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Il diritto di rifiutare i vaccini. Cosa prevede la legge M5s

La pagina del blog di Beppe Grillo che accusa il NYT di diffondere notizie false sul Movimento 5 Stelle. ANSA/BLOG GRILLO ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING

«Non esiste nessuna campagna del MoVimento 5 Stelle contro i vaccini, né una piattaforma anti vaccini, né sono mai stati ripetuti falsi legami tra vaccinazioni e autismo». Mai toppa fu peggiore del buco. La smentita di ieri di Grillo delle accuse comparse sulle colonne del New York Times ha generato un boomerang: su social e giornali, continuano a uscire link e citazioni di esponenti del Movimento 5 stelle che mettono in relazione i vaccini con le conseguenze più allarmanti. Ed essendo i pentastellati notoriamente prolifici nel diffondere le loro opinioni, gli è tornato indietro un vero e proprio bombardamento. Dalle parole di Paola Taverna («C’è una sentenza che sostiene che il vaccino può causare l’autismo») e al «vaccinare meno è vaccinare meglio» degli europarlamentari (2015) fino ai video degli spettacoli di Beppe Grillo di oltre 20 anni fa e ai post sul blog, allora gestito dal defunto Gianroberto Casaleggio senior (datato 8 aprile 2007):

Stamattina, in una lettera pubblicata sul Fatto Quotidiano, Grillo tenta di smarcarsi dalla polemica, spostando l’attenzione sull’accanimento nei suoi confronti. «mi ostinavo con questa storia del l ’automobile a idrogeno quando c’è già la bomba all’idrogeno! Questo potrebbe mettermi in pole position con il leader della Corea del Nord: è più attuale», provoca. E prosegue: «Servitevi pure, nei miei testi c’è di tutto, altro che morbillo. Sono anche un voltagabbana: troverete video in cui fracasso dei computer! Da bravo populista, mi troverete a spingere per il reddito di cittadinanza e l’acqua pubblica: probabilmente voglio utilizzare l’acqua per diffondere qualche pestilenza».

Vero. Ma soprattutto c’è – perché spiace per il leader ma questo è l’argomento – anche l’accusa alle case farmaceutiche complici di voler vendere vaccini di cui non avremmo bisogno. Su Left.it abbiamo ricordato come proprio il capo-comico Beppe Grillo denunciava in un suo spettacolo i “violatori” del vergine sistema immunitario infantile. Era il 2007 e proprio nello stesso periodo (a settembre), Grillo aveva entusiasmato le masse a Bologna, in una Piazza Maggiore straripante, nel primo V-day di quella che sarebbe stata la storia del Movimento 5 Stelle. Una vera e propria campagna di adesioni.

Oggi, sono in Parlamento e come è legittimo, seguono le linee e le credenze del Movimento con il quale sono eletti. E del quale si fanno “portavoce”, attraverso proposte di legge che disegnano una (più o meno, diciamo) precisa idea di Stato. È così che depositata alla Camera, ferma in commissione Affari Sociali dal 2014, c’è una proposta di legge atta ad autorizzare il rifiuto delle vaccinazioni obbligatorie.

Cosa dice la legge

Il testo, va detto, si riferisce esclusivamente al «personale civile e militare, al quale per ragioni di servizio è richiesto di sottoporsi a vaccinazione». Ma la premessa scientifica è chiara:

Recenti studi hanno però messo in luce collegamenti tra le vaccinazioni e alcune malattie specifiche quali la leucemia, intossicazioni, infiammazioni, immunodepressioni, mutazioni genetiche trasmissibili, malattie tumorali, autismo e allergie.

Composta di “ben” 3 articoli, il testo vorrebbe lasciare alla libera iniziativa il sottoporsi a immunizzazioni. Per questo all’articolo 1 stabilisce che la persona sia «preventivamente informata anche con motivazione scritta: a) sulla composizione del vaccino somministrato e sulle malattie rispetto alle quali dovrebbe immunizzare; b) sugli eventuali effetti collaterali e controindicazioni di ogni vaccino somministrato».

Ora, avete mai letto i bugiardini delle medicine? Siamo tutti preventivamente informati sui rischi dalle case farmaceutiche: questo evita che le prendiamo in caso di malattie o infezioni? E se si, siamo sicuri sia un progresso?

Secondo: chi di noi saprebbe discernere, una volta elencati le caratteristiche di principi attivi ed elementi farmacologici che compongono il farmaco (senza consultare un medico e dunque rimettendosi nuovamente a parere di uno scienziato)?

Il punto cardine della legge è costituito dal «il diritto al diniego» dell’uso dei vaccini, sancito al secondo comma del primo articolo. In base al quale, si legge, la persona si assume le responsabilità «in caso di contrazione di malattie al cui contrasto il vaccino è finalizzato». Peccato che questa precisazione, anziché essere – come vorrebbe – un’assunzione di responsabilità, è l’attestazione dell’esatto opposto: la non considerazione dell’effetto che il contagio può avere sulla salute della collettività. È esattamente questo il motivo per cui il ministero della Salute obbliga alla vaccinazione i militari in trasferta facendola rientrare frai compiti di “difesa della Patria”. Ed è sempre per la tutela della salute di tutti i cittadini che si punta a debellare le malattie epidemiche proprio con l’immunizzazione. Come del resto sancito dalla Costituzione proprio all’articolo 32, lo stesso che i Cinquestelle citano a fondamento della loro legge: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività».

Sempre all’articolo uno, si prevede un risarcimento per malattie contratte a causa dei vaccini. Tralascia però di specificare come dovrebbe essere accertata questa correlazione. Finora la giurisprudenza in materia ha sempre smentito tale correlazione. Soprattutto istituzionalizza e certifica la possibilità di correlazione fra vaccini e malattie di ogni tipo – come infatti delineato nell’introduzione.

All’articolo due stabilisce test preventivi per verificare l’efficacia del vaccino somministrato. Anche questo lascia un vuoto su come ciò dovrebbe avvenire. Mentre all’articolo tre obbliga il ministero della Salute a relazionare sulle vaccinazioni dei dipendenti della pubblica amministrazione, sullo stato del diniego, e sugli effetti collaterali delle vaccinazioni.

 

 

 

 

La bella idea di confiscare i beni anche ai corrotti

Tra le buone leggi che ci teniamo a mente e di cui possiamo andare fieri in giro per il mondo la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni ai mafiosi forse è una delle più splendenti per la sua funzione di manifesto senza mediazioni del contrasto alla criminalità organizzata.

Pare, da queste parti, che compito il compito di certa politica sia quello di imbellettarsi in occasione della commemorazione di La Torre e di sfoderare una certa retorica per magnificare il passato.  Nel 1982, quando la politica decise che le ricchezze guadagnate con il sangue fossero illegali e quindi da ritornare allo Stato, la svolta legislativa fu anche l’inevitabile inizio di un sferzata culturale e morale sul tema delle mafie. Uno di quei dibattiti che, nel bene o nel male, impedisce ai protagonisti di chiamarsene fuori.

Tra le impolverate carte del Parlamento giace da tempo una proposta di legge che chiede di estendere la normativa antimafia di sequestro dei beni anche ai casi di corruzione. Che mafia e corruzione siano spesso a braccetto è un’analisi ormai condivisa e troppe volte negli ultimi anni abbiamo assistito a processi in cui gli imputati si sono scapicollati per sembrare “solo” corrotti (e non mafiosi) per salvare il proprio patrimonio. Aggiungeteci che tra gli estensori di questa proposta di legge spicca anche il nome di Franco La Torre, figlio di Pio, e verrà semplice immaginarla come una “La Torre bis” ideale prosecuzione dell’impegno che fu.

Visto che tutti si riempiono la bocca di “riforme” eccone una bella pronta che potrebbe salvare il governo Gentiloni dal destino di essere stato trasparente.

Buon giovedì.

Quando il lavoro (senza diritti) uccide. Daniele Vicari racconta il suo ultimo film “Sole, cuore, amore”

In questi giorni esce nelle sale cinematografiche l’ultimo film di Daniele Vicari “Sole, Cuore, Amore” con Isabella Ragonese e Francesco Montanari. Di cosa parla? Del lavoro: quello che non c’è, quello che non conosce più diritti, quello che a volte uccide, per stanchezza. Per l’occasione vi riproponiamo l’intervista di Don Pasta al regista comparsa sul numero 44 di Left.

Lo aspettavo a casa con melanzane sott’olio e orecchiette con le rape. Daniele Vicari è un grande amante della cucina popolare e del mio Salento. La prima domanda me la fa lui guardandomi negli occhi, severo: «Da amico a amico, il film ti è piaciuto?». Non posso che rispondere con franchezza: «Lo trovo un film coraggioso nel tema, nella drammaturgia e nella scelta stilistica. Ma non capisco il secondo personaggio femminile. Lo trovo debole, di fronte all’importanza, anche simbolica, della protagonista, che lavora come una schiava e muore di stanchezza». Dopo le muffettate, dolce salentino antichissimo, passo io all’attacco.
Sei uno precisissimo, attento a ogni particolare, fai un film ogni cinque anni, mi domando se non l’hai fatto apposta a provocare lo spettatore, come con Diaz. Dico io, si può finire un film con una che muore di stanchezza? M’è venuta una tristezza… Che poi paradossalmente in Diaz hai fatto di tutto, con delicatezza, per rendere digesto l’indigeribile di quella violenza. Qui dai un pugno in faccia allo spettatore. È un atto voluto?
I film perfetti o imperfetti che siano, quando sono vivi, non portano mai all’unanimità di giudizio. Sole cuore amore è un film che puoi amare o può farti incazzare, ma non è un film consolatorio. Non lo è sul piano formale e nemmeno su quello dei contenuti. L’ho scritto in tre giorni, girato in 25. Mi sono buttato. Non è una provocazione, però è vero che ci sono delle scelte che vanno contro il senso comune dello spettatore. È un atto unico di 1 ora e 50. Rallenta progressivamente anziché accelerare, ha due protagoniste che sono due antieroine ma opposte, una “calda” e l’altra “fredda”, una ha una famiglia numerosa e l’altra è sola.
Di fondo il film ha a che fare con le vittime della società occidentale. Mi pare si ponga la questione di identificare chi e dove si trovi il cattivo e cosa fanno i buoni per resistere, per ribellarsi. Ma non ne esce fuori un ritratto ottimistico.
Ho cercato di raccontare la frammentarietà che viviamo. Questo modo di vivere è drammatico, ci mette in disequilibrio. È incredibile ma in Occidente si può morire di fatica, altro che società opulenta. Come è capitato alla pugliese Paola Clemente e, prima di lei, alla romana Isabella Viola. Non è propriamente un morire di lavoro, è tutto il meccanismo in cui siamo immersi che è schiacciante, inadatto agli esseri umani. Il modo in cui è organizzata la società è totalmente folle. Se, per esempio, passi una parte fondamentale della tua vita sui mezzi pubblici, quello è tempo di vita sprecato, bruciato. Ok, la protagonista si riposa quando sta sull’autobus, ma è un riposo nevrotico, insano.
I personaggi sono entrambi femminili. Mi pare altamente metaforico il fatto che tu voglia mostrare come questo “indefinibile” meccanismo si eserciti di più sulle donne. Ma la protagonista non poteva evitare di fare quattro figli?
Mia sorella ha tre figli, e sono partito da lei per scrivere la sceneggiatura. Mentre scrivevo è morta Paola Clemente, foggiana con tre figli, Isabella Viola ne aveva 4… Eli, la mia protagonista, ha fatto una scelta centrata: 4 figli, un marito, due lavori, come da tradizione. Poi il marito viene licenziato e resta lei sola a lavorare. Ecco che i 4 figli diventano una “colpa”. Non mi pare il massimo, chi pensa che sia una colpa non capisce che se vivi in una determinata condizione sociale la tua forza diventa debolezza in un attimo, perché il meccanismo sociale è più forte di te. Infatti Eli (come mia sorella) non si cura pur di andare a lavorare. Tira la corda fino a romperla. Sono soprattutto le donne che vivono queste sofferenze. Se ti capita di prendere l’autobus da Nettuno la mattina, per il 90 per cento ci sono donne italiane e straniere che vanno in città, sono impiegate, fanno le pulizie, accudiscono le persone. Da molti anni le giovani coppie vivono fuori città perché non hanno un salario sufficiente. E una donna che gestisce la famiglia ma ha anche una vita fuori dalle mura di casa, si carica di una quantità di responsabilità e di tensione che noi uomini facciamo fatica a cogliere. Non riusciamo a entrare dentro questo sentire femminile. Siamo ottusi.
Ma la protagonista non poteva evitare di fare quella fine? Perché non si ribella?
La nostra non è una società conflittuale, è autolesionistica, la rivolta non c’è, e nemmeno la percezione dei diritti, da qui si genera la tragedia, non il melodramma. È per questo che io rifiuto il melodramma come esaltazione delle passioni primarie, preferisco rappresentare la condizione dei protagonisti, nella sua durezza. Eli deve portare a casa la pagnotta e fa una fatica bestiale. Di chi è la colpa? Del proprietario del bar in cui lavora? Ma anche lui è schiavo di un meccanismo, è un padrone immiserito. Non siamo più in Fronte del porto. Se avessi fatto una cosa del genere (la storia di un conflitto sindacale) avrei fatto una cosa consolatoria, avrei trovato un colpevole, rilasciato un certificato di conversione e tutti contenti. Io invece spero che lo spettatore non si identifichi in un personaggio, ma in una “condizione”. Questo ingenera frustrazione, ma una frustrazione “sana”, che spero lavori dentro le persone che vedono il film.
Veniamo alla coprotagonista. Mi dici che è una ribelle, allora me l’aspetterei radiante, sicura di sé, allegra. Hai disegnato un ritratto di una donna incerta, malinconica. È un antieroe, capisci che non ci faciliti la lettura del film così…
Vale non è una ribelle, ha solo deciso di essere completamente fuori dal mercato, dal sistema, dalla famiglia, dal “lavoro produttivo”, è un nuovo tipo antropologico. Non ha punti di riferimento, l’unico è la sua amica Eli. La loro è una “sorellanza”. Vale probabilmente ce la farà a resistere, perché è la modernità fatta persona. Sottrae il suo corpo dal meccanismo produttivo, accetta l’idea che il conflitto sia “sopra di noi” e segue una strada individuale per “rivoltarsi”. Non si carica delle fatiche estreme di cui si carica Eli, rifiuta questa forma di organizzazione sociale. Nella sua rivolta, che è intima e quotidiana, diventa la chiave, perché si sottrae a ogni forma di potere e dice “io sono mia”. È un personaggio ispirato a una cara amica, Miriam, che è il prototipo di questa donna nuova. Chiaro che una scelta del genere ha un costo, perché se prendi questa strada la devi percorrere fino in fondo, sei piena di incertezze, cambi la percezione che hai di te, sessualità compresa.
Di fondo tu sei come quella ribelle. Non trovi spazio negli spazi angusti del potere e te lo cerchi altrove, tentennando, pronto a sbagliare anche. È questo che volevi dire? Ora capisco il ruolo nel film, però mi ci sono volute due ore di conversazione.
Se davvero è così, sono io che ho sbagliato… oppure tu l’hai rifiutato. Io non faccio cinema come atto di coraggio, cerco solo di raccontare cose che mi toccano. Se non c’è lo spazio per fare questo, semplicemente faccio altro. Calvino diceva «scriviamo per uno scaffale ipotetico, per un ipotetico lettore». Qualcuno pensa che io sia “ideologico” perché tratto certi temi. Ma rifiuto questa etichetta, per me l’unica cosa che conta è essere lontano dal potere. In Sole cuore amore il potere sta fuori dall’inquadratura, nel film non c’è la Roma monumentale, per esempio. È nel modo in cui è strutturata la società e la direzione che prende la storia che si rivela il potere, nel fatto che una donna muore perché è costretta a lavorare 7 giorni su 7, con uno stipendio ridicolo, passando 4 ore al giorno su un autobus che spesso si rompe solo per arrivarci. Penso che non ci rendiamo conto di ciò che sta succedendo, che stiamo sottovalutando una serie di crepe della nostra società. Se leggo sul giornale che una donna è morta in metro di stanchezza, madre di quattro figli, io devo guardare dentro questo “fatto di cronaca”. E se mi devo scontrare con mister “tastiera d’oro”, mi ci scontro. Mi assumo la responsabilità dei miei errori. Facciamo così, prendi il mio film come una preghiera laica, fatta prima di tutto a me stesso. Mi dico: guarda, apri gli occhi, altrimenti vai a sbattere. E invece voglio fermarmi in tempo.

Se la realtà umana del bambino non esiste

Protect your children wherever they are

Chi abusa un bambino è un grave malato mentale, nonostante ciò che afferma la psichiatria americana nel DSM-5 e con buona pace della Chiesa cattolica. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali definisce la pedofilia un disturbo del comportamento sessuale e la inserisce tra le parafilie. Le caratteristiche essenziali di questo “disturbo” sarebbero quindi: fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti sessualmente che riguardano: oggetti inanimati; la sofferenza o l’umiliazione di se stessi o del partner; bambini o altre persone non consenzienti. Nel catechismo insegnato ai bambini che devono fare la prima comunione, la pedofilia è equiparata alla lussuria e con essa è inserita nella lista delle offese alla castità. Nel Codice di diritto canonico si parla di «atto sessuale di un chierico con un minore», che è considerato un’offesa a Dio e quel “con” dice che non si tratta di una violenza psicofisica agita da un adulto contro un bambino e mette entrambi i soggetti sullo stesso piano. “Abuso morale” l’ha definito Benedetto XVI nel 2013 e di recente anche papa Francesco nella premessa all’autobiografia di una vittima di sacerdote pedofilo. Da un lato c’è l’idea della psichiatria organicista che tende a fornire un alibi “biologico” ai pedofili: essendo persone nate con una connettività cerebrale fatta in un certo modo non sono responsabili di essere come sono. Dall’altro, c’è quella religiosa secondo cui l’abuso è un “atto impuro” (VI Comandamento), cioè un peccato. Di conseguenza i responsabili, secondo la visione degli appartenenti al clero, devono risponderne a Dio, nella persona del suo rappresentante in terra, e non alle leggi della società civile di cui fanno parte. Entrambe le impostazioni, sebbene il fanciullo in età prepuberale non ha e non può mai avere la sessualità, affermano di fatto che lo stupro di un bambino è in realtà un atto sessuale a cui partecipa la stessa vittima. Quindi, la pedofilia rientrerebbe nell’ordine naturale delle cose e non essendoci un violentatore di conseguenza non c’è nemmeno il violentato.

L’idea che il bambino abbia una propria sessualità e che finisce per giustificare il pedofilo non appartiene solo a queste due correnti di pensiero apparentemente distanti tra loro. Basti pensare a Michel Foucault e a molti altri intellettuali francesi difensori della cosiddetta “pedofilia dolce”. Secondo l’icona del Sessantotto e padre della presunta “rivoluzione sessuale”, se il bimbo non si rifiuta non c’è violenza. Questo diceva in una tristemente nota intervista del 1977: «Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?… Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti. Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia». Il pensiero di Foucault ha inciso nella formazione di molti intellettuali delle generazioni successive. Tra i più noti c’è Daniel Cohn-Bendit che nel suo libro Le Grand Bazar, scrive: «Mi è successo che qualche bimbo mi aprisse la cerniera dei pantaloni e iniziasse ad accarezzarmi. Io reagivo in modo diverso a seconda delle circostanze. Il loro desiderio mi creava dei problemi. E chiedevo: “Perché giocate con me e non con gli altri?”. Ma quando loro insistevano, io li accarezzavo». Concetti ribaditi durante il programma televisivo “Apostrophes” del 23 aprile 1982. E poi l’11 marzo 2010 in un’intervista al settimanale tedesco “Die Zeit”, uscita nel pieno dello scandalo pedofilia che ha travolto la Chiesa cattolica in Germania, Cohn-Bendit ha commentato al giornale che le norme «repressive» in vigore prima del 1968 avevano provocato «danni», ma ha sottolineato che è necessario saper imporre dei limiti. Per poi concludere: «È giusto riconoscere ai bambini e agli adolescenti la loro forma di sessualità, ma il fatto che gli adulti impongano ai bambini le loro regole sessuali sotto delle apparenze libertarie va contro la stessa emancipazione». Come dire, se il bimbo è consenziente per di più istigatore che male c’è? È difficile comprendere come un minore possa essere complice di una violenza che subisce, salvo non ipotizzare come Sigmund Freud che i bambini siano polimorfi perversi quindi potenziali seduttori di adulti. In ogni caso dalle frasi di Foucault e Cohn-Bendit, intrise di mentalità freudiana, emerge un pensiero finalizzato a colpevolizzare la vittima, che viene ritenuta corresponsabile per attenuare la gravità del gesto dell’adulto.

Pensiero e mentalità che di tanto in tanto riaffiorano e ci vengono riproposti surrettiziamente nelle forme più disparate. Come ad esempio nel nuovo romanzo di Walter Siti Bruciare tutto, il cui protagonista è un prete pedofilo che riesce a resistere alle avances di un bambino. Il quale, a causa del rifiuto ricevuto, si suicida. Di qui tutto il tormento del sacerdote che nemmeno tanto tra le righe appare come un dito puntato contro le leggi morali (terrene e non) dietro cui il prete si trincera per resistere alla “tentazione”, e che dunque sarebbero le vere responsabili della morte del ragazzino. Di più non vogliamo dire anche per non fare pubblicità a un libro letto con grande fatica ma difficile da ignorare, così come l’intera pagina di recensione firmata da Michela Marzano su Repubblica del 13 aprile scorso. È letteratura quella di Siti? si chiede Marzano che definisce il romanzo «inaccettabile». Forse la domanda è un’altra: si può definire romanzo la narrazione apologetica di un pensiero falso? A tal proposito c’è una ulteriore considerazione da fare. Non una sola riga della Marzano è dedicata a confutare la perversa idea che il bambino, coprotagonista suo malgrado diremmo noi, abbia una sessualità e il desiderio e che quindi cerchi il rapporto sessuale con l’adulto. È pertanto lecito chiedersi perché per Michela Marzano e Repubblica il romanzo di Siti sarebbe inaccettabile. Lo spiega la filosofa al termine della recensione: «È troppo comodo, per uno scrittore, utilizzare la narrazione e nascondersi dietro la licenza del creare. La letteratura ha le spalle molto larghe, certo. Ma può sostenere anche il peso dell’assoluzione?». Quindi il problema sarebbe “solo” il tentativo di giustificare la violazione della norma, morale o penale che sia. Possiamo anche essere d’accordo su questo, ma il bambino e la sua realtà umana in questo suo argomentare dove stanno?
Proviamo a fare un po’ di chiarezza, interrogando la moderna psichiatria. «Il bambino non ha sessualità, punto» osserva lo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini, direttore della rivista Il Sogno della Farfalla. «Per sessualità s’intende una dimensione che riguarda l’adulto, che prevede lo sviluppo puberale, che prevede la presenza di tutta una serie di realtà fisiche e biologiche, prima di tutto, e mentali, che il bambino non ha. Tutta la sua dimensione di rapporto, che è potentissima, si svolge in un ambito che possiamo chiamare “di affetti” che di sessuale non ha assolutamente nulla, e non lo può nemmeno avere. Possiamo pertanto ribadire che, mutuando il pensiero aristotelico prima e quello della Bibbia poi, Freud teorizza che il bambino non “esiste”».

All’inizio si diceva che il pedofilo è un grave malato mentale (oltre a essere un criminale). Perché? «Il bambino rappresenta quell’immediatezza, spontaneità, vitalità che il pedofilo ha irrimediabilmente perduto per vicende personali» spiega la psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti. «Giustamente – aggiunge – c’è chi ha definito l’abuso su di un minore come ‘omicidio psichico’: non ha niente di sessuale in quanto è un’azione, una pulsione se vogliamo usare una terminologia psichiatrica, che va contro la potenzialità psichica ed evolutiva del bambino. Ciò che però è caratteristico del comportamento pedofilo è il suo essere sottoposto a un controllo razionale: se la pulsione omicida, compulsiva e ripetitiva, rappresenta l’aspetto psicopatologico della pedofilia, il controllo razionale gli conferisce una qualità criminale. Infatti quest’ultimo consente, fino a un certo punto, di evitare le conseguenze penali oltre che l’utilizzo di sofisticate strategie di scelta e di avvicinamento delle vittime». Cosa accade al bambino che subisce l’abuso? «Tradito da una figura importante di riferimento, il minore può andare incontro a uno stato dissociativo, a una grave depressione reattiva, a sensi di colpa intensi che minano il senso della propria identità. Nel caso in cui le vittime siano soggetti prepuberi, ciò che si va a colpire è la possibilità del rapporto uomo-donna. Qualcosa di analogo accadeva nella relazione fra maestro e allievo nell’antica Grecia: questa era imposta in un momento critico della vita del fanciullo, quando la maturazione del corpo, fondendosi con la realtà mentale, poteva far emergere il desiderio verso la donna».

Articolo pubblicato su Left del 29 aprile 2017

 

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Il populista è l’algoritmo

Sono populisti gli algoritmi del web? Uno per tutti: è populista l’algoritmo di Facebook? Questa è ormai la domanda da porsi. Perché non viviamo più l’era delle grandi speranze di Internet, della fede cieca nelle connessioni wireless, degli smartphone usati come arma politica. Viviamo un’epoca di post-rivoluzione, invece, con il mondo che non “cambierà” grazie a Internet perché è già cambiato con Internet. Immersi in questi nuovi equilibri non si può ignorare che il grande algoritmo non è più curiosità da smanettoni, è diventato Citizen Kane piuttosto, il quarto potere di Orson Welles, capace di tirare le fila, modellare l’opinione pubblica.

Per algoritmo si intende la serie di istruzioni informatiche che decidono cosa ci viene mostrato tra le attività, i video, i post, le immagini dei nostri amici e delle nostre relazioni online. Per chi scrive, vi anticipo, l’algoritmo è senz’altro populista. Lo è, in primo luogo, perché è una tecnologia commerciale che risulta più redditizia quando favorisce la quantità sulla qualità, la suggestione sulla verità. L’algoritmo del web forgiato dai social, inoltre, avvantaggia le emozioni sui ragionamenti e, laddove sono le emozioni e non le argomentazioni a farsi largo, e lì che si trova il terreno fertile per ogni populismo.

Per mostrare il “populismo” dell’algoritmo nel dettaglio e nella sua evoluzione, però, bisogna cominciare dalla tecnologia e solo dopo arrivare alla politica. E bisogna partire da un fatto fondamentale che fa da pilastro al ragionamento che segue: ci sono ancora molti, inguaribili ottimisti, convinti che ogni tecnologia sia neutra, né buona né cattiva. «Non dipende dallo strumento, ma da come lo usi» ripetono gli ottimisti quando parlano del web e delle piattaforme che ci girano sopra. A noi post-rivoluzionari più realisti, invece, appare chiaro che la tecnologia in sé non è né buona né cattiva, ma che non è affatto neutra. Il giurista Lawrence Lessig, padre delle licenze Creative Commons, ha trasformato questa riflessione in una massima («La tecnologia non è buona né cattiva, ma non è neanche neutra», appunto) ritenuta valida dalla comunità scientifica. E basta un pizzico di buon senso per capire il senso del ragionamento.

Il pezzo integrale lo trovate su Left in edicola

 

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Quando Grillo raccontava come la difterite si sarebbe estinta da sola. La campagna contro i vaccini del 2007

L' articolo pubblicato dal New York Times in cui afferma che 'In Italia il movimento Cinque Stelle (M5S) guidato da Beppe Grillo ha portato avanti una campagna attiva su una piattaforma anti vaccini ripetendo i falsi legami tra vaccinazioni e autismo'. Beppe Grillo accusa il Nyt di "fake news" e sul suo blog scrive che "a sostegno di questa balla non c'è nulla, neppure un link, un riferimento, una dichiarazione. Nulla. Non c'è perché è una balla". ANSA/ EDITORIAL USE ONLY -NO SALES NO ARCHIVE

La percentuale di bimbi non vaccinati, aumenta. E di conseguenza, aumentano i contagi. A tal punto da destare allarme internazionale. Non solo gli americani infatti obbligano alla vaccinazione contro il morbillo i cittadini statunitensi che intendano recarsi in Italia, ma stamattina sulle colonne del New York Times è comparso un editoriale dal titolo “Populismo, politica e morbillo” che attacca direttamente il nostrano Movimento 5 stelle.

La prestigiosa testata americana accusa «il movimento populista» di diffondere teorie false e allarmiste in merito ai vaccini e di aver «fatto attivamente campagna anti vaccini, ripetendo i falsi legami tra vaccinazioni ed autismo».  Per «scettici» di questo tipo, scrive preoccupato il giornale, «la diffusione del morbillo in Italia dovrebbe suonare come un allarme forte».

Niente di tutto ciò, anzi: la reazione del comico – che ha sempre elogiato la stampa estera, unica alla quale concedeva interviste – è la solita. Dal suo blog attacca e sbraita contro il quotidiano statunitense: «Una balla. A sostegno della quale non c’è nulla, neppure un link, un riferimento, una dichiarazione. Nulla. Non c’è perché è una balla». Una «fake news», una «bufala internazionale» per la quale «il direttore deve chiedere subito scusa». E chiude: «Subito obbligatorio un vaccino contro le cazzate dei giornalisti».

In realtà, di link e dichiarazioni in merito alla pericolosità dei vaccini, e contro la loro obbligatorietà, ce ne sono parecchie. Di attivisti come di parlamentari pentastellati, che giusto a gennaio chiedevano «giustizia per le centinaia di persone che hanno subito i danni da vaccino – 673 casi accertati dal ministero della Salute» e che «non si negano». O che dal Parlamento europeo nel 2015 ci spiegavano, per bocca dell’eurodeputato Piernicola Pedicini, perché «vaccinare meno è vaccinare meglio».

Ma soprattutto ne esistono del capo comico Beppe Grillo. Nel 2007, tre mesi dopo il primo V day a Bologna, ovvero nel pieno della sua campagna per fondare il Movimento, il leader nascente parla ampiamente della “truffa dei vaccini”. Nel suo spettacolo, paragonava l’obbligo di vaccinarsi con l’obbligo di giocare a poker – alludendo evidentemente a un qualche interesse economico che lo Stato dovrebbe trarre dall’immunizzazione delle case farmaceutiche – e narra di come la difterite si sarebbe estinta da sola. Soprattutto, mette in guardia dai vaccini, che iniettando “il virusino”, vanno a danneggiare quel «sistema immunitario perfetto» che avrebbero «i bambini di un anno».

 

Perché è importante l’archiviazione di Cappato sul caso Dj Fabo

La notizia, la cronaca, è che i magistrati milanesi Tiziana Siciliano e Sara Arduini hanno proposto l’archiviazione per Marco Cappato, indagato per aver guidato la macchina che ha portato in Svizzera, a morire, Fabiano Antoniani (noto come Dj Fabo), rimasto tetraplegico in seguito a un incidente stradale.

Antoniani è morto il 27 febbraio scorso in una clinica svizzera con una pratica di suicidio assistito. Marco Cappato, volto dell’associazione Luca Coscioni, si era subito, rientrato in Italia, autodenunciato alla procura, secondo cui, però, non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante nella sua condotta, e la giurisprudenza, soprattutto, avrebbe «inteso affiancare al diritto alla vita tout court il diritto alla dignità della vita inteso come sinonimo dell’umana dignità». La parola ora è al Gip, e ovviamente vi aggiorneremo sugli sviluppi.

Interessanti sono però le reazioni. A cominciare da quella di Cappato, ovviamente, che dopo aver documentato e reso pubblica la battaglia di Antoniani, oggi, dialogando a distanza coi pm, scrive: «La vita è un diritto, non un dovere. Sulla base delle motivazioni proposte dal Pm, l’assistenza alla morte volontaria di una persona affetta da malattia irreversibile si potrebbe fare non solo in Svizzera, ma anche in Italia». Cappato quindi rilancia, indicando quella che è una strada alternativa rispetto al dibattito parlamentare – che chissà se procederà e con quali ritmi. La legge sul testamento biologico, approvata dalla Camera – e giudicata positiva dalla stessa Coscioni – è infatti ora alla prova, ben più difficile, del Senato (Qui vi spieghiamo cosa prevede la legge in questione).

Importanti sono poi le parole di Mina Welby, che le affida a Repubblica. Anche lei attivista radicale, la linea è infatti la stessa di Cappato: «Non mi aspettavo le parole scritte dalle due pm», dice Welby, «e cioè che il suicidio assistito non viola il diritto alla vita, quando questa è ritenuta intollerabile e non più dignitosa da una persona malata. Dette da due giudici sono affermazioni straordinarie».

Di tutt’altro tenore sono le reazioni di un certo mondo cattolico, più radicale, o di destra. Due titoli val la pena citare, come rassegna stampa: quello di Avvenire e quello de La Verità. “I pm legalizzano il suicidio assistito” è il titolo del pezzo che compare sul quotidiano di Belpietro, che si chiede se Cappato sia quindi solo un “tassista di cuore”, «un ruolo che a noi pare riduttivo». Avvenire, invece, si concentra sul fatto che i magistrati sembrerebbero così anticipare la legge che il Senato dovrebbe (nelle più rosee speranze) approvare solo per la fine di giugno. La tesi, espressa con ben più moderazione, è più o meno quella esposta anche nell’editoriale di Sallusti. Che sul Giornale si domanda a questo punto a cosa serva il Parlamento «se in questo Paese decidono tutto i magistrati, vuoi per clamorosi vuoti legislativi, vuoi per subdole invasioni di campo?».

In effetti il precedente – se confermato e, soprattutto, se ripetuto in un’identica inchiesta che riguarda sempre Cappato su un altro viaggio, quello di Davide Trentini, morto il 13 aprile – è importante. Perché lo spiega Filomena Gallo, avvocato di Cappato e sempre della Coscioni. Secondo Gallo il leader radicale avrebbe «non tanto aperto le porte alla possibilità di aiutare le persone affette da malattie irreversibili a interrompere le proprie sofferenze insopportabili in Svizzera, ma a farlo in Italia».

L’archiviazione e la battaglia di Cappato, dunque, sono un buon segno per la battaglia generale. È innegabile. Forse lo sono meno per l’iter parlamentare – i centristi da Ap a gli ex forzisti chiedono ulteriore prudenza: «il magistrato chiedendo l’archiviazione del procedimento contro Cappato ha già deciso che la richiesta di Fabo non è contraria alla legge. Una semplice, elementare prova, che la legge appena approvata alla Camera contiene in se stessa tutti i germi che ne fanno una finestra spalancata sull’eutanasia», dice ad esempio Paola Binetti – ma tanto il passaggio al Senato è stretto lo stesso. Inutile pensare che non sia così.

E dunque. «Perché ostinarsi a difendere la vita anche quando, senza aver perso ogni dignità, ci si trascina malamente e si vorrebbe solo che tutto finisse?», nota giustamente Michela Marzano, deputata indipendente, e scrittrice e filosofa, che saluta con favore, sempre su Repubblica, la relazione dei Pm milanesi: «Eppure questa è l’idea che continua a prevalere almeno in Parlamento, costringendo ancora una volta (eh già, ancora una volta, ribadiamo noi) la magistratura a farsi interprete dei desideri più profondi di ognuno di noi e a trasformarsi in palatina dell’etica della cura».

Una cosa di sinistra? Difendere i diritti del lavoro. Tsipras ripristina il contratto nazionale in Grecia

epa05901634 Greek Prime Minister, Alexis Tsipras speaks during a joint statement held on the occasion of the Southern European Countries Summit, at El Pardo Palace in Madrid, Spain, 10 April 2017. EPA/JUAN CARLOS HIDALGO

Dalla tanto criticata Grecia di Alexis Tsipras, spesso rimproverato di non essere abbastanza di sinistra, arriva una notizia che non può certo passare in secondo piano. Da tempo il governo greco insiste sulla contrattazione collettiva come punto dirimente per le proprie politiche e nell’ultimo memorandum, ne viene finalmente previsto il ripristino a partire dal 2018. Mentre Matteo Renzi definisce il Jobs act «la cosa più di sinistra», insomma, il premier greco incassa almeno un risultato di sinistra:  «I diritti dei lavoratori e la contrattazione collettiva, aveva scritto Tsipras in una lettera ai suoi omologhi europei, nel mio Paese sono limitati».

Dopo innumerevoli ricatti ed estenuanti trattative, il 2 maggio il governo di Atene ha raggiunto il nuovo accordo preliminare con le istituzioni europee. Un pre-accordo, per la verità, che dovrà essere ratificato dall’Eurogruppo il 22 maggio. Prima, però, Alexis Tsipras dovrà convincere il suo Parlamento che il testo è il male minore, rispetto al «liberismo senza limiti» del centrodestra. Gli obiettivi, difficili ma non impossibili nel Paese che si è ormai fatto suo malgrado simbolo dall’austerità, è quello della riduzione del debito greco: uscire dal commissariamento e accedere al quantitative easing della Bce, ripristino della contrattazione collettiva e costruzione di uno stato sociale che dia a tutti la possibilità di accedere alle prestazioni fondamentali. In cambio, però, un nuovo un taglio alle pensioni di 900mila cittadini che percepiscono, al momento, più di 700 euro al mese (in media, un taglio del 9%, con picchi del 18%), l’abbassamento della no tax area da 8.636 euro a 5.681 euro.

Ma torniamo al Lavoro, quello che passa – erroneamente – in secondo piano nel racconto dei vari Memorandum. «Quasi 200mila persone prendevano uno stipendio sotto ai 100 euro al mese, il mercato del lavoro era messo molto male, decine di migliaia di lavoratori rimanevano ancorati ad aziende chiuse ma non andate in fallimento in maniera da continuare a ricevere il sussidio di disoccupazione. C’erano persone che dopo 20 mesi senza stipendio e senza reddito non potevano avevano diritto al sussidio, il lavoro nero era arrivato a quota 20%, la disoccupazione ufficiale al 30% e grazie alla deregolamentazione completa i contratti a livello aziendale superavano quelli di categoria, per non parlare dell’abolizione dei contratti nazionali. Ogni datore di lavoro poteva denunciare gli accordi della sua categoria e disconoscere i relativi contratti. Per la prima volta in Grecia il ministro del Lavoro poteva decidere il livello di salario minimo senza consultazione o trattative tra le parti». Così Andreas Nefeloudis, segretario generale del ministero del Lavoro greco, ci raccontava come stava la Grecia prima del loro governo (l’intervista è dell’8 febbraio scorso, e potete rileggerla qui). E in quell’intervista ci metteva in guardia: «I governi europei – specialmente quelli con alti tassi di disoccupazione o di orientamento progressista – anche se sono costretti a sopportarli, devono stare molto attenti nell’applicare misure di deregolamentazione del lavoro, anzi devono spingere per l’abolizione dei voucher nel mercato di lavoro. In Grecia, intanto, su iniziativa delle nostra ministra del Lavoro, abbiamo abolito i voucher nei programmi del ministero e per qualsiasi cosa siamo in diretto contatto con i disoccupati. Il voucher non può sostituire né il salario minimo, né il lavoro occasionale. L’unica risposta alla disoccupazione è un lavoro vero, dignitoso, protetto e garantito per far prosperare le famiglie, la società e i nostri Paesi. Il governo di Alexis Tsipras in Grecia lavora in questa direzione».

Mentre i – rimasti – 27 discutono ancora di Brexit – e di tutti i possibili -exit – e si fa un gran parlare di “fuori o dentro l’Ue”, la Grecia batte la strada europeista.

Riepilogo ONG: Salvini mente, Siracusa smentisce Zuccaro ma la chiarezza la chiedono tutti (ONG incluse)

Il segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, posa con alcuni migranti durante la diretta Facebook a margine dei controlli di massa eseguiti dalla forze dell'ordine davanti la stazione centrale di Milano, 02 maggio 2017. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Ormai sta diventando una saga. Della becera idiozia.

Salvini vaneggia di un fantomatico “dossier segreto” (pensa di essere 007 e invece ha l’acume di Superpippo) e viene smentito. La secchiata di fango gliela versa in testa Giacomo Stucchi presidente del Copasir (e leghista, giuro, da morire dal ridere): «Con riferimento alle notizie circolate circa l’esistenza di un rapporto (dossier) predisposto dai Servizi segreti italiani e attestante rapporti tra scafisti e ONG per il controllo del traffico dei migranti nel Mediterraneo – scrive Stucchi – , dopo le verifiche del caso, alla luce di informazioni assunte, ritengo corretto evidenziare come tali notizie risultino prive di fondamento».

Poi c’è il procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, che, in audizione al Senato, sulle parole di Zuccaro, procuratore capo a Catania ha risposto: «A noi come ufficio non risulta nulla per quanto riguarda presunti collegamenti obliqui o inquinanti tra ong o parti di esse con i trafficanti di migranti. Nessun elemento investigativo». Una risposta che non stupisce: che non esistano elementi investigativi in fondo si capisce anche dalle (troppe) parole di Zuccaro ma qui, se serve, un dubbio vale come un’accusa, per fare baccano.

In compenso ci sono le parole di alcune ONG. MSF: «Che si indaghi, che sia fatta chiarezza. Ciò che stiamo facendo da tre anni è tutto trasparente, tutto tracciabile. Noi non abbiamo nulla da nascondere […] Se parliamo di soccorso in mare, a segnalazione si interviene. Quando noi avvistiamo imbarcazioni in difficoltà, prima segnaliamo alla Guardia costiera e attendiamo da loro l’autorizzazione per intervenire. Non abbiamo alcun contatto con i trafficanti».

Giancarlo Perego, direttore di Mograntes, fondazione della Cei: «È giusto che la Procura e la Magistratura siano vigili e assumano conoscenze sulla situazione attuale nel Mediterraneo, perché i migranti non siano doppiamente vittime».

In compenso passata la tempesta sulle ONG (che già sembra diventata un pioggierellina) in Serie A il calciatore di colore Muntari viene squalificato per aver reagito ai cori razzisti dei tifosi del Cagliari e a Milano è andata in scena una bella prova tutta muscoli e elicotteri della Polizia. Perché è questo, alla fine, il filo rosso. Quello vero.

Ma quindi, esattamente, di cosa stiamo parlando?

Buon mercoledì.

Contro il bavaglio all’informazione e per la libertà di stampa in Turchia, oggi sit in a Roma

Nella Turchia di Erdogan fare il giornalista è diventato un mestiere molto pericoloso. Sono oltre 150 i reporter in prigione, secondo le ultime stime dell’osservatorio per la libertà di stampa P24. E almeno un centinaio quelli costretti a fuggire dal Paese per evitare il carcere. Nei mesi scorsi ci siamo occupati del caso della scrittrice Asli Erdogan, arrestata solo per aver collaborato con un giornale che il governo di Ankara giudica filo curdo. E più di recente del caso di Daniele Del Grande che è stato arrestato mentre stava facendo interviste per il suo nuovo libro. Il suo rilascio è stato un passo importante, ma la situazione per i professionisti dell’informazione in Turchia continua ad essere più che drammatica. Per mantenere alta l’attenzione contro il “Bavaglio turco”, alla vigilia della Giornata mondiale della libertà di stampa, oggi a Roma in piazza Montecitorio (ore 11.30), Fnsi, UsigRai, Amnesty International Italia, Odg Lazio, Pressing NoBavaglio e altre organizzazioni per i diritti umani hanno organizzato un sit in. Alla mobilitazione partecipa anche Articolo 21, che scrive questa nota:

La nuova “democrazia” voluta da Erdogan, dopo il colpo di Stato fallito in luglio e il referendum popolare vinto con il 51% e tante ombre di brogli, continua a preoccupare l’Europa e i delicati rapporti diplomatici nello scacchiere mediorientale. Migliaia le persone che sono finite nelle carceri turche dopo il tentato colpo di stato per far capitolare il nuovo sultano Erdogan. Tra loro anche tanti giornalisti, documentaristi, blogger, fotografi e videomaker. La loro colpa? Aver dato voce all’opposizione del presidente.
Archiviata felicemente la liberazione di Gabriele Del Grande – fermato a Rehali, mentre si trovava al ristorante per raccogliere una delle storie di vita che saranno raccontate nel prossimo libro “Un partigiano mi disse” sulla nascita dell’Isis e finanziato grazie al crowdfunding – tra i giornalisti che rimangono nelle carceri c’è anche Deniz Yucel, arrestato lo scorso 14 febbraio, reporter turco-tedesco del Die Welt. Fermato perché accusato di “propaganda terroristica”, “istigazione all’odio” e “diffusione di dati”. Una posizione delicata anche per il possesso del doppio passaporto. A poco sono serviti gli appelli di Angela Merkel, Martin Schulz e le campagne stampa organizzate da alcuni grandi quotidiani europei appartenenti al gruppo Leading European Newspaper Alliance (Lena).
I reportage di Yucel sono stati considerati eccessivamente critici nei confronti del governo turco. Yucel durante la convalida del suo arresto, dopo 14 giorni di fermo stabiliti dalle autorità turche, si è difeso raccontando di avere lavorato ad un pezzo su RedHack, collettivo di hacker turchi che diffuse alcune mail di Berat Albayrak, ministro dell’Energia e genero del presidente Recep Tayyip Erdogan. Proprio il sultano in persona disse che Yucel avrebbe meritato l’ergastolo perché “fiancheggiatore del terrorismo”. Adesso rischia 10 anni ed è recluso in un carcere senza poter avere contatti con altri detenuti: le uniche persone che può vedere sono i suoi legali. Da circa 75 giorni il reporter turco-tedesco non conosce il proprio destino. Altri sei reporter turchi sono in cella per lo stesso caso: secondo il quotidiano tedesco Die Welt alcune mail dell’affaire Wikileaks riguardavano proprio la Turchia e in particolare il controllo sui gruppi editoriali e l’influenza sull’opinione pubblica mediante una rete di account fake su Twitter.
Nonostante la prigionia Deniz Yucel è riuscito a sposare Dilek Mayaturk, collega che lo affianca da molti anni. Un matrimonio di cui non esiste nemmeno una foto: il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha emesso un divieto ad hoc affinché durante la cerimonia non venissero scattate foto né girati video.
Il clima di preoccuazione all’interno delle redazioni turche ovviamente non migliora. Non è un caso che in questi ultimi anni l’indice di libertà di stampa in Turchia sia sceso in maniera preoccupante: oggi è scivolata al 155° posto su 180, secondo la classifica di Reporters Sans Frontiers. E c’è il timore, purtroppo realistico, che le cose possano anche andar peggio di così.
Il 2 maggio a Roma la Federazione della stampa, Articolo 21, No Bavaglio, Amnesty, Arci, Ordine dei giornalisti del Lazio e tante altre associazioni, hanno deciso di promuovere, di fronte alla Camera dei deputati, un sit in per leggere tutti i nomi delle giornaliste e dei giornalisti detenuti nelle carceri turche: “Un modo per raccogliere gli appelli che arrivano dalla Turchia – affermano gli organizzatori – ma anche per chiedere alle autorità politiche ed istituzionali, internazionali e nazionali, di non fingere di non vedere e di non sapere cosa stia accadendo, e non da oggi, in quel paese”.
La situazione viene definita da Rsf “difficile” o “molto grave” in 72 paesi, fra cui Cina, Russia, India, quasi tutto il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’America centrale, oltre che in due terzi dell’Africa. Ventuno i paesi classificati come “neri”, in cui la situazione della libertà di stampa è “molto grave”: fra questi Burundi 160/o su 180), Egitto (161) e Bahrein (164). Ultima assoluta, come negli ultimi anni, la Corea del Nord, preceduta da Turkmenistan ed Eritrea. Male anche Messico (147) e Turchia (155). In testa alla classifica, sempre i paesi del Nord Europa, ma la Finlandia cede il primo posto che deteneva da 6 anni alla Norvegia, a causa di “pressioni politiche e conflitti d’interesse”.