Nella Turchia di Erdogan fare il giornalista è diventato un mestiere molto pericoloso. Sono oltre 150 i reporter in prigione, secondo le ultime stime dell’osservatorio per la libertà di stampa P24. E almeno un centinaio quelli costretti a fuggire dal Paese per evitare il carcere. Nei mesi scorsi ci siamo occupati del caso della scrittrice Asli Erdogan, arrestata solo per aver collaborato con un giornale che il governo di Ankara giudica filo curdo. E più di recente del caso di Daniele Del Grande che è stato arrestato mentre stava facendo interviste per il suo nuovo libro. Il suo rilascio è stato un passo importante, ma la situazione per i professionisti dell’informazione in Turchia continua ad essere più che drammatica. Per mantenere alta l’attenzione contro il “Bavaglio turco”, alla vigilia della Giornata mondiale della libertà di stampa, oggi a Roma in piazza Montecitorio (ore 11.30), Fnsi, UsigRai, Amnesty International Italia, Odg Lazio, Pressing NoBavaglio e altre organizzazioni per i diritti umani hanno organizzato un sit in. Alla mobilitazione partecipa anche Articolo 21, che scrive questa nota:
La nuova “democrazia” voluta da Erdogan, dopo il colpo di Stato fallito in luglio e il referendum popolare vinto con il 51% e tante ombre di brogli, continua a preoccupare l’Europa e i delicati rapporti diplomatici nello scacchiere mediorientale. Migliaia le persone che sono finite nelle carceri turche dopo il tentato colpo di stato per far capitolare il nuovo sultano Erdogan. Tra loro anche tanti giornalisti, documentaristi, blogger, fotografi e videomaker. La loro colpa? Aver dato voce all’opposizione del presidente.
Archiviata felicemente la liberazione di Gabriele Del Grande – fermato a Rehali, mentre si trovava al ristorante per raccogliere una delle storie di vita che saranno raccontate nel prossimo libro “Un partigiano mi disse” sulla nascita dell’Isis e finanziato grazie al crowdfunding – tra i giornalisti che rimangono nelle carceri c’è anche Deniz Yucel, arrestato lo scorso 14 febbraio, reporter turco-tedesco del Die Welt. Fermato perché accusato di “propaganda terroristica”, “istigazione all’odio” e “diffusione di dati”. Una posizione delicata anche per il possesso del doppio passaporto. A poco sono serviti gli appelli di Angela Merkel, Martin Schulz e le campagne stampa organizzate da alcuni grandi quotidiani europei appartenenti al gruppo Leading European Newspaper Alliance (Lena).
I reportage di Yucel sono stati considerati eccessivamente critici nei confronti del governo turco. Yucel durante la convalida del suo arresto, dopo 14 giorni di fermo stabiliti dalle autorità turche, si è difeso raccontando di avere lavorato ad un pezzo su RedHack, collettivo di hacker turchi che diffuse alcune mail di Berat Albayrak, ministro dell’Energia e genero del presidente Recep Tayyip Erdogan. Proprio il sultano in persona disse che Yucel avrebbe meritato l’ergastolo perché “fiancheggiatore del terrorismo”. Adesso rischia 10 anni ed è recluso in un carcere senza poter avere contatti con altri detenuti: le uniche persone che può vedere sono i suoi legali. Da circa 75 giorni il reporter turco-tedesco non conosce il proprio destino. Altri sei reporter turchi sono in cella per lo stesso caso: secondo il quotidiano tedesco Die Welt alcune mail dell’affaire Wikileaks riguardavano proprio la Turchia e in particolare il controllo sui gruppi editoriali e l’influenza sull’opinione pubblica mediante una rete di account fake su Twitter.
Nonostante la prigionia Deniz Yucel è riuscito a sposare Dilek Mayaturk, collega che lo affianca da molti anni. Un matrimonio di cui non esiste nemmeno una foto: il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha emesso un divieto ad hoc affinché durante la cerimonia non venissero scattate foto né girati video.
Il clima di preoccuazione all’interno delle redazioni turche ovviamente non migliora. Non è un caso che in questi ultimi anni l’indice di libertà di stampa in Turchia sia sceso in maniera preoccupante: oggi è scivolata al 155° posto su 180, secondo la classifica di Reporters Sans Frontiers. E c’è il timore, purtroppo realistico, che le cose possano anche andar peggio di così.
Il 2 maggio a Roma la Federazione della stampa, Articolo 21, No Bavaglio, Amnesty, Arci, Ordine dei giornalisti del Lazio e tante altre associazioni, hanno deciso di promuovere, di fronte alla Camera dei deputati, un sit in per leggere tutti i nomi delle giornaliste e dei giornalisti detenuti nelle carceri turche: “Un modo per raccogliere gli appelli che arrivano dalla Turchia – affermano gli organizzatori – ma anche per chiedere alle autorità politiche ed istituzionali, internazionali e nazionali, di non fingere di non vedere e di non sapere cosa stia accadendo, e non da oggi, in quel paese”.
La situazione viene definita da Rsf “difficile” o “molto grave” in 72 paesi, fra cui Cina, Russia, India, quasi tutto il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’America centrale, oltre che in due terzi dell’Africa. Ventuno i paesi classificati come “neri”, in cui la situazione della libertà di stampa è “molto grave”: fra questi Burundi 160/o su 180), Egitto (161) e Bahrein (164). Ultima assoluta, come negli ultimi anni, la Corea del Nord, preceduta da Turkmenistan ed Eritrea. Male anche Messico (147) e Turchia (155). In testa alla classifica, sempre i paesi del Nord Europa, ma la Finlandia cede il primo posto che deteneva da 6 anni alla Norvegia, a causa di “pressioni politiche e conflitti d’interesse”.
Parlano di “dimostrazione di una capacità di penetrazione e flessibilità dell’offerta nazionale all’estero…” e, a leggerla così, sembra l’apertura di un depliant confezionato per decantare le virtù italiche nel campo dell’artigianato o dell’arte. E invece si parla di armi. Meglio: sono le parole che il governo usa per declamare i successi di un 2016 che ha visto impennare l’export degli armamenti verso (anche) regimi tutt’altro che democratici. Gli stessi regimi che provocano guerra, gente in fuga e rifugiati sulle nostre coste.
Produciamo profughi, li ingoiamo e poi ci sputiamo sopra.
La Relazione consegnata dal Governo sul commercio e sulle autorizzazioni all’esportazione di armi per il 2016 sottolinea con entusiasmo che le esportazioni italiane di sistemi militari hanno superato i 14,6 miliardi di euro, con un aumento dell’85,7% rispetto ai 7,9 miliardi del 2015. Certo incide molto la commessa di 28 Eurofighter della Leonardo al Kuwait del valore di 7,3 miliardi di euro ma vale la pena sottolineare come l’export globale italiano nel quinquennio 2010-2014 si è attestato mediamente intorno ai 3 miliardi di euro, ma già dal 2015 era giunto ad 8 miliardi di euro.
Ma c’è un punto che sanguina vergogna, su tutto: a chi vendiamo? Tra gli altri al Kuwait (per 7,7 miliardi), l’Arabia Saudita (427,5 milioni, più degli USA), poi Qatar (341 milioni) e Turchia (133 milioni). La legge 185 del 1990 dice che «l’esportazione ed il transito di materiali di armamento sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato» in contrasto con le direttive Onu, «verso i Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione» e verso i Paesi «responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani». Ma la legge, evidentemente, non vale quando si tratta di incassare.
Il caso dell’Arabia Saudita poi è emblematico: parliamo degli stessi sauditi che Renzi (e la ministra alla guerra Pinotti) hanno riempito di lunghe smancerie; parliamo della stessa Arabia Saudita che continua impunemente a bombardare lo Yemen producendo (lo dice Amnesty International) almeno 4600 morti tra i civili e qualcosa come 8000 feriti. Il fornitore di bombe sei sauditi è la Rwm Italia, che ha sede legale a Ghedi (Brescia) e azienda a Domusnovs, in Sardegna. E proprio vicino alla sede bresciana c’è la piccola Banca Valsabbina che è terza nella classifica delle banche con più transazioni finanziarie legate agli armamenti. Terza dietro solo a Unicredit e Deutsche Bank. La Banca Valsabbina, per dire.
Produciamo profughi, li ingoiamo e poi ci sputiamo sopra. Tutti impegnati a spulciare le navi delle ONG.
Il concerto del Primo Maggio si apre ricordando l’eccidio di Portella della Ginestra. Piazza San Giovanni in questo modo si collega idealmente al discorso del segretario nazionale Cgil Susanna Camusso che questa mattina, con Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo, ha ricordato quell’evento tragico di 70 anni fa.
Nel segno dei diritti dei lavoratori ricordando quanto sia costata la loro conquista, entra nel vivo attesissimo concerto romano. Evento unico, in Europa – promosso da Cgil -Cisl e Uil – che si snoda in otto ore di diretta con trenta artisti live dalle quindici del pomeriggio a dopo mezzanotte. Questa ventisettesima edizione è animata dal rapper Clementino, che affianca alla conduzione la bravissima Camila Raznivich.
Una piccola città viene ricostruita dietro al sorprendente palco, pullulante di artisti, tecnici, addetti al lavori, allestita,dice orgogliosamente Carlo Gavaudan della Ruvido Produzioni, dalle eccellenze del settore, così come i suoni sono realizzati dai migliori fonici. Gli artisti, che via via si esibiranno su quella piattaforma roteante, sono ben disposti a concedere due parole, anche solo per esprimere tutta la loro emozione in attesa di perdere lo sguardo tra migliaia di persone in festa, di proporre i loro tre, quattro brani, di farsi conoscere da quel pubblico generoso o, in alcuni casi, di confermare il loro attuale talento. Una selezione, quella di quest’anno, così varia, così contemporanea, come ha ribadito Massimo Bonelli, di iCompany che è limitato definire “indipendente”, ma che, di gran lunga, è superiore a quello che propongono i canali ufficiali. Non dobbiamo solo pensare all’attuale, spesso discusso, antagonismo tra indie e mainstream, ma, come dice a left Dario Brunori, alias Brunori sas ciò che conta per l’arte, la cosa importante, è che ci sia questo vasto ventaglio di scelte, diverse tra loro. Il concertone è anche un luogo di aggregazione, di festa ed è bene che questa festa sia colorata e varia. Continua l’artista calabrese: “Sono molto felice di essere qui perché a me piace molto partecipare a eventi di aggregazione. Sono felice egoisticamente perché è una situazione che mi arricchisce di energie e perché è un’epoca in cui bisogna molto stimolare che le persone si incontrino. Al di là del messaggio dell’evento, mi piace l’idea che si creino delle interazioni tra le persone dal vivo: che le persone si possano guardare, toccare, ascoltare”. Alla conferenza stampa del Concertone lo fiancheggiava Vasco Brondi, leader de Le luci della centrale elettrica, altra band rappresentativa di quel sottobosco che emerge da un canale che non è quello usuale delle radio e delle televisioni, ma è espressione del gusto di un pubblico attento e anche colto. Spiega Brondi: “Mi sembra sempre un grande antidoto quando c’è la possibilità di stare nello stesso posto, nello stesso posto adesso poi che è un momento di solitudini, moltitudini virtuali e un po’ fredde. Questa rimane la tecnologia più grande che c’è: usare la musica non per fare musica soltanto, ma per un contesto in cui c’è la tematica del lavoro e della condivisione. Mi sembra che ci sia l’atmosfera giusta per celebrare questa cosa che c’è e non c’è, che è il lavoro. Per chi ha trentanni adesso significa non sentirsi solo davanti alle difficoltà e alle frustrazioni che può generare il lavoro, che è cambiato e non ha più quella collocazione identitaria che aveva una volta”.
Apres la classe
A intermezzare gli interventi, il rapper napoletano Clementino che promette, di far “rappare” la più diligente Camila, e ricorda, a proposito delle radici che si festeggiano quest’anno, che lui viene dai centri sociali, delle Officine 99, del Leoncavallo, lì dove il rap è cresciuto; mentre la conduttrice milanese, scongiurando un suo possibile coinvolgimento rap, fa notare che quest’anno, tra gli artisti, ci sono molte barbe (ed è vere) e magnifiche scelte rtistiche. Ai rappresentanti dei sindacati, presenti anche loro alla conferenza, chiediamo in quale modo il sindacato oggi si avvicina ai giovani e Anna Grieco, della CISL, ammette: “Molti giovani i sindacati li guardano e tanti di loro sono coinvolti, mentre i giovani disoccupati sono delusi da tutto: dalla società, dal governo, dal momento politico che stiamo vivendo, vedono lontano la realizzazione della propria persona, ma già il fatto che vengano a un evento promosso da CGIL CISL UIL dimostra che credono ancora nei sindacati”. Questa la sua visione, anche se la festa della musica, e i festeggianti, spesso è ben lontana dal fatto che dietro vi siano le tre sigle, in passato anche divise, ci fa notare Tonino Crescenzi della UIL, ma che, comunque, la festa musicale l’hanno sempre condivisa, appunto! Quest’anno tuttavia, soprattutto dopo i recenti fatti Alitalia, la situazione è ancora più delicata e di questo loro sono ben consapevoli, ma Silvano Campioni, della CGIL, risponde: “C’è bisogno di riportare il lavoro al centro del dibattito di questo Paese. La responsabilità è di tutti: ci vogliono atti simbolici, ma poi politiche attive, soluzioni perché l’unico modo di parlare con i giovani è quello di farli lavorare. Poi certo possono esserci azioni più o meno intrusive”, ma questo, lo sappiamo, è quello che è accaduto e che ha gettato sconforto e sfiducia tra i lavoratori. Chiosa Ascenzi: “Dovremmo ricostruire un po’ di fiducia e lo possiamo fare offrendo possibilità di buon lavoro stabile, ben retribuito e in sicurezza. Dovremmo altresì lottare contro le tre disuguaglianze di potere, di sapere e di reddito”. A suggellare il tutto, soprattutto i buoni propositi espressi, torna il discorso della musica con una scaletta rivoluzionaria perché non concentra i big, diremmo così, nella parte finale dell’evento, ma nel corso della maratona canora e sonora.
Teresa De sio
Le performance, intanto, sono state anticipate dai tre finalisti del Contest, e da quello europeo, decretato al Contestaccio, presentati, oltre che dai conduttori ufficiali, dal giornalista Massimo Cotto, felice di dare ai quattro gruppi la possibilità di esibirsi davanti a così tante persone: “Ogni volta che si parla con i ragazzi che vogliono fare musica, si parla sempre del fatto che la discografia è in crisi, che non si vive più di musica, etc.. Oggi comunque è difficile trovare lavoro sempre e ovunque, tanto vale battersi in qualcosa in cui si crede veramente”.
Ad aprire il concerto sono stati i salentini Après la classe al loro terzo Concertone, reduci da un live a Porto Sant’Elpidio. Band colorata e d’impatto, capeggiata da Cesko, origini francesi, ma, ci tiene a dire: “…salentino e terrone, di origine certificata e garantita…” come tutti gli altri della band. In attesa dell’uscita del prossimo album, il 9 giugno, si preparano per salire sul palco con un intento preciso: “Il nostro compito è quello di portare il sorriso sulle labbra della gente”. Emozionatissimo, alla sua prima esperienza nella piazza romana, il romagnolo Braschi, è qui per presentare i singoli tratti dal suo primo album Trasparente: “Per me è una grande occasione, speriamo sia la prima di una lunga serie”. Dopo di lui, Il Geometra Mangoni, vincitori dello scorso Contest, il bravissimo violinista Ara Malikian.
Il pomeriggio prosegue con Rocco Hunt, che proprio al Primo Maggio presenta il suo nuovo singolo, “Kevvuo”, insieme alla sua storica band, con cui faranno freestyle e improvvisazione. Felice del “fratello” Clementino alla conduzione della kermesse, ci confessa che i suoi brani, a cominciare da “Nu journo buono”, con cui nel 2014 vinse Sanremo, sono inni alla sua generazione, alla sua periferia che vuole emergere nonostante tutto. Un ritorno alle origini, come il tema di quest’anno, con il cantare in dialetto napoletano. Così come farà Teresa De Sio, che si esibisce dopo l’Orchestra di saltarello abruzzese e Mimmo Cavallaro, profeta della tarantella calabrese. L’artista partenopea, ormai romanizzata, perché vive qui da trent’anni, rende omaggio al grande Pino Daniele con tre brani tratti dall’album Teresa canta Pino, la raccolta di canzoni, con l’inedito “’O Jammone” scelte tra quelle in dialetto del Cantautore. Non vuole parlare troppo di politica, invece, dimostrandosi nostalgica per un passato in cui c’era una maggiore compattezza sociale, lavorativa, ideologica, mentre preferisce affidare a un brano come “Je So’ Pazzo”, che porterà sul palco, il messaggio di questo momento storico: “…si confà molto bene a questa epoca scombinata, caotica, confusa in cui anziché sottostare ai dettami delle major nel campo musicale, come anche ai politici, forse è meglio dire ‘io so’ pazzo non me scassate…”. Molto sentita, tra gli artisti, l’inadeguatezza, in questo momento, di parlare di politica, ma anche del lavoro, a favore, invece, di un pensiero che sia non di consolazione, ma di incoraggiamento, da porgere alle nuove generazioni. Un segnale che sia positivo che, al di là della lucidità di Brunori sas nel raccontarci una visione disillusa dell’esistenza nella sua “La verità”, permetta a chiunque, giovane o meno giovane, di sperare ancora.
Maldestro
Sicuramente in piena festa, anche personale, i genovesi Ex-Otago, band del momento, con il loro bellissimo brano “Gli occhi della lun”a, che eseguono (senza Jack La Furia, in questa occasione) insieme all’altrettanto azzeccata Quando sono con te e il pezzo, lo definiscono loro così, generazionale I giovani d’oggi. Entusiasti insomma di portare su questo palco pazzesco i brani di Marassi, il loro ultimo album riedito che vanta una collaborazione artistica per ogni singolo brano. Prima di loro: il pianista Giovanni Guidi, Marina Rei (senza Paolo Benvegnù, purtroppo, recentemente colto da un malore), Artù, artista romano, Sfera Ebbasta, che offrirà un’altra variante del rap e i Ladri di Carrozzelle. Saranno poi Motta, vincitore quest’anno della Targa Tenco, Le luci della centrale elettrica e Bombino, chitarrista del deserto, a chiudere la prima parte della maratona musicale, intorno alle 19.
Alle 20, a riprendere la festa i vincitori del Contest del 2015, i sei componenti de La Rua, carichissimi e alle prese con la preparazione di una tournée fitta di date, per le molte richieste. Per oggi, si dicono davvero emozionati e fieri, perché proporranno tre brani che fanno parte del loro ultimo album: “Sul palco porteremo la nostra musica, appoggiando i diritti dei lavoratori. Ulteriori parole non servono da noi che siamo una band agli inizi e che ancora deve dimostrare molto e lo vogliamo fare attraverso la musica. Nelle nostre canzoni ci sono dei pezzi molto forti e quelli cerchiamo di tutelarli all’interno della culla musicale nella quale sono nati”.
Dopo di loro, Levante, un’artista amata e apprezzata che con il suo recente Nel caos di stanze stupefacenti ci costringe tutti alla riflessione sui social. A seguire, intorno alle 20.30, gli Editors,“la chicca del concerto”. Dopo la band britannica, i bolognesi Lo Stato sociale, autorizzati quest’anno a suonare la loro, mitica “Mi sono rotto il cazzo”, insieme a tutti gli altri “miti da sfatare” dell’ultimo album: un concentrato di luoghi comuni spesso dissacrati nei loro testi. Spiegano: “Suonando i nostri pezzi, vorremmo far pensare, far tornare a casa la gente con qualcosa a cui pensare. Essere solo indignati è un grande alibi, è poco produttivo, mentre vorremmo stimolare alla riflessione. Quindi noi proviamo a stare in equilibrio tra la festa e il discorso politico, sociale”. Li seguiremo con curiosità, un po’ delusi perché non canteranno la geniale Buona sfortuna, ma curiosi di ascoltare quel brano irriverente e così liberatorio. Il saggio Brunori sarà poi tra Francesco Gabbani ed Ermal Meta per quel discorso dell’aver mischiato livelli di celebrità e di generi di cui parlavamo, anche se è corretto dire che Gabbani viene da anni di cantautorato, al di là del successo della canzone della scimmia. A Brunori, tuttavia, abbiamo chiesto quanto è fiero delle sue di radici: “Il mio rapporto con le radici è di grande attaccamento, mi sento radicato, ma spero di sentirmici sempre, in quanto essere umano; in quello che faccio c’è sempre stata la mia ‘calabresità’. Io mostro sempre la mia visione attraverso la terra in cui sono nato e dove ancora abito. Un legame molto forte, che mi permette anche di vedere le criticità, forse perché ne sono innamorato e voglio raccontarlo il mio luogo fuori, ma anche raccontare nel luogo in cui vivo le esperienze che faccio fuori”. Poi gli chiediamo del futuro prossimo e cioè di come affronterà quel palco: “Cerco sempre di non cadere nella retorica perché è molto facile ma non voglio cadere nel cinismo, dicendo che è solo un evento mediatico. Dobbiamo salvare l’aspetto intrinseco e il fatto che è un incontro, una festa, un momento di aggregazione”. Ci sarà poi un altro degnissimo rappresentante della scuola napoletana, Edoardo Bennato. Dopo di lui, il giovane, ma già assennato, Maldestro, che, a proposito di rimedi per affrontare il futuro ne ha veramente uno speciale ossia la tenerezza, mentre porta in giro “I muri di Berlino”, suo ultimo album: “Ho raccontato i muri che ci portiamo dentro: dalla noia, ai treni in partenza. Rispetto al primo disco è meno arrabbiato, più tenero; in questo momento ritengo che la tenerezza sia il modo migliore per affrontare meglio le cose. Sono meno polemico, più tenero. Come diceva Che Guevara, bisogna essere rivoluzionari, senza perdere la tenerezza”. Non vede l’ora di salire su quel palcoscenico pazzesco, lui che per anni ha fatto tanto teatro e che, invece, a differenza di quasi tutti i suoi colleghi, tra la folla del copioso pubblico della piazza romana non c’è mai stato. Fabrizio Moro, con il quale avevamo recentemente parlato, ci racconta invece delle tante volte che, insieme ai suoi amici, è venuto sotto questo palco: una tradizione, alla stregua del natale, ammette, da ripetere tutti gli anni. Quanto alle radici, le sue, quelle della periferia, non le dimentica proprio mai: “Ho sempre cercato di arrampicarmi con le unghie sugli specchi, il lavoro è sempre stato una delle mie turbe”. A come affrontare quel palcoscenico ancora non ci ha pensato, visto che è sempre stato in giro per concerti nell’ultimo mese per portare il suo “Pace”. Dopo di lui: Samuel, con il suo progetto da solista, i Planet Funk e, per ultimi, i Public Service Broadcasting.
Mercoledì 22 marzo 2017 il “Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione” ascolta in audizione il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania, dottor Carmelo Zuccaro. Proprio lui. Il resoconto stenografico è qui. Rileggere alcuni passaggi può essere utile alla discussione:
– La Presidente Laura Ravetto (sì, proprio lei): “Si tratta di accuse che sarebbero state già prospettate in due rapporti interni di Frontex (l’ex agenzia dell’Unione europea delle frontiere esterne, recentemente trasformata in una nuova agenzia europea) con riferimento a fenomeni tra alcune ONG e trafficanti sulle rotte migratorie dalla Libia all’Italia.” (Falso. Ma ha usato il condizionale. Da noi si usa così)
– Sempre la Ravetto: “Frontex avrebbe segnalato un primo caso registrato in cui le reti criminali avrebbero trasportato i migranti direttamente sull’imbarcazione di una ONG. Non viene specificato quale”. (Insomma, capito? C’è un caso. Non si sa dove. Ma era qui da qualche parte).
– Ravetto: “Più recentemente, in un filmato trasmesso su internet e ripreso in una trasmissione televisiva, Striscia la Notizia, il blogger Luca Donadel avrebbe tracciato la rotta delle navi della Guardia costiera italiana e di organizzazioni non governative in transito dalla Sicilia alla Libia per soccorrere i migranti, notando Pag. 4 a suo dire alcune anomalie”. (Questo è il secondo caso. L’affare si ingrossa, in effetti).
– Ravetto, riferendosi a Zuccaro: “Risulta al Comitato, come riferito anche da notizie di stampa (la Repubblica 17 febbraio 2017), che lei stesso avrebbe dichiarato che da parte della procura da lei diretta non c’è nessun fascicolo, ma solo l’acquisizione di informazioni da parte di un gruppo specializzato della procura a livello di studio”. (Non c’è nessun fascicolo. Non c’è nessuna inchiesta. Eh)
– Sempre Ravetto, rivolgendosi a Zuccaro: “non vi sarebbero prove di un collegamento diretto tra i clandestini e i terroristi, ma abbiamo ragione di ritenere Pag. 6che parte dei proventi del traffico delle migrazioni clandestine finisca in mano a organizzazioni terroristiche o paraterroristiche”. (Non ci sono nemmeno le prove. Oltre al fascicolo.)
– Eccolo, Zuccaro: “Abbiamo registrato la presenza, nei momenti di maggiore picco, nelle acque internazionali di 13 assetti navali, come lei, presidente, ricordava. Ci siamo voluti interrogare, cercando di essere attenti all’evoluzione del fenomeno, sulla strategia migliore per poterlo contrastare, cercando di capire perché mai vi fosse stato un proliferare così intenso di queste unità navali. Soprattutto, abbiamo cercato di capire come si potessero affrontare costi così elevati senza disporre di un ritorno in termini di profitto economico”. (Non credo servano commenti)
– Zuccaro: “Questi sono dati piuttosto approssimativi, ma che hanno un’approssimazione abbastanza affidabile.” (Anche qui come sopra)
– Zuccaro: “Questo mi induce a ritenere che la presenza di queste organizzazioni, a prescindere dagli intenti per cui operano, non ha attenuato purtroppo il numero delle tragedie in mare. Sono convinto che i dati ufficiali di questi morti rispecchino soltanto in maniera molto approssimativa il dato effettivo delle tragedie che si verificano in alto mare”. (Del resto, chi li conta i morti?)
– Zuccaro: “Per quanto riguarda il MOAS, sappiamo che quelli che hanno finanziato questa ONG sono degli imprenditori italo-americani, Christopher e Regina Catrambone, i fondatori del MOAS. Sappiamo anche quali sono i loro principali sponsor, la stessa Schiebel, l’azienda austriaca che produce i droni di cui quest’organizzazione si avvale, Caritas Germany, Unique Maritime Group e così via. Sono i principali sponsor del MOAS”. (Ehm, quindi?)
– Fuori microfono si sente una voce: “… è stato provato?”, risponde Zuccaro: “Ecco, questo è il punto. Questo non è stato provato, ma non è stato neanche escluso”. (Questo è il punto)
– Zuccaro: “Qual è la volontà che anima le ONG? Noi abbiamo ovviamente fatto un ventaglio di ipotesi. Si può partire da quella peggiore, che è quella di un consapevole accordo che sarebbe potuto intercorrere tra le ONG e queste organizzazioni. Questa, che è l’ipotesi sicuramente peggiore, non dà al momento alcun riscontro, ma è ovvio che ci lavoriamo”. (Non dà al momento alcun riscontro)
– Zuccaro: “questi soggetti, a prescindere dal fatto che ancora non ci risulta” (a prescindere, diciamo)
Scriveva ieri Luigi Manconi (qui): “Sia chiaro: certamente vanno indagate le possibili ombre che l’attività di soccorso può suscitare, va incentivata la massima trasparenza e vanno stabilite regole condivise: non contro le organizzazioni, ma a loro stessa tutela. Ma qui si è fatto l’esatto contrario. Qui si è allestita la più velenosa campagna di denigrazione e manipolazione contro le politiche per l’immigrazione e l’asilo: una campagna che, per ragioni molto serie e preoccupanti, è penetrata fino in fondo alle culture tradizionalmente considerate della solidarietà (riconducibili alla sinistra, e non solo).”
Negli anni Settanta, nel tragico periodo dell’ultima dittatura, un’intera generazione di adolescenti dell’ambiente liceale di Buenos Aires, politicamente impegnati, si ritrova perseguitata. Ragazze e ragazzi dai 15 ai 20 anni, sono costretti ad abbandonare il Paese, divenuto teatro di sparizioni inquietanti. Attraverso le testimonianze, raccolte decenni più tardi da Diana Guelar, da Vera Vigevani e da Beatriz Ruiz, vengono salvate le vicende dolorose che precedettero le partenze, le storie di militanza, di presa di coscienza, di progetti e di utopie; le lotte, le certezze, i dubbi; le vicende di paura, di fughe e di clandestinità; fino alla drammatica decisione dell’esilio. L’archivio di storie è stato riunito da Vigevani, Guelar e Ruiz nel libro dal titolo “I ragazzi dell’esilio” edito da 24Marzo onlus e Qudu Libri. Il testo, curato e tradotto da Susanna Nanni, include le corrispondenze che gli adolescenti esiliati hanno mantenuto con familiari e amici, attraverso vari testi, su un passato che non può passare. In occasione del 40ennale della prima manifestazione delle Madri di Plaza de Mayo di fronte alla Casa Rosada in Buenos Aires, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la postfazione firmata da Vera Vigevani Jarach. Giornalista a Buenos Aires e redattrice fino al 1993 dell’agenzia italiana ANSA, Vera Jarach è stata cofondatrice di “Madres de Plaza de Mayo – Linea fundadora”. Sua figlia Franca è scomparsa a 18 anni, il 26 giugno 1976, ed è tuttora desaparecida.
Vera Vigevani Jarach
I ragazzi dell’esilio – Postfazione
di Vera Vigevani Jarach
Si potrebbe supporre che sia facile analizzare le ragioni che mi hanno spinto ad interessarmi alla vicenda dell’esilio degli adolescenti argentini all’epoca dell’ultima dittatura. Si potrebbe supporre, altresì, che unicamente una chiave di lettura potrebbe spiegare la mia motivazione ad accompagnare questi adolescenti dell’esilio nella loro personale riscrittura delle storie, frantumando così un lungo e doloroso silenzio nonché scoprendo le tracce lasciate, le torture e le ferite ancora non rimarginate. Si tratterebbe, insomma, di rendersi conto semplicemente di ciò che ha significato il ritrovarsi con Diana Guelar, la migliore amica di mia figlia Franca, appena dopo il suo ritorno in patria dall’esilio,
e di immaginare che tutto ciò che è accaduto successivamente non potesse essere che la logica conseguenza di questo incontro. Ciò che è vero, in ogni caso, fuori dall’immaginazione, è che tutte le vicende che si sono susseguite trovano il loro punto di partenza in quell’istante. Tuttavia, per comprendere a pieno le motivazioni del mio impegno, questa appena descritta apparirebbe comunque come una verità parziale, nella quale mancherebbero troppi elementi che invece considero essenziali: il mio incontro con Betty Ruiz, il cui carattere e la cui sensibilità mi hanno immediatamente fatto tornare alla mente quelli di Franca; la partecipazione ad una riunione di esiliati a Buenos Aires e l’organizzazione, con Diana, Betty e altri esiliati, di una commemorazione che avrebbe loro restituito la posizione che meritavano nel tragico contesto di quegli anni funesti. Così facendo, la mia unica motivazione si chiamerebbe Franca. Ma, come già detto, le cose non sono così semplici: non sono neppure facili da dipanare o almeno non sarebbero sufficienti a spiegare un processo lungo che va al di là del gruppo particolare di persone che vi si è costituito attorno. È proprio questo lungo processo che ha fatto sì che si creasse questo legame affettivo così solido e che si concretizzasse questo impegno comune per la Memoria.
Lascio dunque al lettore l’incarico di dare un ordine di priorità ai vari elementi di cui andrò a parlare. Certamente tra essi c’è Franca. Parecchio tempo prima del suo sequestro avvenuto il 25 giugno del 1976, appena qualche mese dopo il Colpo di Stato del 24 di marzo, mio marito Giorgio ed io, in vista di un pericolo sempre maggiore, avevamo fatto di tutto per convincerla a partire, a iscriversi ad un’università italiana per esempio. Se la situazione lo avesse reso necessario, saremmo stati pronti a raggiungerla e a tornare nel nostro paese di origine. Il secco rifiuto che Franca oppose non prevedeva possibilità di appello ed era quindi impossibile da discutere. Tutti gli esempi di cari amici già esiliati si sarebbero rivelati inutili per farle cambiare punto di vista. Dopo il sequestro di nostra figlia, i suoi amici più vicini finirono per lasciare in fretta e furia l’Argentina, evitando di fatto di imbattersi in un destino purtroppo simile. I mesi e gli anni che seguirono furono pieni di angoscia, di terrore e di disperati tentativi di ritrovarla e quindi di salvarla. Da un lato eravamo completamente annientati, dall’altro una debole speranza quasi “folle” guidava i nostri passi. Durante tutti questi anni fummo costretti a subire il silenzio della società e le nostre richieste di aiuto e i nostri appelli rimasero senza risposta. Ma ricevemmo anche l’appoggio, che ci fece riacquistare la forza, di coloro che soffrivano e vivevano per un dramma identico al nostro. Questo,
senza ombra di dubbio, è ciò che ci permise di affrontare almeno degnamente gli anni della dittatura e che ci permette oggi di avere una sorta di “famiglia allargata” di valore inestimabile. Incontrare di nuovo i compagni di Franca mi permise di riannodare quei legami affettivi e di aiutarli, quei ragazzi, a superare il trauma di essere stati vittima, seppur in modo diverso da mia figlia, della dittatura. Con loro abbiamo ripreso la storia là dove si era fermata, con uno scopo comune e cioè quello della vittoria della Verità e della Giustizia tramite la costruzione di una memoria collettiva condivisa.
Col passare del tempo abbiamo anche aggiunto il desiderio di recuperare gli ideali del nostro impegno passato. Certi sarebbero stati troncati dal genocidio, ma certamente non completamente cancellati per sempre così come la dittatura avrebbe voluto. Questa volontà di creare un mondo più giusto e quindi migliore sta portando a poco a poco, attraverso vie democratiche, i suoi frutti. Questa fiducia nell’avvenire, ne sono consapevole, proviene anche dal mio carattere prevalentemente ottimista; si tratta di un ottimismo moderato, ma sicuramente che si riflette e si costruisce attorno a diverse evidenze. Le altre motivazioni che rafforzano il mio impegno nella vicenda di questi adolescenti, hanno un rapporto diretto con il mio, di esilio. La mia famiglia emigrò in Argentina a causa delle leggi razziali che il regime fascista di Mussolini promulgò nell’ottobre del 1938. Fummo espulsi dalle scuole perché ebrei, soffrendo ogni giorno di più per la discriminazione nei nostri confronti e la nostra marginalizzazione. Per fortuna mia madre aveva presagito ciò che sarebbe avvenuto in Europa, quindi partimmo. A marzo dell’anno successivo arrivammo a Buenos Aires. E là, oltre al trauma e alla nostalgia provocati dall’esilio in una bambina di undici anni, compresi ciò che significava il dolore della perdita degli adulti, di mia sorella adolescente. Dolore causato dalla frattura nel rapporto, dalla paura per coloro che restavano, un gran numero dei quali fu eliminato durante la Shoah. In Italia ciò accadde soprattutto a partire dal 1943, quando i nazisti occuparono una gran parte del territorio nazionale e deportarono un numero inaudito di persone. Durante i lavori di scrittura di questo libro, si sono presentate numerose analogie tra la mia situazione passata e quella di questi adolescenti. Il valore inestimabile delle lettere, il sostegno che apportavano, scritte in una carta quasi trasparente e così leggera perché il loro costo fosse meno elevato. L’angoscia permanente che provavamo per coloro che erano restati, le famiglie, gli amici. La nostalgia. I destini tragici, le storie che purtroppo si ripetono: mio nonno materno deportato e assassinato a Auschwitz nelle camere a gas… e che non ha una tomba; Franca portata all’ESMA, torturata, assassinata e gettata da uno dei “voli della morte”… che neppure lei ha una tomba.
Le similitudini e i parallelismi vanno al di là dei contesti storici, delle distanze e del tempo. Essi hanno a che fare con le esperienze umane, con ciò che si è provato e che si è vissuto. Sono il frutto del terrorismo di Stato, del fanatismo, delle dittature che portarono a questo stato di totale immobilità creata dalla paura. E certe volte sono anche il prodotto, purtroppo occorre sottolinearlo, di collaborazioni e complicità dirette. Ecco quali sono dunque le diverse motivazioni delle storie che compongono questo volume, che hanno contraddistinto, per ciò che mi riguarda, lo sviluppo e la costruzione comune e che abbiamo perseguito con le altre autrici. Potrei descrivere queste motivazioni con la forza di altri dettagli e altri aneddoti; mi sembra però che il lettore abbia già compreso l’essenziale, percepito il valore aggiunto che la mia storia personale ha sommato alla mia tenacia. Ciò che importa è che comunque, oggi dopo tanti anni di perseveranza, siamo prossimi al “Giustizia è fatta!”; una Giustizia necessaria alla società, una Giustizia che assolutamente nessuno, tra le diverse vittime della dittatura, ha tentato di farsi da solo. È stato necessario affrontare e sormontare ostacoli impervi per abrogare leggi e decisioni già prese che assicuravano impunità totale ai colpevoli. Rendere giustizia ha un’importanza fondamentale per sostenere con forza l’ideale del “Nunca Mas”…Oggi osserviamo, seguiamo e viviamo con fiducia i processi che si stanno celebrando un po’ dappertutto nel nostro paese. Vengono portati avanti e sviluppati grazie alla forza della legalità, al coraggio dei testimoni e infine all’azione paziente e giusta di tutto l’apparato giudiziario.
Ecco infine un ricordo personale che ha a che fare con il concetto di Giustizia, ben lontano dello spirito di vendetta che, come sappiamo, non servirebbe a nulla. Lo racconto al presente perché è proprio così che continuo a viverlo, anche ora. Mio padre, avvocato, mi fa visitare, a nove anni, l’interno del palazzo del Tribunale di Milano (del quale la facciata fascista mi inquieta ancora oggi…) per mostrarmi in che cosa consiste “il lavoro di papà” che mi sembra così fantastico: il giudice, l’accusa, la difesa, la sentenza, ecc.. Un anno più tardi vengo espulsa dalla scuola perché sono ebrea… e si tratta di una “legge”. Allora la bambina riflette e si domanda se questa cosa così differente da come gliela aveva raccontata suo padre sia veramente la Giustizia. Questa domanda e questa inquietudine mi hanno sempre accompagnato e, ora che vedo che oggi, in Argentina, si rende finalmente giustizia per questi crimini passati che ci hanno così ferito, considero tutto ciò una sorta di riparazione morale.
È evidente che le ferite resteranno per sempre aperte; ma resterà anche “qualcosa” non solamente a noi, ma a tutto il mondo. Un traguardo etico raggiunto che d’ora in avanti sarà necessario rispettare e trasmettere alle nuove generazioni, come uno dei valori morali essenziali dell’umanità.
Buenos Aires, novembre 2011 Traduzione dal francese di Simone Cuva
Una foto combo mostra il premier Matteo Renzi, Beppe Grillo e Silvio Berlusconi.
ANSA
“Il termine populismo dice tutto e dice niente. E’ un gravissimo errore trattare il populismo come se fosse una forma politica tradizionale, un ismo come erano gli ismi novecenteschi, il comunismo, il socialismo, il fascismo e così via, cioè una forma politica strutturata in movimento o partito con una identità di cultura politica stabile. Non è questo. E’ uno stile, un atteggiamento, un mood, rispetto al quale pensare di confrontarsi da partito a partito o da soggetto politico a soggetto politico, non fa altro che portare acqua al populismo. E’ uno stato d’animo, un mood”. A parlare è Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale e autore per Feltrinelli del saggio Populismo2.0. Si tratta di un’analisi che ricostruisce le radici dei populismi dal People’s party americano di fine Ottocento a Trump passando per la Brexit e arrivando alle ultime elezioni francesi, con Marine Le Pen e Emmanuel Macron che si sfideranno al ballottaggio del 7 maggio e che Revelli definisce due populisti, anche se in forme diverse. L’assenza della politica e della sinistra in modo particolare oggi è all’origine di tutti i tipi di populismi. La sinistra che ha voltato le spalle ai diritti delle classi più disagiate. Venendo all’Italia e ai suoi tre populismi, quello televisivo di Berlusconi, quello della rete di Grillo e quello della rottamazione di Renzi, hanno contribuito a distruggere i partiti o sono i partiti che si sono suicidati e hanno permesso la formazione di questi populismi?
L’Italia in questa luce non appare una ritardaria, anzi è una precorritrice. Noi abbiamo avuto non un solo populismo – nel senso di populismo 2.0 come abbiamo detto – ma ben tre. L’inventore precoce è Berlusconi. Il suo è un perfetto stile neopopulista, con il suo linguaggio politico in cui metteva la sua intimità, con una comunicazione da bar sport. Il suo era un populismo da tempi ancora del benessere, da edonismo reganiano, con il suo baricentro nell’uso della televisione, allora mezzo potentissimo. Poi è venuto il grillismo prima ancora dei 5 stelle, un cyberpopulismo per l’uso che ha fatto della rete. Ma Grillo, come ha fatto notare Carlo Freccero sa ricombinare tutti i media, anche la televisione. E poi usa la piazza, il corpo, pensiamo solo alla nuotata nello stretto di Messina. L’ultimo è il populismo più subdolo, e assai antipatico, di Renzi. Subdolo perché si esprime in alto, è un populismo di governo che mima lo stile di chi rivendica le ragioni del basso. Ed è quello della rottamazione, in questo simile a Salvini con le immagini delle ruspe, il nuovo che seppellisce il vecchio.
La settimana scorsa abbiamo cercato di capire perché la sinistra perde. Questa settimana ci concentriamo sui populismi. Si potrebbe ridurre tutto ad una questione di marketing, ed in effetti non avremmo neanche torto. La sinistra non sa vendere le proprie idee, questo è certo. Ma noi vorremmo non solo che la sinistra sapesse vendere le proprie idee, ma anche che poi mantenga la parola data a chi decide di accettare quelle idee e, soprattutto, che la sinistra proponga delle Idee. Perché il vero e fondamentale problema per cui la sinistra perde è che non ha idee. È inutile girarci intorno. Si fanno editoriali, paginate di giornali e di siti per cercare di spiegare e di giustificare questo o quel fenomeno. Tutto giusto. Ma parziale. Il problema vero e di fondo è che le idee della sinistra, quelle residue che ci sono rimaste, sono ormai un ferro vecchio e polveroso del tutto inutilizzabile. Non le vuole più nessuno.
Dove trovare nuove idee?
Questo giornale è nato 11 anni fa con una promessa ambiziosa che era contenuta nell’ultima lettera del suo titolo. Uguaglianza, Libertà e la T di trasformazione. So cosa potrebbe pensare il lettore. Fago è un fagiolino e ci ripropone la solita solfa di Fagioli.
Beh sì, il lettore ha indovinato. Trovate in questo numero una sua intervista inedita. Bellissima.
Sono l’editore di questo giornale da 2 anni e devo fare un autocritica: siamo stati non abbastanza coraggiosi. Dietro l’idea di voler fare un giornale per la sinistra siamo diventati un giornale tante troppe volte fermo a idee vecchie. Anche se Massimo Fagioli ha sempre continuato a scrivere per noi, coraggiosamente e pazientemente, ogni settimana.
La rivolta si può e si deve cercare di fare. Ma, come ci spiega Fagioli nell’intervista di Giulia Chianese, è una rivolta che richiede una realizzazione interna. Altrimenti diventa solo distruzione e psicosi. La rivolta non è più, in realtà, rifiuto ma è negazione.
L’abbiamo cercato di dire tante volte ma troppo timidamente. Lo voglio dire da editore. La rivendicazione del fatto di aver pubblicato per 11 anni ogni settimana gli articoli di Massimo Fagioli non ci giustifica affatto.
Le idee per rifondare la sinistra in maniera del tutto nuova, se si vuole, sono qui, in Italia, da svariate decine d’anni. Sono contenute nei libri dell’Asino d’oro e nel lavoro di 41 anni di Analisi Collettiva che ha curato e formato migliaia di persone. Li ha fatti diventare dei ribelli che non possono impazzire e non sanno deludere il prossimo. Sono una straordinaria risorsa che si è palesata in alcune recenti occasioni di incontro e si paleserà ancora più limpidamente a Torino alla fiera del libro il 21 maggio in occasione della presentazione della nuova edizione di Istinto di morte e conoscenza alla sala dei 500. Già. La sala più grande della fiera del libro di Torino. E sarà anche troppo piccola, ne sono certo.
Se la sinistra vuole smettere di perdere è inutile che cerchi soluzioni razionali o economiche o sociali o di marketing. Senz’altro sono tutte cose da affrontare. Ma prima è necessario che si capisca che se non si comprende qual è la realtà vera dell’essere umano non ci potrà essere nessuna rivolta e nessuna sinistra.
Allora cara Sinistra, lo vogliamo dare un mazzo di rose a Massimo Fagioli e iniziare a leggere qualche suo libro?
In piazza San Giovanni in Laterano a Roma già da qualche giorno procede a tutto ritmo l’allestimento del mega palco per l’evento musicale della festa del lavoro: il concerto, detto Concertone, giunto quest’anno alla sua ventisettesima edizione. Scenario della musica, ma anche momento di riflessione per i contenuti sui temi del lavoro e del sociale, ormai lo ritroviamo in altre vesti anche in molte città della Penisola con l’esibizione di altrettanti artisti. Sul palco, come sempre, campeggeranno slogan e colori e non mancheranno le bandiere tra il pubblico foltissimo, in barba alle cifre slim offerte dalla questura. Insomma, i motori si scaldano con la presenza di CGIL, CISL, UIL, i promotori della performance, anche se forse con poco fasto, attesi i recenti fatti Alitalia, ma comunque, in generale, per la crisi nazionale e internazionale che imperversa. Lo show comunque va avanti e quest’anno il tema dell’evento saranno le radici del lavoro: come, quando e perché ce lo spiegheranno i protagonisti della manifestazione nel corso della maratona musicale, e televisiva. Il panorama musicale italiano sarà degnamente rappresentato da tantissimi artisti: alcuni della tradizione italiana, altri di quella estera, come il magistrale Ara Malikian, dalle nuove leve del cantautorato italiano e dai molti, e sorprendenti, esordi. Tra Bennato e Le Luci della centrale elettrica, mettendoci in mezzo gli originali Editors. Personaggi e momenti interessanti che Left racconterà nel corso di quella giornata. Intanto, abbiamo voluto parlare con coloro che faranno da padroni di casa: la conduttrice televisiva Camila Raznovich e l’imprevedibile rapper Clementino. Una coppia ben assortita, ne sono convinti gli organizzatori.
Camila Raznovich
Camila è in viaggio verso Roma, mi racconta che è appena terminata la stagione televisiva de Alle falde del Kilimangiaro, che è andata molto bene. Lei ha avuto poco tempo, fino a ora, per prepararsi all’evento, ma spesso si è sentita al telefono con Clementino. Conduttrice del concerto di San Giovanni già nel 2015, è stata scelta per la seconda volta a distanza di così poco tempo, ed è molto fiera di bissare: “È stata già una forte emozione la prima volta, lo è anche questa volta, anzi forse è peggio perché la prima hai l’incoscienza di non sapere che cosa vai a fare, la seconda vuoi godertela di più; forse sono ancora più emozionata e più ansiosa”. Ti darai un consiglio?
Godermela perché sono cose che succedono una, due, tre volte massimo nella vita. Sono cose che racconterò ai miei nipoti. Sì, vorrò stare su quel palco e godermela. Quando ti hanno richiamato, che cosa hai detto?
Ho detto esattamente “Wow”! Che bello, non pensavo così presto; l’ho fatto due anni fa. Ho pensato che era un onore, sono stata molto lusingata. Diciamoci la verità, quando vieni richiamato per una cosa così bella, evidentemente l’hai fatta bene! Per una cosa così importante, soprattutto in un momento così delicato per il nostro Paese, essendo l’Italia in crisi, per quanto riguarda il lavoro, la stabilità politica, l’incertezza economica, immagino che sarà una piazza complicata! Pensi a quali saranno gli spunti, i temi di riflessione?
Io sarò lì a condurre un concerto musicale, non entro e non entrerò in faccende politiche, questo però non vuol dire che io sono distaccata dalla realtà e dal Paese, ma quello che cercherò di fare è di far trascorrere alle persone, che saranno in piazza e a casa un bellissimo pomeriggio, celebrando il lavoro, celebrando i lavoratori, insieme a bella musica. Che cosa ha in più, e di diverso, il pubblico del Primo Maggio?
È molto informato, ha opinioni, è esigente, colto musicalmente. Non ci sono solo le ragazzine in delirio per il cantante pop del momento, ma è bello tosto e quindi richiede rispetto. Quest’anno c’è un bel panorama indie rock: ti piacciono gli artisti, ce ne sono di tuoi preferiti?
Molto! Sì, sono tutti splendidi artisti, non esprimo preferenze per rispetto, ma ci sono artisti che conosco meglio, altri meno bene, questo è inevitabile. Sono molto contenta di ritrovare Edoardo Bennato, che ha fatto parte delle mia gioventù e, mi viene da sorridere, perché le mie figlie conoscono le sue canzoni, gliele ho fatte ascoltare, soprattutto la colonna sonora di Peter Pan, L’isola che non c’è (dall’album Sono solo canzonette ndr.), che loro adorano. Sono molto contenta di condurlo con Clementino perché sono curiosa di vedere come andrà, finora le telefonate che ci siamo fatti, devo dire, sono state molto divertenti, non ho dubbi che sarà un bellissimo viaggio. A proposito di viaggi, tu hai viaggiato molto, per il tuo vissuto personale e familiare, fin da piccola: quale insegnamento ne hai tratto?
A stare al mondo! Mi è servito per tutto quello che so, nelle relazioni con agli altri, a usare l’istinto, l’intuito; la strada insegna tantissimo. Attenzione, non bisogna per forza andare lontano, la strada può essere anche quella sotto casa, la piazza, però viaggiare insegna tanto. Poi se la strada è in Nepal o in Sud America o è il vicolo sotto casa, va bene, però è importante stare per strada perché c’è un insegnamento che non è sostituibile con un altro strumento pedagogico, culturale di formazione. Che esperienza è stata la conduzione de Alle falde del Kilimangiaro?
Dal punto di vista dello share abbiamo stravinto e questa cosa ci ha fatto molto piacere perché vuol dire che la squadra funziona, che è una squadra di cui sono molto fiera. Riprenderemo agli inizi di ottobre. Amore criminale, invece: è vero che lo condurrai di nuovo?
No, me lo hanno chiesto, ma io sto pensando ad altro, preferisco non tornare su cose che ho già fatto, ho declinato la richiesta, ma anche stavolta sono lusingata che la Rete me lo abbia chiesto. Musicalmente, che mamma sei?
Faccio ascoltare alle mie figlie tantissima musica, non solo contemporanea. Loro conoscono Gaber, De André, Bennato, ma anche Adele. Sono figlie che stanno crescendo con molta musica.
Clementino
Salutiamo Camila, con i migliori auspici possibili, e siamo anche noi curiosi di parlare con Clementino, in viaggio in treno verso Roma. Il rapper napoletano, assai attivo musicalmente, considerate anche le tante sue collaborazioni nell’ambiente, con orgoglio si è anche, in passato, fatto promotore di sensibilizzare fan e non su temi i rifiuti tossici del “Triangolo della morte”. Quando lo chiamo al telefono, mi avverte che deve parlare piano per non disturbare gli altri passeggeri, ma si sente che freme dalla voglia di raccontare, forse anche di cantare. Si percepisce che è un vulcano, come il titolo del suo ultimo album.
“Sono emozionatissimo – racconta – è una vita che aspetto di presentare una manifestazione così importante. Io vengo dai villaggi turistici, facevo l’animatore: ho iniziato dal mini club per poi diventare capo animatore, un pochino mi mancava di presentare qualche evento. Poi la mia vita è salita sul treno del rap e non sono più sceso e adesso dopo anni mi hanno proposto questa cosa…È un onore gigantesco, mi ritroverò in una versione ultra professionale, è una figata. Qual è la tua esperienza con il Concertone romano?
Io nel 1999 ero nelle ultime file tra il pubblico, poi nel 2004 ero al centro della grande piazza schiacciato dalla folla, nel 2014 sono salito come cantante e nel 2017 lo presento: da pubblico a presentatore, forse l’anno prossimo sarò direttore di Rai Tre! Il calore è immenso, mi ricordo che mentre cantavo non vedevo dove finiva la gente, mi emoziono solo a pensare che ci sono quasi 700 mila persone in quella piazza. Tu che tipo di contributo darai alla conduzione?
Io sono un sagittario: casinista, vivace, viaggiatore, cordiale, distratto e disordinato (il tono della voce ormai è aumentato, ma io immagino che agli altri viaggiatori faccia piacere ndr). Sono un casinista nato, quando sono a cena con gli amici, anche al ristorante; sono uno che, come si dice a Napoli, fa “’u burdello”! Ma dovrò essere me stesso, senza pensare chi sa cosa. Spero di coinvolgere tutto il pubblico della piazza attraverso i miei freestyle, ossia le mie improvvisazioni rap, facendo fare al pubblico la base musicale con le mani e con i piedi per poi “rapparci” io sopra quella base! Immagina cosa può succedere se tutto il pubblico mi fa la base hip hop? Vorrei lanciarmi tra il pubblico e fare interviste. Voglio divertire e far divertire… Ti sento già molto preso…
Sai, mi è arrivato un messaggio di Rosario Fiorello, che è il mio maestro. Devi sapere che io ho vari maestri, il mio maestro principale è Pino Daniele, poi per il rapper c’è Fabri Fibra e per l’animazione Rosario. Appunto, Rosario mi ha mandato un messaggio e mi ha scritto “Cerca di non gridare subito, altrimenti, arriverai alla fine senza voce!”. Poi mi ha consigliato un paio di cose che poi vedrete! Con i consigli del maestro Rosario, cercherò di portare a termine l’intera operazione. Che consiglio ti piacerebbe dare ai ragazzi della piazza?
Personalmente, mi considero un artista che parla con tanti ragazzi, il mio è un consiglio più umano, che politico: trovandoci in un momento così critico in Italia, i ragazzi possono essere assuefatti dalla noia, specialmente se non hanno un lavoro e questa noia può far fare sciocchezze. Direi loro che bisogna trovare un’occupazione, che se non è il lavoro perché purtroppo manca, almeno sia un hobby. Da poco è uscito il tuo album Vulcano, sarai in tournée per presentarlo?
Partirò per tutto maggio con una tournée europea: Stoccarda, Londra Zurigo e altre città, poi da giugno a settembre per tutta la penisola: sulla mia pagina facebook e su instagram troverete tutte le informazioni. Vulcano sta andando benissimo: è uscito il nuovo singolo Tutti scienziati con il mio tributo a Troisi e al suo film Non ci resta che piangere. Che cosa può comunicare il rap, soprattutto alle nuove generazioni?
Sicuramente la verità perché io racconto tutte le cose che vedo già uscendo fuori casa mia a prendere un caffè, e poi una speranza, come lo è stato il Concerto del Primo Maggio per me. Non devo mai dimenticarmi da dove vengo, quest’anno il tema è quello delle radici poi. I sogni si possono avverare, basta andare avanti con determinazione, anche se le porte ti sbattono in faccia.
Brunori sas
A volerli sul palco con convinzione sono stati gli organizzatori della manifestazione, insieme alla Rete televisiva che, per ben otto ore, dalle 16 in poi, trasmetterà il tutto in diretta. Ne parliamo volentieri con Carlo Gavaudan, della Ruvido Produzioni srl, agenzia dello spettacolo milanese, fautrice, tra l’altro del Contest parallelo alla manifestazione. I tre finalisti, quest’anno, sono: Amarcord da Firenze, Doro Gjat da Udine e Incomprensibile FC da Torino. Il vincitore assoluto dell’1M NEXT 2017 verrà proclamato in diretta TV dal palco. Questo è per voi il terzo anno: con quali intenti avete lavorato?
L’attenzione più forte è stata dedicata ai giovani, ai debuttanti e quest’anno in particolar modo, con un’azione molto forte a carattere europeo. Quando siamo arrivati abbiamo fatto partire questo Contest, inizialmente, solo italiano, ricevendo l’adesione di più di mille band, riscontrando realtà di qualità e lanciando gruppi interessanti, che poi si sono fatti strada come La Rua, Geometra Mangoni e altri. Quest’anno, per la prima volta, abbiamo allargato oltreconfine questa manifestazione, facendo selezioni in giro per l’Europa: a Barcellona, Berlino, Amsterdam, con una finale su Londra per poi portare i finalisti in Italia, sul palco del Primo maggio. Nello scenario sociale italiano, come si colloca il concerto romano?
Le organizzazioni sindacali stabiliscono il loro tema, che quest’anno riguarda le radici del lavoro. Loro faranno i discorsi a Portella della Ginestra, a noi chiedono di concentrarci sul momento di festa, certamente avendo a mente le questioni del lavoro, che poi quest’anno sono molte tra i migranti, la condizione dell’Alitalia dall’altra, che durante le varie performance tratteremo. Noi su quel palco, però, racconteremo anche un po’ di eccellenze, di situazioni positive, di gente che ce l’ha fatta, dell’impegno dei lavoratori che a volte porta a uscire dalla crisi. Lanceremo in ogni caso un messaggio di speranza.
Le scelte musicali di quest’anno rappresentano un periodo felice per la nostra musica.
Sì, sicuramente. Le grandi manifestazioni televisive fanno da padrone, spesso lanciano personaggi del mondo musicale, ma oggi c’è anche il web e noi avremo la diretta streaming di Rai play perché aiuta ad individuare qualità e professionalità, indipendentemente dal mondo televisivo. Il panorama indie rock è anche sintomo di questo, ci sono personaggi che escono non solo dalle grandi trasmissioni televisive, ma anche che rappresentano il sottobosco della cultura musicale italiana. Quindi, i talent sarebbero in decadenza?
In realtà, penso che non lo siano e che abbiano ancora altro da raccontare, ma penso che il nostro mondo stia cambiando rapidamente e che anche il web aiuterà molto ad imporre i gusti e le scelte del pubblico in tutti i settori, anche al di fuori dalle proposte televisive.
Due parole sui conduttori.
Camila ha già condotto con noi il Primo Maggio due anni fa, dimostrando grandi qualità. È in un periodo particolarmente positivo perché, televisivamente, ha risollevato le sorti di alcuni programmi, portandoli nel giro di pochi anni a un livello di ascolto importante su Rai Tre e ci sembra essere una grande professionista, che viene dal mondo della musica perché nasce su MTV e ha un rapporto con la musica sano. Sa gestire bene la folla particolarmente numerosa, insomma è una manifestazione nelle sue corde. L’abbiamo fortemente voluta insieme alle organizzazioni sindacali. Anche Rai Tre ha apprezzato l’idea e ci ha chiesto di metterle al fianco una figura che fosse non prevedibile, che potesse aiutare in termini di comunicazione. La riflessione fatta ha portato la Rete a segnalare di individuare la co-conduzione in un cantante, una figura meno esperta di conduzione che portasse entusiasmo alla manifestazione. Clementino ha aderito con grande entusiasmo, da subito.
Bombino
L’entusiasmo di questo evento lo ritroviamo anche parlando con Massimo Bonelli di iCompany srl, anche loro al terzo Concertone. Fino a oggi, che esperienza è stata questa del Primo maggio?
Una bella esperienza formativa, sia umana che professionale, per cui sicuramente importante nella crescita aziendale e per il futuro speriamo di farne tanti altri e sempre meglio, questo è il proposito.
Come si pone l’evento musicale rispetto ai contenuti dei sindacati?
L’evento è di divertimento, di intrattenimento, però essendo legato a una festa importante e sentita, come quella del lavoro, ogni anno durante il concerto vengono inseriti dei momenti di riflessione con spunti di approfondimento su temi attuali, come è sempre avvenuto nel corso degli anni e avverrà anche quest’anno. È un momento di festa, ma tra un artista e l’altro si parla di quello che accade nel mondo del lavoro e nel mondo in generale. Chi decide il cast del Primo maggio?
Siamo noi organizzatori che decidiamo il cast, è una scelta precisa, ben studiata. La volontà è quella di dare all’evento un sapore attuale, contemporaneo con gli artisti del momento. Ce ne sono tantissimi al di fuori del mainstream radiofonico e televisivo che stanno facendo la differenza, riempiono i palazzetti, i grandi locali, hanno tanto seguito, vendono molto, parliamo, per esempio, de Le Luci della città elettrica, di Brunori sas, de Lo Stato sociale, di Fabrizio Moro, Samuel, degli Ex-Otago, Questi artisti rovano naturalmente spazio su un palco che ha sempre rappresentato la musica altra in Italia, che è stato sempre il palco della musica che funziona, ma non ha i connotati per essere trasmessa in alta rotazione dalle grandi radio o vedersi in prima serata televisiva. Il Concerto romano di piazza San Giovanni torna ad essere una fotografia di quello che è il momento storico musicale italiano e questo ci fa piacere, lo abbiamo voluto. La scelta dei conduttori?
Una coppia ben assortita che ci permette di essere professionali e irriverenti. Conviene che è un momento florido per la nostra musica?
Lo è e io, citando Vico, dico che ci sono corsi e ricorsi storici. Infatti, ogni venti anni circa in Italia avviene questo fenomeno. Negli anni 90 gli Almamegretta, i Subsonica, gli Afterhours, i Bluvertigo davano questo segnale dal basso, negli anni zero è avvenuto in maniera più fredda, adesso sta accadendo con più forza con gli artisti che ho citato. Questa generazione sta dando un forte impulso sempre partendo dal basso, dalle piazze, dai club e questo è un segnale molto interessante che si sposa molto bene con il nuovo sistema di comunicazione della musica che è il web, che dà la possibilità al pubblico di fruire direttamente della musica senza intermediari. La funzione delle case discografiche cambia e questo è un segnale positivo che sblocca un sistema imbavagliato dai meccanismi di potere che non sempre sono capaci di leggere il nuovo e di promuoverlo, in questo caso è la gente che riesce ad apprezzare la musica rendendola di successo. Un ottimo momento e spero possa diventare una tendenza che duri nel tempo.
Da Piazza San Giovanni in Laterano, lunedì 1 maggio, vi racconteremo il dietro le quinte del grande concerto nazionale e internazionale. Tra gli artisti che incontreremo: Le luci della centrale elettrica,Samuel,
Edoardo Bennato
Ex-Otago, Lo Stato sociale, Fabrizio Moro, gli Editors e molti altri ancora…
Some of 108 migrants disembark at Lampesusa's harbour by a ship called Aquarius of humanitarian group SOS Mediterranee, 18 April 2016. Six bodies were recovered and 108 migrants were rescued from a semi-submerged rubber dinghy as boat arrivals accelerate amid calm seas. A private rescue ship called Aquarius run by humanitarian group SOS Mediterranee found the bodies on the rubber dingy yesterday. ANSA/ELIO DESIDERIO
Ma davvero qualcuno crede che tutto questo ciarlare di rifugiati, Mediterraneo e ONG sia davvero figlio di un reale interesse per le sorti dei soldi e delle persone da parte di questi quattro tirapiedi che cavalcano un’inchiesta (conoscitiva, tra l’altro) per riuscire a solleticare un po’ di razzismo travestendosi da “responsabilmente preoccupati”?
Ma davvero è così difficile capire che massimizzare il profitto dai dubbi del Procuratore di Catania (che tra l’altro ieri dopo essersi goduto un giorno di celebrità televisiva ha già cominciato a smussarsi e a bisbigliare che è stato “frainteso”) significa soprattutto buttare a mare (appunto) il lavoro umanitario di chi sulle nostre coste si occupa del salvataggio di vite?
Il giochino è semplice, quasi banale: bisogna riuscire a drenare voti a destra fingendosi “umani” e progressisti e qualsiasi minuscola possibilità di dare addosso allo straniero giocando di sponda è un’occasione imperdibile. È l’eterno gioco di chi in politica non prende posizioni nette per accattare voti da destra a sinistra. Come quelli che non pronunciano la parola antifascismo e il 25 aprile sfilano in blu questi indossano i panni dei paladini della legalità per rimestare nel fango e concedere un’idea di “mancato soccorso” in nome della legge. L’indagine di Catania, i documenti Frontex e le testimonianze degli operatori in realtà sono solo strumentali.
Qui siamo oltre: dal lucrare sui morti siamo passati al lucrare su chi salva i vivi. Sognano di essere Salvini, insomma, ma non ne hanno nemmeno il coraggio.
Ci sono gli studenti con un garofano in mano, la signora con i vasi di gerani rossi, i ragazzi dell’Arci insieme con Carlo Testini con il manifesto che hanno realizzato per lui, pop e allegro, un uomo alto che timidamente porta una rosa rossa avvolta dalla carta. E poi alla spicciolata, anziani, adulti e ragazzi, che sfilano per il vialetto a destra del cimitero acattolico alla Piramide a Roma. Qui, un po’ ai margini, è seppellito Antonio Gramsci. Ci riuscì a dargli una sepoltura la cognata Tatiana che figurava come ortodossa. Il luogo è immerso nel silenzio, con i cipressi scultorei attraversati dai voli chiassosi dei pappagalli verdi. Si respira un’aria di umanità dolente ma dignitosa. E così sono anche le persone che oggi, nell’ottantesimo anniversario della morte, sono andate a rendere omaggio all’autore dei Quaderni del carcere che morì all’alba del 27 aprile 1937 nella clinica Quisisana due giorni dopo aver ottenuto la libertà dal Tribunale di sorveglianza di Roma.
«Sono dei venduti», esclama una signora riferendosi ai fiori con il nastro che indica il Partito democratico. «Si rivolterebbe nella tomba, lui», aggiunge un anziano. Dicono che è passato anche Matteo Orfini e di nuovo la signora lancia commenti acidi. Più tardi, sfilano sempre più persone. Dei ragazzi leggono alcune lettere di Gramsci in un clima partecipato.
Ma l’ottantesimo anniversario della morte di Gramsci è anche l’occasione per intraprendere una originale ricerca sull’immagine e la percezione che “dal basso” si ha della Storia. Fondamentale perché è solo partendo dalla conoscenza attuale che si può partire a livello “alto”, accademico. Diciamo pure che è una ricerca di stampo gramsciano. La raccontano Lorenzo Montesi e Tommaso Leone, due laureati in Storia a Bologna che frequentano il Master di Public History a Modena.
Dopo aver lasciato una copia di Left davanti al cippo funerario, spiegano perché si trovano proprio là, al cimitero acattolico di Roma. Vengono dalle Marche e per conto dell’Istituto Gramsci di quella regione, hanno iniziato un sondaggio e una ricerca da qui fino alla fine del 2017. «Per fare questo avremo bisogno del contributo di chiunque vorrà lavorare con noi a questa ricerca», si legge in un volantino che distribuiscono alle persone.
L’obiettivo è quello di raccogliere contributi vari – video, testi, immagini – soprattutto tra i giovani, sulla figura di Gramsci. Tutto il materiale andrà nel sito 80Gramsci, che «indica nel numero non solo gli anni dalla morte ma anche la generazione di trentenni», dice Lorenzo Montesi. Dal mese di maggio verranno coinvolte anche le scuole, le università e gruppi e associazioni culturali, prima di Marche, Abruzzo ed Emilia Romagna, poi, sperano di altre regioni italiane.
C’è un questionario poi che si trova nel sito che verte sul trinomio, Storia, passato e memoria. Domande semplici e veloci che però permetteranno ai ricercatori di ottenere delle risposte sulla “domanda di storia” presente nella società italiana. A cui il public historian dovrà organizzare l’offerta. È una disciplina che rappresenta una novità nel panorama accademico italiano, un modo di avvicinare gli studi accademici ancora di più alla società, non solo a livello culturale ma anche economico e sociale. «Noi siamo arrivati adesso, ma questo modo di considerare la storia nel mondo anglosassone esiste da molti anni. Spesso in Italia public history vien tradotto con “l’uso pubblico della storia o lo storico in pubblico”, ma sempre con una connotazione negativa in cui l’uso pubblico della storia ne presuppone la politicizzazione».
Invece a Modena sono stati mantenuti i due termini propri della tradizione anglosassone. «La public history è un grande cantiere sul tavolo, sia per l’accademia che per la politica», precisa Lorenzo Montesi. È anche uno strumento di formazione nel campo delle scienze umaniste che permette di far uscire dall’università dei laureati che forse riusciranno ad essere utili ovunque nella società ci sia bisogno di qualcuno che possa scrivere o comunicare la storia.
La storia non isolata nella torre degli accademici ma calata tra i cittadini. Che in questo modo, di sicuro, ne trarranno vantaggio. Perché siamo tutti intellettuali diceva Gramsci, e possiamo cambiare il modo di pensare. «Cominciare il nostro lavoro da Gramsci è perfetto. Il fatto che sia un personaggio studiato in mezzo mondo e da noi in Italia no, significa che un problema c’è», continua Lorenzo. «La storia è di tutti e ci piacerebbe che fosse la stessa cosa di Gramsci».