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L’ultimo saluto a Valentino Parlato. Un giornalista, davvero

Valentino Parlato, presidente del consiglio d'amministrazione il 9 febbraio 2012, durante la conferenza stampa tenuta dalla redazione del giornale per annunciare la liquidazione coatta amministrativa della testata. ANSA/ GUIDO MONTANI

Se n’è andato il 2 maggio, intorno alle 10 del mattino. A 86 anni, dopo una notte di coma e 24 ore di ricovero. E ha lasciato un vuoto incolmabile, Valentino Parlato, in un’informazione, quella italiana, che fa acqua da tutte le parti. E in un momento, questo, in cui manca la terra sotto i piedi a chi fa il nostro lavoro nonostante sia «in crisi la speranza», come diceva lui. Soprattutto a sinistra. Tra i fondatori e più volte direttore de Il manifesto, Parlato ha con spirito critico e forte indipendenza letto la realtà da sinistra, a sinistra e per la sinistra. Da comunista quale è stato, per tutta la vita, militando nel Pci fin quando il partito non lo ha espulso, nel 1969.

Dalle 15 di oggi – venerdì 5 maggio – è allestita la camera ardente presso la Protomoteca del Campidoglio, dove alle 17,30 si terrà la cerimonia funebre. Nello stesso Campidoglio che oggi ospita Virginia Raggi, sindaca che ha votato per poi, pentito, dichiarare: «Ero talmente indignato verso il Pd che per la prima volta ho tradito la sinistra, spero sia anche l’ultima».

Noi lo salutiamo con le sue stesse parole.

«Che cosa dovrebbe voler dire per noi tendenza? La denunzia dello stato di cose esistente e la volontà-possibilità di un cambiamento»

«Questa borghesia è illuminata finché qualcun altro paga la bolletta della luce»

«Dobbiamo capire che siamo a un passaggio d’epoca, direi un po’ come ai tempi di Marx quando il capitalismo diventava realtà e cambiava non solo i modi di produzione, ma anche i modi di vivere degli esseri umani.
Quando scrivo «passaggio d’epoca» vorrei ricordare che il capitalismo fu, certamente, un passaggio d’epoca, ma conservò modi di pensare e valori e anche autori del passato greco-romano, come dire che nella discontinuità c’è sempre anche una continuità, ma questo non ci deve impedire di capire i mutamenti che condizioneranno la vita dei giovani e delle generazioni future.
Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà».

«La sinistra è così debole perché non si è accorta che tutto attorno a noi è mutato. Il lavoro umano purtroppo è meno importante di una volta, le cose, le macchine, si sono presi un vantaggio sulle persone. I modi di produzione sono cambiati ma non riusciamo ancora ad analizzarli. Soprattutto è in crisi la speranza».

«Una volta erano ottanta sigarette al giorno. La dottoressa mi ha detto che devo ridurle a cinque perché il fumo riduce la quantità di ossigeno che va al cervello, e quindi istupidisce: un tempo invece aguzzava l’ingegno. Non so se crederle. Il mondo è proprio cambiato»

Il Guggenheim digitalizza il suo archivio. Storie 2.0 di musei e biblioteche che mettono in salvo la cultura

Lo aveva già fatto l’anno scorso la biblioteca di New York digitalizzando la maggior parte dei materiali d’archivio in suo possesso e mettendo a disposizione di chi, sparso in qualsiasi punto del globo, possiede una semplice connessione internet, ben 187.000 documenti fra stampe antiche, mappe, atlanti, cartoline, fotografie, libri, lettere, foto segnaletiche e addirittura spartiti musicali.

L’archivio della biblioteca di New York nella sezione dedicata alle immagini stereoscopiche, oltre 42.000

Ora è la volta del Guggenheim Museum. Il museo ha infatti messo a portata di click il suo archivio di libri d’arte, stampe e documenti permettendone la consultazione gratuita online e il download. Si va da cataloghi di esibizioni dedicate a Gustav Klimt e Egon Schiele, Van Gogh e l’espressionismo, ma anche dei giovani pittori americani, di Kandinsky o di artisti della Pop Art come Robert Rauschenberg e Roy Lichtenstein fino alla video art di Bill Viola.

Guggenheim Museum

Preservare la cultura tramite la digitalizzazione è in particolare la missione dell’Internet Archive che oltre al profilo del Guggenheim ospita anche quello di molte altre università, organizzazioni e musei. Vi assicuriamo che è un ottimo posto in cui perdersi alla scoperta di libri testi, foto e stampe.

La scelta del Guggenheim si aggiunge dunque a quelle di molti altri musei (anche il Met aveva preso recentemente la stessa decisione), biblioteche e archivi culturali che si stanno dirigendo a grandi passi verso la digitalizzazione e soprattutto la diffusione aperta e gratuita dei loro contenuti. In alcuni casi, qualche filantropo, fermamente convinto dell’importanza di condividere su scala più ampia e aperta possibile la cultura, ha addirittura donato il suo patrimonio. È il caso di Geographicus Rare & Antique Maps, un antiquario di New York specializzato nella ricerca, nel restauro e ovviamente nella vendita di mappe più e meno antiche, che ha scelto di donare i file digitali di oltre 2000 mappe ed atlanti risalenti a varie epoche che vanno dal 1600 ai primi del 900 a Wikimedia Commons per renderle consultabili e addirittura volendo stampabili al mondo intero.

Lavoratori di tutto il mondo. Le foto del Primo maggio

© Ansa EPA / FERNANDO BIZERRA

Lavoratori indiani in una fabbrica di mattoni vicino a Allahabad, India. (Photo SANJAY KANOJIA/AFP/Getty Images)

30 aprile 2017. Tabqa, Siria. Membri delle forze democratiche siriane (SDF) sostenute dagli Stati Uniti, costituite da un’alleanza di combattenti arabi e kurdi. (Photo DELIL SOULEIMAN/AFP/Getty Images)

Il primo maggio a Cuba. (Photo ADALBERTO ROQUE/AFP/Getty Images)

Dimostranti protestano contro le misure del governo brasiliano di Michel Temer, tra cui la riforma del lavoro e la riforma del sistema pensionistico. Sul cartello si legge ‘Fuori Temer, Fuori Moro, siamo in una dittatura’.
© Ansa EPA / FERNANDO BIZERRA

Primo maggio in Siria, Un ragazzo lavora come fabbro nella città di al-Bab nella provincia settentrionale di Aleppo. (Photo ZEIN AL RIFAI/AFP/Getty Images)

Santiago, Cile. Un momento della protesta durante la marcia del primo maggio. (Photo LUIS HIDALGO/AFP/Getty Images)

Parigi, Francia. Primo maggio, scontri tra polizia e manifestanti. (Photo ZAKARIA ABDELKAFI/AFP/Getty Images)

2 maggio 2017. Harasta. Damasco, Siria. Bambini siriani durante le esercitazioni in caso di bombardamento. (Photo SAMEER AL-DOUMY/AFP/Getty Images)

Tegucigalpa, Honduras. Immagine della diga di Los Laureles, che lungo il serbatoio di Concepcion, fornisce acqua potabile a oltre un milione di persone. Le temperature alte e la deforestazione hanno ridotto il livello dell’acqua di circa il 50% con il razionamento dell’acqua nella capitale hondurana a breve. (Photo ORLANDO SIERRA/AFP/Getty Images)

Piattaforma di trivellazione petroliera Shell’s Brent Delta Topside trainata dai rimorchiatori lungo le coste della città portuale di Hartlepool, Regno Unito (Photo SCOTT HEPPELL/AFP/Getty Images)

3 maggio 2017. Un momento della protesta contro il presidente venezuelano Nicolas Maduro, a Caracas. (Photo CARLOS BECERRA/AFP/Getty Images)

Piazza Dvortsovaya, San Pietroburgo, Russia. Carriarmati russi durante le prove per la sfilata militare per il 72 ° anniversario della vittoria del 1945 sulla Germania nazista. (Photo OLGA MALTSEVA/AFP/Getty Images)

Pescatori indiani arrestati per aver praticato pesca illegale nelle acque territoriali del Pakistan. (Photo ASIF HASSAN/AFP/Getty Images)

4 maggio2017. Un villaggio situato tra le stazioni collinari di Mahabaleshwar e Panchgani, famoso per le sue fragole, sarà ora conosciuto anche come il primo “villaggio di libri” dell’India. Circa 15.000 libri, riviste e quotidiani saranno disponibili per la popolazione locale e per i turisti. © Ansa EPA/DIVYAKANT SOLANKI

Alitalia cronaca di una tragedia annunciata

An Alitalia air transport employee is pictured during a protest rally of air traffic controllers and air transport employees on March 20, 2017 at Rome's Fiumicino airport. Air traffic in Italy was being disrupted on March 20 due to strikes at the nation's airports, including a four-hour work stoppage by air traffic controllers. Alitalia, facing fierce competition from low-cost carriers like Ryanair, is expected to cut 2,000 jobs and slash salaries by nearly a third, moves opposed by the unions which have called for a strike at the Italian carrier on April 5. / AFP PHOTO / Alberto PIZZOLI (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

In questi anni, moltissime compagnie aeree sono fallite, in Europa ed in USA. Il settore è stato in crescita continua, e non risulta che, in seguito a quei fallimenti, i lavoratori siano rimasti a lungo disoccupati, l’indotto privo di commesse, o i passeggeri senza servizi aerei.
Di ben diversa gravità le crisi di settori obsoleti per ragioni tecnologiche, o geografiche (l’alluminio e la siderurgia, molte attività del terziario, produzioni “esportabili” a costi inferiori ecc.). Che poi il voto negativo dei lavoratori (il 67%) sia stato suicida o irrazionale, pare difficilmente credibile. Più verosimilmente la gran parte di loro ha valutato le alternative, sia in termini di altre possibilità di occupazione nel settore, che in quello di “condizioni di uscita”, che come prospettive di intervento pubblico ulteriore. Come dimenticare infatti i salvataggi già avvenuti, e la sorte degli esuberi risultati dalla crisi precedente, in cui sono stati garantiti 7 anni di stipendio all’80%, pagati da tutti i viaggiatori aerei con una addizionale alle tesse di imbarco? Molti avranno pensato ad un trattamento non troppo diverso, confortati anche dalla dichiarazione del ministro Calenda, che ha parlato di “costi per lo Stato, in caso di fallimento, di un miliardo di Euro”. Questa cifra, che si spera si riferisca solo alla protezione sociale dei 12.000 lavoratori, sarebbe pari circa a 85.000€ per addetto.
Una cifra che sembra molto diversa di quella di cui possono godere le categorie di lavoratori più deboli e meno politicamente protetti che perdessero il lavoro.
E qui veniamo alle origini del fallimento di Alitalia, tutte riconducibili alla citata ininterrotta protezione di un “campione nazionale” che certo da molti anni non è più tale. In un contesto aereo europeo aperto alla concorrenza, che tanto ha giovato a tutti i viaggiatori italiani, il concetto stesso di “campione nazionale” appare datato ed indifendibile, buono giusto per proteggere dei monopolisti aggrappati alla borsa dello Stato. Infatti le tariffe aeree, grazie all’avvento delle compagnie low-cost, sono crollate per tutte le compagnie di un 30% circa, si stima, ma la cultura dei campioni nazionali piace moltissimo ai politici, che ne fanno disinvolto uso per “voti di scambio” e collocazione di clientele a tutti i livelli, se non peggio. Questa non disinteressata protezione, si badi, è micidiale, oltre che per i contribuenti, anche per la crescita delle imprese stesse, che non innovano e non imparano a competere. Questa è stata anche la storia di Alitalia, fallita quattro o cinque volte e già costata ai contribuenti circa 8 miliardi di Euro (dati Mediobanca).
Se poi Alitalia producesse aerei, cioè avesse un contenuto tecnologico elevato e competitivo, qualche prudenza nel lasciarla fallire o anche solo vendere potrebbe essere giustificato. Ma si limita a far volare aerei, e non appare nemmeno in grado di farlo senza perdere soldi. Che poi sia importante per l’immagine del Paese non sembra proprio: è piuttosto vero il contrario, ormai è universalmente noto che la compagnia ha continuato a volare solo grazie a continui salvataggi pubblici.
Il sindacato ne chiede la sostanziale rinazionalizzazione, ignorando che è stata proprio la continua protezione pubblica a renderla inefficiente.
La politica nega sdegnosamente ogni ipotesi di “accanimento terapeutico”, cioè di ulteriori salvataggi a spese dei contribuenti. Ma il risorgere turbinoso di sentimenti “sovranisti” ed antimercato deve rendere molto prudenti i giudizi e le aspettative: quando la Patria chiama, si accorre!
Ed infatti il “prestito ponte” di 600 milioni di Euro recentemente approvato fa presagire il peggio: chi seriamente può pensare che una compagnia che oggi perde più di un milione al giorno lo possa restituire? Quanto è l’aiuto pubblico già implicito in un prestito a tassi di mercato ad una compagnia già sostanzialmente fallita (non ha più nemmeno gli aerei, per la gran parte già venduti e ripresi in leasing)? Ed in caso di fallimento, non si tratta certo di un “credito previlegiato”.
Molto più realistico pensare, di fronte all’ennesima futura insolvenza, alla trasformazione del prestito in azioni. Nessuno strillerebbe troppo, e lo Stato rientrerebbe senza strepito nel controllo della compagnia, tornate “di bandiera” a spese dei contribuenti. Ma un altro scenario è possibile, ancora più inquietante (non c’è limite al peggio). Infatti i servizi di trasporto (tutti: ferroviari, strade, trasporto locale, autobus di lunga percorrenza) si stanno concentrando nella nuova IRI nazionale, la megaholding FSI SpA, tutta pubblica ed ipersussidiata (senza soldi pubblici fallirebbe in breve). Questo ovviamente per Il bene dei viaggiatori. E quelli del trasporto aereo non dovrebbero poterne godere anche loro?
FSI ed i politici oggi negano sdegnosi, come si è detto. Ma solo ieri avrebbero negato sdegnosamente anche il “prestito” di 600 milioni.

Il PD, le pistole, la rana e lo scorpione

Il vero danno di questa ultima legge sulla “legittima difesa” non è tanto nel codice penale (che, bene o male, garantiva, ha sempre garantito, protezione per le vittime) ma nello sfacelo culturale di un Partito Democratico che ormai non è più un cortocircuito con corsia preferenziale verso destra ma un maldestro attuatore dei conati che arrivano dappertutto.

Invischiato nell’ombra senza corpo di un governo che alla chetichella infila le stesse porcate di prima (mettendo i bulli dietro le quinte e il secchione a fare da paravento) quello che fu il Partito Democratico ha smesso di fare politica diventando prima il catetere del suo padroncino e poi, negli ultimi mesi, mettendosi a scodinzolare dietro i rutti peggiori del populismo. La cosiddetta “legge sulla difesa personale” è il regalo al populismo peggiore, quello che dibatte su ciò che non esiste ma che “si percepisce” perché fa comodo ad alcuni.

E qui il PD riesce a commettere addirittura due errori: innanzitutto prova a essere sceriffo slavato come se non si rendesse conto che l’emorragia di consensi sarà sempre superiore al guadagno elettorale (ma davvero qualcuno crede che un leghista si possa convertire all’adorazione di Renzi o Minniti?) e, soprattutto, innalza a temi politici (e contenuti di riforma) i deliri di chi ha bisogno di un allarme al giorno per meritarsi qualche prima pagina.

Così se prima si poteva dire che da quelle parti i modi erano di centrodestra (il culto del capo, la derisione degli sconfitti e la servitù ai potenti) ora davvero la destra si pratica davvero: muscoli a forma di poliziotti, armi come soluzioni di ordine pubblico, sicurezza fatta col digrignar di denti e un fastidio nemmeno troppo nascosto per partigiani e lavoratori.

Missione compiuta, amici del PD: avete osato lì dove non avevano osato nemmeno i protofascisti e i berlusconiani prima di voi. Avete riempito la pancia degli istinti peggiori. E, l’aspetto che fa più ridere, vi siete sforzati di fare il solletico ai vostri nemici giurati. È la vecchia favola della rana e lo scorpione: lo  scorpione chiede alla rana di lasciarlo salire sulla sua schiena e di trasportarlo sull’altra sponda di un fiume; in un primo momento la rana rifiuta, temendo di essere punta durante il tragitto, ma lo scorpione la convince: se la pungesse, infatti, anche lui cadrebbe nel fiume e, non sapendo nuotare, morirebbe insieme a lei. La rana, allora, accetta e permette allo scorpione di salirle sulla schiena, ma a metà strada la punge condannando entrambi alla morte; quando la rana chiede allo scorpione il perché del suo gesto folle, questi risponde: “È la mia natura”.

Già. Ormai è quella, la natura.

Buon venerdì.

Una mobilitazione collettiva, oltre il click

London, United Kingdom - April 28, 2011: Crowds on the street near Trafalgar Square in London, United Kingdom during the Royal Wedding of Prince William, Duke of Cambridge, and Catherine Middleton

Le file per le primarie del Pd e i click del movimento Cinque Stelle, le firme della Cgil per il referendum sui voucher e quelle delle petizioni online lanciate dai cittadini su Change.org. Nel dibattito italiano sul rapporto tra Rete e democrazia, il luogo comune degli internet-entusiasti vuole un contrasto netto tra l’ascesa dei movimenti online e il declino dei partiti, tra il potere dei social media e la crisi delle organizzazioni tradizionali. Questa contrapposizione, però, è piuttosto superficiale e quantomeno fuorviante.

L’innovazione tecnologica non può essere ridotta a un pretesto per lo scontro tra progresso e conservazione, tra nuovo e vecchio, quasi tra bene e male, secondo la brutale retorica del movimento di Grillo e Casaleggio. A generare questa confusione, infatti, non poco ha contribuito il modo con cui è stato presentato il M5s, che si è intestato l’uso virtuoso della Rete in politica, nell’inerzia del fronte progressista, dai partiti alle associazioni, ai media.

Se questo è successo finora in Italia, negli Stati Uniti, dove la Rete è nata, la politica progressista ha saputo utilizzare con creatività gli strumenti offerti dalla rivoluzione digitale. Internet ha aiutato a innovare e a rafforzare le istituzioni democratiche, senza rinnegarle né demolirle, ma stimolando lo spirito critico e il coinvolgimento della base. È dalla metà degli anni 90 che gli attivisti americani pensano a come sfruttare il digitale per dare più forza alle domande dei cittadini e più efficacia alla loro pressione sui governi, locali o nazionali. Allo stesso tempo, i leader politici democratici e quelli sindacali sono riusciti a cogliere l’opportunità del digital campaigning per ascoltare meglio i propri sostenitori, estendere il consenso, arruolare più volontari e raccogliere molti più fondi dai cittadini stessi con piccole donazioni, riducendo il condizionamento schiacciante delle grandi lobbies. Lo hanno fatto con successo i candidati John Edwards, Barack Obama e Bernie Sanders, che attraverso Internet ha mobilitato centomila volontari e raccolto oltre 200 milioni di dollari per la campagna delle primarie 2016. Infatti adoperare la tecnologia in politica non significa più solo moltiplicare i propri contatti su Facebook o Twitter, replicando lo schema di comunicazione tradizionale da uno a molti. La sfida è conoscere a fondo gli strumenti più interattivi per concepire e applicare strategie efficaci di coinvolgimento. Queste tecniche sono spesso mutuate dal marketing per gestire il rapporto di fidelizzazione con i clienti – non a caso si usano applicativi Customer Relationship Management (Crm). In politica e nel mondo delle Ong l’obiettivo è entrare nella dimensione online per riattivare quella offline, è raggiungere i cittadini attraverso lo smartphone e poi portarli a incontrarsi in una piazza, a discutere e mobilitarsi. Il pragmatismo statunitense ha visto nella Rete un’opportunità per uscire dalla crisi della partecipazione ai partiti, una via per risvegliare nelle persone la “consapevolezza politica latente” – come la chiamano i guru americani della comunicazione – in una nuova concezione di cittadinanza e di sfera pubblica.

L’articolo continua su Left in edicola

 

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La verità umana non è quella raccontata dai tre monoteismi

Il mondo moderno, le nuove tecnologie, la comunicazione ultra-rapida e pervasiva ha contribuito a rendere piccolo il mondo. Si dice che le nuove tecnologie abbiano smontato la politica tradizionale, che l’abbiano resa virtuale. Quelli che le sanno usare, insomma, avrebbero già vinto. In realtà credo che non sia del tutto vero. La tecnologia delle comunicazioni ha solo agevolato e accelerato un processo che ha le sue radici nella perdita di senso dei grandi sistemi ideologici che spiegavano il mondo e soprattutto spiegavano il senso per l’essere umano dell’essere nel mondo. Anche se, apparentemente, le uniche grandi architetture ideologiche sopravvissute sono le religioni monoteiste. Cristianesimo, islamismo ed ebraismo. Hanno ancora senso?

Perdita di senso… sarebbe meglio dire senso che non è mai stato verità completa. Erano verità parziali: La verità umana non è solo l’uguaglianza. La verità umana non è solo la libertà. La verità umana non è solo la realtà materiale e il rapporto con essa. La verità umana non è il rapporto con il non essere, con la divinità. In verità le religioni monoteiste sono in grande difficoltà se papa Bergoglio sostiene che sia necessario che i monoteismi si alleino per combattere la “perdita” di Dio che si sta diffondendo nel mondo. Il mondo sta cambiando e le nuove tecnologie accelerano un processo di cambiamento che si porta avanti da… decenni? O millenni?
La liberazione degli esseri umani dall’alienazione religiosa, l’aprire gli occhi, l’avere un rapporto con la realtà degli altri esseri umani sempre più esatto perché sempre meno soggetto alla pulsione di annullamento.

Ma come? Se il mondo è pieno di guerre e di fascismi e di disastri assortiti? È certamente vero. Ma è altrettanto vero che c’è una vita quotidiana di miliardi di persone in cui, spontaneamente, c’è una ricerca della propria e altrui realizzazione perché esiste una naturale e spontanea sanità, che se non oppressa e uccisa sul nascere nei primi mesi di vita, può realizzarsi facendo sì che gli uomini e le donne siano meno violenti con gli altri e con se stessi, rispetto a quanto lo sono state le generazioni precedenti.
Giovedì scorso ho avuto la fortuna di vedere lo spettacolo di Elda Alvigini, Liberi tutti. Al di là della bravura degli attori e della felice messa in scena, cui contribuisce una magnifica opera dell’artista Alessio Ancillai, la cosa che più mi ha colpito è la straordinaria sceneggiatura, scritta dall’attrice e regista con Natascia Di Vito. L’accostare i piccoli ed inesistenti drammi quotidiani di giovani o meno giovani alle prese con amori fugaci più o meno importanti alle vere tragedie, dei migranti che abbandonano tutto per cercare una nuova vita e che troppo spesso incontrano la morte nel mare.
Lo spettacolo di Elda Alvigini raggiunge il suo apice con un doppio monologo sulla separazione dal padre comunista: padre che dà la speranza della rivolta… rivolta che però è inesistente, che delude. Fallimentare perché senza identità. L’ultima scena, la più struggente. Una separazione di due bambini, analoga a quella finita male che viene rappresentata all’inizio dello spettacolo, ma che questa volta riesce. Un bambino lascia la sua cosa più preziosa ad una bambina. Non si vedranno mai più. Ma questo non vuol dire che la separazione non si possa fare bene. È certamente vero che non può esistere una separazione felice. Ma può e deve esistere una separazione che sia realizzazione personale. Per essere diversi, per essere più belli, per essere più intelligenti. Come un bambino che diventa grande.

Ieri Melania, mia figlia, mi ha chiesto di comprarle delle ciliegie. Mi ha detto “Papà mi compri le ciliegie? Come quella volta che le ho mangiate sul terrazzo da Massimo”. Il giorno dopo aveva un viso particolarmente bello, più del solito. E mi ha detto “Io lo amo Massimo. Anche se adesso non c’è più, lui ci sarà ancora nel suo giornale”. Le ho chiesto qual è il suo giornale. Mi ha detto subito, senza esitazione: “Left! Left è il suo giornale.”. Hai ragione bambina mia.

L’editoriale è tratto dal numero di Left in edicola

 

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Lo short film “L’altro paio”, una manciata di minuti di poesia

Una manciata di minuti di pura poesia con due bambini come protagonisti. Ha vent’anni Sarah Rozik e con il suo cortometraggio The other Pair (L’altro paio) ha vinto il Luxor film festival. Il video è del 2014 ma sta girando in rete in questi giorni e in ogni caso, anche se la notizia non è “fresca”, comunque vale la pena di vederlo.

Il soggetto è semplice: un incontro tra due bambini in una città povera e polverosa di un qualsiasi Paese del Medio Oriente, alle prese con un paio di scarpe. Sì, un paio di scarpe che ormai in certi angoli del mondo sono diventate un bene prezioso. Lo short film, girato nel 2014, scritto da Mohammed Maher e prodotto da Eman Samir è ispirato alla vita di Gandhi, ma ha un significato universale.

Per certi versi fa tornare alla memoria certe immagini di film del neorealismo come Ladri di biciclette di De Sica o Paisà di Rossellini, in cui dei bambini con i loro volti esprimevano tutto il dramma della povertà e della guerra. Ma nel film di Sarah Rozik, il filo di pensiero è un altro: i due bambini rappresentano il futuro e, parola oggi inusuale, la speranza. Il fatto che a girarlo sia una ventenne è un altro elemento positivo.

Forse a qualcuno, intrappolato nella realtà attuale, decisamente cruda, farà storcere il naso. Ma per un attimo, si potrebbe lasciare un po’ di spazio alla fantasia… Tanto il film dura pochi minuti.

La legittima difesa esiste già e assolve i più. A che serve la nuova legge?

Protesta dei parlamentari della Lega Nord durante il seguito della discussione in materia di difesa legittima in aula della Camera, Roma, 21 aprile 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Il punto è che la legge che c’era prima – e c’è ancora, dovendo il nuovo testo sulla legittima difesa, oggi approvata della Camera, passare comunque per il Senato – è una buona legge. O meglio: è una legge coi suoi limiti – quella che ha modificato non più di undici anni fa l’articolo 52 del codice penale – ma che non ha certo sbattuto in galera tutti coloro i quali si son difesi, arma in pugno o no. Anzi. Il dato sugli effetti della nuova formulazione – che è del 2006, epoca Berlusconi, prometteva di far crollare i furti in appartamento e ha posto, però, non pochi problemi alla giurisprudenza che ha dovuto ribadire il principio di “proporzionalità” della difesa – lo dà il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore e lo confermano i magistrati ascoltati in commissione. Sui furti non ha inciso granché, ma i casi aperti per legittima difesa sono (al 2015) in tutto 136 e per oltre il 90 per cento si prevede l’assoluzione.

(Qui un dossier della Camera sulle modifiche, che spiega bene anche il quadro normativo)

Per il Parlamento, evidentemente, anche il solo esser indagato – il fatto che qualcuno si prenda la briga di verificare se la legittima difesa ci sia stata o se invece si sia ucciso o ferito inutilmente – è però troppo. La nuova legge, questa è l’intenzione, dovrebbe fermare in tempi ancora più brevi l’azione della magistratura.

La legge precedente già consentiva di difendersi (Come dice alla Stampa il capo dei Gip di Milano Aurelio Barazzetta, secondo cui è francamente difficile «tutelare ancora di più» chi si difende in casa propria, ricordando che esiste già persino la legittima difesa putativa, «nel caso», ad esempio, «di rapina notturna in cui è difficile sapere se il ladro sia armato o no»)? Fa nulla. Cronaca e pancia suggeriscono di fare di più. Come dice anche Stefano D’ambruoso, deputato dei Civici e Innovatori che – prima di votare comunque a favore – ha riconosciuto che «i numeri che ci forniscono i tribunali non fanno ritenere questo intervento prioritario» e che evidentemente il testo «risponde più a ragioni politiche». Testo che si approva, ovviamente, negando che così si apra al Far west.

«Non c’è alcuna legittimazione della “giustizia fai da te”», spiega il ministro degli Affari regionali con delega alla famiglia, Enrico Costa, in un’intervista al Messaggero: «Più semplicemente eliminiamo il percorso processuale per persone aggredite in casa propria che, lo dicono i numeri, non vengono condannate quasi mai». Siccome i più non vengono di solito condannati, è dunque il ragionamento, si può evitare di verificare. O meglio, spiegano ancora dalla maggioranza – a parlare è Antonio Marotta, alfaniano e contento – siccome «l’obbligatorietà dell’azione della magistratura resta», a cambiare è «l’approccio». Si presume, insomma, l’innocenza.

A rafforzare la tesi di Costa c’è l’opposizione dei gruppi parlamentari più di destra, tipo Fratelli d’Italia, con Ignazio La Russa che si è alzato in Aula per strillare che questa legge «è un bluff», «una trappola», e con i leghisti che sostengono come il provvedimento non eliminera «la gogna» a cui è condannato chi difende «la sacralità» della propria casa o del proprio luogo di lavoro.

A commentare negativamente un testo che in effetti porge il fianco (intervenendo inizialmente solo sull’articolo 59, per esempio, e non sul 52, o individuando la “notte” – ma quando comincia la notte? – come momento più legittimo per reagire al “grave turbamento”) sono anche i giornali di destra, come Libero. Che scrive: «Puoi sparare ai ladri solo di notte. Mesi di discussioni e promesse su come riformare il diritto di proteggersi dalle aggressioni per poi partorire un aborto».

C’è poi l’opposizione di Silvio Berlusconi, che consente al Pd – nonostante le critiche da sinistra, che arrivano da Sinistra italiana, Possibile & co – di sostenere la correttezza del testo, che è stato dai dem emendato, alla fine, in una forma di mediazione con gli alleati alfaniani. E approvato nonostante i dubbi di alcuni, tra cui quelli dello stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando.

 

Cosa c’è da sapere sul dibattito Macron – Le Pen

epa05942547 French presidential election candidate for the far-right Front National (FN) party, Marine Le Pen (L) and French presidential election candidate for the En Marche ! movement, Emmanuel Macron pose prior to the start of a live brodcast face-to-face televised debate in television studios of French public national television channel France 2, and French private channel TF1 in La Plaine-Saint-Denis, north of Paris, France, on 03 May 2017 as part of the second round election campaign. Pro-EU centrist Emmanuel Macron and far-right leader Marine Le Pen face off in a final televised debate on 03 May that will showcase their starkly different visions of France's future ahead of this weekend's presidential election run-off. EPA/ERIC FEFERBERG / POOL MAXPPP OUT

L’impressione dopo due ore e mezza di trasmissione è più quella di aver assistito a un match di boxe (nemmeno troppo entusiasmante) che a un dibattito fra i due candidati alla presidenza francese. La leader del Front national Marine Le Pen e il centrista Emmanuelle Macron, come era prevedibile, hanno rimarcato il loro essere in disaccordo praticamente su tutto con accuse, battute, sorrisini, ma senza riuscire davvero a spiegare quale fosse il loro effettivo programma. Nonostante la violenza del dibattito – che il New York Times descrive come «un violento combattimento verbale» e il Washington Post come «una rissa all’americana», molto poco francese insomma – i due candidati, a quanto sostengono i corrispondenti di Politico, non sembrano essere riusciti a conquistare gli indecisi. Le Pen ha puntato soprattutto su una retorica anti-establishment, paragonando Macron a Hollande (non proprio nelle grazie dei francesi), chiamandolo «Hollande Junior» e «pupillo del sistema e delle élite», e ribadendo che lei «non discute nelle camere di commercio con i rappresentanti sindacali, lei va sul campo, incontra gli operai». Macron, che sembra sostanzialmente aver vinto il dibattito ed essere andato sicuramente meglio delle occasioni precedenti, ha cercato invece di mostrarsi più affidabile e concreto incalzando per esempio l’avversaria sul suo programma di uscita dall’euro – «Mi spieghi, un contadino dovrebbe acquistare i suoi prodotti in euro e venderli in franchi, come vuole gestire tutto questo concretamente?» -, ribadendo la volontà di lavorare per far uscire la Francia dalla crisi e di non essere un cinico populista . «Io non mi nutro della paura della paura dei cittadini», ha detto a Le Pen, alludendo alla campagna anti terrorismo sbandierata dalla candidata del Front national – «Il primo atto della mia presidenza sarà chiudere tutte le frontiere» ha detto – e alla strumentalizzazione degli ultimi attacchi rivendicati da Isis a Parigi.

La disputa sull’euro

Oltre alla questione terrorismo e della chiusura o meno delle frontiere come soluzione, come è ovvio grande spazio è stato dato al tema europeo. «L’euro è la moneta dei banchieri, non è la moneta del popolo, e questo è il motivo per cui è necessario riuscire a rompere con questa moneta» ha dichiarato Le Pen, mentre Macron, ministro dell’economia nel secondo governo Valls, ha puntato su quella che alcuni hanno definito “Macronomics”, un piano di rilancio del commercio francese aperto all’Europa ma all’insegna della tutela dei prodotti nazionali in un’ottica di «reciprocità».

“Francia-Russia una faccia una razza”?

Non potevano mancare accenni alla Russia, sempre grande protagonista delle ondate populiste che stanno scuotendo il mondo occidentale (se volete saperne di più leggete qui) e soprattutto grande “spingitrice” di Marine Le Pen. Non bisogna dimenticare infatti che alla campagna della candidata del Front National sono arrivati finanziamenti da banche russe e non è un caso che Marine abbia così difeso pubblicamente il suo “sponsor”: «Non abbiamo alcuna ragione di condurre una guerra fredda con la Russia, abbiamo invece tutte le ragioni per stabilire con la Russia una relazione diplomatica e commerciale».

Cosa dicono i sondaggi?

Secondo i dati IFOP Macron ha un vantaggio su LePen di 20 punti percentuali, nonostante questo Marine sembra essere particolarmente forte nelle regioni del sud della Francia come riporta FranceTv

Fonte: France Tv

Il potere delle periferie e della provincia

Qui un video reportage interattivo realizzato da Euronews fra i giovani delle periferie di Parigi per capire come la pensano. Inoltre, dopo aver visto gli americani eleggere Trump e gli inglesi della provincia votare in massa a favore della Brexit, l’attenzione è tutta puntata sul voto di queste aree della Francia, più sensibili alle istanze xenofobe anti-establishment e anti-europeiste di Le Pen.