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Ma ve li ricordate? (un monologo sugli incidenti sul lavoro)

(intervento scritto per il seminario “Nuovi orizzonti per un cantiere sicuro”, Reggio Emilia, 4 maggio 2017)

Ve li ricordate?
A Bari c’è Bartolomeo. Fa Deserio di cognome e ha 43 anni. Sui giornali delle sale d’aspetto dei dentisti e dei parrucchieri ci sta scritto che a 43 anni inizia la giovinezza, che non è più mica come prima. “Splendidi quarantenni”, sotto le foto, sempre così. Bartolomeo tiene pure due figli, come dice lui, uno di quattordici e l’altro di sette. E lo dice come una filastrocca. Dal 1985 lavorava in una grande impresa edile di Bari, di quelle che prendono tutte le commesse che contano laggiù in Puglia. Lui alle 4.30 del mattino si sbarbava, si sbollentava un caffè e prendeva il pulmino che raccoglie gli operai verso Brindisi, dove il cantiere apriva alle 7, mi raccomando puntuali. A dirla tutta lo guidava, Bartolomeo, il pulmino. Pulmino, cantiere, pulmino. Bari, Brindisi, Bari. Rientrava a casa alle 18.30 quando andava bene. Quattordici ore, ad andar bene. Erano le tre del pomeriggio del 1996 quando il martello pneumatico gli si è incastrato nel calcestruzzo tra l’armatura in ferro. Bartolomeo, per disincastrarlo ha fatto un salto indietro, poi due e poi tre per non rimanerci martellato: “grave trauma lombare e conseguente paralisi del verbo sciatico della gamba sinistra” c’era scritto sul certificato del medico. Zoppo a vita, insomma. Patente declassata e una paura fottuta di mostrarsi troppo zoppo. «Quando mi vedono zoppicare cosa penseranno; mi licenzieranno? Come farò a tirare avanti la mia famiglia?», racconta Bartolomeo. E quindi niente, pronto subito al ritorno in cantiere. Sforzandosi di non sembrare storpio. Ma quando 4 anni dopo c’era da scaricare dei tubi senza imbracatura perché il muletto stava impegnato e c’era da fare in fretta quella gamba non ha tenuto: trauma cranico-cervicale, nuovo foglietto. Il capo cantiere si spaventa e Bartolomeo finisce per essere rimbalzato in giro per cantieri, 14, 15 ore al giorno tutti i giorni. E poi giù, sempre peggio. Fino a quando l’azienda lo spedisce alla visita d’idoneità dal medico aziendale: non idoneo. E comincia il tunnel delle carte bollate. Ora Bartolomeo ha una grave osteoporosi vertebrale con crolli di tre vertebre dorsali, il morbo di Chron, una malattia esofagea detta metaplasia di Barrett che è una (malattia precalcerogena), gastrite cronica, ernia iatale, scoliosi e ipercifosi, ernie cervico-dorso-lombare con artrosi, spondilosi, e osteofitosi, prostatite e ipertrofia prostatica, iper- tensione arteriosa, fibrosi polmonari interstiziali, con insufficienza respi- atoria restrittiva sindrome del tunnel carpale del nervo mediano bilaterale ed ulnare di sinistra, tutte e due le braccia rovinate, ossia le ossa e i tendini dei bicipiti dei muscoli laterali e dei sovraspinosi. Lo splendido quarantenne.

Ve li ricordate?
Nicola invece era partito da Caserta per fare l’operaio in una ditta di pasta fresca a Reggio Emilia. Lui, la moglie e la loro bambina. Il 24 maggio del 2005 i carabinieri suonano il campanello della moglie e le dicono che suo marito ci è finito impastato lui, dentro la macchina impastatrice. «È come se mi fossi addentrata in un tunnel buio dove non si vede il fondo, però fatto il primo chilometro, gli occhi si sono abituati alla semi oscurità rendendo meno difficile il cammino, non so verso dove o cosa. Nel frattempo, però, a volte non ho neanche voglia di camminare. Lui è sempre il primo dei miei pensieri quando mi sveglio e l’ultimo prima di addormentarmi. Spesso parlo anche con lui, altre volte invece mi è difficile perché vorrei sentire una risposta da parte sua. È un alternarsi di giorni brutti e di giorni un po’ meno brutti.», racconta lei. Ci ha messo un anno per trovare il coraggio di dirlo alla figlia. Un anno.
Ve li ricordate?
Andrea invece aveva 23 anni. Ve lo ricordate Andrea? Era così felice della sua auto nuova, un’Opel Corsa nera come la notte, comprata a rate. L’Asoplast di Ortezzano l’aveva fatto “grande” e ora poteva avere un’auto tutta sua. “Stampaggio di materiale in propilene, pvc e tampografia”, c’era scritto sui depliant. Il 20 giugno Andrea si alza alle tre e quarantacinque del mattino per essere in fabbrica puntuale per le cinque. Da Porto Sant’Elpidio è un bel pezzo di strada. Alle sei e dieci la macchia tampografica comincia a dare problemi, Andrea le mette in stand-by e ci fruga dentro. Mancavano le “adeguate misure di sicurezza”, dice il processo. La pressa è ripartita è Andrea ci è rimasto dentro con la testa, tra i tamponi. Andrea Gagliardoni.

Ve li ricordate?
Non è mica facile ricordarseli tutti, ‘sto morti ammazzati, rimasti mezzi sderenati, finiti incastrati, mutilati, schiacciati, trinciati, calpestati, investiti, annegati, soffocati, addormentati. Morti. Dico, ve li ricordate?
Bruno Galvani, ad esempio. Bruno non era nemmeno maggiorenne. A diciassette anni era già a libro paga di una ditta artigiana. Cisterne di gasolio per uso domestico e agricoltura e cancellate in ferro: dimmi che lavoro fai e indoviniamo cosa potrebbe ucciderti. Ogni tanto funziona così, qui. Anche se alla fine Bruno dicono che gli “è andata bene”, in fondo. Se non muori sul cantiere o in fabbrica “ti è andata bene” perché in giro da qualche parte del mondo al posto tuo, con un lavoro uguale, ci è già morto sicuramente qualcuno, senza nemmeno bisogno di guardarsi le statistiche. Bruno a diciassette anni lavorava in una squadra da otto, otto operai in tutto, di cui metà minorenni e l’altra metà di anziani che per anzianità si sono eletti capi. “Prendi il muletto e sistema quelle cisterne”, gli ha detto quel giorno il capo. Come se fosse un ordine lanciato di fretta a un cameriere, con la superficialità di chi tiene il punto sulle merci e poi, solo dopo, al massimo, se c’è tempo, sulle perone. Bruno il muletto non l’aveva mai guidato in vita sua, a dire la verità. Ma a diciassette anni e con pochi mesi sulle spalle pensi che se te l’hanno chiesto funziona così. Così ci sono Bruno, il muletto, la ghiaia del piazzale e le caldaie da inforcare. E poi il buio. Come diventa buio quando si scrive, si ascolta o si racconta di questi feriti stramazzati da quattro soldi.
Bruno racconta che quando ha riaperto gli occhi come prima cosa ha pensato al dispiacere che avrebbero provato i suoi, a vederlo per terra tutto pieno di sangue. Non ha pensato a sé; al dispiacere dei suoi genitori. Racconta. E poi i colleghi di lavoro che piangono e la sirena dell’ambulanza che is avvicina. Cento punti di sutura. Gli hanno dato cento punti di suturo, gli hanno riallacciato la testa, come una cerniera. E un anno di ospedale. Più di quanto aveva fatto in azienda. Dopo un anno, i medici, la frase: “non camminerà più sulle sue gambe, caro Bruno”, gli dicono i medici. “Davanti ad una sentenza di questo genere a diciassette anni, credetemi, in quel momento vorresti che l’incidente ti avesse ucciso – lo racconta lui, così, parola per parola – che la tua vita fosse finita in quel momento e pensi che non è umanamente accettabile dover vivere per sempre da paralizzato. E tutto per colpa non dico di un incidente in moto, mentre ti stavi divertendo e facevi il pazzo. No, mentre stavi lavorando per poterti permettere una pizza con gli amici, vestiti nuovi, magari un domani un’auto usata, una vacanza con una ragazza”. Mentre Bruno racconta la sua storia non ha nemmeno un alito di rabbia nella sua voce. “A queste cose si pensa – dice Bruno – e si deve pensare a diciassette anni. Non do- ver pensare se la vita è “finita” oppure no. Se la tua ragazza ti vorrà ancora oppure se non saprà che farsene di un invalido. Che non potrai più sentire il vento nei capelli. Che i tuoi amici non ti considereranno più quello di prima. Che non avevi mai visto in giro fino a questo momento, dove in- vece sei contornato da tante altre persone giovani o vecchie nelle tue stesse condizioni fisiche, una sedia a rotelle e pensavi che una cosa del genere potesse toccare solo agli “sfortunati dalla nascita” o agli anziani. Dopo un anno di ospedale realizzi che il tuo datore di lavoro non è mai venuto a trovarti neanche una sola volta e neppure ti ha mandato una lettera. Dopo un anno di ospedale realizzi che lì, in quel posto dove conosci tutti e tutti conoscono quello che ti serve e quello che pensi e soprat-tutto tanti sono come te, ci stai troppo bene e non vuoi più andartene. Perché andartene vuole dire dover ricominciare a vivere. Vuole dire vedere gli occhi delle persone che incontri per la strada che non ti “guardano” o ancora peggio non ti “vedono”. Vuol dire, in seggiola a rotelle, fare una fatica incredibile per percorrere i marciapiedi della città ingombri di biciclette e bidoni della spazzatura. Vuol dire pensare che alla fine dovrai tornare a lavorare da qualche parte e già ti rendi conto che nessuno ti vorrà perché ti riterranno solamente “un peso sociale”. La storia di Bruno non va nemmeno toccata sulle virgole, va detta così, virgolettata come la dice lui: “Non nascondo che, soprattutto i primi anni, è stata veramente dura accettare una sorte di questo tipo. Ma poi le vicende della vita mi hanno portato a credere ancora in me stesso e nelle persone. E soprattutto a cre- dere che vale sempre la pena accettare le sfide che la vita ti riserva, per- chè cadere e poi rialzarsi è una cosa che dà una forte soddisfazione e so- prattutto ti dà la voglia di cercare di migliorare questa società che è ancora ben lontana dall’essere la società di tutti. Nel corso degli anni ho trovato una persona che mi ha amato e io ho amato lei. Oggi abbiamo due figli e difficilmente penso alla mia condizione fisica, se non davanti agli ostacoli fisici o psicologici che periodicamente ancora incontro. Oggi mi sembra una cosa normale spostarmi su una seggiola a rotelle. Ma ancora oggi non mi sembra normale che così tanti giovani (ma non solo loro) escano di casa al mattino per andare a lavorare e guadagnarsi uno stipendio e non tornano più a casa o ci tornano mutilati per sempre. Perché è vero che la vita non ha prezzo, ma è altrettanto vero che chi ha pagato un prezzo così elevato al benessere economico della nazione merita più rispetto di quello che ha oggi.” Dice così. E poi ringrazia. Perché dice che serve, che la sua storia si ascolti in giro.

Dico, ve li ricordate? No, non ce li ricordiamo mica. Perché una storia di un incidente sul lavoro, che qui dalle nostre parti chiamano morti bianche anche se il sangue è rosso come il sangue di tutti quegli altri, finisce raramente sparata sui giornali o in televisione e quando ci finisce dura giusto il tempo di una commozione tra i due spot pubblicitari. Dico, Paola Clemente, la bracciante. Ve la ricordate? Io confesso che la storia di Paola Clemente è una di quelle che mi sbriciolano il cuore. Sarà che in fondo per chi come me è cresciuto nell’are metropolitana milanese la parola “bracciante” è un suono che sembra provenire da un’altra epoca, da un altro pianeta o forse sarà che immaginare una donna (madre e moglie) che si secca sotto il sole per sgonfiarsi cadavere in mezzo ai pomodori è una storia che ha dentro tutti i peli peggiori: la dignità che si fa salsa, la schiavitù come resistenza ultima alla disperazione, il lavoro quando diventa annullamento della persona e il senso del dovere che si trasforma in giogo mortale.Paola Clemente aveva 49 anni e lavorava dalle 5.30 fino alle tre del pomeriggio, qualche volta anche alle sei, per 27 euro al giorno. Quella busta paga è una lama che affetta un Paese intero. Nemmeno tre pezzi da dieci euro per rinsecchirsi sotto il sole che sale verticale: ma come li spieghiamo questi morti ai nostri figli? Che diciamo a Stefano, suo marito, e a tutti i sopravvissuti della sua famiglia? Sono finite in carcere sei persone: tre dipendenti di un’agenzia interinale di lavoro (avvoltoi sulle costole degli sfruttati) e gli altri anelli di una catena di comando che trasforma le persone in chili di prodotto raccolto e nient’altro. Eppure sei persone, basta poco a capirlo, non possono da sole costruire una giungla che stringe la gola a pezzi interi di Paese. Mentre scriviamo la servitù bene educata continua a macinare vittime; forse non muoiono, riescono a svenire sul letto a fine giornata aggrappati all’ultimo esile respiro ma hanno addosso le stigmate dell’ingiustizia.
C’è un’ombra di giustizia, sul cadavere delle Paole che strisciano nei campi per due euro all’ora. Ma continua a essere notte sotto la calura assassina del sole.

Dico, ve la ricordate Paola? Sì, dai, che questa ve la ricordate.
Le chiamano morti bianche ma sono nere. Spesso in nero. E dai contorni grigi. Mentre scrufugliavo tra le carte per scrivere questi quattro fogli, per venire qui da voi, mi sono imbattuto in un poesia. A proposito di morti bianche. E non ci sarebbe niente di strano se non fosse che la poesia l’ha scritta Carlo Soricelli e Carlo Soricelli è un metalmeccanico in pensione, mica un uomo di lettere e di letture. Morti bianche si intitola. Dice:

Chiamatele pure morti bianche.
Ma non è il bianco dell’innocenza
non è il bianco della purezza
non è il bianco candido di una nevicata in montagna
E’il bianco di un lenzuolo, di mille lenzuoli
che ogni anno coprono sguardi fissi nel vuoto
occhi spalancati dal terrore
dalla consapevolezza che la vita sta scappando via.
Un attimo eterno che toglie ogni speranza
l’attimo di una caduta da diversi metri
dell’esalazione che toglie l’aria nei polmoni
del trattore senza protezioni che sta schiacciando
dell’impatto sulla strada verso il lavoro
del frastuono dell’esplosione che lacera la carne
di una scarica elettrica che secca il cervello.
E’ un bianco che copre le nostre coscienze
e il corpo martoriato di un lavoratore
E’ il bianco di un tramonto livido e nebbioso
di una vita che si spegne lontana dagli affetti
di lacrime e disperazione per chi rimane.
Anche quest’anno oltre mille morti
vite coperte da un lenzuolo bianco.
Bianco ipocrita che copre sangue rosso
e il nero sporco di una democrazia per pochi.
Vite perse per pochi euro al mese
da chi è spesso solo moderno schiavo.

Ecco. Morti bianche così.
Non so se avuto modo di rileggere con attenzione e calma il discorso dell’ottobre scorso del Presidente Mattarella. Perché le parole sono importanti, come diceva quel tale. “La sicurezza sul lavoro è una priorità e costituisce il banco di prova dell’efficienza di un Paese. Sul tema non è accettabile alcun calo di attenzione da parte delle istituzioni e delle forze sociali. Qualsiasi incidente sul lavoro – aggiunge – è infatti intollerabile, e anche una sola vittima infligge al corpo sociale una ferita non rimarginabile”. Ascoltate bene, le parole sono importanti. ”Un Paese moderno si misura anche dalla capacità di creare e conservare ambienti di lavoro sicuri: morire sul lavoro, ammalarsi per una causa professionale o restare invalidi o mutilati a seguito di un infortunio sul lavoro non è accettabile in un contesto industriale avanzato”, scrive il presidente della Repubblica.”Un tema essenziale in questo senso – prosegue Mattarella – è quello dell’effettività delle norme. Non è sufficiente dotarsi di una legislazione sofisticata, occorre altresì che essa venga concretamente attuata, anche nella disciplina di dettaglio”. In quel discorso Mattarella si rivolse quindi alle autorità presenti (era un convegno a Venezia) per invitarle ad adoperarsi “affinché vuoti di legislazione non si traducano in assenze di tutele per i lavoratori e in incertezze applicative per i datori di lavoro”.

È una questione di dignità. Certo. Ma è anche la questione di tutti i sopravvissuti che stanno intorno. Perché di fondo, se ne fossi capace, mi piacerebbe avere le parole per parlare dell’umanità, che si sbriciola in cantiere. Dei legami spezzati, dei padri che non tornano, dei mariti che mancano per costruire il futuro e della puzza che rimane per terra, anche se poi ti concentri a costruirci sopra villette eleganti.
C’è quella storia che è un manifesto. Si chiamava Mihai Istoc, aveva 45 anni, era un operaio, un operaio rumeno. Uno di quelli che le statistiche non ci entra nemmeno. Nemmeno l’onore di essere contato tra i morti perché lavorare in nero significa anche non meritarsi uno sputo di necrologio sincero. Mihai l’hanno trovato in un bosco, come Biancaneve. Ma morto. A Vignole di Montafia. Nel 2009. Ci sono voluti anni per capire che era caduto da un ponteggio. Stava lavorando ai lavori di ristrutturazione di una colletta a Venaria e poi s’è messo in testa di morire in un posto dove non doveva essere. Per questo il cadavere l’hanno portato nel bosco. Mi viene in mente che forse, oltre ad arrestare le persone, bisognerebbe essere capaci di arrestare i meccanismi del cervello che scattano convincendo qualcuno di poter nascondere un morto facendo finta che non esista. Ecco, storie così non sono solo mica storie di regole. Sono argini che si rompono nel campo della dignità e dell’umanità. Una cosa così. Non si può scrivere in una legge che si dovrebbe trattare qualsiasi operaio come se fosse un figlio. Ma il senso è questo. Ve lo ricordate Vincenzo Orfano? Quel maledetto mercoledì mattina doveva essere in servizio al cimitero, Vincenzo. E invece verso le 11, dopo aver timbrato il suo cartellino marcatempo, qualcuno l’ha chiamato per un sopralluogo nella sua abitazione privata, per effettuare alcuni lavori. E Vincenzo Orfano, 53enne bacolese, forse per sbarcare il lunario, forse per fare un favore ad un “amico”, si è recato sul posto, salendo su un’impalcatura di circa quattro metri dalla quale è caduto trovando la morte. Quando l’hanno chiamato, Vincenzo, che di mestiere faceva l’imbianchino, non se l’è fatto dire due volte. Si è allontanato dal lavoro e si è recato a casa dell’impiegato comunale. È salito su quella maledetta impalcatura mobile, ad un’altezza di quattro metri, e da lì è precipitato schiantandosi al suolo. L’uomo è stato immediatamente soccorso e trasportato all’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli dove, purtroppo, è giunto ormai cadavere. Dalle successive indagini, i carabinieri si sono recati a casa dell’impiegato comunale, dove l’uomo si trovava con la moglie. Scrivono i giornali dell’epoca che “nel corso del sopralluogo, gli “007” hanno scoperto che i lavori non erano regolarmente autorizzati e che l’imbianchino 53enne non era in possesso dei previsti requisiti tecnico-professionali per svolgerlo. Inoltre, particolare ancora più inquietante è che quando i due committenti si sono accorti della tragedia avrebbero provveduto a ripulire il luogo dell’incidente dalle macchie di sangue, occultando l’impalcatura mobile e gli attrezzi da lavoro al fine di depistare le indagini”.

Qui il cantiere è solo un luogo, come il candelabro nei gialli dove bisogna scoprire l’assassino, ma la molla è la stessa. Perché oltre alle leggi è la cordialità, che manca. Quella che sta proprio nel senso della parola. Cordialità, sentire con il cuore. E queste storie, tutte, il cuore lo fanno scoppiare. Non è questione di sicurezza sul lavoro. Non solo. Qui si tratta di mettere in piedi un cantiere, un cantiere permanente, più che autorizzato, addirittura indispensabile, per costruire un Paese migliore. Buon lavoro.

Buon martedì.

 

Ogni borgo in Italia ha un volto. Calamandrei e la lotta antifascista che portò all’articolo 9

Calamandrei a Viterbo

La figura del giurista Piero Calamandrei spicca nella storia della Resistenza e non solo. Nato nel 1889 a Firenze (dove morì nel 1956) è stato fra i fondatori del Partito d’azione. Nello spettacolo L’aria della libertà che va in scena l’ 8 maggio all’Olimpico a Roma, lo storico dell’arte e presidente di Libertà e giustizia Tomaso Montanari ne ripercorre la vicenda umana e politica. Scritto con Nino Criscenti, il testo drammaturgico, sul palcoscenico, prende vita grazie alla voce di Montanari, ai filmati dell’Istituto Luce e alla proiezione di foto d’epoca. Una selezione di quelle immagini compare in queste pagine in cui pubblichiamo stralci del copione. Ad accompagnare Tomaso Montanari dal vivo il clarinetto di Luca Cipriano, il violino di Francesco Peverini, il violoncello di Valeriano Taddeo e il pianoforte di Marco Scolastri. La partitura comprende brani di Stravinskij, Casella e Šostakovič. Lo spettacolo comincia col racconto di una gita del 6 marzo 1938: in primo piano una foto con Pancrazi e Calamandrei in piazza a Stia, nel Casentino. Insieme al giurista e futuro costituente c’è il filologo e latinista Ugo Enrico Paoli che nel 1925 aveva firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Nel 1933 ha cercato di partecipare al concorso per la cattedra di letteratura latina ma gli è stato impedito “per mancanza di tessera fascista”. Con loro c’è anche Luigi Russo che all’epoca insegnava Letteratura italiana all’ateneo pisano, da tempo il regime lo teneva sotto controllo. Ora, però, lasciamo la parola a Montanari:

 

Insegnava Diritto civile all’università di Firenze, antifascista fin dal primo momento, già nel 1920 al fianco di Gaetano Salvemini e dei fratelli Rosselli nei primi nuclei organizzati di opposizione al regime. Hanno fatto qualche chilometro e li troviamo tra i resti del castello di Romena.
Calamandrei mandava a tutti i partecipanti alle gite le foto di quel giorno e nel tergo scriveva qualche commento scherzoso. Come in questa: «foto di Romena popolata di una bella ragazza e di brutti professori».
Racconta Calamandrei: «Non ci bastava il paesaggio: si andava in cerca di paesaggi con figure». Figure storiche, figure umane, punti di riferimento in un’Italia devastata dal fascismo. Al castello di Romena le figure sono care, sono Dante ma anche D’Annunzio: Dante ci passò nel suo esilio, lo cita nel XXX dell’Inferno; D’Annunzio nel 1901 e vi scrisse L’Alcyone.
Si misero allora a declamar poesie. «È che certi paesi e terre nostre – ricorda Pancrazi – muovono il ricordo e il sentimento dei poeti; e vi si mescolano e fanno con essi quasi le pagine di un solo libro. Allora nasce dentro come un intenerimento; e si sente allora, come non mai, di voler bene, molto bene all’Italia».
Si misero allora a declamar poesie. «È che certi paesi e terre nostre – ricorda Pancrazi – muovono il ricordo e il sentimento dei poeti; e vi si mescolano e fanno con essi quasi le pagine di un solo libro. Allora nasce dentro come un intenerimento; e si sente allora, come non mai, di voler bene, molto bene all’Italia.
Un grande amore, dirà Calamandrei: «C’era prima di tutto un grande amore, proprio direi una grande tenerezza, per questo paese dove anche la natura è diventata tutta una creazione umana …» (…)
Urbino 9 maggio 1937
Per molti anni, dal 1935 fino alla guerra, le nostre passeggiate domenicali – dice Piero – ci dettero l’illusione di un ritorno per qualche ora dalla barbarie alla civiltà”. Un’illusione che Luigi Russo perde già all’edicola di Urbino dove campeggiano questi strilli: IX MAGGIO APOTEOSI DELLA VITTORIA AFRICANA – L’IMPERO FONDATO DAL DUCE è presidiato dal coraggio indomabile e fecondato dalla strenua fatica del popolo italiano
L’Italia imperiale. I annuale dell’Impero 9 maggio 1937 (…)
Si apre il racconto più drammatico, l’ultima passeggiata di Nello Rosselli, poche settimane prima dell’assassinio.

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L’impiccato e la bambina morta nel sacchetto

Mi si perdoni se non mi accodo alla vittoria francese del tecnocrate contro la fascista e se non spendo queste poche righe per sottolineare come Renzi, proclamato segretario del Partito di Renzi, abbia accusato il governo di “avere rifatto il CNEL” (pronunciato esattamente così) dimenticando di essere al governo. A me, da ieri, non riesce ad andare via dalla testa la bambina morta a Trieste e il ragazzo impiccato ai bordi dei binari della Stazione Centrale di Milano.

Lei era in una busta di plastica del supermercato, ai piedi di un muro sgarruppato, ed è stata segnalata da alcuni passanti che hanno allertato i soccorsi. Dicono che sia arrivata in ospedale in condizioni gravissime. Il certificato di morte dice che è mancata alle 19.58.

Il ragazzo invece ha qualcosa come venticinque o trent’anni, non ci è dato di sapere. Non ha documenti. Scrivono “probabilmente di origine africane”. Un continente intero. E non si sa altro. Il corpo appeso era in via Ferante Aporti al numero civico 81. Quello è il suo approdo.

Nessuno dei due ha un nome. Lei perché la disperazione (degli altri) l’ha affossata prima ancora che scoprisse la speranza e lui perché rientra in quell’umanità che in Europa è il percolato di quella normale, istituzionale. Io non so voi ma a me, due storie così nello stesso giorno, mi spezzano il fiato. E cola il silenzio della politica padrona pronta a scannarsi su un topo, su un gommone fuori rotta, un sacchetto d’immondizia sul marciapiede e ancora una volta su due casi così profondamente drammatici e umani non balbetta nulla.

Perché rimangono smutandati, questi, davanti al dolore.

Buon lunedì.

Gli animali fantastici dei Sapiens

Deserto di Atacama

Mentre alcune vallate del deserto di Atacama si stanno tingendo di colore per una inaspettata e leggerissima fioritura dovuta al fenomeno climatico del Niño, quello che in realtà è il luogo più arido della terra ci trascina, con le sue testimonianze rupestri, in una seducente riscoperta del primo affacciarsi umano sul pianeta.
Ci troviamo in Cile, accolti dalla municipalità di Santiago, per delle ricerche in comune con l’università statale sui caratteri delle culture costruttive locali, e non possiamo dimenticare la regione del Norte Grande che ospita il celeberrimo deserto di Atacama, luogo di primitiva bellezza, sorta di altopiano compreso tra due svettanti catene montuose costellate di vulcani, che deve a questa insolita protezione la sua estrema aridità, ma che ha sempre ospitato segmenti di popolazioni coraggiose e di cultura raffinata.Il Cile è un incredibile territorio che offre, in una strettissima striscia di suolo abitabile, una gamma cangiante di situazioni climatiche e ambientali da lasciare senza fiato. Si passa dalle regioni preantartiche della Terra del Fuoco culminanti nel capo Horn alle regioni nordiche (e calde) a cavallo del tropico del Capricorno. L’orografia del paese è già un documento di identità: il corrugarsi in Cordigliera della crosta sudamericana, un tempo sommersa, sotto la spinta formidabile della placca oceanica ha generato un enclave protetta ad est dalla catena andina (cime sui 6000 metri) e limitata ad ovest dal Pacifico: nel mezzo una esigua fascia (mediamente larga poco più di un centinaio di chilometri ma allungata ben oltre i 4000) dove si può incontrare di tutto, dal deserto assoluto ai ghiacciai perenni, passando dai lama ai pinguini… ( continua su Left in edicola)

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«Per Gramsci la religione è necessaria»: le falsità del Vaticano

© Alfred Jaar - Maxxi Roma - Gramsci

Che il Cristianesimo sia stato un grande “aggregatore” di riti e culture preesistenti è ormai un fatto incontrovertibile. Il culto del dio Mitra, inglobato in quello di Gesù, o la resurrezione di Cristo che era in origine la rinascita della natura per i popoli pagani, sono solo alcuni esempi. E non ci si è limitati ad assumere alcuni principi cardine da altre culture – copiando un po’ il modus operandi dell’Impero Romano. La Chiesa cattolica furbescamente nel corso dei secoli ha anche tentato di “assorbire” personaggi che nulla avevano a che fare con la religione. L’ultimo, in ordine di tempo, è Antonio Gramsci.
Nell’ottantesimo anniversario della morte (27 aprile 1937) L’Osservatore Romano ha dedicato un articolo a firma di Franco Lo Piparo proprio all’autore dei Quaderni dal carcere. Con un titolo ad effetto: “Per Gramsci la religione è necessaria”.
Lo Piparo conosce bene l’opera gramsciana. Come linguista, ha scritto nel 1979 Lingua, intellettuali egemonia in Gramsci (Laterza) e Il professor Gramsci e Wittgenstein: il linguaggio e il potere (Donzelli, 2014) mentre avevano sollevato molte polemiche i due libri scritti sempre per Donzelli I due carceri di Antonio Gramsci, la prigione fascista e il labirinto comunista (2012) e L’ enigma del quaderno: la caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci (2013) in cui accennava all’ipotesi di un quaderno fatto sparire da Togliatti perché Gramsci vi avrebbe esposto tesi eretiche sul comunismo. Com’è possibile che uno studioso che conosce a fondo gli scritti gramsciani si sia prestato ad un’analisi così parziale come quella su L’Osservatore Romano? Parziale o strumentale? Anche Lo Piparo, secondo la “moda” sottolineata in questi giorni di celebrazioni gramsciane, sembra che abbia preso un “pezzetto” di Gramsci, quello che gli faceva comodo per sostenere la sua tesi, ovvero che per Gramsci «la religione è un bisogno dello spirito» e quindi, essendo “necessaria”, la conclusione non può essere che una: anche Gramsci è religioso. O al più, accondiscendente nei confronti delle religioni, come accade a tanti laici devoti dei nostri giorni.
Ma andiamo per ordine. Nell’incipit del pezzo su L’Osservatore romano si riportano alcune frasi di un articolo che il 25enne giornalista aveva scritto il 4 marzo 1916 su l’Avanti nella sua rubrica Sotto la mole. «La religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo». Lo Piparo, estrapolando queste frasi dal testo di Gramsci e su cui costruisce il suo articolo, cancella in un colpo solo tutto l’impianto teorico gramsciano, teso a fondare quell’egemonia culturale che avrebbe dovuto portare all’emancipazione delle classi subalterne. Questa, come ha detto su Left n.16 lo storico Angelo d’Orsi, è stata la stella polare per Gramsci mai abbandonata nemmeno nei dieci anni trascorsi in carcere. E in quel lungo e tormentato periodo non è certo diventato religioso. Logico invece che nella sua ricerca filosofico-politica, vi fosse la necessità di studiare la religione, che non a caso nei Quaderni lega spesso alla cultura popolare e al senso comune. Gramsci si rende perfettamente conto che è un “bisogno” delle persone “semplici” ma è un dato di fatto, da superare. A questo bisogno religioso delle masse non emancipate contrappone invece il senso della storia e della possibilità di trasformazione del mondo. Per questo motivo tutto ciò che ostacola il libero arbitrio e l’emancipazione dell’uomo va analizzato per essere contrastato: è questo il fil rouge che sta dietro alle sue note sulla cultura e il mondo dei Quaderni. La religione, il Vaticano, la cultura cattolica e l’organizzazione cattolica: tutto va studiato. Non a caso quando nel Q.14 analizza il compito dei giornali nel mappare i movimenti intellettuali, sostiene che devono seguire attentamente tutti i centri e gruppi culturali che operano in Italia, soprattutto quelli cattolici.

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Alimentazione. Non è solo una questione di calorie

A man eats fast food as he walks along Oxford Street in London on March 7, 2017. Britain's Finance minister Philip Hammond earlier this week said he would keep chopping away at the deficit to get Britain fit to face Brexit, as he prepares to deliver his budget on March 8. / AFP PHOTO / CHRIS J RATCLIFFE (Photo credit should read CHRIS J RATCLIFFE/AFP/Getty Images)

No, non è un problema di produzione. Non per ora, almeno. L’umanità produce il 23% di cibo (di calorie, per la precisione) in più di quanto ne produce. Eppure ancora oggi nel mondo ci sono 795 milioni di persone -il 10,8% della popolazione totale – che di cibo non ne assumono a sufficienza e sono sottonutrite.
Certo, siamo a un minimo storico. Le persone che soffrono la fame sono diminuite di un buon 27% rispetto ai massimi del 1990, sebbene la popolazione mondiale sia aumentata. Ma, come rileva Richard Hodson, direttore degli “speciali” della rivista scientifica Nature, nella pagine dedicate la scorsa settimana ai problemi dell’alimentazione nel mondo, con questo ritmo di diminuzione l’obiettivo che si sono date le Nazioni Unite – eradicare completamente la fame entro il 2030 – è ben lontano dal poter essere realizzato.
Anche perché non è solo un problema di calorie e di proteine. E neppure solo di media della calorie assunte nell’arco di un anno. Almeno un miliardo di persone nel mondo soffre di carenza di vitamine e di minerali o assume cibo in maniera discontinua. A questi vanno aggiunti, per un apparente paradosso, i circa due miliardi di persone obese o comunque sovrappeso che subiscono effetti anche gravi sulla salute per eccesso di alimentazione.

Insomma, in un modo o nell’altro il 40% della popolazione mondiale ha problemi seri con il cibo.
Ma iniziamo dal principio. Ovunque nel mondo la produzione supera la domanda. E non solo in Nord America (+46%) e in Europa (+30%), ma anche in Sud America, nell’America centrale e Caraibica, in Asia. E persino in Africa, dove l’offerta supera la domanda di un sostanzioso 17%. Ha ragione, dunque, John Ingram, leader del gruppo che si occupa di programmi alimentari presso l’Environmental Change Institute, della University of Oxford, in Inghilterra: il problema degli squilibri alimentari nel mondo non sono dovuti alla produzione, ma al pessimo sistema di distribuzione e (soprattutto in occidente, soprattutto in Nord America) ai pessimi stili di consumo.

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Giulia Villari, so Real

Giulia Villari

L’avevamo incontrata dopo l’Iuscita del suo precedente lavoro, River, l’esordio prodotto da Rob Ellis. La ritroviamo in occasione del suo nuovo album e, anche ascoltando le nuove tracce, scopriamo una Giulia Villari più matura, cambiata, in una veste più sensuale come la copertina mostra. Nella sua nuova realtà, Real, come nel titolo del cd distribuito da Goodfellas. La cantautrice romana ci racconta la genesi di questi nuovi brani tutti in inglese, fra i quali curiosamente nessuno si chiama come all’album. Scritti e suonati da lei hanno titoli laconici, quasi sussurrati: “Language”, “Prayer”, “Close” e ancora “Different”, “Path” e “July”, ma anche “Almost August”. Argomenti che fanno pensare all’estate, a un momento di evasione. Glielo chiediamo, curiosi di sapere di più di questo nuovo progetto discografico, mentre si avvicina l’appuntamento live a Roma, il 6 maggio al Monk, con la band Il Pan del Diavolo: «Ho scritto tutte le canzoni durante la primavera e l’estate scorsa, è un motivo reale anche questo. Nessun pezzo si chiama Real, vero, ma la parola è quasi dentro a ogni brano; la prima traccia dice che dobbiamo trovare la propria dimensione e realizzare la propria realtà più profonda». Di certo in questo disco scorgiamo una nuova Giulia Villari che si esprime in modo più maturo e personale, più libero, che traspare anche dall’omaggio al mitico folletto di Minneapolis, nel brano Prince.
Dopo River, il successo di Coral red, che la regista Maria Sole Tognazzi ha inserito nel film, Io e lei. E ora questo nuovo progetto musicale, in cui si colgono sonorità nuove e un timbro di voce senz’altro più consapevole.
Un anno fa avevo un po’ di canzoni e insieme al mio produttore, Sante Rutigliano, ci abbiamo lavorato, poi però, riprendendole in mano, non ci convincevano, sentivamo che non andavano più bene, sentivamo che dovevamo cambiare rotta, avevamo bisogno di qualcosa di più vero per me, in quel momento. Ho colto subito questa cosa e quindi abbiamo buttato tutto, abbiamo ricominciato da capo. (Continua sul numero di Left in edicola)

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La riforma Franceschini che distrugge il Belpaese

Il ministro dei Beni culturali e turismo Dario Franceschini durante l'inaugurazione degli Stati Generali della Fotografia presso l'Istituto centrale per la Grafica di via Poli, Roma, 06 aprile 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Anche con la Manovrina i già derelitti Beni culturali e paesaggistici saranno fra i più penalizzati percentualmente. Infatti ammontano a 460 milioni di euro il totale di tagli previsti e al Collegio Romano dovranno privarsi di 12,860 milioni. Pochi? No, in percentuale essi formano infatti il 2,82 % della manovrina, mentre il bilancio di Beni Culturali, Spettacolo e Turismo rappresenta appena lo 0,25 % della spesa statale complessiva.
Nel dettaglio, si legge nella manovra, il ministero del Beni culturali e del Turismo (Mibact) dovrà fare a meno di 9,579 milioni di euro per la “Tutela e valorizzazione dei beni e attività culturali e paesaggistici”, colpendo, per quasi 1 milione, anche i beni meno finanziato come quelli librari. Più che fondata dunque la protesta dei tecnici del Ministero. Nei mesi scorsi il ministro Dario Franceschini aveva fatto suonare le trombe per aver riportato la spesa del suo ministero oltre i 2 miliardi. In realtà quella cifra veniva spesa già nel 2000 (governo D’Alema) e l’incidenza su quella complessiva dello Stato era dello 0,39 %. In seguito il governo Berlusconi aveva di continuo salassato il Mibac. Ma Francesco Rutelli (ultimo governo dell’Ulivo) aveva riportato gli stanziamenti del suo Ministero a 2,2 miliardi e ancora non doveva ricomprendere il Turismo (accorpato con Massimo Bray, governo Letta). Matteo Renzi aveva, sin dal 2011, da sindaco, dichiarato guerra al potere monocratico, burocratico e ottocentesco. Dario Franceschini no. Da capogruppo consiliare e da assessore, aveva avuto rapporti normali e le mostre di Ferrara Arte diretta, allora, da Andrea Buzzoni, non erano certo state “commerciali”. Ha stupito quindi il suo comportamento da rottamatore a tutta ruspa che procede ormai anche senza più Renzi alle spalle. Ma vediamo dodici mosse di questo autentico sconvolgimento.
La prima è stata lo Sblocca-Italia (analogo alle leggi Lunardi) con cui il governo Renzi ha istituito, senza che Franceschini si dissociasse, il silenzio-assenso se le Soprintendenze non rispondono entro 60 giorni alla richiesta di autorizzazioni (coi pochi architetti statali l’assenso è garantito, anche ai progetti peggiori). Silenzio/assenso ribadito in termini ancora più “stretti” con due recenti decreti!
Il secondo punto riguarda la valorizzazione che da Franceschini viene scissa in modo netto dalla tutela contando di trasformare (Renzi dixit) i musei “in macchine da soldi”. Ma il Grand Louvre e il Metropolitan sono passivi per un 50% dei mega-bilanci (il secondo registra un “buco” pregresso di 40 milioni di dollari), e coi milioni incassati da musei e siti statali italiani si copre sì e no l’8 % della nostra spesa per la cultura.
Terzo punto. Nella riforma Franceschini i musei vengono separati – anche quelli archeologici, di scavo, con casi grotteschi – dal territorio che li ha originati, scindendo pure uffici, archivi, fototeche, biblioteche, con un caos paralizzante.
Non solo. La riforma crea nuovi Poli Museali, spesso in modo confuso (Ferrara finisce con Modena diventata egemone), dove gli storici dell’arte superstiti si rifugiano. Così alle Soprintendenze non ne resta nemmeno uno per l’ufficio esportazione.”Bassa macelleria”, commenta Antonio Paolucci.
Sono stati individuati i primi 20 Musei di eccellenza, per essi si sono banditi non concorsi europei bensì selezioni in base ai curriculum e a un breve colloquio, con stipendi 4-5 volte superiori a quelli correnti. Un solo “interno” del Mibac viene promosso (Galleria Borghese), gli altri 19 sono tutti “esterni”, alcuni italiani (buoni e meno buoni), altri stranieri (nessuno di alto livello). Con scelte incomprensibili: un etruscologo, dalla bibliografia molto modesta, al Museo greco-romano di Napoli, una medievista a quello tarantino della Magna Grecia, un esperto di marketing alla Reggia di Caserta (bibliografia? Due libri co-firmati sui cimiteri monumentali).
Hanno partorito idee brillanti? Mostre su mostre, matrimoni al museo o fra le rovine, feste di laurea, aperitivi, sfilate, cose arcinote che anni fa lo stesso Franceschini aveva definito “piuttosto kitsch”.

Le Soprintendenze sono state unificate (riforma tentata nel 1923… fallita e cancellata da Bottai stesso), per lo più guidate da architetti. In minoranza archeologi e storici dell’arte dai quali nacque la tutela coi bandi granducali e pontifici. Gli storici dell’arte sono per lo più “fuggiti” ai Poli museali. Certe Soprintendenze non ne hanno più nemmeno uno.
Non ne hanno nemmeno per l’ufficio esportazione che con l’articolo 68 della nuova legge “liberista” sulla concorrenza e il mercato ridiventano importanti. L’art. 68 liberalizza l’export di opere d’arte importanti. Coro di no. Ma chi li ascolta?
La Soprintendenza Archeologica Speciale di Roma che copriva l’area della capitale imperiale ed era alimentata dal Colosseo, con tante funzioni e molti soldi, viene divisa in diverse scatole con molte funzioni e pochi soldi. Prima c’erano tre direzioni. Oggi se ne contano 9 fra I e II Fascia. Più carte, più problemi per gli appalti stessi. Il Colosseo diventa autonomo, ma sul riparto del 50 % dei suoi 55 milioni di incassi, grava ancora una certa nebbia.
Franceschini annuncia un biglietto per un altro grande attrattore il Pantheon (7,4 milioni di persone. La proposta ha incassato, per fortuna il secco no del vice sindaco di Roma Luca Bergamo ndr). Gli ingressi dei Musei e dei siti registrano nel 2016 solo un + 4%, contro il + 9 degli arrivi dall’estero e folle di italiani nelle domeniche gratis (2,4 milioni). I nostri capolavori girano il mondo persino la Santa Cecilia di Raffaello. Le tavole di Piero viaggiano in Italia. Vorticosamente.

Più di tutto la legge Madia ha colpito le soprintendenze; ne è stata la pietra tombale: le Soprintendenze, svuotate, finiscono sotto i Prefetti. Come nel Piemonte sabaudo. Indietro tutta !

Ma non è finita. Franceschini, usando lo strumento dei decreti, allenta i vincoli urbanistici nelle stesse aree protette e persino nelle parti non vincolate dei centri storici medesimi. Stringe il tempi del silenzio/assenso. Tutto per “rianimare” l’edilizia, la rendita fondiaria. Un meccanismo quanto mai obsoleto. Ma molto molto italiano. E intanto il consumo di suolo continua a galoppare: Il territorio di Napoli è “sigillato” al 64 % per antiche speculazione (quello di Casavatore al 90%), quello di Milano al 54% e vicini le sono Monza, Bergamo e Brescia. Viva la modernità.

Fondamentale per la funzionalità della tutela il confronto fra tempestività e qualità degli interventi Mibac nel post-terremoto umbro-marchigiano del ‘97 e quelli del 2016 : dei più avvilenti. Per il 2016 naturalmente.

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Chi suona il piffero del Pil

FORT WORTH, TX - NOVEMBER 27: Shoppers Jeri Hull (L) and Karen Brashear (R) wait in line while shopping at Toys"R"Us during the Black Friday sales event on November 27, 2009 in Fort Worth, Texas. Toys"R"Us stores nationwide opened at midnight Thursday, November 26, providing shoppers access to its Black Friday deals five hours earlier than ever before. According to the National Retail Federation, a trade organization, as many as 134 million people, 4.7% more than last year, will shop this Friday, Saturday or Sunday. (Photo by Tom Pennington/Getty Images)

La teoria pura di molte discipline è inaccessibile ai non esperti. Tra tutte, la teoria economica ha un ruolo particolare perché, tra le scienze sociali, è la più complessa e tecnica e allo stesso tempo ha guadagnato un ruolo predominante come spalla teorica della politica e perciò ha una ricaduta enorme sulla vita di tutti i giorni di tutti i cittadini. Spesso inconsapevoli, certamente schiacciate dalla forza che viene facile attribuire a ragionamenti che si propongono nella forma di formule statistiche e matematiche, le persone hanno al contempo la sensazione di essere sottoposte a fenomeni incontrovertibili, come i fatti di natura, e sentono anche che qualcosa non va. Come è mai possibile che in un tempo che per capacità scientifica e tecnologica che si propone come apice dello sviluppo della storia e della conoscenza umana, la qualità del lavoro, dei rapporti sociali, e più in generale della vita non sembra più promettere un mondo migliore ai nostri figli come il passato ha sempre garantito? Ebbene, una parte di responsabilità di questo è da attribuire alla teoria economica che è risultata vincente quasi quarant’anni fa, e ha dominato sulle politiche occidentali prima, e mondiali poi.

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Democrazia diretta, la lezione di Barcellona raccontata dall’assessora Francesca Bria

C’è una domanda che da qualche tempo turba i media italiani, provocando immediate reazioni e il sorgere di schieramenti contrapposti. La domanda è: la web democracy può rappresentare una via d’uscita alla crisi della partecipazione politica da parte dei cittadini?

Che l’argomento sollevi un polverone si è visto anche all’inizio di aprile quando la sindaca di Roma Virginia Raggi e l’assessora Flavia Marzano hanno presentato la proposta di modifica dello statuto comunale di Roma Capitale introducendo strumenti di democrazia diretta – così l’hanno definita – come petizioni online, bilancio partecipato e referendum senza quorum. Subito c’è stato chi ha fatto notare che non ci sarebbe niente di nuovo sotto il sole, visto che le petizioni e i referendum sono strumenti di partecipazione popolare previsti anche dalla Costituzione. Danilo Toninelli, il deputato M5s membro della Commissione affari costituzionali, ha replicato dai microfoni da “Tutta la città ne parla” su di Radio3 che in 70 anni non sono state fatte le leggi attuative dei principi relativi alla democrazia diretta enunciati nella Carta e che i sindaci italiani non sono proprio usi a rispondere alle petizioni in consiglio comunale.
I Cinque stelle a Roma vorrebbero quindi passare dalle parole ai fatti. L’esperienza capitolina, in effetti, non è casuale. Roma è una delle città italiane, insieme a Torino, Milano e Napoli, ad avere un filo diretto con Barcellona, la capitale catalana dove la democrazia partecipata online fa parte della vita quotidiana dei cittadini. E dove dal mese di giugno 2016 è assessora all’innovazione tecnologica un’economista italiana, Francesca Bria. Prima di essere chiamata dalla sindaca Ada Colau, che guida la città grazie alla vittoria del suo movimento Barcelona En Comù, Bria aveva lavorato ad un progetto europeo gestito dall’agenzia inglese Nesta e indirizzato allo studio della democrazia digitale in Europa. Il progetto aveva coinvolto i Pirati tedeschi, Podemos, il M5s e alcune esperienze di mutualismo dal basso. «L’obiettivo era vedere quale uso della tecnologia si faceva negli altri Paesi e come stavano cambiando i partiti politici», dice l’economista a Left. Quel lavoro di sperimentazione e di analisi sulla costruzione di nuove piattaforme digitali è stato il nucleo fondante della sua attività a Barcellona. Il ruolo di Bria è infatti quello di coordinare e definire la strategia digitale della città catalana. Un percorso “naturale”, dopo la vittoria di Colau. «Barcelona En Comù ha un’esperienza di governo piuttosto nuova e nasce proprio con la caratteristica della democrazia partecipata, perché nella storia stessa della sindaca c’è proprio il provenire dai movimenti popolari. La partecipazione dei cittadini alla politica pubblica è uno dei cardini di questa esperienza di governo».
L’applicazione della democrazia digitale – spiega – avviene per le politiche della casa, del diritto all’abitare, fino alla pianificazione urbanistica e al bilancio partecipato. «Anche noi abbiamo un Pam, un documento di programmazione per questo mandato amministrativo ed è stato scritto con la partecipazione di 30mila cittadini, attivi sia online che offline, attraverso assemblee di quartiere e consulte più o meno tradizionali», continua Francesca Bria, che spiega anche come funziona il portale Decidim Barcelona attraverso cui i cittadini lanciano proposte per «implementare i nostri progetti».
Ma perché la parte tecnologica è così importante? «È come se avessimo cocreato un workshop di politica pubblica. E lo facciamo con una tecnologia molto intuitiva, perché la nostra applicazione è anche sui cellulari. E poi lavoriamo molto sull’analisi dei dati, e per spiegare ai cittadini il problema da risolvere, utilizziamo anche le infografiche e mettiamo a disposizione open data». Perché, spiega Francesca Bria, «non basta un’esperienza meccanica, non si tratta di mettere un click o un like, perché si possa parlare di democrazia partecipata». Occorre, invece, che la conoscenza del problema sia diffusa, che i cittadini siano informati, che i problemi da risolvere siano argomentati, visualizzati con tutti i dati a disposizione: «Rispetto alla partecipazione automatica nei social media o rispetto alla news consumata in fretta, noi stiamo lavorando sul senso della partecipazione dei cittadini anche rispetto ai bisogni dei loro quartieri». Anche perché la web democracy da sola non avrebbe efficacia: «c’è la continua interazione tra la partecipazione alla piattaforma digitale e le assemble nei quartieri», precisa l’economista.
La trasparenza delle amministrazioni, un obiettivo così difficile da raggiungere in Italia, visto anche l’insuccesso del Foia (Freedom of information act) dopo 4 mesi dalla sua entrata in vigore, a Barcellona sembra ormai una realtà acquisita. «Tutti i dati si possono verificare, c’è un continuo feedback anche con operatori del data journalism. E, d’altra parte, visto che Barcelona En Comù come Podemos è arrivata al potere anche per via di una critica serrata alla casta e alla corruzione istituzionale, abbiamo messo tutti i dati, anche i nostri», dice ridendo Bria. Non solo: è possibile anche segnalare gli eventuali abusi di potere o episodi di corruzione: «Abbiamo creato una infrastruttura, la Bustia etica, basata sulla tecnologia di decrittazione dei dati, che protegge l’anonimato e che viene usata anche da Wikileaks. Così incentiviamo il wistleblowing interno con la protezione delle fonti».  Anche in questo caso Barcellona è una città apripista in Europa.
Ma quali sono i possibili rischi della web democracy? «Il problema c’è quando non si vede che questi processi di organizzazione online non sono un’alternativa alla forma di partecipazione nel territorio, nelle piazze, attraverso la discussione, il dibattito», dice ancora Bria: «La rete non può sostituire questo rapporto di partecipazione dal vivo». E allora, continua l’assessora, non si può liquidare la questione della democrazia digitale secondo la dicotomia democrazia sì o democrazia no, ma su come viene praticata. «Del resto la partecipazione digitale è ormai diventata parte integrante della vita delle persone, quindi è normale che se ne faccia un uso politico», sottolinea. Come ha fatto notare sempre sulla trasmissione di Radio3 Nadia Urbinati, «la web democracy è reale e globale e non ci può scandalizzare tanto. L’innovazione tecnologica che inventa strategie nuove e di pratica politica di cittadinanza, non la si può fermare. Nel senso che la democrazia è per sua natura, dai tempi antichi, aperta alle innovazioni che devono risolvere problemi d partecipazione. Non si può né demonizzare né esaltare».
Secondo Francesca Bria, di fronte alla crescente mancanza di fiducia dei cittadini nei confronti delle politiche di austerità, «l’unico antidoto, l’unica risposta possibile ai populismi di destra che fanno leva proprio sulla insoddisfazione, sulla delusione e sulla protesta, sono queste forme di democrazia diretta. Solo in questo modo i cittadini riprendono il protagonismo nella politica e si mettono in gioco. La lezione che viene dalla Spagna è proprio questa: allargare gli spazi della democrazia, se no vince il populismo di destra».

(da Left n.16 del 22 aprile 2017)