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I lager libici svelati nel loro orrore. Un atto d’accusa contro la politica disumana dei respingimenti e del decreto Salvini

In this Friday, Nov. 30, 2018, photo, a migrant is prepared to be evacuated for medical reasons by helicopter from the Nuestra Madre de Loreto Spanish fishing vessel carrying 12 migrants rescued off the coast of Lybia. (ANSA/AP Photo/Javier Fergo) [CopyrightNotice: Copyright 2018 The Associated Press. All rights reserved]

Sull’orrore-Libia, è impensabile immaginare un solo istante che i leader europei non fossero a conoscenza dell’impatto letale e della catena di abusi prodotti dalle loro scelte in materia di migrazione. L’ampiamente documentato “orrore”, era giunto dalla voce-verità in primis dei migranti stessi; e da decine di interviste, reportage internazionali, denunce degli organismi internazionali, rapporti di Ong come Amnesty, Msf, Open Arms tra gli altri, gli aggiornamenti sulla giurisprudenza di Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione). Tutti materiali che potranno essere ormai consultati sul nuovo sito Dossier Libia, a cura dalla campagna Lasciatecientrare, in collaborazione con Asgi e Melting Pot.

Torture e violenze tutte note ed elencate in particolare, da due rapporti delle Nazione Unite, della missione dell’Onu in supporto in Libia (Unsmil) e dell’ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani del 2016. Una sentenza disponibile sul sito da notare è quella storica della Corte di Assise di Milano sulle torture in un “lager” libico (termine usato nella requisitoria del pm). Altro documentario d’importanza e degno di interesse, l’audio documentario di Michelangelo Severgnini e Piero Messina che hanno raccolto decine di testimonianze dalla Libia, in “Exodus, fuga dalla Libia”, da cui emerge l’infinito grido e appello al soccorso.

La mole di informazione disponibile da anni non fa che aggravare il bilancio da un punto di vista morale, perché finora nessuno ha deciso di mettere fine alle torture, allo sterminio di migranti in Libia e di organizzare la necessaria evacuazione di tutti i migranti detenuti e intrappolati nei campi libici. I governi europei hanno invece perseguito e intensificato i respingimenti, la complicità con la cosiddetta guardia costiera libica e la detenzione di massa come mezzo di controllo della migrazione, peggio l’intrappolamento in Libia e la tortura per delega.
Dopo essersi occupato anni dei Cie, LasciateCieentrare ha cominciato a documentare le torture nei centri di detenzione libici. Lager denunciati da tutti i migranti che hanno transitato per il Paese prima di affrontare il viaggio ed arrivare in Europa. Le vittime delle torture, delle violenze, degli stupri, degli abusi, dei ricatti a livello economico sono migliaia: uomini, donne e minori. Il cosiddetto “Decreto Sicurezza”, diventato legge il 28 novembre scorso, cancella proprio quelle vittime di tortura. Spesso titolari, qui in Italia, di un permesso di protezione umanitaria. Oltre alla ben nota difficoltà nel racconto del proprio vissuto, e ai processi di banalizzazione delle “vecchie lesioni”, già operanti, da parte di un sistema di accoglienza fortemente carente nel supportare o anche solo nel riconoscere le vittime di tortura con percorsi idonei, oggi, il “Decreto Salvini” indebolisce il sistema Sprar e trasforma i Centri di accoglienza straordinaria (Cas) in dormitori “per norma”, rendendo invisibili proprio coloro che, invece, avrebbero maggior bisogno di attenzione e protezione.

In un Rapporto già a dicembre 2017 Amnesty accusava i governi europei di essere «consapevolmente complici nelle torture e nelle violenze ai danni di decine di migliaia di rifugiati e migranti, detenuti in condizioni agghiaccianti nel Paese nordafricano». La parola ovviamente cruciale email termine «consapevolmente». Permetteva di confermare, se ne fosse il bisogno, che l’Europa e l’Italia hanno deciso a tavolino la strategia di detenzione e di deportazione di massa: scelto, in riassunto, di gestire la migrazione con la morte. E di macchiarsi di “crimine di sistema” come rivelava la storica sentenza del Tribunale dei Popoli nel dicembre 2017. In Libia, e nel mondo, è in corso un’aggressione e una negazione senza precedenti nei confronti del popolo migrante ed è indagando, guardando e svelando fino in fondo questa interruzione o abisso della coscienza, che scopriremmo, la dimensione e l’estensione di questa sparizione di massa.

Left candida il comune di Riace al premio Nobel per la Pace

Siamo una rete di organizzazioni della società civile, Ong e Comuni che vogliono promuovere una Campagna a favore dell’assegnazione del premio Nobel per la pace 2019 a Riace, il piccolo Comune calabrese che invece di rinchiudere i rifugiati in campi profughi li ha integrati nella sua vita di tutti i giorni. Riace è conosciuta in tutta Europa per il suo modello innovativo di accoglienza e di inclusione dei rifugiati che ha ridato vita ad un territorio quasi spopolato a causa dell’emigrazione e della endemica mancanza di lavoro. Le case abbandonate sono state restaurate utilizzando fondi regionali, sono stati aperti numerosi laboratori artigianali e sono state avviate molte altre attività che hanno creato lavoro sia per i rifugiati che per i residenti.

Nel 2018 il Sindaco di Riace, Domenico Lucano, è stato arrestato, poi rilasciato, sospeso dalla carica e infine esiliato dal Comune con un provvedimento di divieto di dimora per “impedire la reiterazione del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Un provvedimento che rappresenta un gesto politico preceduto dal blocco nel 2016 dell’erogazione dei fondi destinati al programma di accoglienza e inserimento degli immigrati, che lasciò Riace in condizioni precarie.

Gli atti giudiziari intrapresi nei confronti del Sindaco Lucano appaiono essere un chiaro tentativo di porre fine ad una esperienza che contrasta chiaramente con le attività dei Governi che si oppongono all’accoglienza e all’inclusione dei rifugiati e mostrano tolleranza in casi di attività fraudolente messe in atto nei centri di accoglienza di tutta Italia e in una Regione dove il crimine organizzato – non di rado – opera impunemente.

Supportare la nomina del Comune di Riace per il Nobel della pace è un atto di impegno civile e un orizzonte di convivenza per la stessa Europa.

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Grazie!

Il Comitato promotore:
Re.Co.Sol – Rete dei Comuni Solidali; Municipio Roma VIII, Forum Italo-Tunisino per la Cittadinanza Mediterranea, Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Comunità di base San Paolo, Left, Arci Nazionale – Arci Roma, Comuni Virtuosi, CISDA – Coordinamento Italiano a Sostegno delle Donne in Afghanistan, ANPI, Noi siamo Chiesa, ISDEE, AIEA Onlus- Associazione Italiana Esposti Amianto, Medicina Democratica Onlus, Tavola della Pace, Solidarietà e Cooperazione Cipsi, CBC-Costituzione Beni Comuni, Festival Villa Ada Roma Incontra Il Mondo, Scup Sport e Cultura Popolare, Fondazione Lelio Basso, Associazione per la pace Milano

Leggi anche CANDIDIAMO MIMMO LUCANO AL NOBEL PER LA PACE  un articolo di David Armando e Natascia Di Vito

Per approfondire, Left del 12 ottobre 2018


SOMMARIO ACQUISTA

Come riconosci uno sciacallo? Dalla frenesia

Alla fine è la frenesia che contraddistingue gli sciacalli: non è questione di fame, è quesitone di voracità, di togliere cibo agli altri più che alimentare se stesso, di essere frastornato dal bisogno di rovistare tra i rifiuti sentendosi furbo nel lucrare sulla fatica degli altri. Del resto mentre i poveri traggono piacere dal mangiare, i potenti godono nell’avere fame.

Il tweet di Salvini sugli arresti di ieri (e soprattutto sui nigeriani così utili alla sua propaganda) ne è un caso eclatante: preso dalla foga di twittare, convinto che annunciarlo per primo fosse il modo migliore per intestarsi una vittoria (non sua), il ministro dell’inferno ha aperto i suoi sfinteri social rischiando addirittura di compromettere l’operazione.

«Ci si augura che, per il futuro, il ministro dell’Interno eviti comunicazioni simili a quella sopra richiamata o voglia quanto meno informarsi sulla relativa tempistica al fine di evitare rischi di danni alle indagini in corso», ha detto ieri il procuratore capo di Torino Armando Spataro. E non solo: «In relazione ai soli fatti di Torino – ha scritto Spataro – il Procuratore della Repubblica osserva che, al di là delle modalità di diffusione, la notizia in questione: è intervenuta mentre l’operazione era (ed è) ancora in corso con conseguenti rischi di danni al buon esito della stessa; la polizia giudiziaria non ha fermato “15 mafiosi nigeriani”, ma sta eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare emessa, su richiesta della Dda di questo Ufficio, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino. Il provvedimento restrittivo non prevede per tutti gli indagati la contestazione della violazione dell’art. 416 bis c.p.; coloro nei cui confronti il provvedimento è stato eseguito non sono 15 e le ricerche di coloro che non sono stati arrestati è ancora in corso».

In sostanza Salvini, preso dalla foga adolescenziale di nutrire i social e la propaganda, ha finito per dare una notizia sbagliata nei modi e anche nei contenuti. Non male, per un ministro che dovrebbe occuparsi della sicurezza pubblica. Chapeau.

È tutto? No. Il ministro dell’inferno, piuttosto che scusarsi, ha pensato bene di esporre al linciaggio il procuratore capo di Torino invitandolo ad andare “in pensione” e spiegandoci che il suo tweet voleva semplicemente essere un ringraziamento verso chi si è occupato dell’operazione. Quindi, se ci pensate, anche lo stesso Spataro dileggiato.

Basta? No, non andate via. Gli occhi attenti di Antivirus (un collettivo che si occupa di debunking e controinformazione) hanno ritrovato un’intervista a Matteo Salvini del febbraio di tre anni fa in cui il ministro dell’inferno dichiarava, riferendosi a Alfano: «Un ministro dell’Interno che twitta su indagini in corso non merita neppure un commento. Il fatto in sé la dice tutta sul quel personaggio lì».

Ecco tutto. Sipario.

Buon mercoledì.

Elezioni in Andalusia, non solo un flop di Sanchez. Il day after della sinistra spagnola

Antiglobalista, antifemminista, autoritario, confessionale, euroscettico e xenofobo. El Pais lo descrive così Santiago Abscal, il 46enne leader del partito populista di estrema destra Vox, che ha ottenuto 12 seggi alle elezioni in Andalusia. Ammiratore di Marine Le Pen, della quale ha ascoltato i comizi in Francia, Abscal è nato a Bilbao in una famiglia di tradizione politica di destra. Suo nonno è stato sindaco franchista nel paesino di Amurrio, suo padre leader del partito Alianza popular nei paesi baschi. Lo stesso Santiago diventò a 23 anni consigliere comunale del PP nella cittadina basca di LLodio. Girava armato di una Smith e Wesson per paura degli indipendentisti baschi e veniva protetto da una scorta. Divorziato da una prima moglie da cui ha avuto due figli, ora convive con la blogger e influencer Lidia Bedman, madre di altri due suoi figli.

È lui la sorpresa di questa tornata elettorale andalusa che ha visto il tonfo del governo regionale guidato dal Psoe dal 1982, più precisamente dalla “baronesa” Susana Diaz, leader dell’ala che s’era messa di traverso all’ascesa di Pedro Sanchez, ora premier, alla guida del partito.

Per il governo di minoranza di Sanchez è stato il primo test elettorale da quando s’è insediato lo scorso giugno. Quasi 6,3 milioni di elettori nella regione più popolosa della Spagna. Vox tentava di entrare per la prima volta in un parlamento regionale spagnolo. Il crollo del Psoe è stato dal 35,43% del 2015 al 27,97%. I suoi 33 seggi su 109 (ne aveva 47 nella scorsa legislatura), insieme ai 17 ottenuti da Adelante Andalucía, risultano insufficienti a guadagnare la maggioranza assoluta (55). Il partito di estrema destra Vox ottiene, invece, il 10,96%, 400mila voti. I suoi dati di crescita fanno una certa impressione: l’esempio migliore è l’ascesa di Vox in città come El Ejido (da 58 voti a oltre 7mila) o Algeciras (da 185 a 8500), il picco di consensi nella provincia di Almeria, 16,87%. Anche in Andalusia, le campagne antimigranti di PP e Ciudadanos (C’s) hanno preparato l’irruzione sulla scena di una forza dichiaratamente razzista. Drastico calo anche per il PP che ottiene il 20,75% dei voti (26,76% nel 2015) e 26 seggi, mentre C’s balza in avanti dal 9,28 al 18,26%, passando da 9 a 21 seggi.

Visto da sinistra vuol dire che la Spagna non è al di fuori delle difficoltà del mondo per costituire un polo radicale anche se l’irruzione dell’onda reazionaria è stata ritardata dall’intensità del ciclo di mobilitazioni aperto con il 15M e continuato più tardi dalle maree e dai primi successi di Podemos.

Il programma di Vox ha anche una netta matrice di classe: convertire tutta la terra andalusa in terra urbanizzabile è chiaramente il sogno dei settori della borghesia che hanno costruito le loro fortune promuovendo la bolla immobiliare. L’idea di creare un unico tipo di IRPF al 20% per chi guadagna fino a 60mila euro, e solo del 30% per chi supera questa cifra, significa una chiara riduzione delle imposte dirette a redditi più alti, l’eliminazione di procedure e tasse per la costituzione di società o la riduzione della famosa imposta sulle aziende dal 25 al 20%. L’intero programma di Vox mira a espandere i margini di profitto in conto capitale riducendo indirettamente il reddito dal lavoro. Vi ricorda qualcosa? A complicare l’analisi c’è che il voto per Vox ha origini sociali molto varie: dalla piccola borghesia ai settori capitalisti e settori popolari.

«Risultato pessimo – ammette dialogando con Left, Manuel Garí Ramos, dirigente nazionale di Podemos – l’astensione è cresciuta tra gli elettori di sinistra. E nel nostro caso Adelante Andalucía, l’alleanza Podemos e Izquierda Unida, ha ottenuto 300mila voti in meno rispetto alla somma dei voti ottenuti separatamente alle scorse regionali e avrà 3 deputati in meno». Per la sinistra è un bel grattacapo: la campagna di Adelante Andalucía è stata guidata da Teresa Rodríguez, popolare figura dell’ala anticapitalista di Podemos. L’alleanza della sinistra radicale paga, in parte, il rifiuto irresponsabile di Equo, formazione ambientalista che ha registrato 15mila voti, e di Pacma [Partito animalista contro il maltrattamento degli animali, 70mila voti] nonostante Aa sia lontanissima dal “neoproduttivismo” del Psoe, dall’appoggio susanista alle commesse militari per l’Arabia Saudita e alla caccia sulle montagne andaluse. Ma la sinistra paga anche, secondo Ernesto M. Díaz su Viento Sur, le decisioni che i vertici di Podemos a livello statale stanno applicando da molti mesi come un rullo, e che hanno limitato le aspirazioni trasformative e partecipative: si punta l’indice sui processi di burocratizzazione, moderazione del programma, limitazione della vita interna del partito e subordinazione alle priorità istituzionali generati dal pablismo (di Pablo Iglesias, ndr) nel suo appoggio esterno al governo Sanchez.

Omaggio al maestro Mohsen Vaziri, il 5 dicembre all’Ara Pacis

Mohsen Vaziri è l’esempio eccellente dei pionieri della storia dell’arte iraniana dell’ultimo secolo. Un significativo testimone che appartiene alla prima generazione dell’avanguardia artistica iraniana, generazione ossessivamente alla ricerca di un nuovo linguaggio: in particolare alla ricerca di un loro modernismo che appartenesse alla loro storia, cultura e percezione del mondo. Un modernismo che non voleva essere né una semplice copia dell’arte occidentale né cadere nel cliché dell’orientalismo. Vaziri ha dedicato gli studi e il lavoro di una vita a questo nuovo linguaggio. E’ stato artista, traduttore e autore di libri sulle tecniche artistiche. Un insegnante appassionato che ha lasciato traccia sui coetani e un’eredità riconoscibile nella generazione successiva.
Mohsen Vaziri Moghaddam nasce a Teheran nel 1924. Nei primi anni Quaranta si iscrive alla Facoltà di Belle Arti della capitale. Già nei primi anni di studio, nonostante il metodo tradizionale dell’accademia, si interessa alle tendenze della prima avanguardia storica, in particolare all’impressionismo e postimpressionismo. La sua prima personale è nel 1952, alla Iran-America Society di Teheran. Tre anni dopo sarà a Roma, dove studia all’Accademia delle Belle Arti e avrà la sua prima personale italiana nel 1956 alla Galleria d’arte Portonovo di Roma.
Ma il momento cruciale della sua carriera e la sua “concezione di pittura astratta”, avviene suprovocazione del suo professore Toti Scialoja che gli chiese se volesse essere un pittore che sa dipingere bene o un artista che scopre e costruisce il suo segno. E così, in un giorno d’estate del 1959 mentre sulla spiaggia di Castel Gandolfo giocando con gli amici si copre di sabbia nera, nota le linee lasciate dalle sue dita, sia sul corpo che per terra; scopre la traccia che diventerà il suo segno. Il pennello diventò il corpo dell’artista e il segno sulla tela la memoria del corpo in movimento, ora e qui immortalizzato nel colore e nella materia.
Quest’azione, pari alle tendenze d’avanguardia internazionale del secondo dopo guerra, lo inscrive di diritto tra i precursori delle tendenze artistiche che stavano per arrivare. Basti ricordare gli anni Cinquanta e Sessanta, l’espressionismo astratto americano, l’informale europeo o le esperienze del gruppo Giapponese Gutai. Per Vaziri la sabbia a sua volta ricorda i giochi della sua infanzia con la terra dei deserti o le spiagge del mar Caspio, oltre a commemora l’umano preistorico che nella caverna ha lasciato il suo segno, la sua impronta.
Non a caso questi lavori hanno attirato l’attenzione dei più eminenti esponenti della critica d’arte italiana del periodo, da Giulio Carlo Argan ad Alberto Moravia, il quale nel suo testo presume, per chi viene da un paese orientale con una grande tradizione, che l’incontro con la cultura europea provochi “in primo momento un abbandono completo della tradizione autoctona a favore di una interiorità fuori del tempo e dello spazio”. E quando questa interiorità viene esplorata e oggettivata, essa si attenua nella “consapevole rivisitazione della tradizione… In altri termini la realtà moderna viene vissuta e sofferta con sensibilità nazionale”.
Nel 1964, all’apice della sua carriera artistica, torna in patria, e fino al 1975 insegna presso la Facoltà di arti decorative (l’attuale Università dell’arte) e presso la Facoltà di Belle Arti di Teheran. Negli stessi anni comincia a scrivere testi di metodologia artistica guide del disegno e pittura.
Alla fine degli anni Sessanta, produce le opere in bassorilievo, con fogli d’alluminio e ferro; a volte in colori primari. Sono le forme al bivio tra pittura e scultura. Anche qui, una nuova interpretazione dell’arte ottica e cinetica italiana che indagava l’illusione bidimensionale. Il materiale scelto dall’artista rispecchia la forma eppure inganna lo spettatore e l’occhio verso un movimento visivo, spaziale, ma anche corporale e psicologico.
L’ulteriore evoluzione di questi lavori avviene negli anni Settanta con una serie di sculture mobili costruite da pezzi di legno uniti con dadi e bulloni che lo spettatore poteva muovere e spostare. Come dice l’artista: “Per far sì, che si aprissero e chiudessero proprio come le giunture del corpo umano”. Nel corso degli anni Settanta, a seguire le sculture (forme in movimento, 1970) che venivano mosse dal pubblico che partecipava all’opera, nascono una serie di dipinti che riprendono e sviluppano le forme spesso aguzze delle sculture stesse, insieme a forme fortemente curvilinee nei lavori tridimensionali. Su questi lavori scriveranno Alberto Moravia, Pierre Restany e Toni Maraini.
Nel 1985, Vaziri insieme alla famiglia si trasferisce un’altra volta, e definitivamente, in Italia per continuare la sua ricerca creativa. Ha dedicato agli studi e al lavoro una vita senza mai stancarsi e continuerà a dipingere anche quando nel 2003, colpito da una malattia agli occhi perde in parte la vista. Lui che, prima di iniziare a dipingere, aveva sempre sognato di diventare un musicista, sapeva come far suonare la materia sulla superficie dello spazio. Dipinse fino alla fine lo sguardo, la visione! Citando Max Ernst “inside of sight”, all’interno della vista.
Nel 2004 in occasione della sua retrospettiva al Museo d’Arte Contemporanea di Teheran gli viene dato il riconoscimento come miglior artista iraniano del secolo. Nel 2005 gli viene conferita l’onorificenza come personalità europea per la sua arte. Nella primavera del 2017, nella sua città prediletta, viene costituita e ufficialmente riconosciuta dalla Regione Lazio la Fondazione Mohsen Vaziri Moghaddam con sede a Roma. Mohsen Vaziri Moghaddam viene a mancare la mattina del 7 settembre 2018 a Roma. Il 5 dicembre all’Auditorium dell’Ara Pacis, a partire dalle 17, si tiene una serata in suo onore con la partecipazione di storici dell’arte, amici e studiosi.

 

Vaziri sulle rive della spiaggia di Ostia, Italia, 1963

Idem con patate

Il ministro per le Pari opportunita' Josefa Idem si dimette il 24 giugno 2013. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

«Quale è stato l’esito del sopralluogo tecnico dell’11 giugno presso la sua abitazione? Non ritiene spiegare in aula le motivazioni di quello che, ci auguriamo, sia solo uno spiacevole equivoco? E qualora fosse verificato, il comportamento non perfettamente idoneo e corrispondente all’importantissimo ruolo di ministro della Repubblica quale sarà il suo comportamento?». Nicola Morra, 19 giugno 2013, al tempo capogruppo in Senato del Movimento 5 Stelle.

«Chiediamo al presidente del Consiglio di verificare se il ministro  abbia nascosto una residenza fittizia al fine di trarne vantaggi a fini fiscali e urbanistici. Se il ministro ricoprisse questo ruolo istituzionale nel suo paese di origine avrebbe dovuto già consegnare le dimissioni. È inaccettabile la pretesa del governo che i cittadini sostengano nuovi e pesanti sacrifici quando uno dei suoi membri piu’ autorevoli sembra non rispetti le regole sulle sue residenze. Visto che la lotta all’evasione è un principio fondante di questo governo, è bene che si cominci dai ministri che lo compongono». Gianluca Buonanno, sempre 19 giugno 2013, al tempo vicepresidente dei deputati della Lega Nord.

«Insomma uno stivale pieno di fango. Cari piddini quando pensate che uno di questi personaggi debba fare un passo indietro? Guardate che dopo un po’… il fango si solidifica e non lo si riesce a togliere più». Carlo Sibilia, M5s, 3 aprile 2015.

«Non transigo… Se sbagli fuori dalle palle. Sei un ministro della repubblica mica uno stronzo qualsiasi. Via… fori dalle palle», «dimenticate che i cittadini onesti esigono parlamentari onesti», «Non sono per le mezze misure. Non devi sbagliare. Non me ne frega un cazzo se ti penti dopo o che dici non volevo farlo. Hai sbagliato???? bene porti via le palle, chiunque sia destra, sinistra, centro, movimento 5 stelle», «Solo in Italia ci facciamo queste seghe mentali: in qualsiasi altro paese DEMOCRATICO si sarebbe dimessa da sola senza tante rotture di coglioni..», «Intanto una furbina in meno da mantenere… se avesse investito un bimbo in auto, cosa verrebbe detto? “Gli ho solo tranciato un braccio, non l’ho ucciso….” Ragazzi, siamo seri, daiiiiii!», «Avrebbe avuto almeno il buon senso di dimettersi invece di fare quella pagliacciata di negare o di dire … io non sapevo niente….!!», Ha provato a fare la furbetta…ViA !!!», «doveva dimettersi subito. vigliacca attaccava Beppe pure nei programmi sportivi…», «Non si dovranno fare più sconti a nessuno..». Commenti a un post su Facebook, pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle, 25 giugno 2013.

«Una p… piena di ipocrisia». Mario Borghezio, Lega Nord, 21 giugno 2013.

«Mi domando che cosa spinge un Ministro della Repubblica ad esprimere solidarietà verso un altro Ministro della Repubblica dimissionario perché potenziale evasore.
In questo modo si ha sempre quella sensazione di disagio: nonostante cambino volti e nomi, la casta è viva più che mai, ed è sempre vigile e pronta ad autodifendersi quando è colpita. La solidarietà la si dà alle vittime di un terremoto, di un incidente sul lavoro, alle vittime delle traversate sui barconi per arrivare in Italia, a chi subisce minacce di morte dalla mafia, alla magistratura che è attaccata quotidianamente ecc. ecc.; di sicuro no ad un evasore fiscale». Post del Movimento 5 Stelle di Castellammare di Stabia, 30 giugno 2013.

Queste sono solo alcune delle dichiarazioni riservate a Josefa Idem, ministro allo Sport per cinquanta giorni durante il governo Letta, quando si scoprì che non aveva pagato regolarmente l’Ici (non lei, suo marito) per un suo immobile e decise (giustamente) di dimettersi.

Dai, davvero, non serve aggiungere altro. Idem con patate, si dice. Non c’è nemmeno bisogno di scrivere chi sono le patate.

Buon martedì.

Armi ai narcos, repressione dei mapuche e altri scandali. In Cile, l’esercito corrotto fa sprofondare la destra di governo

CH40. SANTIAGO (CHILE), 28/08/2012.- Un policía de las Fuerzas Especiales de Chile dispara balas de pintura para marcar a los manifestantes durante enfrentamientos hoy, martes 28 de agosto de 2012, tras una marcha que reunió a unas 130 mil personas para exigir una educación gratuita y de calidad, en Santiago (Chile). Estudiantes secundarios y universitarios, profesores, organizaciones sociales y sindicatos del país convocaron ayer una protesta en el marco de un paro nacional de la educación en demanda de una enseñanza pública gratuita y de calidad. Por primera vez desde que se retomaron este año las movilizaciones iniciadas en mayo de 2011, la Confederación de Estudiantes de Chile (Confech), las dos principales organizaciones de estudiantes secundarios, el Colegio de Profesores y la Central Unitaria de Trabajadores (CUT) se unen para reclamar una mejora en la educación chilena. EFE/Ariel Marinkovic

Ruido de sables, alla lettera “tintinnar di scabole”. Il comandante in capo dell’esercito cileno, generale Ricardo Martinez, usa – probabilmente senza saperlo – la stessa metafora che mezzo secolo prima, in Italia, era servita al leader socialista Pietro Nenni per denunciare gli armeggi di ambienti più o meno deviati di Dc e carabinieri contro le libertà democratiche.

Giurando che oggi non ci sarebbe alcun ruido de sables, Martinez chiede ancora scusa per aver lasciato trapelare che alcuni militari vendono armi a criminali e narcotrafficanti. Proprio oggi il generale s’è presentato per questo di fronte alla commissione difesa della Camera dei deputati provando a escludere che ci siano fronde, dopo il conclave segreto di quasi mille militari.

Tutto ciò a pochi giorni dall’omicidio di un giovane mapuche, Camilo Catrillanca, mentre era alla guida del suo trattore, dopo una violenta irruzione dei militari in una comunità nel municipio di Ercilla, a sud.

«Abbiamo informazioni che ufficiali e sottufficiali siano implicati nell’acquisto di armi attraverso canali legali, che poi fingono di averle smarrite, ma in realtà ciò che stanno facendo è venderli a gruppi di spacciatori di droga, criminali», ha detto Martinez ai suoi uomini non sapendo di essere registrato. Martinez s’è mostrato piuttosto irritato per la permeabilità delle mura dell’aula magna della scuola militare, più che per la credibilità di un’istituzione coinvolta anche in altri casi di truffe collegate ai fondi della legge per il rame (ley reservada de cobre che assegna ai militari il 10% dei proventi dallo sfruttamento minerario), il “Milicogate” (la cresta sui rimborsi di viaggio e il viatico), il caso del Fam (fondo per l’aiuto reciproco) per le quali ci sono state delle condanne e la destituzione di una ventina di generali, ma che riguarderebbe, secondo il loquace generale, anche altre istituzioni dello Stato.

Sono mesi terribili, in Cile, per la credibilità delle due “istituzioni di fiducia”, Forze Armate, appunto, e chiesa cattolica travolta dallo scandalo delle centinaia di abusi su minori coperti dalla gerarchia.

«Nella riunione tenutasi con il ministro della Difesa, mi è stato fatto notare che le mie parole sono state imprudenti, per cui me ne assumo tutta la responsabilità e porgo le mie scuse se alcune delle mie espressioni sono risultate di questo stampo», aveva detto Martinez, in una veloce dichiarazione ai giornalisti, senza rispondere alle domande.

I fatti: martedì 20 novembre, il generale ha convocato una riunione segreta della guarnigione della regione metropolitana di Santiago promettendo di parlare “senza eufemismi” di corruzione, divisioni interne e persino dei legami inediti di alcuni degli uomini sotto il suo comando con il crimine organizzato. La stranezza è che nessuno dei temi all’ordine del giorno fosse strettamente militare e giustificasse la riservatezza. Uno si riferiva alla collusione coi narcos, e l’altro era direttamente corporativo: la difesa “con le unghie e i denti”, «dientes y muelas», dei privilegi pensionistici degli alti papaveri con le stellette. Almeno 3956 alti ufficiali arrivano a percepire anche sette milioni di pesos al mese (più di 9.000 euro) in un Paese in cui lo stipendio medio è di 650 euro, ma la maggior parte degli stipendi si aggira sui 470 euro per 47 ore settimanali. E altre 327 divise in pensione percepiscono legalmente da due a quattro pensioni simultanee, cosa impossibile per qualsiasi altro lavoratore.

Il giorno dopo El Mercurio, quotidiano della destra conservatrice, ha pubblicato la notizia con una breve allusione al suo contenuto. Ma se tre giorni dopo, venerdì 23, il ministro della difesa Espina è venuto a conoscenza del conclave clandestino è stato grazie a un giornalista del settimanale satirico di sinistra The Clinic (in cui Left s’è imbattuto anche nell’inchiesta sui preti pedofili) che ha pubblicato la registrazione delle parole di Martínez complicando la vita al generale, al governo e alla destra.

Il Cile si conferma perciò un paese a democrazia apparente (anche ieri una manifestazione è stata repressa con violenza). «In primo luogo, il comandante in capo ha agito dietro al potere civile, al quale deve il rispetto e l’obbedienza più assoluti – ha scritto su El Clarin Haroldo Quinteros, scrittore e docente imprigionato da Pinochet – il generale non ha informato il governo delle collusioni tra esercito e narcos, ma lo ha raccontato alla guarnigione di Santiago. In secondo luogo, è molto probabile che a questo incontro segreto sia stato invitato a El Mercurio, il referente numero 1 della destra del paese, e non il ministro della Difesa, come dovrebbe essere. Ringraziamo dunque questo “insolente” settimanale per averci informato di questo scandalo».

La vicenda dell’omicidio di Catrillanca è costata finora il posto a Luis Mayol, avvocato e imprenditore di estrema destra, ricco governatore della regione di Araucania. Un gesto con cui il governo di Sebastian Pinera ha provato a disinnescare le critiche che segnalano come responsabili politici della vicenda anche il ministro degli Interni, il “pinochetista” Andrés Chadwick, dal quale dipendono i carabinieri cileni. Mayol, uomo d’affari ed ex ministro dell’Agricoltura del primo governo di Piñera (2010-2014), ha accusato il giovane mapuche Catrillanca di coinvolgimento nel furto di tre automobili a Ercilla, 670 chilometri a sud di Santiago. Tuttavia, con il passare delle ore, la versione della polizia è stata smentita, ma intanto era già stata diffusa dal ministro della Difesa anche se lo stesso giorno dell’omicidio la Commissione per i diritti umani ha avuto accesso alla dichiarazione di un adolescente detenuto che ha assistito al crimine. Il ragazzo è il testimone che fin dall’inizio ha contraddetto la versione dei Carabineros consentendo le prime indagini. I Carabineros, per bocca del loro direttore, il generale Hermes Soto, hanno sostenuto che la guardia incaricata di procedere alla registrazione, presumibilmente coinvolto nell’omicidio, ha rotto la registrazione dell’evento per salvare il suo onore personale, perché il nastro conteneva scene private di natura sessuale. «A questo punto, il ridicolo non può essere più grande», commenta ancora Quinteros.

Il presidente Piñera ha anche cercato di negare l’esistenza del “Comando Jungla”, il reparto protagonista dell’omicidio del giovane mapuche. Però di quel reparto, che si chiama così per via di un costosissimo corso antiguerriglia che viene effettuato in Colombia, esistono prove schiaccianti conosciute in Cile grazie a un altro sito indipendente, El Dynamo.

«Il “Comando jungla” si è addestrato lì, grazie ad un accordo tra il governo cileno e quello colombiano, simile a quello che ha permesso l’addestramento anche di truppe italiane nella selva colombiana. Un addestramento anti-guerriglia e anti-narcotrafficanti, che non ha nulla a che vedere con il rapporto necessario di dialogo con un movimento sociale di un popolo originario, come i mapuche, considerati come un vero e proprio “corpo estraneo”, alla stregua dei Palestinesi in Israele», spiegano a Left dal dipartimento Esteri di Rifondazione comunista.

Questo grave omicidio avvenuto nella zona dell’Araucania (Wallmapu) si aggiunge ad una escalation di violenza e di militarizzazione dell’azione repressive, sia da parte delle cosiddette “forze dell’ordine”, che di coloni civili, contro gli abitanti originari della zona, il popolo mapuche.

In realtà, Piñera, con le dimissioni di Mayol cerca di salvare il cosiddetto “Piano Araucana”, uno dei pilastri del governo per “pacificare” la regione. Secondo le più recenti stime i mapuche dovrebbero attestarsi sul milione e 700mila persone, di cui 1 milione e 500mila in Cile e 205mila nella Patogonia argentina. Essi rappresentano inoltre circa l’80% delle polazione originarie del Cile, il 9% della popolazione complessiva. «In continuità con i metodi della dittatura di Pinochet – dice ancora il dipartimento esteri Prc – il governo di destra di Sebastian Piñera reprime anche grazie ad una “Legge antiterrorista”, che criminalizza l’opposizione, dà ampia discrezionalità all’azione degli agenti e ne garantisce una sfacciata impunità. Prima contro l’invasione spagnola, poi contro lo Stato colonizzatore cileno, il popolo mapuche lotta da sempre per la difesa dei suoi diritti: in particolare si batte per il diritto alla terra, violato grazie ad una politica di “pacificazione” molto simile a quella applicate contro i cosiddetti “indiani d’America” nel “far west”, e i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti».

Le scuole cadono a pezzi ma c’è chi al governo confonde in malafede la sicurezza con un controllo militare degli studenti

La manifestazione degli studenti per chiedere più investimenti per l'istruzione, Napoli, 16 novembre 2018. ANSA/CESARE ABBATE

Novembre è stato il mese che ha visto l’approvazione (con i voti di Lega e 5 Stelle) di quel mix di repressione del dissenso e feroce accanimento verso migranti e “ultimi” in generale chiamato decreto Immigrazione e sicurezza. Ma è stato anche un periodo (idealmente prolungato fino ai primi di dicembre) di forti e partecipate mobilitazioni. Su tematiche diverse, unite però da un profondo dissenso verso le politiche del governo. I cortei di #Indivisibili e #Nonunadimeno a livello nazionale e le manifestazioni locali a Roma (Sei Uno di Noi) e Milano (Mai più Lager – No ai Cpr) sono lì a testimoniare quanto il fronte di chi non si riconosce nell’operato di Conte-Di Maio-Salvini sia in continuo movimento. Su questa linea si sono mossi anche gli studenti, con la manifestazione nazionale del 16 e 17 novembre e con la protesta che ha visto coinvolti alcuni dei maggiori licei romani. Un laboratorio interessante, quello della Capitale, che ha registrato sempre a novembre le occupazioni di istituti quali Mamiani, Virgilio, Socrate, Albertelli, Righi e Tasso. Con gli studenti capaci di fare rete e unirsi in un’unica piattaforma comune di protesta, come racconta a Left L. A., 17 anni, del Collettivo politico Tasso, l’ultimo dei licei in ordine di tempo a mobilitarsi. «Ci siamo visti nell’assemblea cittadina degli studenti romani e da lì è nata l’idea di portare avanti una forma di protesta unitaria su temi comuni». Temi che non si limitano ad una critica al sistema scolastico, ma riguardano il dissenso verso le politiche del governo, espresso in maniera approfondita e strutturata nel comunicato lanciato durante i giorni dell’occupazione dal Collettivo del Tasso e segnalato anche da Left. «Quel comunicato, così come la decisione di occupare – prosegue il giovane  – è frutto di un lungo processo politico iniziato a settembre che ha visto grande partecipazione e voglia di fare politica attiva. In questi mesi ci sono state approfondite discussioni all’interno del collettivo sui temi della protesta. Il comunicato è un po’ il sunto di tutto». Leggendolo si ha in effetti la sensazione di una presa di coscienza forte da parte degli studenti riguardo ai temi della loro mobilitazione, maturata nel tempo. Elementi che si ritrovano anche nelle rivendicazioni degli altri licei parte della piattaforma comune di protesta, all’interno della quale hanno un peso centrale le scelte del governo in materia di immigrazione, accoglienza e presunta sicurezza. Ovvero il decreto Salvini. «Abbiamo ribadito con forza – sottolinea A. – che non si può fare accoglienza gettando esseri umani in mezzo alla strada, come accaduto proprio a Roma al Baobab. Il governo dice che l’immigrazione crea degrado sociale, per noi invece è degradante gettare persone in strada. Ribadiamo con forza il dissenso verso un modello che non fa accoglienza, non crea una reale inclusione delle persone nel tessuto culturale e sociale del nostro Paese».
Non può mancare poi il tema della scuola, legato al decreto Scuole sicure, anch’esso a firma Salvini che, leggendo dal comunicato del Tasso «confonde in malafede la sicurezza nelle scuole con un controllo militare degli studenti». Non intervenendo su questioni di più immediata sicurezza come l’edilizia scolastica. «Molte scuole – ricorda A. – hanno strutture fatiscenti ed è lì che bisognerebbe investire risorse. Una scuola sicura non è quella piena di telecamere ma una dove non cade il cornicione (come in effetti accaduto quest’anno a Catanzaro, Palermo e Torino), dove d’inverno funziona il riscaldamento. Dove insomma è tutto a norma». Anche perché lo stato di degrado dell’edilizia scolastica continua a preoccupare, come rilevato a fine ottobre dal rapporto di Legambiente Ecosistema scuola 2018, dove si legge – tra le altre cose – che solo il 42,2% degli edifici scolastici ha il certificato di prevenzione incendi, il 60,4 % quello di agibilità, il 54,2 % scale di sicurezza, l’83,3 % impianti elettrici a norma (vedi Left del 26 ottobre 2018).
Dissenso accanto al quale, restando sul tema scuola, viene fuori in maniera chiara quale sia la strada da seguire per il cambiamento. Una strada antica, sempre poco battuta dagli ultimi governi, ancor meno da quello attuale: investire nella scuola pubblica. «Non ci scordiamo – sottolinea A. – le battaglie contro i tagli alla scuola pubblica e le conseguenze sull’edilizia scolastica e non solo. Mi viene in mente poi anche il contributo volontario dei genitori, fondamentale ora per alcune scuole. Una cosa che magari per le famiglie dei ragazzi del Tasso può essere facile ma non per tutti è così. Questo è uno dei tanti elementi che può creare disparità sociale, scuole di serie a e di serie b».
Le occupazioni al momento sono terminate. Senza aver avuto, se non in parte, il supporto degli insegnanti. Inizialmente c’era stato un invito degli studenti al corpo docente di aderire alla mobilitazione per darle maggior spessore. Come ricorda lo studente del Tasso però «molti docenti hanno appoggiato i motivi della protesta ma tutti hanno espresso contrarietà per la forma. Nessuno alla fine è stato con noi». Occupazioni terminate ma mobilitazioni che proseguono. Così come va avanti la rete dei licei romani. «Durante il periodo dell’occupazione – racconta A. – c’è stata un’assemblea di tutta la piattaforma e ora siamo al lavoro per capire come portare avanti la nostra protesta. La piattaforma si è creata e proseguirà». Una piattaforma che nel frattempo ha suscitato interesse anche fuori da Roma. «Siamo stati contattati da una serie di rappresentanti di varie scuole d’Italia – prosegue A. – che ci hanno chiesto come era nata la protesta, con che forme l’avevamo portata avanti e su quali contenuti. Questa occupazione non è stata né un punto di partenza né di arrivo ma solo una tappa del percorso». Percorso che potrebbe proseguire diventando sempre più ampio e allargando ancora la rete di protesta.

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Per approfondire il tema proposto in questo articolo vi proponiamo la storia di copertina di Left del 26 ottobre 2018 


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Il presepe ipocrita

Un momento dello sgombero del presidio umanitario di Baobab Experience a Roma, nei pressi della stazione Tiburtina. Secondo quanto si è appreso, all'interno della tendopoli stamattina c'erano circa 200 migranti. Sono in corso le identificazioni e i migranti sprovvisti di documenti verranno portati all'ufficio immigrazione per il fotosegnalamento. Al temine delle operazioni verranno rimosse le tende e l'area sarà bonificata. Già in passato la tendopoli alle spalle della stazione Tiburtina è stata più volte sgomberata, 13 novembre 2018. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Il “presepe” quest’anno si farà con i rimasugli degli uomini non certificati, gli scarti prodotti da un Decreto sicurezza che è sostanzialmente un enorme camion dell’immondizia: attraverserà il Paese, svuoterà i centri di accoglienza e lascerà uomini, donne e bambini come sacchi rotti agli angoli delle strade.

Il primo presepe vivente è stato allestito qualche giorno fa a Isola Capo Rizzuto, poco lontano da Crotone. È la versione in anteprima di quello che ci aspetta per questo prossimo Natale da festeggiare con la benevolenza di cartone che si tengono in tasca i benpensantiquelli che dosano la compassione in base alla provenienza, all’etnia, alla propria percezione dell’altro annullandolo e hanno convenuto che vada bene così.

Il presepe vivente dell’era Salvini non ha capanna, non ha bue e nemmeno asinello: sono i 24 migranti spalmati sul marciapiede in stazione, con i rivoli della città che gli scorrono sotto le giacche lise, accovacciati di fianco ai cestini dell’immondizia urbana, con i piedi neri e i talloni induriti mentre ci chiedono da cosa sono stati scacciati e dove dovrebbero andare. Da nessuna parte, devono andare. In nome della sicurezza devono sparire, ma non si sa come, rimarginarsi come se fossero un’infezione, smetterla di esserci.

Il presepe vivente di quest’anno non ha nessuna Maria: sono donne come Faith che con una bimba piccola e incinta ha dovuto cercare un tetto per la notte insieme al marito. Sono sopravvissuti all’inferno libico e per legge dello Stato ora qui devono trovare una grotta.

Il presepe vivente di quest’anno sono le persone marginalizzate per decreto che si trascineranno in cerca di un buco per non farsi congelare. Li vedremo in giro, cenciosi come li vuole la narrazione che gli hanno affibbiato e così potremo dire che sono davvero come ci dicono: sporchi, nullafacenti, talmente disperati da incutere disperazione a noi che invece vorremmo passare un bel Natale in famiglia e ce lo ritroviamo rovinato da questi.

E sarà perfetto per chi si propone come leader della disinfestazione: crea infezione e poi si propone come cura.

Buon lunedì. E buon Natale.

Prigionieri dell’Europa sull’isola di Lesbo

Ameen ha sedici anni e lo sguardo che si perde verso l’orizzonte. Il suo avambraccio sinistro è pieno di cicatrici, delle linee dritte una dietro l’altra. Gli chiedo: «Cosa ti è successo?». Lui si imbarazza, si carezza il braccio come per nasconderlo. Fa un mezzo sorriso che stringe i suoi occhi già affilati, poi risponde con semplicità: «Mi sono tagliato. Il dolore era così forte, la stanchezza era così forte, la sola cosa che volevo era trovare il modo di smettere di stare così male. Qui tutti fanno questo, tentano di farla finita».

È una risposta che ho sentito altre volte nelle carceri sovraffollate dove la vita si consuma chiusi per 22 ore al giorno in una cella e il tempo non finisce mai. Ma Ameen lo incontro in un contesto molto diverso: l’isola di Lesbo è una delle più belle del mondo, un paradiso che gli accordi tra Europa e Turchia del 2016 per fermare i flussi migratori, hanno trasformato in prigione.

Ameen ha solo sedici anni, e viene dalla Siria come buona parte delle circa novemila persone intrappolate nella prigione di Lesbo. Ameen è qui da un anno e ancora non ha avuto la prima intervista per la sua richiesta d’asilo.

Nel 2015 il braccio di mare tra la Turchia e le isole greche è stato attraversato oltre un milione di profughi in cerca di asilo in Europa. Poi nel marzo 2016, l’Europa ha voluto chiudere quel passaggio, ha sottoscritto un accordo con la Turchia costato tre miliardi di euro diventati velocemente sei miliardi, per «contenere i flussi migratori».

Ma i flussi, in realtà, non si sono mai fermati del tutto. Ancora oggi circa duecento persone al giorno continuano ad approdare sulle isole come Lesbo o Chios. Ma non ne parla nessuno, solo ogni tanto quando…

Guarda il video di presentazione del reportage

Il reportage di Valerio Cataldi prosegue su Left in edicola dal 30 novembre 2018


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