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Il giornalismo delle virgolette

epa07181831 German Chancellor Angela Merkel speaks during a symposium on 'Parliamentarism between Globalization and National Sovereignty' at the Academy of the Konrad Adenauer Foundation in Berlin, Germany, 21 November 2018. Merkel and former President of the German Bundestag Norbert Lammert (not pictured) attend to discuss on the international tension of globalization, extremism and populism among others. EPA/HAYOUNG JEON

Nell’ingessato dibattito della perdita di credibilità della stampa (perché appare evidente che l’autorevolezza della stampa sia pressoché ai minimi storici, difenderne la libertà non significa attribuirle per forza una qualità generalizzata) sembra interessare a pochi lo sconsiderato uso delle virgolette che dovrebbero certificare una dichiarazione testuale e invece sono diventate cartellonista pubblicitaria per trasformare i titoli in strilli. Sia chiaro: da queste parti si difende il sacrosanto diritto di osare il giornalismo per scrivere fatti opinioni al contrario di una certa vulgata che vorrebbe gli organi d’informazione come meri bollettini cronachisti (del resto questo stesso buongiorno è spesso un’opinione) ma la differenza tra una frase riportata (e quindi così effettivamente pronunciata e quindi un fatto) e una frase attribuita è sostanziale. C’è di mezzo la credibilità, appunto.

Così fa specie che la Germania debba ufficialmente intervenire per smentire la frase riportata nell’editoriale di Federico Rampini per Repubblica in cui scrive che la Merkel avrebbe detto (attenzione: messo tra virgolette): “Non possiamo accettare che l’Italia calpesti le regole comuni, dovremo trattarla come abbiamo fatto con la Polonia sullo stato di diritto”. Una frase che, se ci pensate, avrebbe dovuto essere in apertura di tutti i telegiornali per brutalità dei modi e gravità dei contenuti. E invece niente. Perché, semplicemente, era falsa, come ha specificato il portavoce della Merkel. Però se ci pensate è una frase perfetta per alimentare l’immagine della Germania che calpesta gli stati membri della Ue e per concimare l’aria generale.

Nel giornalismo fatto per bene è il giornalista a chiedere all’intervistato il permesso di virgolettare una frase, ripetendola letteralmente. Come scrive Matteo Bordone (che invece sulle virgolette da tempo conduce una battaglia per l’ecologia giornalistica): “Le dichiarazioni, siano essere raccolte a caldo dopo l’esplosione di una palazzina per una fuga di gas, o pronunciate sul divano da uno scrittore intervistato a casa propria con un gatto in braccio, devono essere riportate fedelmente. È una tutela per tutti: giornalista, intervistato e lettore. […] L’assenza dell’obbligo di rispettare le virgolette ha un effetto – o viceversa: uovo e gallina – sul sistema della stampa e della politica nel nostro Paese. Sui nostri quotidiani pullulano le voci, gli avrebbe detto, i “riferiscono da ambienti vicini al segretario”. Tutte queste cosiddette indiscrezioni costituiscono una porzione importante di quella decina di pagine di politica interna contenuta nei nostri quotidiani ogni giorno. Potrebbero esistere senza i virgolettati, ma ne sono piene”.

Perché se pretendiamo serietà dovremmo sentire l’obbligo di essere tutti un po’ più seri, finendola con la spocchia di sentirci corpi estranei di un mondo che descriviamo in continuo declino. Dovremmo cominciare a pesare i pensieri, le parole, le azioni, le nostre relazioni, chiedere scusa, ammettere gli errori, fare la nostra parte, responsabilizzarci nei minimi gesti, cominciando dai dettagli che abbiamo sempre considerato innocui, anche le virgolette.

Come diceva Jean Josipovici: «Se si vuole che un’unione resista, bisogna  averne cura giorno dopo giorno».

Buon mercoledì.

Chi sono davvero i “gilet gialli” che protestano in Francia

Demonstrators block the entrance to the motorway in Bayonne, southwestern France, Saturday, Nov.17, 2018. French interior ministry officials say that one protester has been killed and and more than 40 injured as demonstrators block roads around France to protest gas price increases. (ANSA/AP Photo/Bob Edme) [CopyrightNotice: Copyright 2018 The Associated Press. All rights reserved.]

Mentre la polizia francese sta cercando di capire se a svaligiare Dior per mezzo milione di gioielli agli Champs-Elysees, sabato scorso, siano stati i manifestanti o dei ladri infiltrati, il ministro francese dell’Ambiente, Francois de Rugy, ha incontrato alcuni degli otto “messaggeri” dei gilet gialli su richiesta, pare, dello stesso Macron. Ma erano stati proprio gli otto “messaggeri” del movimento (Eric Drouet, Maxime Nicolle, Mathieu Blavier, Jason Herbert, Thomas Miralles, Marine Charrette-Labadie, Julien Terrier, Priscilla Ludosky), dopo una consultazione su Facebook, a richiedere un incontro in «tempi ragionevoli» all’Eliseo e al primo ministro Edouard Philippe, annunciando l’intenzione di proseguire con i blocchi stradali «fino al raggiungimento di una soluzione concreta». I gilet gialli reclamano un ritocco al ribasso delle tasse e la costituzione di «un’assemblea di cittadini» per dibattere dei temi relativi alla transizione ecologica.

Il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire – riporta Bloomberg – ha detto che le vendite dei maggiori rivenditori hanno subito un calo del 35% nei giorni in cui i gilet gialli hanno bloccato le strade e i magazzini. Macron, di suo, prova ad metterci una pezza in nome di «un’ecologia popolare, una grande concertazione sulla transizione ecologica e sociale con la missione di costruire un nuovo modello economico, sociale e territoriale di cui abbiamo bisogno». Ed ha fissato «tre mesi per costruire soluzioni accettabili e accessibili a tutti». Macron ha poi accennato ai francesi – molti dei quali si riconoscono nel movimento dei gilet gialli, che l’Eliseo non ha mai citato con questo nome – che sono andati ad abitare nelle periferie e che vanno al lavoro in auto: «Li abbiamo condotti, meccanicamente e collettivamente, nella situazione in cui si trovano oggi. Tutti abbiamo la nostra parte di responsabilità. Ma la mia responsabilità è semplice: garantire l’accesso ad un’energia che sia sufficientemente poco costosa e pulita».

In realtà, l’inquilino dell’Eliseo ha soprattutto un gran bisogno di soldi, 500 milioni, per colmare il buco lasciato dall’abolizione della patrimoniale, la Isf, tassa sulle grandi ricchezze e la collera di queste settimane «è quella di persone che abitano in campagna o in montagna e che non possono fare a meno che utilizzare la macchina per le cose necessarie per vivere – spiega a Left, Laure Dresler, artigiana e insegnante di italiano a Rennes – l’aumento del carburante è un vero problema per loro anche perché spesso la gente che vive in campagna è più modesta di chi vive in città. Spesso è stata proprio espulsa dalla città per via dei meccanismi della speculazione. Poi con l’aumento del carburante, aumenta anche il riscaldamento a petrolio (aumento di 0,50 cent al litro, ndr). Il pretesto ufficiale è l’ecologia però tutti sanno che, con la soppressione dell’Isf, ci vuole denaro». Con gli attacchi al sistema ferroviario (Sncf), il governo conta di tagliare ancora oltre 11mila chilometri di linee ferroviarie e il trasporto ferroviario è stato largamente sacrificato a vantaggio di quello stradale. Parallelamente, la compagnia petrolifera Total è esentata da qualsiasi contributo fiscale e ha mano libera per proseguire con le esplorazioni per estrazioni.

Per settimane, governo e media hanno cercato di gettare discredito bollando i gilet gialli come movimento della “Francia della periferia”, dei “territori dimenticati”, considerandolo una sorta di jacquerie fatta di persone ignoranti, inconsapevoli dei mutamenti climatici. Ma tutti i giorni 17 milioni di francesi fanno i pendolari fuori dal loro comune di residenza, i due terzi dei lavoratori attivi; l’80% utilizza l’auto privata. Il problema della tassa supplementare, in un contesto in cui il livello ufficiale dell’inflazione è valso da pretesto per non aumentare i salari, riguarda quindi una larga maggioranza di salariati.

Per giustificare la sua tassa carburante, il governo ha evocato la necessità di combattere il surriscaldamento climatico e al contempo le emissioni di gas a effetto serra e di polveri sottili. Il portavoce del governo, Benjamin Grivaux, ha pensato di ottenere l’appoggio della sinistra ecologista denunciando «chi si fuma una sigaretta e chi usa il diesel». Ma ha mancato l’obiettivo.

«Perché le persone hanno questo sentimento di ingiustizia dovuta alle politiche fiscali di Macron? Perché ha aiutato prima di tutto i ricchi, non ha ancora fatto nulla per migliorare la tassazione delle grandi imprese che non pagano imposte da nessuna parte, e allo stesso tempo colpisce le persone normali», dice perfino il vicepresidente della Commissione Ue, l’olandese Frans Timmermans del Partij van de Arbeid, “socialdemocratico”, annunciando la sua candidatura alla presidenza della Commissione Ue come candidato unico del Pse che prova a scaricare l’Eliseo promettendo addirittura «di cominciare a tassare le grandi imprese, che in alcuni casi hanno più potere degli Stati membri. All’inizio Macron era progressista, ma ora la politica che sta portando avanti non credo che lo sia», ha aggiunto il politico olandese, avvertendo che in vista delle prossime elezioni europee «bisogna essere chiari: in Francia ci sarà da scegliere fra degli europeisti progressisti e degli europeisti non progressisti, cioè fra noi e Macron».

La fiducia dei consumatori francesi – come quella riposta dagli elettori in Macron (tutti i sondaggi lo danno a un livello di popolarità inferiore a quello di Hollande dopo un periodo di mandato pari al suo) – cala ai minimi da oltre tre anni e mezzo (dal febbraio 2015): a novembre l’indice Insee mensile è sceso a 92 punti da 95 del mese precedente, oltre le previsioni degli analisti che si attendevano un calo di un solo punto. I consumi francesi sono da giorni sotto pressione proprio per la protesta dei “gilet gialli”.

Intanto, nel quadro della legge di bilancio 2019, la maggioranza di destra del Senato ha approvato lo stop agli aumenti sul carburante, anche se questa non corrisponde a quella dall’Assemblea nazionale controllata dal partito presidenziale En Marche. Dopo gli scontri di sabato sugli Champs-Elysées, 47 dei 103 individui fermati sono processati per direttissima mentre 28 si sono visti prolungare il fermo. In consiglio dei ministri, Macron ha paragonato gli scontri perpetrati dai casseurs a «scene di guerra» ed ha insistito sulla necessità di una risposta «globale» al malessere manifestato da chi è sceso in strada pacificamente. Da parte sua, la leader del Rn, Marine Le Pen, ha chiesto ai gilet gialli di «non prendersela con i giornalisti» vittime, in questi ultimi giorni, di minacce e tentati attacchi, soprattutto a Tolosa. Ieri, il Syndicat national des journalistes (Snj) aveva già condannato il moltiplicarsi delle violenze contro i reporter «Attaccare i giornalisti significa voltare le spalle alla democrazia», ha avvertito l’organismo, chiedendo un incontro urgente con il ministro dell’Interno, Christophe Castaner.

Ma chi sono questi gilet gialli? Somigliano più ai francesi che hanno duramente contestato la loi travail e gli attacchi ai diritti dei ferrovieri, degli universitari e dei funzionari pubblici da parte di Macron, oppure sono emuli dei Forconi italiani, l’inquietante accozzaglia che fu una meteora politica a cavallo tra 2011 e 2012 e che ora prova a rialzare in Italia la testa copiando i gilet ai francesi?

Il 17 novembre, in tutte le regioni francesi, si sono avuti perlomeno 2.500 blocchi agli incroci stradali, ai caselli, con la partecipazione – stando alla polizia – di almeno 30mila manifestanti, riconoscibili dal colore dei giubbetti che indossano, quelli di sicurezza obbligatori nei veicoli. Per l’intera settimana successiva, numerosi blocchi si sono mantenuti intorno a città secondarie e in zona rurale. Lo scorso sabato 24 novembre sono riprese nuove iniziative: oltre centomila partecipanti, di cui 8mila almeno a Parigi lungo il viale degli Champs Elysées, con 1.600 blocchi registrati in varie regioni.

«Il movimento non è stato avviato da alcun partito o sindacato – spiega Léon Cremieux, sindacalista e militante Npa, Noveau parti anticapitaliste – si è esclusivamente costruito a partire da reti sociali, intorno al rifiuto di un nuovo aumento (Tassa sul carbone) dei carburanti, tramite la Ticpe (Tassa interna di consumo sui prodotti energetici), programmata a partire dal primo gennaio 2019». È un aumento di 6,5 centesimi per un litro di gasolio e 2,9 per un litro di benzina Sp 95% (senza piombo, a 95 ottani, ndr). Nel 2018 la tassa sul gasolio era già aumentata di 7,6 centesimi: su un litro di gasolio al prezzo di 1,45 euro lo Stato percepisce attualmente circa il 60% di tasse, vale a dire 85,4 centesimi. Il governo prevede per il 2019 e 2020 di aumentarlo di altri 6,5 centesimi ogni anno. È la percentuale di tassa sul gasolio più elevata in Europa, dopo l’Inghilterra e l’Italia. Ma, a differenza della maggior parte dei paesi d’Europa, in Francia l’impiego del gasolio è largamente maggioritario e costituisce l’80% del consumo di carburante. Il prezzo del gasolio è aumentato da un anno del 23%.

Una petizione on line contro questi aumenti ha raccolto in qualche giorno migliaia di firme a metà ottobre, poi più di 1 milione agli inizi di novembre. Da qui, centinaia di gruppi e video in rete contro la tassa sono stati visionati milioni di volte su Internet, uno di questi prodotto da un esponente locale del gruppo di estrema destra Debout la France (Francia in piedi, ndr). Un trasportatore ha lanciato un appello per il blocco del viale periferico di Parigi il 17 novembre e, da allora, la data del 17 è diventata quella scelta da tutti i gruppi per migliaia di iniziative locali di blocchi stradali, di spartitraffico, segnalati in un sito creato per l’occasione da due internauti “gilet gialli”.

«Questo movimento si è scontrato direttamente con il governo, ma anche con i responsabili sindacali e politici! – scrive Cremieux, in un intervento tradotto nello Stato spagnolo dalla rivista Viento Sur – Sorprendente il contrasto tra il suo estendersi fra gli strati popolari, l’ampia simpatia ottenuta soprattutto nelle fabbriche, l’appoggio massiccio della popolazione (il 70% del sostegno il giorno prima del 14 novembre) e la caricatura che se ne è fatta in tante cerchie di sinistra, denigrando l’intervento del sindacato degli autotrasporti e quello dell’estrema destra, nonostante l’insieme dei sindacati padronali degli autotrasportatori abbia condannato i blocchi e chiesto al governo di sgomberare gli sbarramenti; quanto all’estrema destra, è vero che Nicolas Dupont Aignan, dirigente del movimento Debout la France, si è spolmonato dalla metà d’ottobre pur di esibirsi nei media con il suo gilet giallo. Analogamente, Il rassemblement di Marine Le Pen ha espresso il suo appoggio, pur sconfessando i blocchi stradali. La maggior parte degli organizzatori dei gilet gialli ci hanno tenuto esplicitamente a segnalare la loro distanza da quell’ingombrante sostegno».

Anche repubblicani e socialisti hanno espresso la loro cauta simpatia. Se, invece, alcuni responsabili di France insoumise come J.L. Mélenchon o François Ruffin, ed anche Olivier Besancenot (Nuovo partito anticapitalista) in vari interventi televisivi hanno tenuto a segnalare il loro sostegno al movimento, tutti i vertici delle principali organizzazioni sindacali (al contrario di molti militanti e strutture di base), non solo la Cfdt e Fo ma anche la Cgt e Solidaires, si sono rifiutati di appoggiare le manifestazioni, insistendo sulle manipolazioni dell’estrema destra e del padronato dei trasporti.

«I gilet gialli polarizzano un’esasperazione popolare dall’evidente carattere di classe, per quanto riguarda il potere d’acquisto, i salari e le pensioni – prosegue il sindacalista – mentre si fanno regali ai ricchi, ai capitalisti. Anche gli screditati partiti politici che hanno di volta in volta gestito il Paese sono responsabili della presente situazione sociale. Macron ne aveva approfittato per farsi eleggere ed oggi ne subisce l’effetto boomerang».

Grazie alle riforme fiscali del governo (soppressione dell’Isf [Imposta di solidarietà sul patrimonio], Flat tax sui redditi da capitale) l’1% dei più ricchi vedrà balzare in alto il proprio reddito del 6% nel 2019, lo 0,4% dei più ricchi si vedrà aumentare il potere d’acquisto di 28.300 euro, lo 0,1% di 86.290 euro. Nel frattempo, il 20% dei meno ricchi vedrà diminuire il proprio reddito, oltre alla mancanza di prestazioni sociali, la riforma dell’assegnazione di alloggi, il calo delle pensioni, mentre aumentano i prezzi.

Per ora il movimento operaio organizzato, dunque, è tagliato fuori e, come sostengono alcuni responsabili di Attac e di Copernic in una tribune di Le Monde, è il risultato dei fallimenti cumulativi dei movimenti sociali di questi ultimi anni. La volontà di fare blocchi, di azioni dirette, deriva anche dal rifiuto delle forme tradizionali, ma si colloca sulla linea di prolungamento degli interventi di blocco fatti negli ultimi anni dai settori sociali combattivi. «Non si vincerà questa diffidenza né la strumentalizzazione dell’estrema destra, né il rischio di antifiscalismo, praticando la politica della “sedia vuota” o colpevolizzando i manifestanti. Si tratta, viceversa, di darsi gli strumenti per pesare al suo interno e di vincere la battaglia culturale e politica dall’interno del movimento stesso contro l’estrema destra e le forze padronali che vogliono assoggettarlo».

Dalle strutture periferiche dei sindacati sono partiti diversi appelli unitari che hanno avanzato una piattaforma rivendicativa per aumenti salariali, contro la fiscalità indiretta che colpisce la classi popolari e per la tassazione progressiva dei redditi. Nelle reti militanti tutti i resoconti confermano la realtà popolare di questo movimento e la buona accoglienza e soprattutto l’accordo con rivendicazioni miranti alla reintroduzione dell’Isf e alla cessazione dei regali fiscali ai più ricchi.

Forte con i deboli. La guerra di Salvini contro poveri e migranti

ROME, ITALY - SEPTEMBER 07: Migrants evacuated by the police leave the building,on September 7, 2018 in Rome, Italy. Police evacuate the privately-owned building in Via Raffaele Costi, in the Tor Cervara district of Rome. It has been illegally occupied by 250 people mainly from Africa and some from Romania. The occupied building is the first to be evacuated in Rome after the Minister of the Interior, Matteo Salvini, sent a circular to the prefects asking for a census of all the illegal occupants of the buildings and ordering the subsequent eviction. (Photo by Simona Granati - Corbis/Corbis via Getty Images,)

Vicenza: taglio dei posti letto in un centro di accoglienza, i migranti salgono sui tetti per protesta. Centri di accoglienza in cui gli operatori sono (in tutta Italia) già in agitazione. Non solo per i tagli che si preparano ma in quanto, nel silenzio agostano, una circolare ministeriale ha fatto divenire effettiva la loro trasformazione in pubblici ufficiali, ovvero in coloro che dovranno comunicare agli ospiti i dinieghi per asilo e altre forme di protezione e accompagnarli all’uscita dal sistema di accoglienza. Lodi, il Comune decide che per i bambini non comunitari che vogliono usufruire di mensa e scuolabus (ancora contro i bambini) occorrono tre certificati da parte delle autorità del Paese di origine in cui si attesti che non hanno beni di proprietà. Per gli italiani è sufficiente l’Isee, col risultato che su 259 bambini stranieri in 255 debbono pagare perché le ambasciate non hanno prodotto documentazione. Si è attivato un circuito di solidarietà nazionale per aiutarli, ma per il resto nulla. Roma: quattro attivisti sono stati tratti in arresto perché tentavano di impedire lo sfratto di una anziana signora. Processo per direttissima dopo un immotivato fermo in questura. Pisa, il sindaco propone che per aver accesso alle graduatorie per l’emergenza abitativa diventi necessario aver vissuto ininterrottamente per almeno cinque anni nella città. Allora un pisano che se ne è andato per lavoro, per ironia della sorte, a Livorno, per qualche mese, perde il diritto? Quelli citati, sono solo alcuni esempi di come, prima ancora che le ottanta pagine del decreto Salvini su immigrazione e sicurezza entrino in vigore – mentre scriviamo il testo è sotto esame del presidente della Repubblica -, sembra quasi che Comuni, questure e prefetture agiscano come se l’imprimatur della paura impresso con queste misure fosse già legge dello Stato. Forse perché il Consiglio dei ministri lo ha votato all’unanimità (se ne ricordi chi vede nel M5s un argine), o perché il clima permette di intervenire sfruttando già le disposizioni messe in atto dai precedenti governi. Il testo verrà ancora modificato, contiene numerosi elementi che contrastano non solo il dettato costituzionale ma numerosi trattati a cui l’Italia è vincolata che, se applicati, aprirebbero le porte ad ulteriori procedure di infrazione da parte della Corte europea per i diritti umani da cui già siamo considerati in difetto. Sarà difficile che passi l’idea di poter revocare la cittadinanza ad un cittadino straniero se “indagato” o se condannato in primo grado e sarà complicato togliere in maniera indiscriminata ogni forma di tutela, compresa la protezione umanitaria, in assenza di una legge organica sull’asilo. Salvini qualche rospo dovrà mandarlo giù ma la natura organica del testo uscirà inalterata e probabilmente diventerà a breve legge. Già nel titolo, la proposta è platealmente disonesta per numerose ragioni. Si propone di affrontare una inesistente e “urgente” (anche sull’utilizzo esasperato dei decreti legge per ragioni di necessità e urgenza ci sarebbe da ragionare a lungo) serie di emergenze. Quella dell’“utilizzo troppo facile della protezione internazionale”? Sono i numeri a dire che si tratta di una cifra limitata di persone la cui unica reale responsabilità è legata al fatto che non esistono canali di ingresso regolari in Europa per potervi accedere senza la trafila della richiesta di asilo. Quella dell’immigrazione? In calo in tutta Europa e che, utilizzando gli stessi dati del ministero, non sembra costituire alcun allarme sociale rilevante. E leggendo la prima parte il comune cittadino, ormai ottenebrato dalla logica della caccia all’immigrato come soluzione dei propri problemi di assenza di prospettive, potrebbe reagire positivamente pensando che finalmente ha a che fare con un governo che difende i suoi interessi. Ora al di là del fatto che le tematiche inerenti l’immigrazione vengono affrontate, in base al testo, con strumenti repressivi e proibizionisti vecchi, inefficaci e che in venti anni si sono rivelati fallimentari quanto costosi e utili ad ingrassare alcune lobby dell’accoglienza e della detenzione (dai rimpatri spesso ineseguibili ai Cpr, ex Cie in cui restare per 180 giorni, alla distruzione dei pochi progetti che hanno prodotto risultati positivi come gli Sprar in funzione della realizzazione di mega centri in cui rinchiudere anche chi è in attesa della risposta alla domanda di asilo), bisognerebbe leggere per intero il testo per capire cosa vorrebbe veramente cambiare in ciò che resta dello Stato di diritto. Contiene norme che infatti si adattano a poter reprimere qualsiasi forma di conflitto sociale. C’è emergenza abitativa? Condanna fino a quattro anni per chi occupa uno stabile (varrà anche per CasaPound?) e velocizzazione degli sgomberi. Ci sono forme di marginalità crescenti dovute all’impoverimento? Pistole taser (elettriche) anche alle polizie municipali, Daspo estendibili a una quantità infinita di comportamenti illeciti, condanne anche a chi attua un blocco stradale per protesta, a chi rifiuta uno status quo fondato sull’oppressione. E le misure di contrasto alla criminalità organizzata? Da una parte si rende semplice l’acquisto e la vendita di armi da fuoco (per legittima difesa) dall’altra si permette ai Comuni di mettere all’asta anche i beni sequestrati alle mafie, così potranno riprenderseli a costi stracciati e ricostruire le proprie reti criminali. Le mafie ringraziano ossequiose. Il contrasto al terrorismo? Al di là del ritardo ma introdurre maggiori controlli per chi acquista o noleggia tir o furgoni, soprattutto se straniero, e contemporaneamente favorire il mercato interno delle armi cosa significa? Non potremo circolare con un furgone carico di kalashnikov e li potremmo portare, da buoni terroristi, solo su un’utilitaria? Si supera il grottesco insomma. Alla base di questo decreto c’è un costrutto ideologico che a sinistra bisogna capire e fermare. Quello per cui, in una guerra non fra poveri ma contro i poveri, allo Stato tutto sarà permesso. Non saranno unicamente i migranti ad esserne vittime, saremo noi tutti che magari, in nome della flat tax che garantirà più profitto ai ricchi, ci vedremo tagliare quel poco che resta di welfare e non potremo neanche alzare la testa in assenza di una opposizione parlamentare degna di questo nome. Opposizione? Ci sia permesso di ricordare che il sindaco Pd di Bergamo, già candidato sconfitto alla presidenza della regione Lombardia ha scritto una accorata lettera al ministro dell’Interno. Cosa chiede? La possibilità di estendere i Daspo urbani (veri e propri atti di ostracismo 2.0) verso chiunque turbi il pubblico decoro nella città. Se questa resta l’opposizione vincerà sempre l’originale.

L’articolo di Stefano Galieni è stato pubblicato su Left del 5 ottobre 2018


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Il Forum per il diritto alla salute: basta incentivi all’assistenza privata, difendiamo il Sistema sanitario nazionale

Una corsia dell'Ospedale Molinette, Torino, 23 novembre 2018.ANìì ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Il Sistema sanitario nazionale non deve essere abbandonato. È necessario nella legge di bilancio abolire le agevolazioni fiscali per la spesa privata sostitutiva dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e destinare le risorse al Ssn. Questo il tema del convegno organizzato dal Forum per il diritto alla salute e Campagna Dico 32 in programma il 28 novembre presso la Camera dei Deputati, a cui parteciperanno forze politiche, sindacali, esperti, rappresentanti istituzionali. Pubblichiamo un articolo a più firme che fa il punto sulla situazione.

Attualmente, le prestazioni sanitarie che si possono acquistare privatamente sono di due tipi: quelle previste nei Livelli essenziali di assistenza garantite dal Servizio sanitario nazionale con o senza ticket quelle non previste nei Livelli essenziali di assistenza che il Servizio sanitario nazionale non è tenuto a garantire. Prestazioni che possiamo distinguere in sostitutive perché acquisite in forma privata invece che ottenute dal pubblico, per libera scelta o per costrizione derivante dall’impossibilità del servizio sanitario pubblico a fornirle nei tempi clinicamente o socialmente necessari all’utente, anche a causa della sottrazione di risorse degli ultimi anni e integrative perché acquisite necessariamente in forma privata non essendo previste nei Lea, quindi non dovute e non fornite dal servizio sanitario pubblico.
Le facilitazioni fiscali per le spese sanitarie private, sia dirette che intermediate, contribuiscono a mettere in discussione i fondamenti del Ssn e a negare il diritto alla salute come diritto di cittadinanza e a rendere più difficile l’accesso alla tutela della salute alla grande maggioranza dei cittadini.
Queste agevolazioni hanno un impatto negativo sulle entrate dello Stato e quindi anche sulla consistenza del Fondo Sanitario Nazionale, costituendo un risparmio e un beneficio solo per chi ne usufruisce e un onere a carico di tutti i contribuenti, in particolare coloro che ne sono esclusi.
Inoltre, incentivano la sanità privata, indebolendo la solidarietà del sistema basato sulla fiscalità generale progressiva, aumentando le disuguaglianze sociali, escludendo milioni di cittadini a basso reddito, che non possono dotarsi di assicurazioni o fondi sanitari e introducono e favoriscono lo sviluppo di un doppio binario nell’accesso ai servizi, privilegiando chi ha un’assistenza integrativa, creando un’ulteriore discriminazione non solo in base al reddito, ma anche alla posizione lavorativa, a favore dei lavoratori dipendenti tutelati da contratti collettivi, rispetto ai giovani, ai precari, agli anziani, a chi non ha un lavoro stabile e ad ampi settori del lavoro autonomo.
Le assicurazioni e i fondi integrativi non coprono i bisogni assistenziali più rilevanti, soprattutto quelli che si manifestano nell’età avanzata, promettono una medicina predittiva inefficace spacciata per prevenzione, favoriscono il consumismo sanitario moltiplicando prestazioni inutili o inappropriate, con incremento dei costi sia per gli assicurati che per il servizio pubblico, cui gli stessi si rivolgeranno per la frequente necessità di approfondimenti successivi.
Sia la spesa sanitaria privata diretta che quella intermediata sono oggetto in varia misura e con diverse modalità di agevolazioni fiscali, con conseguenti detrazioni di imposte, che negli ultimi anni hanno conosciuto una progressiva espansione, sostenuta anche dall’introduzione di piani sanitari integrativi nei contratti collettivi di lavoro. Queste agevolazioni non distinguono tra prestazioni sostitutive e integrative.

Certamente, non tutte le prestazioni e le forniture che il Ssn non è tenuto a garantire vanno considerate non essenziali per la prevenzione, cura e riabilitazione di condizioni patologiche e dovrebbero essere accessibili: valgano per tutte le cure odontoiatriche, la fisioterapia e le psicoterapie.
Alla luce di queste considerazioni, riteniamo urgente e necessario rivedere la normativa fiscale relativa alle varie tipologie di spesa sanitaria privata e proponiamo di introdurre e utilizzare subito nel 2019 la distinzione tra prestazioni integrative e sostitutive come criterio di definizione delle agevolazioni fiscali, confermando per il momento le agevolazioni esclusivamente per le prestazioni integrative e abolendole per quelle sostitutive, per qualsiasi modalità di acquisizione privata, sia in forma diretta a carico dei cittadini, sia intermediata da fondi, mutue o assicurazioni.
Il Servizio sanitario nazionale deve essere messo nelle condizioni di poter assicurare anche le prestazioni e le forniture necessarie non comprese negli attuali Livelli essenziali di assistenza, di cui si è accennato quali le prestazioni odontoiatriche, riabilitative e le psicoterapie, in modo da rendere inutili le agevolazioni fiscali anche in questi casi.
Da troppi anni gli ultimi governi hanno preferito affamare la sanità pubblica e agevolare la sanità privata, senza riguardo agli effetti delle disuguaglianze di accesso a carico delle persone dotate di meno risorse e all’efficacia degli interventi.
Si tratta ora di spostare il sistema degli incentivi in modo che la sanità pubblica sia spronata a fare fino in fondo la propria parte, garantendo l’assistenza in ogni territorio del nostro Paese, in modo che il ricorso a prestazioni a pagamento non sia favorito o condizionato dalle carenze qualitative e quantitative del servizio.
Si tratta di cambiare prospettiva: sostenere il pubblico affinché svolga al meglio il proprio ruolo anziché agevolare fiscalmente soluzioni alternative. Non per astratte ragioni ideologiche ma perché la sanità pubblica garantisce efficacia e appropriatezza a costi minori, è più equa, promuove la solidarietà e l’uguaglianza tra i cittadini e favorisce la coesione sociale.

Angelo Barbato, Nerina Dirindin, Marzia Frateschi, Antonio Muscolino, Gianpiero Riboni, Gianluigi Trianni, Mauro Valiani, Danielle Vangieri

Il convegno inizia alle ore 10. Coordina: Danielle Vangeri. Relazioni di Gianluigi Trianni, Aldo Piperno Nik Sandro Miranda, Elena Granaglia. Interventi di Rosy Bindy, Ivan Cavicchi, Marco Geddes, Aldo Gazzetti, Stefano Cecconi, Gavino Maciocco. Nel pomeriggio interventi di Stefano Fassina, Leu, Lisa Canitano, PaP, Serena Sorrentino , Cgil, Guido Lutrario , Usb e Carlo Palermo, Anaao-Assomed. Conclusioni di Mauro Valiani

Why Brazil is in Bolsonaro’s hands

epa07124955 Supporters of the Brazilian progressive presidential candidate Fernando Haddad take part during his last campaign act before tomorrow's second round of the presidential election, in Sao Paulo, Brazil, 27 October 2018. Fernando Haddad of the Workers Party will face Jair Bolsonaro, presidential candidate of the Social Liberal Party (PSL) in the second round of voting in the Brazilian general elections, scheduled to take place on 28 October 2018. EPA/Fernando Bizerra Jr.

Bolsonaro’s victory is the arriving point of a long process that developed in three moments: first an institutional coup, second a judicial coup, third the elections which gave the first two moments the appearance of democratic legitimacy, thus using every means necessary to achieve this purpose. First step was Dilma Rousseff’s removal from the presidency of the Republic by Parliament through an impeachment proceeding that lacked any legal and constitutional basis; second step was the Supreme Federal Court ruling in favor of Lula’s arrest in order to prevent his running with the Pt party for the presidential vote. All the polls gave Lula as winner. Lula’s arrest, as in Dilma’s case, took place in total absence of evidence, after a trial based solely on clues and after a media campaign systematically implemented for a specific purpose: to generate general disapproval and prepare public opinion for a profound political change.
The election was preceded by a relentless mass media campaign that, year after year, has widely spread “antipetist” hate, manipulating and poisoning public opinion by offering only one narrative. In a context marked by a deep crisis of traditional ruling political forces, Bolsonaro, in his climb, could count on the complicity and direct support of the national ruling classes, on the capillary mobilization of the powerful evangelical networks and also, on the direct support of many “entrepreneurs”, interested in exploiting the advantages of an economic market policy in favor of wild privatization and elitists laws.

Liberal crisis and modern Caesarism

In order to correctly interpret the Brazilian crisis, but more generally, this phase of democratic reflux at the international level, it is very useful to look at Antonio Gramsci’s analysis as well as some of his analytical categories. For example remembering his concept of “reactionary subversion” or considering his so-called “crises of hegemony”, that is phases in which the masses move away from traditional ideologies and bourgeoisie liberal political parties, due to war or serious economic crisis. In these situations the ruling classes, in order to safeguard the threatened established conservative status quo, can quickly decide to change political figures and political programs by abandoning those liberal principles undergoing a crisis.
In my opinion, while Brazil in the years 1964-68 was a classic example of “traditional Caesarism”, which requires “grand style military coups”, today’s Brazil fully belongs to modern Caesarism, that due to new instruments available and civil society’s greater complexity has become a very different phenomenon from the traditional one. The development of parliamentarianism, the establishment of associations through political parties and trade unions, together with large public and private bureaucracies, have transformed police function so that it is not only mobilized by the State for crime repression, but also placed at the service of political and civil society in order to guarantee the political and economic domination of the ruling classes.
Gramsci, in his notes from prison, wrote that in a modern society like ours political parties and economic organizations of the ruling classes should be considered “political police bodies, of a preventive and investigative nature”. Thus, even in a context of deep crisis, these forces maintain margins of organizational development and improvement, relying on the relative weakness of the “antagonistic progressive force” that would represent its negation. In this sense modern Caesarism is more police-like than military-like, precisely because it uses all the preventive and investigative tools necessary to keep hostile forces in a condition of minority.

Behind Bolsonaro’s emergence

The political forces that promoted the impeachment, then uniting around Temer’s government, had no effective consensus in society and took anti grassroots measures (radical cuts to healthcare, schools, universities and welfare, wild privatization, increased job market precariousness and liberal reforms of the pension system) generating increasing social conflicts. To this should be added the hostility provoked by the moral issue with ministers and prominent parliamentarians daily involved in clamorous and millionaire corruption scandals, caught with suitcases full of money, intercepted in bargaining bribes and various documented evidence proving their guilt. It is exactly in similar situations, where neither the traditional group nor the opposition group manage to win outright, that monstrous charismatic leaders emerge ready to speed up the reactionary authoritarian involution. In this context, Bolsonaro was the ace in the hole of a social bloc in crisis, as shown by the disastrous result of the traditional liberal right party, which has always embodied the national spirit of antipetism. In the previous presidential election ballot the PSDB party, an incredibly influential and powerful political party, able to elect presidents and governors across the country, chose as its front runner its strongest man, the outgoing governor of São Paulo State Mr. Geraldo Alckmin, taking in just 5 percent of the votes. Bolsonaro was able to unify and coordinate all right-wing parties (from the most extreme to the moderate), which is exactly what left-wing leaders were unable to do.
Bolsonaro’s political base is quite heterogeneous. We find the traditional upper classes, big industrial and big rural bourgeoisies, the latter being incredibly strong and influential in Brazil, but above all the small and middle class bourgeoisies, unwilling to fiscally contribute in favor of the social uplifting of the lowest income and marginalized classes. With this attitude, the elitist can claim both a social status and the reaffirmation of a minimal liberal State subordinated to the predominance of the Marketplace. Moreover, these groups were also joined by working-class worker groups overwhelmed by the financial crisis and frightened by the exponential growth of violence, to which Bolsonaro provided an elementary but effective answer: getting rid of the “public order problem” by guaranteeing both State violence and the “freedom” of private citizens to defend themselves (“arming the people”), while taking away civil rights and throwing all the “marginal” people into prisons, contemptuously defining them human trash.

International premise

It is difficult to foresee how long the Bolsonaro era will last, however, the element of greater stability of this political perspective finds its center of gravity outside the country. The need to get rid of all Pt governments, and Bolsonaro’s case, find their main motivation not so much in Lula’s and Dilma’s internal political choices, as more in the international role and position assumed by Brazil (as a hegemonic and preeminent nation in Latin America) within the Brics. Not surprisingly, the situation has plummeted when these nations announced the creation of their own investment bank, capable of operating outside the rules of the IMF and the World Bank. The US has the highest public debt in the world which can be financed by being the holder of the currency at the center of all international transactions. This hypothesis, together with the risk of taking away Asia, Africa and Latin America from the dollar circuit, represents a mortal danger for Washington which, incidentally started operating on several fronts (Ukraine, Syria, Hong Kong, Latin America) with the objective of mining the foundations of this bloc. In 2013, Snowden published confidential US National Security Agency (NSA) documents which showed continuous espionage activity and direct intrusion in Brazil’s internal affairs, especially after the discovery of new huge oil fields that could potentially transform this country (at that time closer to the economics and politics of China rather than Washington) into one of the largest producers of crude oil in the world. Also in 2013 began the subversive organization of the middle classes who were angry with Dilma, together with the judicial inquiries that targeted Petrobras and the government of the Pt party. To understand how big the stakes are, it can be remembered that recently the US has gifted 52 army tanks to Brazil. This happened during a period of growing tensions with a neighboring former ally, just as in Washington there was talk of war against Venezuela, one of the largest oil fields on earth. Meanwhile, Russia has sent its technicians to Caracas to help Venezuela emerge from the crisis, i.e. defend itself.

The Pt’s crisis and its potentials

Corruption cases aside – there have been cases of real corruption, just not to the extent nor the degree that was shown – the major limit revealed by the Pt party in its years of government was having progressively moved away from its social base, or better still, in having sought mobilization only at the time of the crisis. To this scenario, ambiguous political alliances must be added, remembering that Temer was Dilma’s vice president and that her party was one of the most influential forces of his government. The Pt party has also shown some limitations in its political actions, making a lot of mistakes and showing little courage. However, the main error was lacking the propensity for the renewal of its party leadership (not surprisingly, many historical personalities of the party, including Dilma herself, were voted out of Parliament). In these elections, the Pt party used wrong tactics and had the wrong perspective such as imposing Lula’s candidacy knowing full well that he could never have run the campaign. So Haddad, in the first round of voting, had practically only a month for campaigning, having all the media against him, while Bolsonaro had been running for years. This choice, which can be explained as an act of gratitude towards Lula and against what many considered an illegitimate sentence, has prevented the left to present itself united in the first round, canceling at the same time any chance of innovation and renewal, which was also necessary. Having said all this, precisely in the desperate run-up of the second round of voting, I think some important signs of bucking the trend revealed themselves. Signs from which a new beginning is possible. Faced with the danger posed by Bolsonaro’s candidacy, the left has managed to overcome its most lacerating internal divisions and to generate a great popular mobilization that has involved young and old, artists and people of culture, students and workers, in an attempt to overturn a political sentence that was already written. A unified effort, in which ordinary citizens, militants, voters and candidates of different political forces have helped each other to defend a recent heritage in Brazilian history, one repeatedly vilified in recent years: democracy. I believe that with this activist spirit, with the need to find an understanding relationship with the popular masses of this country, with an even clearer and clear-cut political proposal for social progress, there are the means to re-engage the political battle in the coming years and make the left a credible governing force again.

(Translated by Carla Gentili and Gabriele Tixi)

Gianni Fresu is Professor of Political Philosophy at the Universidade Federal de Uberlandia (Brazil). He is memebr of the International Gramsci Society

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La versione in italiano dell’articolo di Gianni Fresu è stata pubblicata su Left del 9 novembre 2018


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La sciagurata catena del «e allora gli altri?»

È una contemporanea legge del taglione solo che qui non si cavano occhi e nemmeno denti ma a marcire è il dibattito pubblico, la politica e quindi a scendere anche l’atmosfera sociale e civile: la lunga catena del “e allora *” (dove al posto dell’asterisco in base alle occasioni ci può stare “e allora il Pd”, “e allora il M5s” o “e allora Salvini” o “e allora” qualsiasi avversario vi possa venire in mente) è lievitata in queste ore dopo il servizio de Le Iene sul dipendente del padre di Luigi Di Maio che afferma di avere lavorato in nero nell’azienda di famiglia.

A seguito della notizia si è scatenata festante la ridda di insulti, di patetiche difese, di contraccuse, di volgarità e di rivendicazioni che ha trasformato l’agone politico in una tempesta perfetta di caciara con una rilevanza politica che rasenta lo zero ma riempie le pagine dei giornali e dei social mentre tutto intorno scorre il mondo. Da una parte ci sono quelli che denunciano l’imbarbarimento dello scontro e nel mentre imbarbariscono la disputa aizzando i loro per vendicare gli affronti subiti; dall’altra ci sono quelli che per difendersi riesumano altri comportamenti e altri argomenti (che nulla c’entrano) inventandosi una personale scala di gravità degli errori per cui dovremmo essere contenti che questi sbaglino allo stesso modo ma meno intensamente di quelli che c’erano prima di loro.

Un teatrino terrificante: se ritengo inaccettabile una modalità politica dei miei avversari non capisco perché dovrei rivendicare il diritto di praticarla come ristoro del danno subito. Mi sfugge il nesso. Immaginate qualcuno a cui abbiano rigato l’auto che si fa riprendere in diretta Facebook mentre ci spiega quanto sia incivile trovarsi la propria auto vandalizzata e nel mentre scalpella tutte le auto in fila. Si ritiene vergognoso attaccare politicamente qualcuno rovistando tra le azioni dei suoi famigliari? Almeno tenete la linea. Chiarite che non è un agone che vi interessa ma poi non buttatevi, vi prego.

Perché mentre si banalizza il tutto (e ovviamente si prosegue nell’opera di imbarbarimento generale semplicemente cambiando la direzione della colata di bile) c’è un ministro dell’interno (non suo cugino) che guida la ruspa per un abbattimento come un adolescente e finge di non essere a capo di quel partito che ieri è stato condannato anche in appello su 49 milioni di euro di soldi pubblici spariti. C’è una manovra finanziaria che è oggetto di contesa con l’Europa e si avvita su un dialogo di cui sembra impossibile conoscere i termini esatti. C’è una questione enorme, come quella del primato della politica o dell’economia, su cui sarebbe interessante ascoltare pareri diversi e possibilmente preparati e c’è una bella fetta di Paese disgustata dal chiasso che anela a un po’ di serietà, da parte di tutti.

E noi qui, ancora, a rispondere a qualche “e allora gli altri” che arriva puntuale come prima e unica giustificazione. Che miseria.

Buon martedì.

#NonUnaDiMeno, una marea viola contro la violenza sulle donne

La manifestazione nazionale di Non una di meno ha attraversato sabato 24 novembre le strade di Roma. Decine di migliaia di persone hanno invaso la Capitale, contro il ddl Pillon e il decreto Salvini, contro razzismo e ogni forma di discriminazione.

Vi proponiamo il fotoracconto della giornata, con le immagini di Elena Basso.

Alla rivolta delle donne contro l’internazionale nera e l’oscurantismo religioso abbiamo dedicato la cover story di Left n. 47 in edicola, PARTIGIANE DEI DIRITTI

Bernardo Bertolucci, in cerca di bellezza

Il regista Bernardo Bertolucci alla 31/a edizione del Salone Internazionale del libro presso il Lingotto di Torino, 12 Maggio 2018 ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Intervista di Amy Pollicino pubblicata su Left del 20 luglio 2013

*

Sarà il presidente della giuria della 70esima Mostra del cinema di Venezia (dall’8 agosto al 7 settembre) e di recente il sindacato dei giornalisti cinematografici italiani ha premiato Io e te con il Nastro D’Argento, designandolo film italiano dell’anno 2013. Due appuntamenti che hanno il sapore di un nuovo inizio per un maestro del cinema come Bernardo Bertolucci e che ci offrono l’occasione preziosa di questo incontro.

Bertolucci, come sta vivendo questa sua “nuova nascita”?

Sono riuscito a fare qualcosa che mi sembrava proibita ormai: un nuovo film. Così, dopo Io e te, molte cose si sono radunate intorno a me, la gente era sorpresa della mia scommessa. Avevamo fatto un piano di lavorazione molto lungo, nell’ipotesi che potessi lavorare solo tre o quattro ore al giorno, che mi stancassi. Macché. Ero uno dei primi ad arrivare e anche ad andar via. Perché questo set, a poche decine di metri da casa mia, era diventato il luogo dove ero riuscito ad arrivare e… ci stavo dentro come un topo nel formaggio.

Cosa cercherà in modo particolare nei film in concorso a Venezia?

Sorpresa e piacere. Non ho altre richieste da fare ai film. Cercherò chi mi farà “sentire di più”. Sarò presidente, ma non voglio tirarmi contro tutta la giuria finendo per esprimere solo la mia posizione. Insomma vorrei essere un presidente diverso da quelli che si sono visti negli ultimi vent’anni.

Non solo il cinema, ma tutta la cultura oggi vive un momento difficile in Italia, cosa fare per uscirne?

Prima di tutto, direi tornare a far sì che la cultura sia un bene e un patrimonio collettivo. Un bene di tutti. Non imponendola ma portando quelli che si può a sviluppare per la cultura quel sentimento di cui parlare oggi è forse come parlare fuori tempo. A chi avesse dei pregiudizi dico solo guardati indietro e capirai che cosa ha fatto la cultura in quei quattro o cinquemila anni che riusciamo ancora a intravedere. Sono completamente “allagato” da un’idea della cultura come trasmissione. Ma sono tutte cose che si dicono, poi come le realizziamo? Non lo so, io non sono un diffusore se non di ciò che mi appartiene.

Sta già lavorando a un nuovo progetto?

Ci sto girando intorno, un po’ come un moscone o una farfalla che ancora non ha capito su cosa si sta posando. C’è un’idea che ancora non ha trovato la sua forma. Perché ovviamente non basta un’idea se non le dai forma. Quando ho girato il Piccolo Buddha a Kathmandu c’era una zona molto vecchia, bella, popolare, e c’erano dei vasai che lavoravano all’aperto sotto un tendone per il sole. Con un piede muovevano un pedale facendo girare velocissima una ruota. Con le mani toccavano l’argilla e creavano il vaso. La forma nasceva e in un attimo si trasformava da vaso panciuto e basso in vaso altissimo con un collo che si perdeva in alto. Mi faceva venire in mente Marinetti, le poesie sulla velocità. Quest’immagine mi accompagna, specie ora che non trovo una forma che mi piace per la mia idea ripenso a questo usare le mani.

Con Io e te è tornato dentro uno spazio circoscritto, dove la bellezza e le emozioni dei due personaggi travolgono e commuovono. Quali temi le interessano oggi?

Non so bene dire qual è il tema di Io e te. Credo che per ognuno sia personale. Se un film mi scioglie dentro cose che erano un po’ pietrificate e che magari non sapevo di avere ancora, allora il sentimento, le emozioni che quel lavoro mi suscita mi fanno capire perché è stato fatto. Questo vale anche per un mio film, così comprendo quello che più profondamente ho voluto dire. L’emozione non è solo direttamente provocata da una situazione, da una storia, dai personaggi. Spesso è molto legata a chi ha fatto il film. Intuire che cosa ispirato quel regista è per me di stimolo, mi trasmette vitalità.

Quali sono i film che non le piacciono?

Sono quelli che uccidono la vitalità. I film che amo incrementano la mia energia creativa, mi fanno venir voglia di fare cinema. Quando Niccolò Ammaniti mi dette il libro che aveva pubblicato con Einaudi, Io e te, l’ho letto e tre ore dopo sapevo che quello era il film che avrei voluto fare. Altre volte c’è voluto molto tempo. Come nel caso de L’ultimo imperatore. Volevo girare un film tratto da quel bellissimo romanzo di Malraux, La condition humaine, che si svolge a Shanghai nel 1927. Ma a quel tempo, era il 1984, i cinesi non erano pronti ad accettarlo. L’ultimo imperatore era l’altra mia proposta e loro l’hanno preferita. Solo dopo che il film ha ricevuto tanti Oscar, i cinesi mi hanno proposto di tornare per realizzare La condition humaine. Io però di fare un altro supercolosso in Cina dopo che ci avevo passato un anno intero non me la sono sentita. Così sono passato prima dal Sahara, dove ho girato Il tè nel deserto e poi dall’India, dal Nepal, dal Buthan, in un mio viaggio di scoperta del buddismo tibetano.

Come è nata questa sua ricerca?

È iniziata così: “Voi pensate che Dio abbia creato l’uomo e basate la vostra religione su questo. Noi buddisti tibetani pensiamo che è l’uomo che ha creato Dio.” Coinvolgermi in una scoperta così emozionante mi ha portato al film Piccolo Buddha. Li vedo ancora questi monaci buddisti, scesi a valle, in fuga dal Tibet, in qualche monastero che hanno creato in India mentre discutono di logica. Uno è seduto e l’altro è in piedi, quello seduto dice: “Un bicchiere di acqua per un pesciolino è una casa, per un uomo è una bevanda. Chi ha ragione, il pesciolino o l’uomo?” E l’altro risponde: “Non ho mai sentito di una causa tra un pesciolino e un uomo”. E dicendolo si accompagna con un gesto (Bertolucci batte le mani, ndr): Tac.

Lei ha detto che vale un solo principio: cercare sempre la bellezza.

La bellezza, certo, se contiene anche altro. La bellezza può essere qualcosa di estremamente semplice. Ti sorprende e ti dà un godimento quasi totale. La bellezza è la poesia.

E come si può ancora dare alla poesia una possibilità di esistere?

Quella non sarà mai possibile estirparla, ci hanno provato ma non ci sono mai riusciti. Anche perché quando arriva la poesia, il potere non è così attento e sospettoso, perché le dà poco valore, mentre la poesia a volte è stata rivoluzionaria, spesso è stata la scintilla di qualcosa. La poesia era parte del paesaggio quotidiano in cui vivevo. Quando a mio padre piaceva qualcosa diceva sempre, “vedi com’è poetico?”. E poi mi ritrovo con la Morante, Moravia, Pasolini – avrò avuto diciotto, diciannove anni – e anche lì sento usare sempre questa parola, poetico e non poetico. Che poi ognuno la riempie con i significati suoi. Perché ecco vede, in questo momento, in questa stanza…

La cosa che colpisce di più vedendo i suoi film è la libertà di rappresentare. Come ci è arrivato?

Mi faccia un esempio.

Penso a Ultimo tango a Parigi e alla potenza di rappresentazione del rapporto fra uomo e donna ma anche alla messa in scena della dinamica emotiva del ’68 in The dreamers. In tutti i film dove prevale una componente intima c’è questa libertà nella rappresentazione che non si trova da nessun’altra parte. Sembra una sua dimensione personale.

Per fortuna il mio personale riesco a trasmetterlo ai miei attori che poi se lo rielaborano. Quando lei parla di libertà, si riferisce, credo, al tentativo che faccio sempre di ascoltare le mie pulsazioni e di essergli fedele. Questo un pochino viene dalla storia con mio padre che era ipocondriaco. Quando eravamo bambini, Giuseppe e io, lui era sempre preoccupato per noi. Ogni volta che in campagna ci si sbucciava un ginocchio lui diventava cupissimo. Dopo, e avevo già trent’anni, capii e gli parlai del suo continuo allarme, quando immaginava, se non eravamo ancora rientrati la notte, che fossimo morti in un incidente: “Guarda babbo che sei tu che mi uccidi in quella fantasia dove dici che io mi sarei fatto male, forse molto male. Sei tu che ci metti questa cosa”. Mio padre era mite ma ipocondriaco e aveva una continua paura di morire proiettandola anche sui suoi figli. A vent’anni, o forse ventuno, sono riuscito, non so come, a fare dei film, e per questo sono dovuto uscire dal teatrino familiare. E stato come rompere il bozzolo. Pensi che quando ho girato il mio primo film, La commare secca abitavo in via Carini con i miei genitori e dormivo ancora nella stanza mia e di mio fratello. Uscivo alle sette del mattino come un ventunenne che va all’università e invece andavo sul set. E andare sul set era entrare tutti i giorni in una specie di trance. Perché non riuscivo a capire come e perché ero riuscito a mettere su un film, e allo stesso tempo lo capivo fin troppo bene e tutto questo mi guidava nel farlo. Poi la sera tornavo a casa e in genere cenavo coi miei e mio fratello e poi andavo a dormire.

Le cose cambiarono con il secondo film?

Con Prima della rivoluzione, che si svolgeva interamente a Parma, questa specie di “effetto studente” si è un po’ perso. Avevo una mia autonomia più forte. Ma ho dovuto anche lì confrontarmi con la città che mio padre aveva mitizzato. È la storia di un giovane comunista, borghese però, che cerca una sua esperienza iniziatica d’amore incestuosa con la sorella di sua madre, ovvero la zia, più grande di lui. E però alla fine del film lascia tutto, torna dentro le regole della sua classe e si sposa con una bella ragazza di Parma, borghese, e tutto va come era scritto che andasse. Era un film in parte autobiografico ma anche scaramantico! Era quello che avrebbe potuto succedere a me se fossi rimasto a Parma. E in effetti anch’io avevo una storia con la protagonista del film che era Adriana Asti. Tendo sempre molto a vivere le storie che racconto. Quando filmo devo in qualche modo essere innamorato dei miei protagonisti.

C’è un legame sottile tra Ultimo tango a Parigi, L’Assedio e Io e te. Lo spazio chiuso torna a esserle congeniale. Come a dire che questi sono di nuovo tempi in cui starsene protetti in un rapporto duale, voltando le spalle a tutto il resto? O è possibile ancora uscire a cercare prospettive fuori, nella realtà? Di questo dentro-fuori mi interessa sapere da lei.

In sceneggiatura si scrive: Casa di Lorenzo – Interno. Giorno. Poi si scrive: Via Lima – Esterno. Alba. E poi ci sono le scene che sono Esterno/Interno o Interno/Esterno, che cominciano in un dentro e finiscono in un fuori. Sono le più emozionanti, quando da dentro un luogo chiuso e molto intimo, senza staccare, si esce fuori nella luce dell’alba.

Sarà un buon giorno quando scenderanno in piazza gli uomini

Un momento della manifestazione contro la violenza di genere "Non una meno in stato di agitazione permanente", Roma, 24 novembre 2018. ANSA/CLAUDIO PERI

Un Paese che fa propaganda sui cadaveri delle donne, un Paese che riesce a trasformare la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne in un Colosseo contemporaneo contro chi, tra la classe politica, riesce a simboleggiare meglio l’occasione per attaccare gli avversari. Una campagna elettorale sulla pelle delle donne? Beh, è normale, mica stupisce. Da qualche mese si rovista tra le macerie di giovani ragazzine uccise pur di meritarsi qualche clic, da parecchi anni si scrive (o non si scrive) di qualche donna ammazzata in base al calcolo elettorale, da sempre una donna morta torna utile solo se serve a raccontare (o ad accusare) i vivi: delle donne morte (così come di molte vive) non interessa più di tanto.

Pensateci: nel momento storico in cui si vivisezionano gli assassini quando si tratta di donne la narrazione si incaglia invece solo sulle vittime. Una stortura vomitevole e rissosa utile ai mercenari del dolore, agli stercorari necrofili, a quelli che usano le donne come usano il Pil, l’Europa, l’immigrazione, gli inceneritori: una cosa che diventa un tema.

Il fatto è che dovrebbero esserci gli uomini, in piazza. Dovrebbe essere pieno di uomini. La violenza sulle donne è un problema maschile (Civati lo scrive da anni, per dire), è maschile il problema. Eppure gli uomini solidarizzano. O celebrano, al massimo.

Eppure sarà una buona giornata quando alla prossima manifestazione in difesa delle donne gli uomini la smetteranno di essere vicini o di essere solidali e cambieranno il messaggio: non più il “vi capiamo” ma il “vi difendiamo”, mica solo gli uomini, tutti. Vi difenderemo, appunto.

A quel punto sarebbero patetici i sindaci (donne, tra l’altro) che si tingono la faccia di rosso mentre provano a sgomberare i centri antiviolenza, sarebbero poco credibili i politici che fingono contrizione piuttosto che allungare i termini per la denuncia per molestie e per violenza, sarebbero osteggiati ministri della risma di quel Pillon che auspicano il ritorno al patriarcato medievale.

E magari si potrebbe fare un patto per cui tutti quelli che provano a sminuire il problema parlando d’altro siano solo dei rimestatori nel torbido. La violenza sulle donne, come tutte le violenze, si arresta con leggi, cultura e soldi. Non serve elemosina morale: servono leggi, cultura e soldi. Pensate alla legittima difesa femminile, ad esempio, contro un reato che si consuma ogni due giorni. Un’emergenza, una delle poche, che avrebbe corrispondenza anche nei numeri.

Pensiamoci, noi uomini.

Buon lunedì.

E Dostoevskij finì nella black list dei libri in Kuwait

This picture taken on September 29, 2018 shows books hanging from the branches of palm trees on the lawn outside the National Assembly building in Kuwait City in protest against the government's new censorship regulations on publications, which resulted in banning many books from entering the country. (Photo by Yasser Al-Zayyat / AFP) (Photo credit should read YASSER AL-ZAYYAT/AFP/Getty Images)

In Kuwait non vogliono far sapere che il colonnello Aureliano Buendia ordì trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Né che di fronte al plotone di esecuzione la mente gli tornò al pomeriggio in cui il padre lo portò a conoscere il ghiaccio. Non vogliono nemmeno che si sappia quanti figli, con quasi altrettante donne, mise al mondo il dissoluto proprietario terriero Fedor Pavlovic e la fine che gli fece fare uno di loro. O del giorno in cui un campanaro gobbo fu eletto papa dei folli, proprio di fronte alla cattedrale di Notre Dame.
L’ultimo rogo virtuale di libri nel paese del Golfo non poteva avvenire in un contesto peggiore: le autorità kuwaitiane hanno bandito – attività affatto rara da qualche anno a questa parte – 948 libri dal Festival internazionale della letteratura, che si tiene dal 14 al 24 novembre. A renderlo noto è Saad al-Anzi, direttore del Festival, alla sua 43esima edizione: il ministero dell’Informazione ha messo al bando quasi mille libri, tra saggi e romanzi. Tra questi I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij che va a far compagnia ai tanti scrittori, romanzieri e autori inseriti in questi anni nella speciale lista nera kuwaitiana: Gabriel Garcia Marquez, Victor Hugo, il primo premio Nobel arabo Naguib Mahfouz, George Orwell, l’egiziana Radwa Ashour. Ma anche testi medici sull’imene, La Sirenetta di Hans Christian Andersen, la Divina Commedia e Zorba il greco.
Per un totale, al momento, di 4.390 libri censurati dalla mannaia di Stato, tanto rude nei metodi quanto sistematica nell’obiettivo: non sia mai che la morale pubblica – è opinione del meticoloso censore – sia destabilizzata da pensieri non ortodossi. Non sia mai che i cittadini si pongano domande sull’esistenza di Dio o la struttura patriarcale della società (vedi, per l’appunto, il romanzo tra i più rappresentativi dell’opera di Dostoevskij) o sul controllo sociale totale paventato da 1984. O sul mondo utopico/distopico incarnato dalla pagana Macondo.
Ad operare sono…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola dal 23 novembre 2018


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