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Cambogia, la verità sul genocidio è ancora da raccontare

People line up to attend the closing statements in the case against former Khmer Rouge leaders Khieu Samphan and Nuon Chea at the Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC) in Phnom Penh on June 23, 2017. "Brother Number Two" Nuon Chea, now 90, and ex-head of state Khieu Samphan, 85, were sentenced to life in jail in 2014 for crimes against humanity from a regime responsible for the deaths of up to two million Cambodians from 1975-1979, and are currently undergoing a second trial for the genocide of ethnic Vietnamese and Muslim minorities, forced marriage and rape. / AFP PHOTO / TANG CHHIN Sothy (Photo credit should read TANG CHHIN SOTHY/AFP/Getty Images)

Il 7 gennaio 1979 le forze vietnamite posero fine al brutale regime di Pol Pot e dei Khmer rossi in Cambogia. In soli quattro anni la dittatura causò la morte di circa 1,5 milioni di persone. A distanza di quarant’anni, molto ancora resta da scoprire e raccontare. La ricerca della verità è al centro della ricerca cinematografica del regista Rithy Panh, di cui pubblichiamo l’intervista.

È da trent’anni, ormai, che il regista, artista e poeta Rithy Panh, è diventato il custode e l’aedo della memoria della Cambogia e degli orrori subiti dal suo popolo per mano dei Khmer Rossi, quando, occupata la capitale Phnom Penh il 17 aprile del 1975, il partito comunista diede ufficialmente inizio al temporaneo Stato della Kampuchea Democratica. Nei quattro anni che seguirono, prima della sua destituzione nel 1979, il regime mise in atto una pulizia etnica sistematica che, secondo le stime, costò la vita a un numero imprecisato di persone, compreso tra il milione e mezzo e i tre milioni. «Penso sia normale avere difficoltà a relazionarsi con tragedie di questa entità subito dopo la loro conclusione» dice Panh, autore di Graves without a Name presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. «Immediatamente dopo la Shoah, per esempio, non ci sono stati molti racconti al riguardo. Credo che lo stesso Primo Levi, inizialmente, avesse venduto pochissime copie rispetto al pubblico che ha poi avuto con Se questo è un uomo. Quindi è normale che passi del tempo prima di riuscire a rimettersi in sesto e, un po’ alla volta, imparare di nuovo a parlare, ad amare, a vivere. Perfino a gustare il cibo che si mangia. È stato colpito l’animo profondo dell’umanità, lasciando tantissime ferite. Ma credo valga la pena aspettare tutto il tempo necessario prima di riuscire a raccontare storie come faccio io con i miei film. Comunque vadano le cose sappiamo che la storia si ripete».

Le “tombe senza nome” a cui Panh fa riferimento nel titolo del film sono quelle incalcolabili delle vittime cambogiane a cui non si è potuto ancora dare degna sepoltura, e i cui resti anonimi affiorano, insieme a brandelli di tessuto, tra le zolle di terra dei campi coltivati, nell’indifferenza generale delle nuove generazioni, ma anche di quei superstiti che oggi preferirebbero dimenticare pur di non dover riaprire ferite profondissime mai del tutto rimarginate. «È complicato capire gli effetti di un crimine di tale portata » prosegue Panh. «Qualcuno ha perfino parlato di auto-genocidio, che non è certo il termine più felice per descriverlo. Poi lo si è definito genocidio e crimine contro l’umanità. Al di là di questo, però, c’è nelle vittime il bisogno di definirsi, di capire chi sono, da dove vengono, di trovare la loro identità, e con essa la loro dignità. Noi che realizziamo film, che dipingiamo, che scriviamo libri o componiamo musica diamo il nostro contributo perché aggiungiamo il nostro pezzetto di puzzle contro la cancellazione totale della memoria. È questo che ci permette di recuperare l’identità e di aiutare queste persone a capire chi sono e da dove vengono, sia per quanto riguarda le nostre generazioni, ma anche e soprattutto quelle future». Se oggi a quello sterminio ci si riferisce come a un vero e proprio genocidio equiparabile alla Shoah, è stato anche grazie a Rithy Panh e alla sua opera di divulgazione, di ricostruzione, comprensione ed esorcizzazione di un trauma tanto privato quanto collettivo. Khieu Samphan, l’allora leader dei Khmer Rossi condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità (e adesso per genocidio v.sotto ndr), ha ammesso le proprie colpe dopo aver visto S-21. La macchina di morte dei Khmer Rossi, il documentario con cui nel 2003 Panh ha persuaso tre superstiti delle vittime e i loro carnefici a tornare all’interno dell’edificio – oggi sede del Museo del genocidio – dove il regime torturò, interrogò e uccise 17mila prigionieri. Un film esemplare, la cui tecnica è stata poi ripresa dal regista di The Act of Killing Josua Oppenheimer per raccontare il genocidio finalizzato all’annientamento del partito comunista indonesiano da parte del regime di Suharto negli anni 60.

Va detto che quello di Rithy Panh è un cinema molto personale e visionario da intendersi come un lungo viaggio di scoperta a tappe in cui si alternano, talvolta mescolandosi, il linguaggio del documentario e quello della fiction. «Credo innanzitutto che sia molto complicato fare un unico film su questo periodo buio del mio Paese» precisa Panh, un sopravvissuto lui stesso del genocidio, che ha visto morire i propri familiari prima di riuscire a fuggire in Thailandia e poi in Francia, dove oggi vive. «È il motivo per cui fin dall’inizio ho deciso di non limitarmi a un solo film, ma di trattare questa storia in diversi segmenti che si concentrassero ognuno su temi specifici». C’è un aspetto, però, che distingue Graves without a Name dai suoi precedenti lavori, incluso il quasi speculare L’immagine mancante, con cui nel 2013 Panh venne insignito a Cannes con il premio Un certain regard e successivamente nominato agli Oscar, e di cui riprende l’uso della stop motion, del diorama e del testo poetico fuori campo per dare vita a ricordi di esperienze vissute non immortalate dalle immagini. Si tratta di un’inedita propensione all’ascolto che per la prima volta lo rende indulgente anche nei riguardi dei carnefici. «In realtà, questa propensione c’è sempre stata da parte mia, ma, poiché non sono un funzionario religioso che ascolta la confessione di un assassino, non è stato facile. Sono un uomo come voi, che deve controllare le proprie emozioni e i propri sentimenti, tanto più che ho vissuto in prima persona molte di queste cose di cui parlo. Quindi, anche da un punto di vista intellettuale e artistico, è importante mantenere la giusta distanza. Io ho sempre ascoltato, l’ho fatto per quasi due anni con l’allora comandante del campo principale dei Khmer Rossi. Forse, però, non ero ancora pronto a raccontarlo perché l’ascolto implica anche tanto dolore e può perfino distruggere. Bisogna fare attenzione ed è per questo che il mio lavoro procede per gradi, cercando di fare la cosa giusta quando me la sento».

In Graves without a Name Rithy Panh compie un altro passo che non aveva mai fatto prima. Diventa lui stesso protagonista del film, lasciandosi riprendere in prima persona e interagendo con gli altri personaggi, in particolare con una medium che dialoga con i fantasmi dei morti e che accetta di fargli da tramite con suo padre. «Non sono io che sono voluto apparire nel film, ma è il film che mi ha attirato a sé» puntualizza il regista. «Mi rendo conto che per voi possa risultare difficile concepire l’idea di poter instaurare un dialogo con i fantasmi che ci circondano, però è proprio quello che volevo fare. Così mi sono dovuto preparare a quest’incontro speciale, seguendo tutto un cerimoniale che comporta la rasatura della testa. È stato molto commovente assistere al momento in cui questa vecchia signora veniva posseduta dal fantasma di mio padre e mi diceva di avvicinarmi. Io non sapevo cosa fare. Ho esitato per un po’ finché, su sua insistenza, mi sono fatto coraggio e sono entrato nel film. Al di là di tutto, trovo naturale il fatto di poterne parlare. Riguarda tutti noi e, anche se si tratta di una visione un po’ poetica, è importante continuare a dialogare con le persone che non ci sono più».

Il suo ultimo film, nel preservare la memoria del passato tocca temi universali “sensibili” come l’accoglienza, l’uguaglianza e l’accettazione della diversità, e allora chiediamo a Rithy Panh il suo personale punto di vista in materia di migrazione e delle derive politiche che stanno caratterizzando l’Italia come tutta l’Europa. «Che volete che vi dica, gli italiani hanno votato un governo fondamentalmente di destra, un po’ come l’Austria, gli Stati Uniti, l’Ungheria. Non sono un politico però è un progetto di società quello che si sta esprimendo attraverso il voto. Io posso solo dire che senza la base della democrazia, ossia la cura dei più deboli, non ci può essere pace. E non c’è nessun muro, nessuna frontiera, nessuna barca che tenga che cambierà le cose.
Quindi, secondo me, non dovete ascoltare quello che vi raccontano. Nulla è facile, ma dovremmo cercare di capire come vivere assieme, come condividere lo spazio e le cose che abbiamo a disposizione, e in questo modo come arrivare a quella che secondo me è la civiltà. Io, personalmente sono scoraggiato da questa situazione. Considero questo che stiamo vivendo un vero e proprio periodo post-nazista, forse più soft, di cui non ci rendiamo conto, però quello che, ad esempio, è successo in Germania poco tempo fa, quando centinaia di persone hanno cacciato gli immigrati per la strada, dovrebbe svegliarci, se per caso stessimo ancora dormendo».

La sentenza
Il 16 novembre il tribunale di Phnom Penh ha condannato all’ergastolo per genocidio gli ultimi capi dei Khmer Rossi. Si tratta di Nuon Chea, 92 anni, braccio destro del dittatore comunista Pol Pot, e Khieu Samphan, 87 anni, capo di Stato cambogiano all’epoca dello sterminio delle minoranze e degli avversari politici. I due erano già in carcere con una condanna all’ergastolo per crimini contro l’umanità compiuti tra il 1977 e il 1979. I Khmer Rossi guidati da Pol Pot, presero Phnom Penh il 17 aprile 1975. Iniziarono subito le deportazioni dei civili verso le campagne inseguendo un comunismo agrario che si rivelò un regime di terrore e che provocò la morte di un numero per ora indefinito di persone, tra un milione e mezzo e tre milioni.

L’articolo di Marco Cacioppo è stato pubblicato su Left del 23 novembre 2018


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Le relazioni pericolose tra Salvini e Putin

Il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, alla presentazione del libro di Gennaro Sangiuliano "Putin. Vita di uno Zar", Milano, 21 dicembre 2015. ANSA/MOURAD BALTI

Matteo Salvini lo scorso 16 ottobre è volato a Mosca. Ai settecento imprenditori di “Confindustria Russia” che lo attendevano per applaudirlo ha promesso la «fine delle sanzioni e una nuova politica nei confronti della Russia», anche se finora a Bruxelles si è ben guardato dal sollevare la questione. Una politica estera filo-russa che risale al 2014, quando la Lega, su suo impulso, decise di abbandonare il progetto secessionistico e avvicinarsi all’estrema destra europea. Su consiglio di Marine Le Pen, Salvini iniziò a tessere le lodi del regime putiniano e si schierò apertamente a favore della annessione della Crimea alla Russia. In seguito Salvini ha assunto altre posizioni a dir poco discutibili come per esempio quella sulla soluzione del conflitto in Ucraina. Ancora recentemente, il capo della Lega, ha sostenuto la necessità della sua spartizione: la zona orientale dovrebbe essere annessa alla Russia mentre quella occidentale dovrebbe finire sotto il controllo dell’Europa. Una posizione colonialista diametralmente opposta a quella della reintegrazione del Donbass all’Ucraina come sottoscritto da Francia, Germania e dalla stessa Russia negli accordi di Minsk.
Molta acqua è passata sotto i ponti dal 2014, ma il debole di Salvini per Putin è rimasto intatto, una simpatia sembra ripagata da quest’ultimo che, si vocifera a Mosca, lo avrebbe aiutato a…

L’articolo di Yurii Colombo prosegue su Left in edicola dal 23 novembre 2018


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Come ti smonto lo sceriffo Minniti

WALTER VELTRONI MARCO MINNITI ANGELO BECCIU GIANNI LETTA

Di solito, quando cominciamo a leggere un libro giallo, ci aspettiamo colpi di scena, rivelazioni impreviste, colpevoli scoperti all’ultima pagina. L’ultimo libro di Marco Minniti, invece, di giallo ha solo il color limone della copertina. Quanto al contenuto, le sorprese sono davvero poche, e l’esito finale più che ovvio: se fosse davvero un romanzo poliziesco, l’assassino sarebbe il prevedibilissimo maggiordomo.
«I populisti fanno finta di ascoltare», si legge nel retrocopertina, «ma tengono la gente incatenata alle proprie paure. La sinistra ascolta per liberare». Una presentazione invitante, che però non descrive affatto il contenuto del libro: nelle pagine di Sicurezza è libertà – questo il titolo del volumetto edito da Rizzoli – si trova solo un lungo elenco di luoghi comuni «populisti» (nel senso di Salvini e Di Maio). Di sinistra, qualunque cosa si voglia intendere con questa parola, c’è ben poco.
Così, ad esempio, l’ex inquilino del Viminale spiega che l’accoglienza «è una prerogativa di tutte le società aperte» e che tuttavia essa «ha un limite insuperabile nella capacità di integrazione» (il «tuttavia» non poteva mancare: un po’ come il «ma» dell’«io non ce l’ho con gli immigrati ma…»).
Per rendersi conto di quanto poco «di sinistra» sia un ragionamento del genere, basta applicarlo agli ospedali: proviamo a dire a voce alta che «la salute è un diritto, tuttavia questo diritto ha un limite nella capacità di accoglienza delle strutture sanitarie», e abbiamo un bell’esempio di legittimazione delle politiche neoliberali e antipopolari. Proprio con queste argomentazioni, in Italia, si sta smantellando la sanità pubblica e gratuita.
E ancora: dice l’ex Ministro che bisogna tener conto…

Sergio Bontempelli si occupa di immigrazione dagli anni Novanta. Coordina, con la cooperativa Gli Altri, gli sportelli comunali per migranti nell’area pistoiese, è membro di Adif (Associazione diritti e frontiere) e presidente di Africa insieme di Pisa. È autore, per i tipi di Edizioni Helicon, di Un rifugio precario. Breve storia del diritto d’asilo in Europa

 

L’articolo di Sergio Bontempelli prosegue su Left in edicola 23 novembre 2018


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Alla riconquista dell’acqua pubblica

Alpine torrent waterfall with small lake

Più o meno 216mila cittadini della provincia di Brescia hanno partecipato il 18 novembre al referendum consultivo per la ripubblicizzazione del servizio idrico locale e il 97% di loro ha votato Sì. Non era previsto il quorum ma l’obiettivo dei promotori, almeno il 20%, è stato superato di tre punti. Un successo oscurato dai media nazionali (la Rai ha perfino ignorato l’arrivo a Brescia di Roberto Fico, la terza carica dello Stato) e bollato, dai due quotidiani locali, a tutta pagina e con lo stesso titolo: «Buco nell’acqua». Eppure per un referendum provinciale servivano 25 delibere di altrettanti comuni. Le delibere sono state 55, più di un quarto dei 205 comuni della provincia. Il referendum è stato dichiarato ammissibile a dicembre 2017 ma il Pd s’è messo di traverso accampando la scusa che non c’erano fondi e provando a forzare le tappe per l’affidamento diretto fino al 2045, poi per la messa a gara per un soggetto unico pensato apposta per A2A (per metà dei comuni di Milano e Brescia e per metà quotata in borsa), una delle quattro grandi multiutility a spartirsi il mercato italiano con Acea, Hera, Iren. Solo a luglio i promotori sono riusciti a strappare una data per la consultazione.
«Dobbiamo contestualizzare il risultato – spiega Mariano Mazzacani, referente di Acqua pubblica Brescia – in ragione delle condizioni in cui abbiamo lavorato». Con un budget di appena 8mila euro, i promotori sono riusciti a realizzare 105 incontri sul territorio, a volte in aperto contraddittorio con pezzi grossi del Pd, spesso scontrandosi con l’ostruzionismo di alcuni sindaci. Secondo i promotori, almeno il 30% dei cittadini non sapeva del referendum. La Lega, piuttosto forte, stavolta non aveva nemmeno un gazebo. E il Pd solo qualche comunicato stampa. «Ma una questione come la proroga del servizio idrico integrato fino al 2045 non può essere tenuta fuori dal confronto politico», continua Mazzacani. Ora la Provincia, con l’assemblea dei sindaci, dovrà ratificare il risultato. Chi avrà la delega dell’acqua?…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 23 novembre 2018


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Pro life al consultorio, obiettori in corsia: la pazienza delle donne sta per finire

I treni della negazione dei diritti delle donne hanno tutti i posti a sedere occupati, hanno i vagoni stracolmi di discriminazione, e la direzione di marcia la impartiscono le organizzazioni criminali antiabortiste. La Ue, dal canto suo, così apparentemente solerte nel mostrare attenzione alla salute degli europei tanto da emanare una direttiva che vieta la “pericolosissima” cottura della pizza margherita nel forno a legna, non ha mai emanato una direttiva che obblighi gli Stati membri ad assicurare la presenza di consultori, o di strutture similari, in misura sufficiente a consentire la tutela dei diritti sulla sessualità e sulla riproduzione. Nel settembre del 2013 il Parlamento europeo bocciò la Relazione sui diritti sessuali e riproduttivi presentata dalla parlamentare portoghese Estrela, grazie anche alla astensione dei parlamentari cattolici del Pd. La Risoluzione Estrela avrebbe consentito alle donne dell’Ue di poter contare su una tutela legislativa in tema di gravidanze indesiderate con accesso alla contraccezione e all’aborto sicuro e legale. Due anni dopo, nel 2015, è stato presentato dall’eurodeputato belga Tarabella, il Rapporto sull’eguaglianza tra donne e uomini, che è stato approvato. La Risoluzione Tarabella segna un passaggio importante perché ha qualificato formalmente l’aborto come un diritto, ma di fatto è stata neutralizzata dall’approvazione di un emendamento secondo il quale, in materie legate alla vita, al matrimonio e alla famiglia in generale, la competenza legislativa rimane nella autonomia degli Stati. L’interruzione di gravidanza in Italia, regolamentata dalla legge 194/78, trovava una precedente cornice attuativa nella legge 405/75 istituiva dei consultori familiari. La Legge 194/78, nel regolamentare l’interruzione di gravidanza, richiamava espressamente la legge istitutiva dei consultori, affidando a queste strutture socio-assistenziali-sanitarie il compito di dare supporto alla procreazione consapevole e alla scelta della interruzione. Attorno ai consultori, da quel momento, si è concentrata la guerra repressiva contro l’autodeterminazione femminile, consentendo alle organizzazioni antiabortiste di infiltrarsi per condizionare le scelte, negando alle donne il riconoscimento della capacità di decidere del proprio corpo. È un dato acquisito quello secondo il quale il controllo sociale si ottiene con il controllo di tutti i processi che regolano i comportamenti umani, sia individuali che collettivi, e siccome la sessualità costituisce uno degli aspetti preminenti delle società umane, il controllo della sessualità femminile ha come risultante il controllo dell’intera società.
Tutte le società umane hanno codificato la vita sessuale, e le strutture di potere sono sempre passate attraverso il controllo della sessualità, femminile in prima istanza e maschile per conseguenza. La attuale recrudescenza delle spinte repressive contro la sessualità femminile, sono in effetti la conferma che il potere, politico ed economico, evidentemente non riesce poi così bene a controllare le masse, e vuole ripristinare un presunto ordine sociale attraverso quella che ritiene sia la modalità più consolidata, ovvero la negazione dei diritti femminili. Le associazioni antiabortiste cosiddette pro-vita che si infiltrano nei consultori, sono le stesse che, per intenderci provengono da quelle formazioni politiche che hanno legiferato il finanziamento di campi di concentramento per minori in territorio straniero, e che dichiarano, peraltro, di muoversi in adesione alle aspettative delle caste sacerdotali verso le quali si mostrano prone. Ma c’è un dato che, in prospettiva di contrasto, i fondamentalisti non hanno considerato, ovvero che quando si è raggiunta la consapevolezza di un diritto, non si è disposti a cederlo e che la repressione sessuale, attuata con la chiusura dei consultori o con la limitazione di quelli funzionanti, attuata anche con la complicità di donne malate di patriarcato, potrà essere un boomerang.

L’avvocato Carla Corsetti è segretaria nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo.

La riflessione di Carla Corsetti è tratta da Left in edicola dal 23 novembre 2018


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Se l’obiezione di coscienza diventa un femminicidio

ROME, ITALY - MAY 26: Women protest in a demonstration "Obiezione Respinta" organized by 'Non una di meno' movement to remember the 194 law against the abortion after 40 years, on May 26, 2018 in Rome, Italy. (Photo by Antonio Masiello/Getty Images)

Sette medici sono stati rinviati a giudizio dal Tribunale per la morte di Valentina Milluzzo a Catania. Valentina nel settembre di due anni fa fu ricoverata presso l’Ospedale Cannizzaro alla 17esima settimana di una gravidanza gemellare con una dilatazione del collo dell’utero che aveva provocato la fuoriuscita del sacco amniotico. Non c’erano speranze di salvare i due feti, l’infezione da dilatazione uterina è praticamente certa in questi casi, ed è assolutamente necessario informare la donna e proporre un aborto terapeutico per prevenire una setticemia.

È una cosa difficile e dolorosa, sono figli desiderati, e spesso ci vuole qualche giorno perché la donna si renda conto di quello che sta succedendo. I feti o il feto sono “vivi”, non è facile né ovvio aiutare la donna a proteggere la propria vita con l’aborto terapeutico. È un lavoro che i ginecologi non obiettori (quelli che Bergoglio ha definito sicari) fanno tutti i giorni. Lo fanno anche alcuni obiettori, a dire il vero. Quelli che ritengono uno scandalo esporre le donne al rischio della vita per un embrione o un feto che non potrebbe sopravvivere comunque. E il tema, per quanto ci riesca difficile accettarlo, per quanto vogliamo mettere la testa sotto la sabbia (cosa che ovviamente gli struzzi non fanno, perché si muore soffocati) è proprio questo.

In Italia si sta facendo strada l’ideologia oltranzista cattolica estrema che la vita della madre vada messa a parità con il battito cardiaco di un embrione o di un feto non in grado di sopravvivere. Finché c’è il battito non si può fare niente. La donna deve avere dei valori ematici alterati che indichino l’imminenza della gravità e del rischio di morte per ottenere un aborto terapeutico. Ho visto medici obiettori…

 

Elisabetta Canitano,  ginecologa presso la Asl Roma D, è stata da poco eletta nel Coordinamento nazionale di Potere al popolo. È presidente dell’associazione Vita di donna

L’articolo di Elisabetta Canitano prosegue su Left in edicola dal 23 novembre 2018


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Se il “buonismo” diventa una “smania”

Si sta parlando molto in queste ore (giustamente) dell’editoriale di ieri di Massimo Gramellini per il Corriere della Sera. Nel suo caffè mattutino (evidentemente indigesto a molti) il giornalista (con il solito stucchevole paternalismo dei benpensanti che riescono a proferire cretinate facendoti credere che siano lezioni di vita) ci tiene a farci sapere la sua sulla cooperante italiana rapita in Kenya, Silvia Romano.

Scrive Gramellini:

«Ha ragione chi pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta. Ed è vero che la sua scelta avventata rischia di costare ai contribuenti italiani un corposo riscatto».

Nell’attacco, in poche righe, Gramellini riesce a imborghesire e rendere edibile la cloaca che in questi giorni è stata rovesciata addosso alla giovane italiana: c’è la smania d’altruismo (che altro non è che il buonismo radical chic camuffato con un lessico più composto e imborghesito per di più descritto come facile per i ventenni, colpevoli di essere entusiasti e sognatori), c’è il prima gli italiani (nascosto maluccio nella pietistica immagine della mensa della Caritas usata come sciabola), c’è il se l’è andata a cercare (che è tutto nell’immagine della foresta nera, quando invece avrebbe potuto restare a casa sua) e lo spauracchio del riscatto per alimentare un po’ di risentimento generalizzato.

Ma il tema, attenzione, non è il pezzo di Gramellini (che preso dalle sue smanie di giornalismo ha poi chiarito di leggersi tutto il pezzo e non solo l’attacco, esattamente la parte in cui ci spiega che, passata la paura se tutto finirà per il meglio, Silvia Romano meriti una bella ramanzina e in cui scrive che sono schifosi gli attacchi che sta subendo dagli odiatori seriali) quanto il rischio, concreto, di interiorizzare la ferocia generalizzata senza smontarla come meriterebbe. Continuiamo a essere il Paese in cui Enzo Baldoni era solo un riccone che cercava vacanze adrenaliniche, quello in cui Greta e Vanessa erano due ragazze che si sono sollazzate con i loro sequestratori, quello in cui la solidarietà è un vezzo da buonisti. E nessuno che dica forte e chiaro che la bile contro Silvia Romano dimostra plasticamente come il problema non sia nemmeno aiutarli a casa loro ma rivendicare il diritto di farsi ognuno i fatti propri. Così il Paese si riempie di persone che in nome dell’emergenza decidono di occuparsi di spazi sempre più stretti: persone che sono tranquille perché la propria città è tranquilla e a culo tutto il resto, gente a cui basta che sia tranquillo il quartiere, persone che curano la salubrità al massimo del proprio pianerottolo nel condominio, persone che curano la sopravvivenza delle proprie cose. Diritto all’egoismo che chiamano sovranismo. E che ieri si sono sentite protette anche dall’editoriale di Gramellini (che mica per niente è stato rilanciato a gran voce dalla Santanché e dallo spin doctor di Salvini, solo per fare due esempi).

In tempo di ferocia l’ecologia (anche) delle parole è una responsabilità. Ancora di più.

Buon venerdì.

L’onda viola non si arresta

«Ma quale parità genitoriale? Pillon vuole incatenare donne e figli alla violenza familiare». Così recita uno dei volantini che lancia la manifestazione nazionale organizzata il 24 novembre a Roma da Non una di meno in relazione alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne (25 novembre). Mentre la sinistra istituzionale affronta una nuova fase critica – vedi la fine di Leu e le spaccature interne in Potere al popolo – in Italia il movimento internazionale che dal 2015 si batte contro la violenza di genere e il razzismo procede spedito e compatto. Dando prova, per l’ennesima volta, di una vitalità rara, che non ha eguali nel panorama progressista. Non solo nostrano, ma anche mondiale.
«Il ddl Pillon ci riporta indietro al Ventennio fascista», dice senza troppi giri di parole Marta, militante romana di Nudm. «Il disegno di legge in discussione al Senato rende il divorzio un lusso, accessibile solo a chi se lo potrà permettere, e istituisce la bigenitorialità perfetta. Un modo per trattare i bambini alla stregua di un pacco postale». La proposta del senatore leghista Pillon rappresenta in effetti un concentrato di cultura patriarcale, ed è in questo momento il bersaglio numero uno del movimento. Ma, per le sue attiviste e i suoi attivisti, non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno. «Penso ai manifesti pro-life diffusi in primavera che recitavano “L’aborto è la prima causa di femminicidio”, oppure alla mozione anti-aborto approvata a Verona ad inizio ottobre dalla Lega col beneplacito del Pd: l’operato del governo si inserisce perfettamente in questa serie di iniziative», osserva Marta. Due episodi gravi, entrambi fortemente sponsorizzati da associazioni cattoliche. «Noi lo sappiamo, papa Bergoglio non ha niente di progressista» aggiunge Marta. «E queste politiche trovano sponda nell’estremismo cattolico. Chi ha diffuso quei volantini a maggio va a braccetto col ddl Pillon», torna a dire l’attivista. E a proposito di chi propaga e sostiene l’idea falsa che l’aborto sia un omicidio, in barba alle scoperte scientifiche e alla legge dello Stato, come non ricordare papa Francesco quando parla di «morte dei bambini mai nati per l’aborto», oppure quando definisce «sicari» i medici non obiettori che praticano l’interruzione di gravidanza mettendo al primo posto la salute delle donne? Dal canto suo, mentre i numeri sul femminicidio restano drammaticamente stabili – 94 donne uccise nei primi nove mesi del 2018, a fronte delle 97 nello stesso periodo del 2017 (dati del Viminale) -, il vicepremier Salvini si prodiga a…

L’articolo di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 23 novembre 2018


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Ora e sempre indivisibili, a sinistra

I percorsi di mobilitazione, attraversati da tante e diverse soggettività come quelle che hanno composto il grande corteo nazionale del 10 novembre scorso, continuano partendo dalla necessità di preservare la pluralità come valore. Ci saranno quindi, nei prossimi giorni, iniziative che non vedranno l’utilizzo del logo #Indivisibili, ma manifestazioni di carattere soprattutto territoriale, con diversa composizione, con obiettivi più mirati ma animate da uno spirito molto comune. Roma e Milano sono ad oggi le piazze principali. Nel capoluogo lombardo, dove da tempo sta emergendo un tessuto ampio, privo di reale e complessiva rappresentanza politica ma animato da radicale opposizione allo strapotere fascioleghismo pentastellato si è individuato il 1 dicembre come data importante per dichiarare la propria opposizione alla realizzazione del Cpr (Centro permanente per i rimpatri), promossa da Minniti e in fase di realizzazione con Salvini. Il centro di detenzione dovrebbe sorgere nella struttura di via Corelli già tristemente nota negli anni passati essendo stato inaugurato dal centro sinistra alla fine degli anni Novanta come Cpta (Centro di permanenza temporanea e assistenza) ma in realtà finalizzato a espellere gli indesiderabili dopo una privazione della libertà personale non dovuta ad un reato commesso ma al proprio essere in Italia senza documentazione. Con l’avvento di Maroni, la detenzione amministrativa in Italia perse, anche nella denominazione, gli aspetti ipocriti. I centri vennero chiamati Cie (Centri per l’identificazione e l’espulsione). Aumentarono i tempi di detenzione, le rivolte e gli abusi. Il centro di Milano balzò agli onori della cronaca perché una ragazza nigeriana che vi era reclusa denunciò il responsabile della Croce Rossa, che gestiva il centro, per un tentativo di stupro. Si chiamava Joyce, e dopo tentativi di farla tacere, supportata soprattutto da attiviste di tutta Italia, venne creduta. Si giunse a processo e in primo grado il funzionario venne condannato, in appello la sentenza venne ribaltata ma che in quel luogo si consumassero violenze era considerato come dato acquisito. Nel 2012 il centro venne chiuso come Cie e riconvertito in centro di accoglienza. Ne nacque, con tutte le contraddizioni, una esperienza nuova per Milano. Si svilupparono anche attività sociali e si realizzò anche una squadra di calcio fra gli ospiti. Ora Salvini e Di Maio intendono far tornare ai “fasti antichi” la struttura, nel dl in corso di approvazione si prevede anche che in questi centri, in attesa del rimpatrio, si possa essere rinchiusi anche fino a 180 giorni. Sei mesi di vita perché si è colpevoli di esistere nel posto sbagliato. La rete di organizzazioni, forze sociali e politiche che promuove la manifestazione non parla solo di presente: «Vent’anni dopo, è doveroso chiedersi che frutti ha portato la scelta di una politica di chiusura, basata sulla finzione della gestione dei flussi migratori e il controllo poliziesco delle persone migranti: ha davvero messo sotto controllo le migrazioni? Aumentato il benessere degli e delle abitanti di questo paese? Reso più giusta e salda la costruzione europea? Fermato la minaccia del terrorismo o l’emergere del razzismo? Sono stati invece vent’anni di trattamenti inumani e degradanti. Questo lo attestano anche le due condanne della Corte europea per i diritti umani e la recentissima denuncia del garante per i detenuti, nonché le rivolte e i gesti di protesta spesso estremi, come ad esempio le bocche cucite col fil di ferro al Cie di Roma». Per gli organizzatori di questa mobilitazione a carattere regionale, è ora di parlare di fallimento complessivo delle politiche sull’immigrazione di cui i Cpr sono solo la punta dell’iceberg di un insieme di leggi liberticide, oggi contro gli immigrati ma anche contro gli italiani, di cui il dl Salvini (che per quella data sarà probabilmente già legge) si pone in perfetta continuità. Una mobilitazione partendo dall’apice di queste contraddizioni sarà un buon termometro per raccogliere le istanze democratiche lombarde (l’appuntamento per il corteo di Milano è il 1 dicembre alle 14.30 in piazza Piola).
Lo stesso giorno e più o meno dalla stessa ora, con partenza da piazza della Repubblica, la capitale sarà attraversata dal corteo indetto dalla sigla “Sei 1 di noi”. È stato lanciata una lettera / appello, firmata da circa 300 comuni cittadini e cittadine che, partendo dalla propria condizione sociale, lavorativa, personale, si va interrogando su questioni profondamente politiche non compiutamente rappresentate. Il diritto alla casa, a non essere dominati dalle mafie, all’accoglienza, a non veder messe perennemente a rischio conquiste realizzate permettendo la crescita delle diseguaglianze sociali, ha portato i proponenti a realizzare in vari quartieri della città incontri, iniziative, appuntamenti a carattere tematico.
Per evidenziare gli elementi di criticità ma anche per avanzare proprie proposte, elementi di visione di una società diversa fondata sull’universalità dell’accesso ai diritti. Queste persone si ritroveranno in corteo non solo contro il già citato dl Salvini ma contro l’insieme di produzione legislativa e culturale che hanno fatto crescere in maniera esponenziale, in Italia, diseguaglianze, sfruttamento, corruzione, criminalità organizzata, razzismo. Forse una stagione di mobilitazioni si è aperta e ci sono, ad avviso di chi scrive, le condizioni per cui almeno una parte delle inutili divisioni a sinistra che hanno spesso indebolito qualsiasi proposta, possano venire meno.

L’editoriale di Stefano Galieni è tratto da Left in edicola dal 23 novembre 2018


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Come trasformare le città abitate dalla disuguaglianza

Nel suo “La macchia urbana: la vittoria della disuguaglianza, la speranza dei commons” Michele Grimaldi fa un’operazione molto coraggiosa, tenta cioè di associare alla rigorosa ricerca scientifica sul fenomeno urbano ad un approccio “militante” come lo definisce Walter Tocci nella sua bellissima e per nulla affettata prefazione. Una militanza che “significa rimanere in piedi senza farsi travolgere dal vento delle ideologie dominanti e andare alla ricerca delle faglie che sprigionano le promesse mancate della democrazia”.
Infatti, se nella prima e nella seconda parte del libro uscito per Aracne editrice, l’autore fa una disamina puntuale sulla storia del fenomeno urbano sin dai suoi albori, analizzandone lo sviluppo e il suo continuo e conflittuale rapporto con le varie fasi storiche e produttive del capitalismo e, soprattutto, con il più recente rapporto con il neoliberismo, nella terza ed ultima parte Grimaldi si assume la responsabilità di proporre una alternativa all’attuale modello di sviluppo urbano. Un modello che, come viene sottolineato nelle fitte pagine ricche di riferimenti bibliografici, ha prodotto tale e tanta disuguaglianza da non essere più accettabile.
E il superamento di tali disuguaglianze, secondo Grimaldi, passa attraverso i commons parola inglese, ci spiega, erroneamente tradotta in “beni comuni”. In realtà, leggendo il saggio, ci viene spiegato che i commons sono qualcosa di più, un concetto ben più complesso che dovrebbe essere tradotto come un verbo “necessario a compiere un’azione di ricucitura imprescindibile, nel sottrarre gli spazi della città alle pratiche predatorie della disuguaglianza, e per restituire ad essa un tessuto comunitario che non è la nostalgia di un passato mai esistito, ma la speranza di un futuro tutto da costruire”.
In questo senso il testo di Grimaldi, come è stato detto in principio, è un testo militante, proprio perché, parafrasando Marx, non si limita a descrivere il mondo ma si pone l’obiettivo di cambiarlo, offrendo al lettore gli strumenti di riflessione necessari a sviluppare un pensiero critico alternativo.
Un testo pensato e dunque indicato non solo per i cultori dell’urbanistica ma, proprio come l’autore, anche a chi si sforza – attraverso l’attività politica – di influire sui processi urbanistici che influenzano la vita di tutti noi.