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Cosa farebbe il Labour se vincesse (e perché il manifesto elettorale è stato passato ai media prima del tempo)

epa05956369 A Labour Party campaigner wearing an election campaign shirt, attends the launch of a new election campaign poster by the Labour Party in Central London, Britain, 11 May 2017. Labour leader Jeremy Corbyn was due to attend the poster launch, but declined to attend after the party's draft manifesto was reportedly leaked overnight. EPA/WILL OLIVER

I titoli di molti media britannici parlano di un partito laburista anni ’70. Ieri il manifesto elettorale del partito Laburista è stato passato alla stampa con qualche giorno di anticipo rispetto alla data prevista per il lancio. È ancora una bozza e oggi verrà discusso e contiene molte proposte che tornano su grandi temi che hanno animato il dibattito politico britannico dagli anni di Thatcher in poi. A dire il vero, questo è il limite del programma del partito, su alcuni temi è vero che la volontà degli estensori del manifesto sembra essere quella di fare un salto nel passato, di vendicarsi sull’era Thatcher.

In molti altri casi, sebbene le misure proposte siano quelle “tradizionali” per la sinistra, hanno molto senso. Il tema al centro della discussione è però un altro: come è possibile che il manifesto elettorale, 43 pagine dal titolo “For the many, not the few” (Per tanti, non per pochi), sia stato diffuso alla stampa nonostante fosse una bozza in fase di revisione? Le teorie sono diverse: è un modo dei nemici di Corbyn di far sottoporre il testo a critiche prima che questo venga licenziato definitivamente (un modo per cambiarlo, insomma) oppure è una scelta degli stessi avversari del leader di sinistra, per metterlo in difficoltà. C’è persino la tesi, poco credibile, che siano gli stessi corbyniani ad aver diffuso il testo per accusare i nemici interni.

Il portavoce della campagna Andrew Gwynne ha ribadito che il testo è una bozza e che deve essere approvato e modificato dal gruppo parlamentare, dal governo ombra e da un incontro con i sindacati. E in effetti in alcune parti, riferisce il Guardian, è già stato modificato rispetto al testo diffuso. Il problema della fuga di notizie però resta: che partito è uno che va alle elezioni con pezzi che fanno i dispetti alla leadership sperando che le cose vadano peggio di quanto già non appare evidente andranno? I sondaggi parlano di un distacco di almeno 18 punti tra conservatori e difficilmente il programma più di sinistra da molti decenni cambierà le cose nonostante sia, in larga parte, un programma di buon senso, come segnala Owen Jones con un tweet

Un breve elenco: stanziare 8 miliardi di euro per programmi di welfare nella prossima legislatura, rafforzare i diritti sindacali, tra cui una maggiore sindacalizzazione in tutta la forza lavoro e abrogare una legge che la limita approvata l’anno scorso, abolire i cosiddetti contratti a “zero ore” (che consente al datore di lavoro di poter mettere il lavoratore anche a zero ore), aumentare l’imposta sul reddito per il 5% più ricco per aumentare la spesa sanitaria di 6 miliardi, costruire 100.000 case popolari all’anno, rinazionalizzazione delle ferrovie, delle Poste e delle privatizzate dell’energia (in questo caso creazione di offerta pubblica, non proprio rinazionalizzazione).

Sull’immigrazione il Labour mette in guardia contro le false promesse conservatrici di ridurre drasticamente i numeri – promessa fatta molte volte e sempre disattesa. Sulla Brexit si registra la vittoria dei Leave e sulla Scozia si dice di essere contrari a un secondo referendum. Infine, sul sistema di armi nucleari per sommergibili Trident, cui il leader laburista Jeremy Corbyn si è sempre detto contrario, la scelta è di rinnovarlo.

Il manifesto aumenta molto la spesa pubblica ma non necessariamente individua dove cercare le risorse, ma l’ipotesi di rinazionalizzazione delle ferrovie private – care e non efficienti – ha molto senso. Così come un rilancio dell’NHS, il sistema sanitario nazionale. Molte delle idee sono dettagliate – più che in passato – e molte toccano problemi reali rispondendo in maniera popolare. Il problema, forse, è che il Labour alcune di queste proposte le ha già fatte molte volte e il manifesto non sembra dare un’idea di domani, non racconta una svolta. In un dibattito nazionale concentrato sulla Brexit e sulle scelte che il governo di Theresa May farà in materia, il rischio evidente è quello di non catturare l’attenzione delle persone. Tra l’altro i Lib-Dem chiedono un nuovo referendum e lo Scottish National Party quello sulla Scozia, raccogliendo forse i consensi degli scontenti della Brexit. I conservatori invece possono contare sul fatto che le loro posizioni sulla Brexit e il privilegio di stare al governo gli consentono di raccogliere i consensi dell’Ukip, non molti voti, ma capaci nel sistema maggioritario di cambiare di molto la maggioranza parlamentare. Questo è l’ultimo sondaggio, che regalerebbe una maggioranza ai conservatori di circa venti parlamentari.

In attesa di Ghizzoni, una cosa sul caso Boschi

Maria Elena Boschi durante la conferenza stampa di presentazione del libro "Italiasicura" a Palazzo Chigi, Roma, 10 Maggio 2017. ANSA / LUIGI MISTRULLI

I toni di Alessandro Di Battista non sono certo una novità: «Boschi è una bugiarda cronica. Non ha neanche senso chiamarla in Aula, vogliamo che venga Gentiloni e non faccia il verginello immacolato». L’indignazione dei 5 stelle non è un termometro affidabile, per via della nota storia del lupo. Il caso Boschi però è un caso politico molto spinoso, che – come spesso accade – supera persino i fatti che l’ex direttore del Corriere Ferruccio De Bortoli rimprovera a Maria Elena Boschi, ex ministro del governo Renzi e ora sottosegretaria alla presidenza del Consiglio con Gentiloni. Accuse che hanno già fatto finire in ristampa, ovviamente, l’ultimo libro di De Bertoli, Poteri forti (o quasi) in uscita con la Nave di Teseo.

Il fatto imputato a Boschi, ricordiamo, è quello di essersi spesa personalmente, ai tempi del governo Renzi, e quindi da ministro, con i vertici di Unicredit per far valutare l’acquisizione di Banca Etruria, come noto in difficoltà. Banca di cui il padre di Boschi era vicepresidente. Boschi dal canto suo conferma quando detto nel 2015 al Parlamento: «Mai mi sono occupata di Banca Etruria». Ma anche De Bortoli (che definì Renzi un “maleducato di talento” e che disse, sul Giglio magico, di sentire un “sentore di massoneria”) conferma: «Sono assolutamente tranquillo e sicuro delle mie fonti. Sono un collezionista di querele. E spero che quello di Boschi non sia solo un annuncio».

De Bertoli, peraltro, presentando il libro a Milano, spiega bene quale sia il punto. «Ho parlato di interessamento e non di pressioni», dice, ma poi continua: «Credo si debba uscire dall’ipocrisia, non trovo nulla di strano nel fatto che i politici si occupino dei problemi economici del territorio. Poi ci sono i conflitti d’interesse e le parole in Parlamento». Le bugie di cui strilla Di Battista e il conflitto di interessi su cui mai si è fatta una legge.

Tutto sarebbe più facile, comunque, se Federico Ghizzoni, allora amministratore delegato di Unicredit, e che De Bortoli tratta come fonte, confermasse o smentisse quanto scritto dal giornalista. Paolo Mieli, anche lui alla presentazione del libro, indica così il silenzio, che è centrale: «Manca un “dettaglio”», nota giustamente Mieli, «Ghizzoni, il cui silenzio appare una conferma, ha il dovere di spiegare dove, come e quando».

In attesa che la vicenda si chiarisca (posto che potrebbe anche non chiarirsi come spesso accade, sparendo da radar appena un’altra polemica la sostituirà), comunque il caso cresce e crescono le ricadute politiche.

Per ora il fronte del Pd è compatto a difesa di Boschi (anche perché la minoranza più critica, e che anche su questo caso chiede che «si vada a fondo», ha lasciato il partito). Ma qualcuno forse dovrebbe notare come è cambiata la figura di Boschi. Che rischia di esser «piombo nelle ali», come dice Peppino Caldarola a Omnibus, su La7, nelle ali di Renzi – che pure già ha il piombo suo. E non solo per le notizie, le polemiche (fossero anche dicerie, mediaticamente si pagano) sul caso Banca Etruria. Boschi dava, come noto, il nome alla riforma sonoramente bocciata al referendum di dicembre. Boschi, come Renzi, aveva giurato che avrebbe lasciato la politica. Boschi, insomma, non è più quella che (brevemente, come in una sbronza collettiva) è stata.

Lo scrive Melania Rizzoli su Libero (che titola “Boschi in fiamme”). Boschi «al suo esordio politico era la novità esplosiva, creata dalle mani del pifferaio magico Matteo Renzi, inseguita da ammiratori e giornalisti, fotografata e intervistata anche in bikini, considerata la più bella e la più tosta del Parlamento», oggi invece, «ha un’immagine che si sta distruggendo con il nuovo caso Banca Etruria, e che si sta trasformando lentamente, come fosse un avatar, con una metamorfosi evidente e irreversibile, che le toglie tutti i poteri». Insomma, continua Rizzoli, «Maria Elena sta diventando antipatica, quasi come la presidente Laura Boldrini». Qualcuno ne prenderà atto?

I rifiuti non sono nei cassonetti. Ma bruciati nel camper

The scene of the camper fire in Rome, Italy, 10 May 2017. Two children and a young woman are dead after a camper van caught fire early on Wednesday in the Centocelle district of Rome. According to initial reports, the victims are three sisters aged 20, eight and four of Roma ethnicity. The camper was in a shopping centre car park and a family made up of 11 children plus the parents lived inside. The parents and the other siblings reportedly managed to get out of the camper. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Questa cosa dei volontari del Pd in maglietta gialla che faranno i netturbini per un giorno su Roma con la speranza di incastrare Virginia Raggi e di rimbalzo il Movimenti 5 Stelle mi manda fuori di testa. Davvero. Mi lascia perplesso ferocemente anche che il vetero-neo-segretario del Pd Matteo Renzi abbia il tempo di preoccuparsi del giallo delle divise da spazzini e delle pelose quisquilie romane, mentre un Paese intero galleggia pericolosamente nelle acque della disillusione politica; questo ieri faceva il Fonzie di fianco a Obama e oggi si occupa dei sacchetti dell’umido. Quindi.

Forse a Roma, o meglio nel Lazio, o meglio ancora in Italia, il problema non sta nella foglia di lattuga lasciata sul marciapiede ma piuttosto nell’umanità disperata delle ragazze madri che abbandonano come pacchi o nei camper in cui bruciano tre sorelle di undici figli accampati sotto l’insegna di un ipermercato. Oppure forse “la crisi” sta proprio nell’incapacità di parlare delle persone, tutti presi dalle “cose” e dai bilanci.

Quando qualcuno decide di abbassare la politica ai sacchetti dell’umido mentre tutto intorno la gente affoga, brucia o si dispera forse si è perso il punto centrale: si è leader quando si ha il coraggio di sfidare l’avversario sulle vette più complesse del dibattito.

Il resto banalmente è solo una guerra di colori, di foto e di tweet: i rifiuti a Roma (e nel Paese) non sono nei cassonetti. I rifiuti sono nell’involuzione culturale dei “non sono razzista ma…” e nella loro ultima evoluzione: “ma la gente è esasperata”. La politica si gioca lì. La leadership culturale è lì. Anche se non ha il coraggio di arrampicarsi quasi nessuno.

Buon giovedì.

“TV 70”, una mostra racconta la televisione degli anni 70 fra biografia, arte e immaginario collettivo

«Questa è una mostra di convergenze non parallele e di parallele non convergenti. È la storia della mia infanzia, della mia adolescenza e della mia “educazione sentimentale”. Sono stato cresciuto da dei genitori che mi portavano alle mostre di arte povera e da delle nonne che mi facevano vedere i festival di Sanremo, ho cercato di fondere in questa mostra entrambe le valenze» la racconta così Francesco Vezzoli la sua mostra “TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai ” ospitata fino al 24 settembre a Milano negli spazi della Fondazione Prada.
Il percorso espositivo è in effetti un vero e proprio palinsesto crossmediale che, fra filmati tv d’epoca estratti dalle Teche Rai e opere d’arte, racconta gli anni 70, fra immaginario collettivo, rivoluzioni sociali, politica e ovviamente programmi tv. Vezzoli infatti guarda alla televisione pubblica di quegli anni come a un prodotto di qualità caratterizzato da una vera e propria forza di cambiamento sociale in un Paese appena uscito dalla radicalità degli anni Sessanta e pronto a scivolare, travolto dal diluvio commerciale che affogherà il servizio pubblico, nell’edonismo degli anni Ottanta e delle tv private dell’era Berlusconi.

È proprio durante gli anni 70 infatti che la Rai, traghettata nel nuovo decennio dal direttore generale Ettore Bernabei, inizia a ripensare il ruolo pedagogico che fin ora aveva scelto di incarnare e punta su prodotti culturalmente prestigiosi frutto delle collaborazioni con registi come Bernardo Bertolucci, Federico Fellini, Paolo e Vittorio Taviani. Ma è anche una televisione che, seppur divisa tra austerità formale e carica innovativa, si afferma ufficialmente come medium indipendente e caratterizzato da un proprio linguaggio specifico. Un linguaggio che via via cerca di ampliare i punti di vista, dare voce a prospettive plurali e istanze autonome, anticipando quel modo di fare televisione che poi sarà messo in campo anche dalla tv commerciale del decennio seguente.

“TV 70” racconta tutto questo e lo fa attraverso un percorso che esalta con associazioni visive e semantiche l’incontro tra la dimensione spaziale e quella temporale vera propria innovazione del medium televisivo. È così che tra luce e buio, corridoi e spazi aperti, le tradizionali condizioni espositive di un museo si fondono con il passaggio sullo schermo dell’immagine in movimento. La successione di documenti immateriali provenienti dagli archivi delle Teche Rai accostati alla materialità di dipinti, sculture e installazioni – selezionati con il supporto curatoriale di Cristiana Perrella e la consulenza scientifica di Massimo Bernardini e Marco Senaldi – si articola in tre sezioni distinte e affronta le relazioni della televisione pubblica italiana con l’arte, la politica e l’intrattenimento.

La prima sezione “Arte e Televisione” è introdotta dai Paesaggi TV (1970) di Mario Schifano e riflette sull’impiego artistico del mezzo televisivo. Programmi come “Io e…” e “Come nasce un’opera d’arte” rendono artisti come Alighiero Boetti, Alberto Burri, Giorgio de Chirico, Renato Guttuso e Michelangelo Pistoletto, intervistati o ripresi mentre realizzano i propri lavori diventano così personaggi pubblici, protagonisti della cultura pop-olare televisiva.

 

La seconda sezione mette in relazione “Politica e Televisione” evidenziando la natura frammentaria e ossessiva dei messaggi politici degli anni Settanta con gli estratti dei telegiornali dell’epoca che testimoniano il clima di tensione degli anni di piombo. Fra le opere esposte la serie di 12 collage su carta “Non capiterà mai più” (1969) di Nanni Balestrini che manipola e demolisce i linguaggi di massa e il video di Ketty La Rocca “Le Mani” (1973) che declina un nuovo vocabolario al femminile, altro grande tema politico di quegli anni. È proprio tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta infatti che l’artista Carla Accardi mette in discussione l’idea della pittura come prerogativa maschile ed elabora un linguaggio anti-istituzionale che cancella il confine tra privato e pubblico, intimità e condivisione. In “Tv 70” le opere di Accardi vengono così accostate a programmi televisivi, come “Processo per Stupro” e “Si dice donna”, oltre che ai filmati delle manifestazioni femministe.

La terza e ultima parte è dedicata a “Intrattenimento e Televisione” e si apre con l’installazione di Giosetta Fioroni “La spia ottica” (1968) nella quale il corpo della donna è presentato come oggetto dello sguardo e del desiderio dell’altro e contemporaneamente come soggetto attivo e cosciente. Uno dei focus centrali della sezione è infatti proprio il confine tra liberazione sessuale e consumo del corpo femminile verso cui si sbilancerà la tv privata e berlusconiana del decennio successivo.
La mostra si conclude con un montaggio realizzato e ideato da Francesco Vezzoli nel quale l’artista cuce insieme spezzoni di programmi, immagini e film che raccontano la sua storia personale. Mettendo insieme le icone che hanno segnato la sua infanzia e adolescenza ad altre immagini televisive, l’artista riesce a unire personale e pubblico, sottolineando come le immagini, in questo caso televisive, riescano a trasformare la memoria intima e personale in una narrazione condivisa.

Trump licenzia il capo dell’Fbi Comey, il Russia-gate cresce. Quel che c’è da sapere

epa05742575 US President Donald J. Trump, center, shakes hands with James Comey, director of the Federal Bureau of Investigation (FBI), during an Inaugural Law Enforcement Officers and First Responders Reception in the Blue Room of the White House in Washington, DC, USA, on 22 January 2017. EPA/Andrew Harrer / POOL

«Il presidente ha fatto proprie le conclusioni del Dipartimento di Giustizia che raccomanda il licenziamento del direttore dell’Fbi». Così in sala stampa il Sean Spicer, portavoce di Donald Trump conferma la bomba, l’ennesima, gettata sul clima politico americano. Le motivazioni ufficiali sono semplici: Comey ha informato in maniera scorretta il Senato durante l’ultima audizione relativa alle interferenze russe nella campagna elettorale Usa riferendo che migliaia di e-mail della allora Segretaria di Stato Hillary Clinton erano state inoltrate dal suo braccio destro Huma Abedin al marito Anthony Weiner – non è così, le mail sono poche e probabilmente private. Nel documento preparato per cacciare Comey si fa anche riferimento alla gestione delle indagini su Clinton e le sulle sue mail, nel fare annunci pubblici sulla questione e decidendo per conto proprio che l’inchiesta si poteva archiviare Comey ha sbagliato due volte: diffondendo informazioni riservate e decidendo, perché come ha detto egli stesso riteneva che la Segretaria alla Giustizia, titolare della decisione, fosse in conflitto di interesse e non potesse quindi decidere liberamente.

Nessuno aveva previsto o avuto notizie su quel che sarebbe successo. All’Fbi sono tutti senza parole e molti sembrano essere furiosi per il discredito gettato sull’agenzia. Mesi fa era stato lo stesso con la Cia. Lo abbiamo già scritto più di una volta: per uno ambiguo e con una storia di affari immobiliari come Trump, fare la guerra e far infuriare gli apparati di intelligence è un clamoroso errore strategico. Meglio non avere nemici tra le spie. Specie se, come appare chiaro, il licenziamento di Comey è connesso alle indagini sui contatti con la Russia.

 

La lettera di Trump a Comey, non avvertito prima e consegnata dal guardia-spalle privato del presidente alla sede Fbi. Il secondo paragrafo è interessante: “Apprezzo l’informazione ricevuta in tre occasioni relativa all’assenza di indagini nei miei confronti”. Una excusatio non petita.

La decisione non ha precedenti e getta una luce sinistra sulle modalità di gestione della cosa pubblica e di strumenti delicati come l’apparato di sicurezza da parte di Trump. L’Fbi sta infatti indagando su pezzi dell’amministrazione e sulle interferenze russe durante la campagna elettorale. La mente di tutti va al “Massacro del sabato notte” quando nel 1973 Richard Nixon licenziò Richard Cox, l’investigatore speciale sul caso Watergate. Come segnala l’account twitter della Nixon Library, però, il presidente repubblicano di allora non licenziò il capo dell’Fbi.

I democratici sono sul piede di guerra e chiedono l’immediata nomina di una commissione di inchiesta o l’avvio di un’inchiesta condotta da un procuratore nominato appositamente – il secondo ha potere di incriminare, la prima è come le commissioni di inchiesta parlamentari italiane: accumula informazioni, pubblica un rapporto. Il capo dei senatori Schumer ha convocato tutto il gruppo e in Senato si assisterà a uno dibattito teso e duro. Alcuni senatori repubblicani si sono detti «preoccupati per la decisione presa dal presidente». Sosterranno la creazione di una commissione di inchiesta indipendente come quella sull’11 settembre o la nomina di un procuratore speciale indipendente? Forse due.

Fino a qui le notizie. Per capire la portata e gravita della cosa servono però molte informazioni di contesto, a partire dal fatto che quello di Comey è il terzo licenziamento ai danni di persone che conducevano indagini sulla sua amministrazione. La prima è Sally Yates, reggente del Dipartimento di Giustizia in attesa del nuovo Segretario, la seconda è quella di Preet Bharara, procuratore federale di un distretto di New York con giurisdizione sulla Trump Tower che indagava sulle presunte intercettazioni da parte di Obama su Trump – fake news diffusa dallo stesso presidente. La stessa Sally Yates ha giocato un ruolo in questa vicenda: durante un’audizione in Senato la scorsa settimana ha reso noto di aver informato la presidenza delle bugie riferite dall’ex Consigliere Nazionale per la Sicurezza Michael Flynn al vicepresidente Pence sui suoi rapporti con la Russia, ma Trump decise di licenziare lei e non il generale in pensione, licenziato diversi giorni più tardi. Solo dopo che il Washington Post aveva diffuso la notizia.

C’è poi l’aspetto paradossale e politico della vicenda: per settimane Trump ha elogiato Comey per la sua indagine su Clinton e ha beneficiato della scelta del capo dell’Fbi di rendere pubblica la notizia. Semmai, il campo trumpiano si è indignato quando Comey ha dovuto archiviare perché la questione non sussisteva. C’è, dunque il tipico atteggiamento a-istituzionale del presidente, che gioca con le nomine, le persone, il suo staff come se si trattasse di dipendenti della sua impresa di costruzioni.

Altro aspetto importante: il memo preparato dal vice Segretario alla Giustizia  Rosenstein porta del 9 maggio, ovvero è contemporaneo alla cacciata, è insomma un dossier preparato dopo che Trump aveva preso la decisione di licenziare Comey e non un processo. A questo si aggiunga che il capo di Rosenstein, ovvero il Segretario alla Giustizia Jeff Sessions, si è auto-sospeso dall’indagine sulla Russia dopo che si è saputo dei suoi incontri con l’ambasciatore russo a Washington. Ovvero, il Dipartimento di Giustizia che si è ritirato dall’indagine per un conflitto di interesse è lo stesso che suggerisce di licenziare chi conduce le indagini.

Comey è il secondo direttore dell’Fbi licenziato nella storia degli Usa, prima di lui solo Clinton ne aveva licenziato uno, William Sessions, che però era lui sotto inchiesta per evasione fiscale.

La situazione russa, che sembra faccia infuriare Trump oltre ogni misura, è diventata un affare colossale, e licenziando Comey, il presidente non fa che renderla più grande. Se a questo aggiungiamo che la figura che più ha guadagnato punti e potere all’interno dell’amministrazione in queste settimane, il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale McMaster, sembra essere ai ferri corti con Trump, appare chiaro come il caos regni alla Casa Bianca – oppure le notizie sugli scontri tra Trump e McMaster sono frutto di leaks di Steve Bannon, come sostengono altri, e anche questo è un segnale di caotica guerra per bande. La vicenda russa non è finita e molto dell’onere sta ai senatori repubblicani. John McCain e Lindsay Graham i due più titolati a mettersi di traverso sulle questioni di intelligence e affari esteri. Oggi a Washington, intanto, arriva il ministro degli Esteri Sergei Lavrov. Sembra la sceneggiatura di un filmaccio.

 

Franceschini, la risposta di Berlusconi e non solo. Indizi per la prossima grande coalizione

Il segretario del Pd Matteo Renzi a Seeds&Chips alla Fiera di Rho-Pero (Milano), indica la firma di Silvio Berlusconi sul pannello di Give me five, lo spazio in cui personalità incontrano per cinque minuti degli startupper, 9 maggio 2017. ANSA/ DANIEL DAL ZENNARO

L’intervista di Dario Franceschini al Corriere della Sera è girata molto, ma vale la pena ripescarla, soprattutto nei due passaggi del suo appello a Silvio Berlusconi. Un appello – rispedito al mittente, vedremo – che non è solo per riscrivere la legge elettorale.

Come da ultima moda, infatti, Franceschini cita come riferimento l’esperienza di Macron.

A Verderami dice: «Il Pd la sua parte l’ha fatta: con le estreme ha chiuso, non punta in futuro a governare con l’area guidata da Fratoianni. Ora tocca a Berlusconi attribuirsi una funzione storica che da tempo gli chiede il Ppe, di cui fa parte. Lui ha l’occasione di allineare il nostro Paese al resto dell’Europa, dove Fillon non ha appoggiato la Le Pen al ballottaggio, dove la Merkel non si sogna di governare con Alternativa per la Germania, dove la May non vuole avere nulla a che fare con Farage. L’Italia non può essere l’unico Paese in cui una forza moderata di centrodestra sta insieme a populisti ed estremisti».

L’invito a Berlusconi non è quindi sulla sola legge elettorale, ma è programmatico, ambizioso, di sistema, di governo: «La stagione del bipolarismo, quella in cui centrodestra e centrosinistra dovevano aggregare anche le forze estreme per battere l’avversario con un voto in più, è finita», dice il ministro dei Beni Culturali, «cambiare schema è un gesto di responsabilità. Ignorarlo un errore che si porterebbe appresso un rischio, quello di non calcolare le dimensioni dell’onda. Il populismo».

Il citato Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana ha preso la palla al balzo per dire: «Franceschini stia sereno, chi si somiglia si piglia. Non siamo sorpresi che preferisca Berlusconi». A noi però interessa capire se il suo è uno strappo personale o una linea tracciata dai più.

Che Macron abbia risvegliato l’entusiasmo di Matteo Renzi è cosa nota. E il modello Macron è quello che dice Franceschini. A citare l’esperienza francese per prefigurare larghe o grosse coalizioni che non siano più estemporanee ma dettate dal nuovo (e comodo) schema responsabili contro populisti, sono poi anche altri esponenti della maggioranza. A cui nessuno dal Pd per ora chiude la porta.

Tipo Beatrice Lorenzin. Che non per nulla chiede che le poche modifiche alla legge elettorale prevedano un premio alla coalizione e non al singolo partito. «Il punto», dice, «è che anche nel nostro Paese ci sono due fronti contrapposti: quello pro Europa, pro Euro; e quello antisistema». Riecco dunque la stessa semplificazione – perché di semplificazione si tratta, che appiattisce le differenze nel fronte di quelle che Franceschini chiama «le estreme». «L’elezione di Macron», continua Lorenzin, senza che nessuno senta l’esigenza di stopparla, «ha dimostrato qual è il nuovo corso che vince».

Ed è solo registrando la risposta che Berlusconi affida a un’intervista a Panorama che uscirà giovedì, che si può immaginare che quella di Franceschini sia la provocazione che rende più che tollerabile l’esistente, cioè un governo con il centrodestra più moderato. Anche Berlusconi, infatti, cita Macron, ma parlando per il momento a Salvini e Meloni.

Il castello di Sammezzano, gioiello orientalista nel cuore della Toscana, diventa arabo

Erano anni che, fra aste deserte e rinviate, si cercava un acquirente per l’eclettico castello di Sammezzano, gioiello in stile moresco e principale esempio di orientalismo in Italia, nel cuore delle colline toscane fra Chianti e Valdarno. Progettata dal marchese Ferdinando Panciatichi Ximenes d’Aragona fra la metà e la fine dell’Ottocento, la residenza, che tra le altre cose è stata anche il set per il “Racconto dei Racconti” di Matteo Garrone, è stata acquistata per 15,4 milioni di euro dalla Helitrope Limited, una società araba con sede a Dubai. Il primo assegno è già stato depositato e il saldo dell’intera cifra dovrà avvenire fra 120 giorni.

Una scena de “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone

Quello che si è concluso nei giorni scorsi è il terzo tentativo di vendita del castello. Le precedenti aste, tenutesi nel 2015, erano risultate praticamente deserte e quella prevista per il 2016 era stata rinviata. Le sorti di Sammezzano però erano sempre state a cuore a molti, in questi anni infatti più volte erano state lanciate delle petizioni “Save Sammezzano” per salvare il maniero orientalista, praticamente in fase di abbandono, dopo il fallimento della società italo-inglese che lo aveva acquistato nel 1999 senza mai riuscire ad effettuare un vero e proprio rilancio di questo bene culturale unico nel suo genere.

«Da anni si cercava per Sammezzano, un monumento straordinario e unico, la giusta collocazione e soprattutto un proprietario che potesse dare un futuro al castello, rarissimo esempio di architettura orientalista, e al suo parco. Adesso ci confronteremo con la proprietà, aspetteremo un primo intervento per combattere il degrado della struttura e valuteremo i loro progetti. Io sono fiducioso» ha dichiarato Cristiano Benucci, sindaco di Reggello comune del quale fa parte anche la località Sammezzano nella quale si trova il castello.

L’acquisto dell’ex dimora del marchese Panciatichi Ximenes d’Aragona da parte di una società con sede a Dubai rinnova inoltre l’evidente interesse che imprenditori islamici hanno in Toscana, sono molte infatti le proprietà (spesso a cinque stelle, si va dal Four Seasons al St Regis ed Excelsior a Firenze) sulle quali hanno deciso di investire gli arabi nella regione di Dante.
Ancora non è stato diffuso un piano ufficiale per il rilancio, ma, sempre a detta di Benucci, la vendita è già da considerarsi un atto positivo e potrebbe permettere un’effettiva valorizzazione del castello. L’obiettivo per il sindaco è anche quello di trovare un accordo con la proprietà per continuare permettere «compatibilmente con il loro progetto, la fruibilità pubblica del castello, in quanto rappresenta un simbolo per la nostra comunità».

Le procure di Trapani e Catania a caccia di rapporti fra ong e scafisti

Sub-saharan migrants rest at the deck of Golfo Azzurro rescue ship after being rescued by members of the Spanish NGO Proactiva Open Arms, from a rubber boat sailing out of control in the Mediterranean Sea about 21 miles north of Sabratha, Libya, on Friday, Feb. 3, 2017. European Union leaders are poised to take a big step on Friday in closing off the illegal migration routes from Libya across the central Mediterranean, where thousands have died trying to reach the EU, the EU foreign affairs chief Federica Mogherini said. (ANSA/AP Photo/Emilio Morenatti) [CopyrightNotice: Emilio Morenatti]

La polemica sui presunti rapporti fra Ong e scafisti imperversa da settimane. A scatenare il caso inizialmente erano state le polemiche su Fronte e le parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio secondo cui organizzazioni non governative farebbero da “taxi per migranti” alle quali si sono presto aggiunte le dichiarazioni alla stampa di Carmelo Zuccaro, procuratore capo di Catania impegnato in un’indagine conoscitiva (assieme alle procure di Palermo e Trapani) sui presunti contatti fra organizzazioni umanitarie e trafficanti. «A mio avviso alcune ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga. Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante. Si perseguono da parte di alcune ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi. Se l’informazione è corretta, questo corto circuito non si può creare salvo per effetto di persone che vogliono creare confusione» aveva detto Zuccaro in diretta tv durante la trasmissione Agorà. Ridimensionando poi le sue affermazioni durante l’audizione in commissione Difesa del Senato dove aveva precisato che erano solo dei suoi sospetti e non prove valide in tribunale.
Ora il caso si amplia, perché, come riporta il Corriere, anche Ambrogio Cartosio, il procuratore facente funzioni di Trapani, sentito in audizione alla commissione Difesa del Senato ha dichiarato: «la procura di Trapani ha in corso indagini sull’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che coinvolgono non le ong come tali, ma persone fisiche appartenenti alle ong» e ha continuato: «registriamo casi in cui soggetti a bordo delle navi delle ong sono al corrente del luogo e del momento in cui si troveranno imbarcazioni di migranti: evidentemente ne sono al corrente da prima e questo pone un problema relativo alla regolarità di questo intervento». Nonostante questo Cartosio ha anche specificato che: «allo stato delle nostre indagini escludo che ci siano elementi per poter dire che i finanziamenti ricevuti dalle ong possano essere di origine illecita ed escludo anche che gli interventi di soccorso delle organizzazioni abbiano finalità diverse da quello umanitarie» cosa che invece è stata prospettata da Zuccaro.
Sulla questione come ovvio, proprio perché riguarda un tema come quello dei migranti dove lo scontro politico è alto e sul quale, come più volte abbiamo scritto su Left, imperversano Fake News, si è polarizzato lo scontro politico. Matteo Salvini nelle scorse settimane per difendere Zuccaro aveva addirittura millantato l’esistenza, subito smentita, di un dossier dei servizi sui rapporti fra scafisti e ong: «Chi attacca Zuccaro se la vedrà con me, sulle Ong esiste un dossier dei servizi stranieri» aveva dichiarato il segretario della Lega Nord. Sotto attacco anche numerosi profili di Ong, da Unicef ad Emergency che pur non essendo impegnata nel soccorso in mare ha dovuto difendersi da numerose false accuse.

 

L’arrivo dei migranti fa bene alla salute

*OR* n.275/10 - Africa: bambini del Congo che ridono

Non solo la nostra economia, ma anche il nostro sistema immunitario ha bisogno dell’apporto dei migranti. È quanto emerge da uno studio condotto da un team di ricercatori del dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze e pubblicato da la Stampa. Secondo i biologi, i migranti africani portano con loro una serie di batteri, finghi e microbi che abbiamo perso.

Male, dirà facilmente la xenofobia populista: “È la prova che gli immigrati portano malattie”. Niente di più falso, è vero esattamente il contrario: portano anticorpi. Difese che abbiamo perso, e che sono essenziali alla nostra sopravvivenza, aiutando così il nostro organismo a combattere infezioni alle quali non è più preparato. Il nostro sistema immunitario si è indebolito, anche a causa della sedentarietà della nostra accomodata civiltà. E le malattie, gravi, aumentano. «L’industria alimentare e i suoi processi, la sanificazione, l’utilizzo massiccio di antibiotici negli allevamenti hanno contribuito a debellare molti agenti nocivi, ma hanno finito per estirparne anche di essenziali», spiega al quotidiano torinese Duccio Cavalieri, professore a capo del team toscano.

È questo il motivo dell’esplosione di malattie auto immuni, infiammazioni e allergie che sta colpendo la nostra epoca. La biodiversità microbica, spiegano i ricercatori, consente all’organismo di riconoscere i microrganismi ed eventualmente attaccarli. Ora invece, non conoscendo la varietà necessaria, il nostro organismo reagisce in maniera patogena a qualsiasi novità con la quale entra in contatto e sviluppa infiammazioni.

E come sempre, a rimetterci per primi sono i bambini. Secondo l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, uno su 20 soffre di allergie alimentari (con un aumento del 20% in dieci anni): dermatiti (7 per cento), reniti allergiche (15 per cento), asma (9 per cento) per i bimbi dai 6 ai 12 anni. Più grave, è l’esplosione precoce del morbo di Chron: il 25 per cento si ammala prima dei vent’anni. Così come è raddoppiata l’insorgenza – scesa all’età di 10 anni – di infiammazioni intestinali croniche (8 bimbi su 100 mila).

Abbondano artriti reumatoidi, coliti ulcerose, sclerosi multipla, diabete di tipo 1. «La correlazione tra la diffusione e precocità di questi mali e la riduzione della varietà microbica è assodata», traccia Carlotta De Filippo, microbiologa all’Istituto di Biologia e biotecnologie agrarie del Cnr di Pisa.

Sebbene l’ambiente nel quale i bambini africani crescoo sia ben più contaminato, è proprio questo a rendere il loro sistema immunitario forte, preparato e pronto a fare il proprio lavoro. Il motivo principale è il nutrimento: l’industria alimentare è la prima causa di indebolimento del nostro organismo, al quale seguono l’assunzione di poche fibre e proteine vegetali, invece troppi grassi animali e amido raffinato hanno fiaccato la nostra capacità di produrre acidi grassi e antinfiammatori naturali.

In sostanza, la parte più ricca del globo è in realtà la più povera. E dunque non solo il nostro livello culturale ma anche il nostro sistema organico ha solo da imparare e acquisire ricchezza dall’arrivo di queste persone.

 

Caro De Bortoli, perché non l’hai scritto sul Corriere?

Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, scrive nel suo libro Poteri forti (o quasi). Memorie di oltre quarant’anni di giornalismo appena pubblicato da La Nave di Teseo

“L’allora ministra delle Riforme, nel 2015, non ebbe problemi a rivolgersi direttamente all’amministratore delegato di Unicredit. Maria Elena Boschi chiese quindi a Federico Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria. La domanda era inusuale da parte di un membro del governo all’amministratore delegato di una banca quotata. Ghizzoni, comunque, incaricò un suo collaboratore di fare le opportune valutazioni patrimoniali, poi decise di lasciar perdere”.

Sempre su Banca Etruria aggiunge:

L’industriale delle scarpe Rossano Soldini mi ha raccontato di aver avuto molti sospetti sul ruolo della massoneria locale nella gestione dell’istituto. Elio Faralli, che ne fu padre-padrone per circa 30 anni, fino al momento in cui fu costretto a lasciare il timone a Giuseppe Fornasari, era notoriamente un massone. Soldini fece molte domande scomode, in particolare sul ruolo del consigliere Alberto Rigotti, il cui voto, probabilmente invalido, fu decisivo per eleggere Fornasari. Rigotti ebbe prestiti dalla banca, mai rientrati, e finì in bancarotta con il suo gruppo editoriale. I consiglieri dell’Etruria godettero di affidamenti per un totale di 220 milioni. Gli organi statutari erano del tutto ornamentali.

E ancora:

Alessandro Profumo, ex presidente del Monte dei Paschi, il 15 giugno 2016, durante la presentazione del libro di Fabio Innocenzi Sabbie mobili. Esiste un banchiere per bene? (Codice, 2016) rispondendo a una domanda sul tracollo del Monte dei Paschi se ne uscì con questa frase: «La colpa è tutta della massoneria». Se ne parlò poco. Profumo mi spiegherà poi di avere avuto sempre la sensazione che ci fossero fili sotterranei, strane appartenenze. E che il sospetto dei legami massonici emergesse soprattutto quando si trattava di assumere qualcuno, constatando i diffusi malumori per un no inaspettato. E ha usato un esempio dalla Settimana Enigmistica. Unisci i puntini e scopri il disegno. Ma quanti sono i puntini? E qual è il disegno?

Al di là delle evidenze che speriamo (con poca speranza) che possano essere chiarite e al di là di una gestione del potere della truppa renziana sempre piuttosto atipica e bulla rimane un dubbio (poi ognuno decide personalmente se ritenere più affidabile l’uno o l’altra dei personaggi in commedia). Dunque, Boschi sganciata la bomba (per la gioia dei nemici politici della Boschi e di Renzi) e garantito un rumoroso lancio al libro mi sorge una domanda spontanea: ma perché De Bortoli (che personalmente stimo per le posizioni e la schiena dritta) non ha scritto di questo sul quotidiano di via Solferino (di cui tra l’altro è pregiato editorialista, oltre che essere stato direttore fino al 2015)? Perché altrimenti davvero viene difficile comprendere come possa una parte della nostra povera stampa (sempre pronta a incensare il potente di turno) conquistarsi la credibilità che ultimamente è spesso in discussione. Dico, avrebbe avuto tutto un altro senso (sia politico che giornalistico) leggere questi dubbi sul Corriere della Sera, no?

E se qualcuno gliel’ha impedito meglio ancora: i nomi e i cognomi di chi non vuole (sul quotidiano più “prestigioso” d’Italia) che si disturbi il manovratore sono una notizia quasi più succosa di questa della banca Etruria e della Boschi. No?

Buon mercoledì.