne fornisce toccanti esempi, nel “Quaderno dei manoscritti” -, testimonia non solo la necessità fisica di ridurre sforzo e attrito nel trascinare la penna sul foglio, ma anche la volontà di…

L’articolo di Monica R. Bedana prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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La lezione di storia di Menocchio il mugnaio

Marc Bloch, storico e partigiano francese, ha scritto che ogni lettore di Dumas è forse uno storico in potenza. In questa affermazione mi pare si possa intravedere un senso del fare storia che tiene insieme due principi imprescindibili: la ricostruzione delle storie degli uomini richiede, insieme ad una precisione metodologica, un plus di fantasia, di sforzo immaginativo, di poesia, per arrivare al fondo delle questioni, per non limitarsi a sorvolare la superficie placida del mare senza azzardare il tuffo. In aggiunta lo storico deve saper parlare a tutti: alla società, alla cultura, ai curiosi, agli uomini, alla ricerca, offrendo dei romanzi veritieri che siano anche racconti di speranza. Una conoscenza che permetta di “vivere meglio”.
Bloch verrà fucilato dai nazisti nel 1944, ma l’idea di storia che aveva coraggiosamente proposto, insieme a Lucien Febvre e alla rivista Annales, diventerà il paradigma fondamentale di questa disciplina per tutto il secondo Novecento. Una storia che lascia da parte le vite di pontefici, re e cortigiani, per interrogarsi sul mondo vissuto, sul farsi del pensiero umano, in rapporto stretto con tutte le altre scienze umane, superando l’idiozia di steccati disciplinari dal sapore antico. «L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo. O meglio: gli uomini. Più che il singolare, favorevole all’astrazione, il plurale, che è il modo grammaticale della relatività, conviene a una scienza del diverso», scrive Bloch in Apologia della storia.
In Italia, tra coloro che meglio interpreteranno questo orizzonte ideale, vi saranno gli esponenti della cosiddetta microstoria: Giovanni Levi, Carlo Ginzburg, Edoardo Grendi. Nata negli anni Settanta, questa corrente ha superato brillantemente una delle criticità emerse nella storia della mentalità delle Annales, ovvero aver astratto troppo lo sguardo, aver cercato il mutare del pensiero finendo con il formulare categorie o periodizzazioni troppo rigide, trascurando il vissuto concreto degli uomini. La microstoria riduce la scala: un singolo villaggio, un gruppo umano, un mugnaio possono essere storie che vale la pena raccontare. La lettura di queste vite può approfondire la conoscenza di un contesto e di un periodo.
Forse è sorprendente che nel 2018 un regista, Alberto Fasulo, abbia voluto recuperare una di queste vicende per trarne un film. Nasce così Menocchio, trasposizione cinematografica della storia che Ginzburg ha scoperto e raccontato nel suo famosissimo Il formaggio e i vermi, pubblicato nel 1976. L’immagine filmica ruvida, di chiaroscuri, di fiammelle tremule, di visi aspri in primo piano, restituisce…

L’articolo di Andreas Iacarella prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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La via di fuga dall’Africa si fa sempre più stretta

A woman walks in the Old City of Morocco's port city of Tangiers, on August 13, 2018. (Photo by FADEL SENNA / AFP) (Photo credit should read FADEL SENNA/AFP/Getty Images)

Da Tangeri alla barriera dell’enclave spagnola di Ceuta, in territorio marocchino, corrono meno di 45 chilometri in linea d’aria. Poco meno di 30 tra la costa spagnola e quella della città portuale marocchina, dalla sabbia bianca dove nel 1957 Jack Kerouac in costume si fece ritrarre in fotografia con William Burroughs e Peter Orlovsky. È qui, in una foresta alla periferia di uno dei più affascinanti centri turistici del Marocco, che si nascondono centinaia, migliaia di migranti subsahariani.

Arrivano qui, si fermano in attesa di un posto su un barchino, ci vivono. Dormono a terra su materassi vecchi o una semplice coperta, intorno qualche vecchia pentola da riempire d’acqua piovana per lavarsi o cucinare un piatto caldo, i resti di un fuoco per scaldarsi di notte. E aspettano.

Dopo aver speso migliaia di euro per arrivare qui, nel profondo Nord africano, e mesi o anni di viaggio da Sierra Leone, Costa d’Avorio, Mali, Ghana, Burkina Faso aspettano di partire verso l’Europa. C’è chi raccoglie i soldi per l’ultimo pezzo di viaggio, elemosinando in città o accettando lavori a giornata per qualche spicciolo, chi ha già pagato e attende per il proprio turno e chi sta prendendo contatti con i trafficanti. I costi oscillano moltissimo, da 150 euro a 3mila per un posto in un barchino o un salto oltre la rete delle due enclavi spagnole di Ceuta e Melilla.

Così fortificate e militarizzate da aver spinto passeur e migranti a optare per lo Stretto di Gibilterra, un viaggio di 25-26 chilometri, circa cinque ore. Da Tangeri nei giorni di cielo sereno si vede l’ambita Europa.

Una tratta relativamente breve, ma comunque pericolosa: nel 2018, fino al 21 novembre, sono morti in quel pezzo di mare 631 persone (dati Oim). Tra questi…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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Paola Nugnes: Il Movimento 5 stelle è ostaggio della Lega

PAOLA NUGNES POLITICO

«La questione della sicurezza non si può risolvere con uno Stato di polizia», dice Paola Nugnes, architetta napoletana, senatrice “ortodossa” del M5s. Di certo è una dei pochi parlamentari a chiudere un «percorso di autocensura» su certi temi e denunciare anche il giro di vite repressivo contro i movimenti sociali contenuto nel decreto Salvini.

«Noi facemmo un’opposizione durissima al decreto Minniti-Orlando e Salvini fa peggio – chiarisce la senatrice -. Noi ci siamo opposti prima e non ora. È un segnale culturale molto grave anche aver messo insieme sicurezza e immigrazione. Non è un tema contrattabile, su cui posso dire “te lo faccio passare così tu mi dai un’altra cosa”: è il disegno di una società orribile, esattamente l’opposto di una di società inclusiva, accogliente, che esalta le differenze e le contaminazioni. Al contrario, è una società autarchica, chiusa, che respinge, ha paura e si arma, si è pensato perfino a un bonus per le inferriate».

«Credo che i miei si sarebbero dovuti opporre – ribadisce Nugnes -, come hanno saputo fare in altre occasioni. Non ho partecipato al voto di fiducia, facendo una netta dichiarazione contraria al decreto legge, tuttavia…

L’intervista di Checchino Antonini a Paola Nugnes prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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«Solo il 52% dei bambini sieropositivi viene curato». Msf accusa le case farmaceutiche

FATOUMATA CAMARA, a Guinean Health Ministry midwife performs an Early Infant Diagnosis (EID) test on a newly born infant (12 weeks old) who was born to an HIV positive mother. MSF supports PMTCT activities in 7 health centres in Conakry, including HIV testing, treatment for HIV positive mothers, prophylaxis and Early Infant Diagnosis (EID) for infants born to HIV positive mothers, and the initiation of HIV positive children onto ART In Guinea, where the HIV prevalence among women of child-bearing age is around 2%, the national PMTCT policy states that every pregnant woman should receive a pregnancy test, with lifelong ART prescribed if diagnosed positive. Starting ART immediately is associated with only 2% chance of transmission, versus 20% risk of transmission if treatment is started after delivery MSF is calling for the strong integration of PMTCT and EID into maternity and paediatric services in Guinea.

«Le aziende farmaceutiche semplicemente non considerano una priorità i bambini con l’Hiv, costringendoci a utilizzare trattamenti obsoleti e subottimali, il che rende più difficile per i nostri piccoli pazienti seguire il trattamento e rispettarne l’adesione». A lanciare la denuncia è Ruggero Giuliani, medico infettivologo e vicepresidente di Medici senza frontiere. L’organizzazione umanitaria, in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids (che si celebra ogni anno l’1 dicembre, da quando fu concepita nel 1988, ndr), muove una forte critica rispetto all’operato delle case farmaceutiche, colpevoli di ritardi e di una mancata elaborazione di formulazioni adeguate per la cura di bambini e bambine. Che si ripercuotono, in particolare, su chi fra di loro vive in Paesi in via di sviluppo.

La copertura terapeutica tra i bambini malati di Hiv è assai bassa: solamente il 52% dei bambini sieropositivi hanno ricevuto un trattamento durante il 2017 (dati Msf). E la metà di loro continua a ricevere regimi subottimali, rischiando di incappare in effetti collaterali come resistenza e fallimento della cura.

«La crescente resistenza ai farmaci antiretrovirali esistenti nei Paesi dell’Africa sub-sahariana – prosegue Giuliani – fa sì che i trattamenti più vecchi potrebbero non funzionare nei neonati e nei bambini che invece hanno urgente bisogno di migliori opzioni di trattamento». «Per quanto tempo i bambini sieropositivi dovranno continuare a soffrire o morire a causa di questa indifferenza?», si domanda il medico.

Poiché il mercato dei farmaci pediatrici è limitato, questi non hanno rappresentato una priorità per le multinazionali farmaceutiche, argomenta Medici senza frontiere in una nota.

«I bambini hanno bisogno di avere accesso ai farmaci migliori e più affidabili possibili, dato che hanno bisogno di portare avanti la terapia per l’HIV per tutta la vita», dichiara la farmacista esperta di Hiv della Campagna per l’accesso ai farmaci di Msf. «Le multinazionali farmaceutiche – prosegue – dovrebbero intraprendere un’azione concertata per salvare più giovani vite e porre un freno a questa politica di progressive dilazioni».

Nove bambini sieropositivi su dieci abitano in Africa sub-sahariana, e i tassi di resistenza ai medicinali antiretrovirali in circolazione – come nevirapina e efavirenz – sono alti. Anche per questo, il tasso di mortalità rimane elevato, in particolare tra i primi quattro anni di vita. Nello scorso anno le patologie legate all’Aids hanno ucciso 110 mila bambini nel mondo (dati Msf).

Sempre in occasione della Giornata mondiale dedicata a fare luce su questa malattia, l’Osservatorio Aids – Aids Diritti Salute ha lanciato una campagna di sensibilizzazione rivolta all’opinione pubblica. Il suo nome è “Aids, Tubercolosi e Malaria: fatti e stereotipi”. Stiamo parlando di alcuni video, che cercano di sfatare i luoghi comuni più diffusi circa queste patologie, per agire nella direzione di sconfiggere le epidemie.

Sebbene in Italia l’incidenza dell’Aids è in lieve e costante calo negli ultimi tre anni, è il secondo Paese per incidenza in Europa occidentale, ribadisce l’Osservatorio con un comunicato. Il Fondo globale, un partenariato tra governi, società civile, privati e persone ammalate di Aids, tubercolosi e malaria, dal 2002 sostiene e favorisce le cure nei territori più bisognosi, con un investimento di circa 4 miliardi di dollari l’anno. L’Italia sarà chiamata nell’ottobre 2019 a pronunciarsi sul proprio impegno finanziario nel triennio 2020-2022.

La sinistra è ricerca

In Italia è ormai da molti anni che non esiste più un partito di sinistra che sia rappresentativo.

C’è un elettorato che è orfano. E c’è anche un elettorato che non ha mai trovato una propria rappresentanza in un partito. I partiti che si dicono di sinistra non riescono più a comprendere cosa vogliono i propri potenziali elettori e soprattutto non riescono più a proporre un progetto e un’idea di società diversa. Come se non ci fosse più la capacità di immaginare una società nuova e anche di comprendere quelle che sono le domande di persone che sono diverse da quelle che erano l’elettorato anche solo di una decina di anni fa.

Accanto alla domanda ovvia di una possibilità di vivere la propria vita dignitosamente c’è l’altra domanda che è quella di vivere la propria vita realizzando se stessi. Quindi i bisogni e le esigenze.

I bisogni sono gli stessi di sempre. E sono stati sempre, storicamente, il campo dove la sinistra è stata, nel supporto alla lotta per ottenere retribuzioni giuste e servizi pubblici che fossero per tutti, a prescindere dal censo. I bisogni non sempre sono soddisfatti. Ci sono situazioni di indigenza e di grande difficoltà economica. D’altra parte va detto che i bisogni cambiano e diventano sempre più elaborati e costosi. È il consumismo, per cui capita che si vogliano cose di cui in verità non si avrebbe realmente necessità. Qual è la verità umana?

È quella per cui ci riempiamo di oggetti e facciamo acquisti di cose non realmente necessarie? Oppure è quella per cui compriamo solo lo stretto indispensabile? Non credo sia nessuno dei due estremi. La verità è che la soddisfazione dei bisogni è solo una parte di ciò che ogni persona cerca e vuole. La sinistra si è sempre occupata di bisogni perché ha individuato nella soluzione del bisogno la soluzione alla non realizzazione umana.

Se l’operaio sta male perché gli manca qualcosa è perché non ha sufficienti risorse economiche per procurarsi ciò di cui ha bisogno. Se si risolve il bisogno poi starà bene.

Questo è solo parzialmente vero. Perché una volta risolto il problema del bisogno il malessere può rimanere tale e quale. E magari si pensa che mancherà qualcos’altro. Oltre un certo limite di soddisfazione necessaria, le cose materiali non sono ciò che fa la realizzazione dell’essere umano, anche se spesso si pensa che sia così.

Non c’è niente di male ad aspirare ad avere maggiore ricchezza e possibilità. Ma non è questa la chiave per la realizzazione umana.

La parola realizzazione si accompagna alla soddisfazione delle esigenze, che possiamo pensare come tutto ciò che muove l’essere umano e che non è strettamente connesso con la realtà materiale.

Quindi il conoscere e il sapere, lo studiare e il formarsi, il cercare la propria realizzazione personale e professionale, l’ascoltare della musica o il fruire di opere d’arte, l’amore per un altro essere umano e così via.

È tutto ciò che non ha necessariamente e primariamente un’utilità pratica. È tutto ciò che si fa senza un utile personale ma solo come esigenza di realizzazione personale, di acquisizione di conoscenza o di amore per un altro essere umano.

Eccolo il grande errore.

Uno dei compiti primari della politica è indirizzare l’economia. Cosa senz’altro fondamentale perché i bisogni devono essere soddisfatti.

Nessuno deve restare al freddo e senza cibo.

Ma questo non è assolutamente sufficiente.

La sinistra deve comprendere che gli esseri umani non sono solo materia. C’è una realtà non materiale, la realtà psichica, che non si nutre di cose ma si nutre di pensiero, di immagini, di musica, di amore e di bellezza.

Quando la sinistra pensa solo alla realtà materiale dimenticandosi della realtà non materiale diventa come l’assistenza cristiana per i poveri che non modifica la condizione del povero che rimane povero come prima.

La sinistra deve riuscire a comprendere che occuparsi delle esigenze umane è altrettanto importante che occuparsi di bisogni. Perché la rivoluzione deve essere prima nel pensiero e poi nella realtà materiale. Solo così potrà essere veramente trasformativa anche della realtà materiale.

Nel 2006 questo giornale è nato con l’idea che la trasformazione è possibile ed è prima di tutto quella del pensiero degli esseri umani. Trasformazione che deve essere intesa come superamento della scissione, superamento dell’alienazione religiosa, superamento della bramosia, superamento dell’invidia e dell’odio.

La sinistra dovrebbe essere la ricerca, anche personale, di una realtà umana nuova.

Allora la rivoluzione diventa «una lotta, senza armi, soltanto rivoluzione del pensiero e parola» come scrisse giusto 10 anni fa su questo giornale Massimo Fagioli.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola dal 30 novembre 2018


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L’Internazionale progressista che va da Sanders a Diem25

Democratic presidential candidate Bernie Sanders waves to supporters during a rally Great Bay Community College February 7, 2016 in Portsmouth, New Hampshire. / AFP / Don EMMERT (Photo credit should read DON EMMERT/AFP/Getty Images)

Dopo il dialogo con Jeremy Corbyn, ecco il sodalizio con Bernie Sanders e con altri 250 leader politici e di movimenti progressisti. Il progetto di Yanis Varoufakis prende quota e, proprio, dagli Stati Uniti giunge l’ultima trovata: la nascita di un’Internazionale progressista. Un’alleanza globale capace di schierarsi sia contro le tecnocrazie mondiali che contro la rete populista (e nera) di Steve Bannon. Quel che sembrava un’utopia, sta prendendo forma e peso politico.

Tutto è nato da un confronto nel mese scorso sul Guardian tra Sanders e Varoufakis. Il senatore democratico, con un lungo editoriale, aveva denunciato «il problema globale le cui gravi conseguenze minacciano il futuro – economico, sociale e ambientale – dell’intero pianeta». E il sorgere di un nuovo asse autoritario e di regimi «ostili alle norme democratiche, nemici della libertà di stampa, intolleranti verso le minoranze etniche e religiose, e convinti che siano i loro personali interessi finanziari a dover beneficiare delle scelte governative».

Repentina la risposta dell’ex ministro ellenico – il quale ha recentemente annunciato che sarà capolista in Germania alle elezioni europee con un forte messaggio di europeismo radicale – che ha rilanciato: «Allora diamo vita a un comitato globale col compito di progettare un piano comune per un New deal internazionale, un nuovo e progressista Bretton Woods». Così è stato.

L’appuntamento è stato organizzato formalmente da Diem25 e dalla Sanders Institute e si tiene dal 29 novembre al 1 dicembre presso un centro conferenze del Vermont. Non una semplice kermesse ma un meeting operativo con workshop tecnici dove si dibattono, nel concreto, i temi per costruire quell’alternativa globale che, ad oggi, manca. Fatti, non chiacchiere.

Sul tavolo di discussione la proposta del…

L’articolo di Steven Forti e Giacomo Russo Spena prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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Meno Orban più università e diritti. Gli studenti ungheresi uniti contro le censure del premier

Una coalizione di studenti della Ceu, Università centrale europea, della Corvinus e dell’Università Eötvös Loránd sta occupando da sabato scorso, e fino al primo dicembre, la piazza del parlamento a Budapest per protestare contro gli attacchi del governo Orban alla libertà accademica.

Per una settimana, Kossuth Tér si trasforma in Szabad Egyetem (Free University) che ospita lezioni, conferenze pubbliche, spettacoli e dibattiti. L’occupazione è iniziata dopo la Marcia per la libertà accademica del 24 novembre, una settimana prima della scadenza dell’1 dicembre per il governo ungherese per firmare l’accordo che avrebbe consentito al Ceu di rimanere in Ungheria. A causa delle modifiche alla legge ungherese sull’istruzione superiore, comunemente nota come Lex Ceu, l’università non è in grado di operare legalmente in Ungheria come istituzione accreditata libera dagli Stati Uniti. Anche se la Ceu ha soddisfatto tutte le condizioni stabilite dalla cosiddetta Lex Ceu, il governo ha bloccato la firma dell’accordo per oltre un anno. Come ha annunciato il rettore Michael Ignatieff in ottobre, se l’università non raggiunge un accordo con il governo, dovrà spostare a Vienna i suoi programmi accreditati negli Usa, dal prossimo anno. Il fatto è che Ceu è l’università fondata da Soros, considerato nemico numero uno della destra populista Ue (e anche da qualche nostalgico fuori tempo della Cortina di ferro) per le sue attività di promozione di diritti umani e per la sua ebraicità. Soros, controversa figura di magnate e filantropo, è l’ossessione dei sovranisti europei che detestano la sua Open society foundation, una rete di fondazioni lanciata che finanzia attività di supporto a sanità, diritti sociali e Ong. La Ceu nel suo statuto afferma di promuovere i valori della «società aperta e del pensiero critico», con un particolare focus sulle scienze sociali e ambiti di ricerca a cui il governo Orbán è allergico, dall’indipendenza della didattica ai gender studies.

«I tentativi di espellere la Ceu sono solo una parte del più ampio contesto di minacce alla libertà accademica e all’autonomia», si legge sul sito di Krytyka Polityczna (politicalcritique.org/). «Da un lato, l’accademia ungherese affronta attacchi politici che non hanno precedenti nell’Unione europea, incluso il divieto per i gender studies, gli studi di genere, e con l’imposizione di regolamenti che aumentano il controllo statale sull’accademia delle scienze ungherese – scrive Jakub Gawkowski, critico d’arte e giornalista di Varsavia – dall’altro, il governo di Orbán sta introducendo spietate riforme neo-liberiste, come la privatizzazione dell’Università Corvinus. «Da quando misuriamo le conoscenze in termini di denaro? Dal momento che gli studenti sono diventati prodotti e le aziende sono gli acquirenti, secondo il loro interesse che sono definite le opportunità accademiche. Qual è lo scopo dell’educazione? Droidi che fanno profitto o persone che pensano?», chiedeva Via Molnár, una studentessa dal futuro privatizzato alla Corvinus, durante la protesta di sabato scorso.

«Le università devono essere criticate, ma non attraverso interdizioni, o mettendo al bando professori e studenti, non con la censura, e non con la cancellazione» – ha detto il filosofo e intellettuale Gáspár Miklós Tamás dal palco sulla piazza Kossuth. »La causa dell’educazione non è solo la causa di professori e studenti, è la causa dell’intera comunità politica che non può essere libera senza un’educazione libera».

Gli speaker delle manifestazioni, provenienti dall’Accademia delle scienze ungherese, Ceu, Elte e Corvinus, hanno sottolineato la necessità di solidarietà e alleanza tra istituzioni e persone. Solidarietà non solo con studenti e accademici, ma anche con rifugiati e lavoratori. Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante di fronte alla “legge sul lavoro degli schiavi” proposta da Fidesz (il partito al potere, populista e cristiano, aderente al Ppe), che consente ai datori di lavoro di liberalizzare lo straordinario. «Vivere in una bolla è conveniente, ma le bolle scoppiano. Invece di strategie individuali di evitamento, costruiamo alleanze e organizziamoci», chiede Éva Bognár, dipendente di Ceu. Lo stesso problema è stato affrontato da Imre Szijártó, studente e uno degli organizzatori della protesta: «Questo movimento è molto più della Ceu o addirittura dell’istruzione. La nostra lotta è parte della lotta per l’anima dell’Ungheria. Quando l’attacco al Ceu è iniziato nel 2017 – ha ricordato Szijártó – la società ungherese si è schierata solidale con la comunità universitaria. Ora è giunto il momento per Ceu di solidarizzare con la società ungherese».

Gawkowski ha parlato con gli studenti che partecipano a “Szabad Egyetem”. Levente di scienze politiche: «Quello che vedo è che il governo rende continuamente l’istruzione superiore meno accessibile e disponibile. In questo modo, vedo la situazione dei lavoratori e degli studenti simili. Il governo non sta solo privatizzando e chiudendo le università, ma, ad esempio, allo stesso tempo sta raddoppiando il numero delle possibili ore di straordinario. La loro politica avvantaggia il mercato e le grandi aziende rispetto alla società. Occupando la piazza Kossuth e costruendo uno Szabad Egyetem, possiamo inviare un messaggio forte: che meritiamo molto di più».

Miriam di sociologia: «Trovo molto allarmante l’antisemitismo, l’anti-cosmopolitismo e l’anti-intellettualismo che il governo sta usando per aumentare il suo potere. Mi rende felice che gli studenti del Ceu abbiano deciso di non organizzare la festa di addio, ma di creare una coalizione con altre università e organismi scientifici minacciati dalle azioni del governo. Esiste già una solidarietà internazionale con le università, ma credo che la più grande sfida ora sia per gli intellettuali e gli operai dell’Ungheria a difendersi a vicenda. Parallelamente a ciò che il governo vuole fare con il mondo accademico, i lavoratori saranno colpiti dalla nuova legge sul lavoro che rende l’orario di lavoro “più flessibile”. E questo potrebbe ricordarci molto della Francia nel 1968. Quindi vediamo cosa succede dopo».

Iveta, anche lei di storia: «Mi unisco alla protesta e occuperò Kossuth Tér, perché ritengo che sostenere la libertà accademica sia la scelta giusta. Se falliremo nella lotta per l’autonomia del mondo accademico, falliremo nella libertà di parola nei nostri paesi. E dal momento che la libertà accademica riguarda tutti, credo che non solo gli studenti e docenti, ma ogni cittadino dovrebbe battersi per le università ungheresi. Se ci arrendiamo, rinunceremo dappertutto». Adrien, dottoranda in gender studies: «Ciò che sta accadendo in Ungheria riguarda tutti in Europa e fuori. Deve esserci un momento in cui difendiamo il nostro campo contro questo sistema che cerca di imporre la sua ideologia conservatrice nazionalista sull’intera società attraverso il controllo dei media, enormi campagne di propaganda xenofoba e attacchi all’istruzione e alla ricerca. Sono particolarmente preoccupato per il modo in cui Orbán sta cercando di liberarsi non solo delle voci critiche nelle università, come il divieto degli studi di genere, imponendo il suo autoritarismo patriarcale, ma anche di trasformare le università in macchine private per fare soldi per riprodurre l’élite. Temo che le future generazioni di ungheresi non avranno i soldi per proseguire gli studi e non avranno la possibilità di tenere dei corsi in discussione sull’ordine sociale esistente».

Endre, un’altra studentessa di sociologia: «Sono arrabbiata perché una grande comunità intellettuale, un’università piena di persone vivaci, viene chiusa per ragioni politiche nude e crude. Lo trovo inaccettabile, ma penso anche che buttare fuori Ceu sia solo la punta dell’iceberg. Viktor Orbán è riuscito a costruire una mostruosa macchina di potere negli ultimi otto anni: una classe politica arrogante sostenuta da una fedele borghesia nazionale e da cinici strateghi politici pensa di poter fare qualsiasi cosa di fronte alle proteste frammentate, divise ed esauste della società ungherese. Non vogliamo arrenderci senza combattere e speriamo che altre vittime delle politiche di Fidesz si uniranno a noi. Dobbiamo renderci conto che siamo tutti sulla stessa barca».

Poco prima di “occupy Kossuth”, il 18 novembre, il cancelliere austriaco Sebastian Kurz aveva ricevuto George Soros, l’investitore americano, per un colloquio in merito all’insediamento a Vienna dell’università Ceu, fondata proprio da Soros nel 1991. Lo ha riferito lo stesso cancelliere dal suo account Twitter. Il tweet di Kurz è stato poi seguito da un’ondata di insulti a sfondo razzista e antisemita. Kurz, per la cronaca, è leader di Österreichische Volkspartei, Övp, partito aderente al Ppe, come Fidesz, come gli italiani Udc, Forza Italia e Alternativa popolare (Alfano). Il governo Kurz, sostenuto da FpÖ, partito di estrema destra, non è meno tenero di Orban nei confronti della libertà di movimento delle persone e dei diritti dei rifugiati.

Comment vivent les athées en Italie et dans le monde

Tu n’as pas de dieu? L’Italie n’est pas faite pour toi. Évidemment, le pays n’est pas aussi dangereux que le Pakistan, l’Arabie Saoudite ou la Mauritanie où les athées sont condamnés à mort, mais seulement un poil tout petit peu plus sûr que le Sri Lanka et qu’une poignée d’autres pays du monde.

Oui, parce que si l’on réfère au Rapport IHEU 2018 sur la liberté d’expression, le Belpaese se situe juste après le Zimbabwe en 159ème position sur 196. En ce qui concerne la protection des droits des non-croyants, aucun pays d’Europe ne fait pire.

Rendu à sa septième édition, le Rapport a été présenté à la chambre des députés italienne par l’UAAR (Union italienne des Athées et des Agnostiques Rationalistes) qui fait partie de l’IHEU (International Humanist and Ethical Union), l’internationale éthico-humaniste qui a publié le volume et qui représente les non-croyants au niveau mondial. La carte mondiale de la répression a été élaborée dans le but d’évaluer, pays par pays, si les lois en vigueur garantissent la liberté d’expression et la liberté de conscience et, le cas échéant, de quelle manière. À cet égard, les dix pires pays pour les athées, les non-croyants et les minorités religieuses sont l’Arabie Saoudite, l’Iran, l’Afghanistan, les Maldives, le Pakistan, les Émirats arabes unis, la Mauritanie, la Malaisie, le Soudan et le Brunei. Alors que les pays plus progressistes sont la Belgique, les Pays-Bas, Taïwan, Nauru, la France, le Japon, Sao Tomé-et-Principe, la Norvège, les États-Unis, Saint-Kitts-et-Nevis.

L’Italie, nous l’avons dit, est bien loin du podium de la laïcité. «Parce que – rappelle l’UAAR – malgré ce qu’impose la Constitution italienne, les discriminations contre les non-croyants (qui sont au moins dix millions dans ce pays) sont quotidiennes et systématiques.» Différents points faibles contribuent à nous faire remporter cette place peu enviable, continue l’UAAR : de l’enseignement de la religion catholique dans les écoles publiques au système inéquitable du «8 per mille»1, du financement public des écoles catholiques à la présence envahissante de l’Église catholique dans les émissions télévisées. «Et puis, il ne faut pas oublier que l’Italie protège tout particulièrement le sacré à travers les lois sur diffamation religieuse. La dernière date de 2006, est c’est une loi sur les cas spéciaux d’outrage qui prévoit jusqu’à deux ans de prison. L’Italie fait aussi partie des pays qui punissent encore le blasphème (art. 724 du code pénal). Cependant, le blasphème ne fait la une des journaux que si le crime est commis à l’étranger et que c’est un chrétien qui risque la prison (ou pire). Il suffit de penser au cas récent d’Asia Bibi, heureusement acquittée par la Cour pakistanaise qui a annulé la peine de mort à laquelle elle avait été condamnée. Certains leaders politiques italiens qui se consacrent à la défense de citoyens étrangers discriminés à cause de leur confession religieuse pourraient faire sourire, si le contexte qui les pousse dans ces batailles était moins dramatique. Il s’agit souvent des mêmes politiciens qui affichent des problèmes d’intolérance évidents envers les immigrés et les migrants (qu’ils laissent tranquillement se noyer dans la Méditerranée ou qu’ils abandonnent à la torture dans les prisons de Libye), et qui adhèrent à la religion dominante du pays. Cette religion à laquelle on doit encore l’existence des crimes de blasphème et de diffamation religieuse en Italie. En élargissant la perspective, le Rapport IHEU montre que dans au moins 71 pays du monde les impies subissent de graves discriminations: dans 46 d’entre eux (pour la plupart, des États islamiques ou des États dont la population est majoritairement musulmane), les discriminations peuvent condamner à la prison, dans sept pays, à la peine de mort. Dix-huit pays criminalisent l’apostasie: dans douze d’entre eux, elle est punie par la peine de mort. En bref, il y a encore beaucoup de chemin à faire pour parvenir à une véritable protection “globalisée” des droits des athées, des non-croyants et des personnes qui appartiennent à des minorités religieuses.»

«Deux réflexions s’imposent à la lecture des résultats qui émergent du Rapport IHEU», affirme Adele Orioli, responsable des procédures légales UAAR, à Left. «La première, sur combien, dans le monde, on soit encore loin de reconnaître le droit à la liberté de religion, surtout quand cette liberté est celle de n’en avoir aucune. Cette distance se concrétise dans un effrayant crescendo de répression contre la dissidence athéiste, qui peut aller de l’amende, qui reste quand même injuste, à la détention, à la torture, et à la mort.» Complice, le silence de la plupart de ceux qu’on appelle les pays occidentaux qui font pourtant de la liberté d’expression et de la liberté de conscience un de leurs bastions constitutionnels. Un silence d’autant plus retentissant, selon Orioli, vis-à-vis d’une minorité comme celle des non-croyants, qui n’est ni organisée ni structurée. « La deuxième réflexion est décidément plus italienne – ajoute la responsable des initiatives légales UAAR -. Il n’est pas surprenant de trouver la Belgique, la France et les Pays-Bas dans le top ten des paradis des athées (par paradis, on entend ici la possibilité absolument terrestre de jouir des mêmes droits que tout le monde). Il n’est pas surprenant non plus que l’Italie en soit absente. Dans le classement en code couleur de la carte qui accompagne le Rapport, la Péninsule remporte un beau jaune vif, à mi-chemin entre les discriminations systématiques et les discriminations graves envers les non-croyants. En dépit des articles 3, 19 et 21 de la Constitution italienne. En dépit du fait que la Cour constitutionnelle de la République italienne définisse la laïcité comme un principe suprême du droit national. Ce Rapport offre donc une double occasion qui peut servir un seul but: la protection du droit humain fondamental, irrépressible et universel, de ne pas croire. Et de pouvoir le dire.»

La carte

Le Rapport 2018 sur la liberté d’expression dans le monde – présenté en Italie par l’UAAR en collaboration avec l’IHEU – montre que les droits humains ont tendance à se soutenir les uns les autres: dans les pays où les athées et les agnostiques sont persécutés, on observe souvent que les minorités religieuses le sont aussi, et vice-versa. Cela vaut également pour l’Italie, pays classé à mi-chemin entre les discriminations systématiques et les discriminations graves envers les non-croyants et les non-catholiques.

Traduzione di Catherine Penn

1 En Italie, lors de la déclaration d’impôts sur le revenu, les contribuables doivent verser 8 ‰ = 0.8% (“huit pour mille”) de leur revenu annuel à une organisation religieuse reconnue par l’État italien ou à un programme d’aide sociale géré par l’État italien.

 

La versione in italiano dell’articolo di Federico Tulli è stata pubblicata su Left del 16 novembre 2018


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