Home Blog Pagina 890

Nelle liste per le legislative, il disegno acchiappatutto di Emmanuel Macron

epa05954556 French newly elected President Emmanuel Macron looks on at the Jardins du Luxembourg in Paris, France, 10 May 2017 during a ceremony to mark the anniversary of the abolition of slavery and to pay tribute to the victims of the slave trade. EPA/ERIC FEFERBERG / POOL

Emmanuel Macron sembra intenzionato a demolire il quadro politico francese tradizionale. A partire dal Partito socialista. O almeno questo è quanto fa intendere il primo elenco di candidati alle elezioni legislative del prossimo giugno a cui il suo movimento En Marche, si presenta per la prima volta. Al neo-eletto presidente francese serve una maggioranza o almeno un’Assemblea legislativa non ostile e, per ottenerla, ha pensato di imbarcare una serie di figure di primo piano provenienti dalle fila del partito di Valls e da quello di Fillon, e compatibili con le sue idee politiche. Con altri l’idea sembra di attuare la desistenza, non presentando candidati in collegi chiave.

L’elenco presentato giovedì – e già cambiato dopo una serie di smentite – non è ancora completo: per adesso ci sono 428 candidati per 577 circoscrizioni, metà dei quali sono donne, altrettanti provengono dalla società civile e non hanno mai avuto cariche elettive. Tra i non politici ci sono giudici, matematici di grido e anche una torera a cavallo – nella circoscrizione del Gard, estremo Sud, dove dovrà vedersela con l’eletto del Front National.
Poi ci sono i pezzi grossi socialisti tra cui spiccano la ministra del Lavoro Myriam El Khomri, famosa per la Loi Travail che Macron pensa di riproporre in forma nuova e non particolarmente popolare tra i suoi, una parte di deputati alleati di Hollande e Gaspard Gantzer, il comunicatore del presidente socialista e collega di Macron all’ENA, l’Ècole National d’Administration dove si forma la classe dirigente francese. Quasi tutti avevano offerto il loro sostegno a Macron prima della vittoria. Poi tre deputati uscenti ecologisti e, sul fronte repubblicano, figure importanti come Bruno La Maire, ex ministro negli anni di Sarkozy e figura moderno-tecnocrate-europeista del suo ex partito. Protestano i MoDem di Francois Bayrou, che hanno sostenuto Macron e saranno alleati alle prossime elezioni e che dicono di aver avuto un accordo per una quota percentuale che En Marche non avrebbe rispettato. Una protesta che forse consentirà di ottenere qualche posto in più ma fatta, al momento, da una posizione di debolezza.

Poi ci sono le non candidature, ad esempio nel collegio del premier uscente Manuel Valls, che si era auto-candidato con En Marche, era stato bocciato (ha già fatto tre mandati e questo è un criterio per il movimento di Macron), espulso dal PS e oggi si trova a essere lasciato in pace nel suo collegio.
Nel complesso il disegno di Macron è chiaro: eleggere una serie di figure non politiche che non hanno una base e una autonomia reale, ma portano aria fresca e hanno un appeal indiscutibile, e poi demolire quelle parti dei partiti al suo fianco (socialisti e repubblicani) in un’ottica che probabilmente potrebbe portare a un’alleanza con i Republicains. Obiettivo è essere il centro, non solo in senso di collocazione, del quadro politico francese. I due partiti sono in chiara difficoltà, i socialisti, che hanno ottenuto il peggior risultato possibile, più del partito di centrodestra.

Il trionfatore della corsa a sinistra, Jean-Luc Mélenchon, da par suo, non sembra intenzionato a raccogliere gli appelli di Benoit Hamon e punta a misurare il suo risultato personale alle presidenziali anche nell’urna delle legislative. Il candidato della France Insoumise si candida a Marsiglia in un collegio tenuto dai socialisti: «Non vengo per competere con il PS, vengo per sostituirlo» ha detto. L’intento di contribuire alla fine del suo ex partito è dunque dichiarato, ma nel frattempo c’è difficoltà ad aggregare una forza di sinistra: a livello nazionale i colloqui con il Pcf per costruire un movimento unico o per presentare candidati comuni sono sospesi. Mélenchon, come Macron più a destra , ha le carte buone, ma con il meccanismo del doppio turno e il quadro politico sconnesso, probabilmente gli converrebbe fare accordi invece di essere troppo arrogante. Quanto a Benoit Hamon, il candidato socialista è convinto che il suo cattivo risultato sia relativo – molti avrebbero votato Macron come voto utile anche al primo turno – e si prepara con gli ecologisti e pezzi dei socialisti a lanciare un movimento che si collochi tra Marcon e Mélenchon. All’estrema destra si segnala l’abbandono della politica da parte di Marion Marechal Le Pen, ala dura e tradizionalista del partito e la dichiarazione dell’attuale numero due, il modernizzatore anti-Europa Florian Philippot: se si abbandona la posizione sull’uscita dal’euro, lascio il Front National. In un quadro tanto confuso e in movimento, Macron ha qualche possibilità di raccogliere i cocci di tutti e di riuscire nel suo intento di restituire centralità alla presidenza. Il suo appeal è anche legato alla possibilità di convincere gli elettori a votare En Marche per rafforzarne la presidenza. Con l’avvertenza che lo schieramento di Mélenchon e il Front National hanno le loro carte da giocare.

I sondaggi, ma probabilmente sono ancora da prendere molto con le molle, dicono: EnMarche-MoDem 29%, Republicains/UDI 20%, seguono il Front National al 20% e la France Insoumise al 14%, i socialisti al 7%, gli Ecologisti al 3% e i comunisti al 2%.

 

Gilgameš, l’eroe cancellato dai cristiani

Dalle nostre parti, in Occidente, fino all’Ottocento, in principio… era la Bibbia. La storia del mondo e tutta la più remota antichità iniziava e finiva con la Bibbia. La creazione, l’origine della specie umana e tutta la storia dei popoli che abitavano il cosiddetto Vicino Oriente antico si esauriva con quanto narrato nella Bibbia, considerato testo sacro da due delle grandi religioni monoteiste, il Cristianesimo e l’Ebraismo. Poi venne l’antichità classica, il mondo greco e latino che, con l’imperatore Costantino, si ricongiunse con il Cristianesimo. Per millenni il mondo occidentale aveva escluso la possibilità che fuori dai suoi orizzonti fosse mai esistita altra civiltà degna di questo nome.

Improvvisamente, al principio dell’Ottocento la scoperta dei testi babilonesi e assiri aprì uno squarcio sull’esistenza di altro mondo antico, precedente a quello narrato nella Bibbia e, forse, proprio contro il quale il monoteismo si era costruito. È questa la storia della scoperta delle culture della Mesopotamia: un mondo che oggi ci appare ricchissimo, quanto sconosciuto, sui quali domina il mito di Gilgameš, il potente sovrano della città di Uruk, le cui gesta sono celebrate su tavolette di argilla scritte in caratteri cuneiformi, in lingua sumerica, babilonese e assira. È questo un mito fondante diffuso in tutto il mondo antico dalla Mesopotamia all’Anatolia, dalla Palestina ai confini del mondo indiano. Anche la storia della scoperta di questo mito è singolare. Il primo a raccontarla fu George Smith, un ricercatore inglese, che in realtà lo stava studiando alla ricerca di elementi utili per dimostrare la storicità del diluvio universale.

Alla scoperta di questo mito così antico e così moderno è dedicato il bel libro dell’assiriologo Franco D’Agostino appena uscito per i tipi de L’Asino d’oro: Gilgameš, il re, l’uomo, lo scriba. L’opera si apre con la storia della scoperta del mito e ci rendiamo subito conto della fatica che hanno fatto i grandi archeologi dell’Ottocento per costringere la cultura occidentale a fare i conti con l’esistenza di un mondo completamente altro, più antico e preesistente all’unico mondo possibile, quello della sacra Bibbia appunto, poiché fino a quel momento, tutta la ricerca archeologica e filologica era considerata al servizio degli studi biblici. Invece ci accorgiamo come questa tradizione si collochi alla fonte di tanti miti successivi, che trasformati, o meglio, deformati, sono giunti fino a noi nella Bibbia e nella classicità greca e romana.

L’articolo continua su Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Sui vaccini è battaglia fra i diritti costituzionali. O fra partiti?

Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin a Roma, in una foto del 21 aprile 2017. ANSA/GIORGIO ONORATI

Il vaccino sarà obbligatorio per tutti, pena l’istruzione. È questa l’uscita di ieri del ministro Beatrice Lorenzin, che aveva annunciato di avere un testo di legge pronto da depositare in Consiglio dei ministri di oggi. Iniziativa che ha subito ricevuto lo stop del governo e del Miur, per un semplice motivo: l’accesso all’istruzione è un diritto costituzionalmente garantito e dunque obbligatorio e insindacabile.
Tuttavia, la questione è spinosa perché anche il diritto alla salute lo è, e la scelta di non vaccinare i propri figli mette a rischio non solo gli altri bambini, ma l’intera comunità, favorendo l’insorgenza di epidemie e impedendo che i virus vengano debellati. Esempio lampante ne è il morbillo, che a causa del drastico calo dell’immunizzazione, è tornato a colpire in maniera preoccupante.

L’idea del ministro è delicata, ma precisa: superare la differenza fra vaccinazioni “obbligatorie” e quelle “raccomandate”. «Tutti quelli indicati dal piano nazionale servono e vanno fatti. Ma poi vogliamo, di volta in volta e a seconda di coperture e diffusione delle malattie, individuare con decreto gli eventuali vaccini “necessari” senza i quali non si possono iscrivere i figli alla scuola dell’obbligo in quel determinato anno», ha spiegato ieri Lorenzin. Insomma, la questione è semplice: «Se le coperture tornassero sopra il 95% non ci sarebbe bisogno di obblighi per certi vaccini».

Tant’è vero che sono diverse le Regioni che hanno accolto con soddisfazione la proposta del titolare del ministero: sono molti i governi regionali che hanno approvato o stanno approvando una legislazione in questa direzione. Apri strada l’Emilia-Romagna, seguita a ruota dalla Toscana, Friuli Venezia Giulia e Lazio. Proprio Zingaretti a novembre scorso aveva dichiarato in maniera netta: «Obbligo di vaccinazione per i bimbi che vanno al nido: è una legge che proporrò in Consiglio regionale per combattere la diffusione di malattie pericolose e tutelare la salute dei più piccoli. Dopo l’Emilia-Romagna facciamo un passo avanti di civiltà anche nel Lazio».

Un passo di civiltà che a livello nazionale non è stato gradito. Per quanto la proposta di Lorenzin sia solo una bozza, ha ugualmente scatenato un putiferio di reazioni, non solo per l’autonomia dell’iniziativa del ministro non gradita dalla collega all’Istruzione, Valeria Fedeli che si è sì schierata per la «tutela di bambine e bambini» e dunque «per l’obbligatorietà delle vaccinazioni», ma ha però chiarito che «si deve trovare il modo per garantire anche il diritto costituzionale all’istruzione». Uno strappo nel governo che è stato prontamente fatto rientrare – pur facendo slittare la presentazione del testo di legge alla settimana prossima – perché la battaglia contro gli anti-vaccinisti è diventata soprattutto una battaglia politica di Renzi contro i 5 stelle. Al cui «pericoloso populismo e scetticismo» era stato dedicato, proprio un paio di settimane fa, un lungo editoriale sulle colonne del New York Times. Grillo si era poi affrettato a gridare alle fake news, dichiarando che mai il Movimento aveva fatto campagna anti vaccini. Purtroppo e per fortuna, la rete non dimentica, ed essendo i Cinquestelle molto prolifici nelle loro campagne in merito alla produzione di post e video, in brevissimo tempo il leader pentastellato era stato sommerso di smentite.
Leggi anche Quando Grillo raccontava come la difterite si sarebbe estinta da sola. La campagna contro i vaccini del 2007

Non a caso in favore di Lorenzin si sono immediatamente schierati i renzianissimi Matteo Richetti e Michele Anzaldi, che si sono detti «pronti a sostenere il provvedimento» per combattere «pericolosa confusione e ambiguità sul tema».

Nel frattempo, aumentano i vaccini per bambini e adolescenti che saranno offerti gratuitamente dal Sistema sanitario nazionale: anti Meningococco b (il pericoloso batterio che provoca la meningite), Rotavirus, varicella, anti Papillomavirus (oggi gratuito solo per le ragazze) andranno ad aggiungersi alla lista di immunizzazioni già garantite, come stabilito dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale 2017-19.

Così marcisce Serracchiani

Debora Serracchiani durante la conferenza stampa di presentazione della fase finale degli Europei Under 21 di calcio che l'Italia ospiterà nel 2019, nella sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei ministri a Roma, 1 marzo 2017. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Il buongiorno di oggi è un pessimo giorno. Debora Serracchiani (ve lo ricordate?) era quella che avrebbe dovuto ringiovanire il Pd, tempo addietro, con spirito fresco e nuovo. Ha raccolto migliaia di preferenze, stupendo tutti (chissà perché il “nuovo” è di per sé un valore, ma questo è un discorso lungo) e ci si aspettava che potesse davvero svecchiare le più vecchie liturgie. E invece no. Anzi: e invece peggio.

Ha cambiato davvero il corso del Pd, ma verso il dirupo della destra mascherata. Basta leggere le sue parole. Ecco qui. Comunicato stampa di ieri (è qui):

Udine, 10 maggio – “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese”.

Lo ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, commentando il tentativo di stupro subìto da una minorenne ieri sera a Trieste da parte di un cittadino iracheno richiedente asilo.

Per Serracchiani “in casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito – ha aggiunto Serracchiani – bisogna rimediare”.

Vi prego. Davvero. Basta con queste giovani promesse marcite. Basta.

E buon venerdì.

Quaranta anni fa la morte di Giorgiana Masi. Un video su Roma nel ’77

Santone, poliziotto in borghese, fotografato da Tano D'Amico
Giovanni Santone, il poliziotto in borghese ripreso armato duranti gli scontri finiti con la morte di Giorgiana Masi in una fotografia scattata il 12 maggio 1977 da Tano D'Amico. ANSA/ PER GENTILE CONCESSIONE DI TANO D'AMICO

È la Roma dei cortei, delle cariche, delle squadre speciali, degli agenti in borghese e del sangue, quella raccontata dal documentario realizzato della cooperativa di giornalisti Lotta continua, conservato dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, e disponibile su youtube.

Oggi, 12 maggio, il documento è importante per ricordare l’omicidio di Giorgiana Masi avvenuto esattamente 40 anni fa.

Il filmato, infatti, si chiude con le immagini del suo funerale. Renato Novelli giornalista di Lotta Continua intervista i testimoni oculari. Alex Langer per il 2 febbraio – quando a piazza Indipendenza vengono feriti e arrestati Paolo Tomassini e Leonardo Fortuna – e Domenico Pinto e Carlo Rivolta per il 12 maggio quando muore, appunto, Giorgiana Masi (e così fu data la prima volta la notizia).

Spesso, nelle immagini che accompagnano le testimonianze, si vedono agenti con le armi in pugno.

I confini del mondo

Centro Permanenza Temporaneo, Adrian Paci

Qualche giorno fa, parlando con una giornalista, mi è capitato di rispondere ad una domanda semplice ma a cui in effetti non ero assolutamente preparato. “Ma dimmi, e ora cosa sta succedendo nell’area che seguiva Fagioli?” In effetti è una domanda a cui non ho una risposta precisa perché in effetti non so cosa stiano facendo le persone che facevano ricerca con lo psichiatra Massimo Fagioli. Non ne ho la più pallida idea. E il motivo è semplice: non c’è un’associazione o un gruppo o un qualcosa che mette insieme quelle persone se non l’interesse, la ricerca e un pensiero che dicono che una realtà umana diversa è possibile.
Sono persone che non fanno riferimento ad un partito, non fanno riferimento a qualcuno o qualcosa di specifico. Mi azzarderei a dire che anche quando Fagioli era vivo non era un fare riferimento specificamente a lui. C’era un fare riferimento ad un pensiero. E c’era uno stare insieme irrazionale. Con un fine di ricerca personale e collettiva. E poi naturalmente c’era Fagioli con la sua straordinaria intelligenza e capacità di rapporto…
Questo forse vuol dire la parola realtà umana diversa ?
Continuando la chiacchierata con la bella giornalista mi sono ritrovato a dirle una cosa per me ovvia ma che ho scoperto non lo era affatto per lei.
Le ho detto che Fagioli sosteneva il fatto che nella realtà psichica non cosciente c’è un’intelligenza che è di molto superiore, nel senso della capacità di comprensione e rapporto con il mondo e con gli altri esseri umani, di quella cosciente.
Che poi in fondo il grande lascito del pensiero di Fagioli è questo: il cosiddetto inconscio umano non è affatto un deposito di ricordi o di idee perverse senza capo né coda. Il cosiddetto inconscio, che Fagioli preferiva chiamare realtà psichica non cosciente è una realtà, nel senso di una cosa esistente, che ha rapporto con il mondo e che può manifestare un’enorme intelligenza.
È il pensiero che può manifestarsi nella veglia in diverse forme. Può essere l’arte di un genio come Picasso o la musica di Mozart o le scoperte geniali di Einstein.
E fin qui tutti sono d’accordo. Fagioli dice però che questa intelligenza può essere di tutti! Perché la sua origine è alla nascita. È lo stesso pensiero che compare nei sogni che non sono residui senza importanza dell’attività diurna. Sono pensiero altrettanto importante e valido del pensiero razionale e cosciente.
È un’intelligenza che parla dell’umano più vero perché ha rapporto con esso in maniera profonda ed esatta.
Certo, può capitare che questa intelligenza… sia nascosta… o ferita… magari addirittura non ci sia più, perché ignorata come se non esistesse… ignorata e uccisa là dove si dovrebbe sviluppare, dopo la nascita del bambino. Ignorata e uccisa da millenni di pensiero religioso e razionale.
È questo forse l’ultimo grande confine. La linea oltre la quale l’uomo moderno non riesce ad avere la forza di immaginare qualcosa di nuovo. Nel 1492 la scoperta dell’America ha costretto l’uomo ad allargare i confini del proprio pensiero. L’enorme vastità del mondo non era più compatibile con il pensiero aristotelico e religioso. La presenza di esseri umani al di là dei confini del mondo… metteva in crisi le certezze del pensiero religioso. L’essere umano è stato costretto a realizzare che i confini non esistevano fuori di sé… erano in realtà dentro di sé.
Galileo poi… Giordano Bruno e Caravaggio. I confini del mondo interno sono stati superati da menti geniali. Che hanno manifestato la loro intelligenza inconscia non onirica in pensieri e rappresentazioni di immagini… scritti ed immagini che parlavano e dicevano qualcosa che non era mai stato pensato prima. Non erano sogni.
Oggi come 525 anni fa i confini del mondo sono dentro di noi. Perché il mondo non ha confini, non li ha mai avuti.
È necessaria l’intelligenza nuova che sta nell’inconscio dell’essere umano per superarli, come sempre è stato nella storia dell’umanità. I geni sono i precursori, quelli che aprono la strada. Noi, dobbiamo soltanto avere il coraggio e l’intelligenza di studiarli, quei geni. E di realizzare, anche noi, una nuova umanità.

Lo trovi su Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Il grande SalTo oltre il confine

A recently painted mural by British graffiti artist Banksy, depicting a workman chipping away at one of the stars on a European Union (EU) themed flag, is pictured in Dover, south east England on May 8, 2017. / AFP PHOTO / Daniel LEAL-OLIVAS / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY MENTION OF THE ARTIST UPON PUBLICATION - TO ILLUSTRATE THE EVENT AS SPECIFIED IN THE CAPTION (Photo credit should read DANIEL LEAL-OLIVAS/AFP/Getty Images)

Guarda “Oltre il confine” la trentesima edizione del Salone del libro di Torino. Non solo perché con questo titolo si dipana un programma ricco di incontri dedicati al tema delle frontiere, come orizzonte da raggiungere, come superamento dei paraocchi imposti dalle ideologie. Ma anche perché il Lingotto si presenta quest’anno come un vero e proprio laboratorio di riflessione su un tema urgente e drammatico come quello dei nuovi muri costruiti dal razzismo, dal pregiudizio, dalla paura legata all’insicurezza su cui soffiano le destre.
«I libri sono uno strumento importante per comprendere la complessità della realtà che stiamo vivendo», accenna il direttore del Salone, lo scrittore Nicola Lagioia, introducendo il tema dell’edizione 2017 che si apre il 18 maggio dopo una lunga serie di incontri con autori e artisti che sono stati letteralmente presi d’assalto dal pubblico, anche quando protagonisti non erano rockstar come Patti Smith. Nell’agosto scorso, quando l’Associazione italiana editori (Aie) annunciò la nascita di una propria fiera dell’editoria che si sarebbe dovuta tenere quasi nelle stesse date di quella torinese, i giornali suonarono il de profundis per la storica kermesse piemontese. Ma non avevano previsto la capacità di reagire del neo direttore e del suo autorevole staff (di cui fanno parte, fra gli altri Vincenzo Trione, Alessandro Grazioli, Daniele De Gennaro) supportati da una settantina di editori indipendenti che uscendo dall’Aie hanno fondato l’Associazione amici del Salone del libro di Torino. I numeri hanno già dato loro ragione. “Tempo di libri”, il festival voluto dall’Aie che si è tenuto a Milano il mese scorso, ha ottenuto una risposta del pubblico inferiore alle attese ed è stato un flop. Mentre gli editori indipendenti sono accorsi a Torino, tanto da costringere gli organizzatori ad ampliare gli spazi commerciali. La massiccia diaspora degli editori piccoli e medi generata dall’improvvida decisione dell’Aie (dettata dagli interessi dei grandi gruppi editoriali) comunque vada, fa già parlare di una edizione storica. «Si può ben dire – commenta Lagioia, ridendo – non solo perché ricorre il trentennale! Ma anche perché questa edizione rischiava di non esistere se le cose fossero andate secondo le previsioni dei giornali. Ora però permettimi di dire che se fosse accaduto qualcosa al Salone del libro sarebbe stato da dissennati. Non solo per una questione editoriale, non solo perché sarebbe stata spazzata via una collettività che è quella che si coagula da trent’anni, anno dopo anno, sempre più solida intorno alla manifestazione, sarebbe anche stato un atto aggressivo contro il territorio, un gesto distruttivo dell’indotto (un giro di affari di 50 milioni di euro, fra alberghi, ristoranti ecc.). Insomma sarebbe stata una lotta fratricida e abbiamo cercato di smontarla. Intendiamoci – precisa il direttore editoriale del Salone – non è che non possano esistere due o tre saloni del libro. Ce ne possono essere quanti ne vogliamo, ma non possono essere il frutto di una spaccatura all’interno del mondo dell’editoria, non possono mettere l’una contro l’altra due regioni. Qualsiasi nuova iniziativa dovrebbe nascere con una concertazione». Quindi, per il prossimo anno? «Starà agli uomini e alle donne dell’editoria, del mondo culturale delle istituzioni mettersi d’’accordo. L’Aie dovrebbe essere rappresentativa di tutto il mondo editoriale italiano. In questo senso l’idea che aveva lanciato inizialmente di fare un Salone del libro al sud mi pare una cosa sensata per tutto il mondo del libro. È meno utile moltiplicare i saloni là dove i livelli di lettura sono gli stessi del nord Europa».
Tanto meno dunque aveva senso spostare il Salone del libro a Milano? «Il Salone è inamovibile perché, ribadisco, è una tradizione consolidata negli anni. È come se uno dicesse “voglio togliere il palio a Siena”, “voglio togliere il festival teatrale a Edimburgo”, mi sembra proprio una follia. Trasferendomi a Torino ho toccato con mano l’affezione dei torinesi per il loro Salone. Lo riconoscono come una parte della propria identità, se glielo si toglie non è più una guerra fra editori – che per fortuna siamo già riusciti a scongiurare – ma diventa un conflitto fra territori, diventa la guerra della Lombardia contro il Piemonte».
Cosa farete per evitare ulteriori conflitti? «Ora aspettiamo di incontrare la comunità dei lettori. È la prova più importante. Dopo averla superata, daremo una mano, purché non vada a detrimento del Salone di Torino». E neanche, speriamo, a scapito dei lettori. «Con date così ravvicinate fra Tempo di Libri e il Salone come è accaduto quest’anno, chi è stato danneggiato di più è il mondo dell’editoria. Aziende piccole e medie si sono trovate davanti a un bivio: dover scegliere fra due due fiere perché entrambe non riescono a farle oppure hanno dovuto auto imporsi uno sforzo che si sarebbero volentieri risparmiato. Dunque – sottolinea Lagioia – l’auspicio è che questo strappo venga ricucito, anche perché poi se uno si va a leggere i dati vede che i lettori nell’ultimo anno sono diminuiti. Questo significa che le campagne di promozione dei libri sono servite poco o nulla». Durante un incontro «con una esperta come Annamaria Testa – prosegue il direttore editoriale del Salone – a vedere le campagne Tv della promozione alla lettura veniva da piangere. Libri trattati come pacchi di biscotti, sembrava di vedere le campagne del Mulino bianco con gente vestita in completi chiari, in un campo, che legge. Un’ottica completamente sbagliata per il tipo di emozione che dovrebbe suscitare. Basterebbe guardare le campagne tedesche, francesi, ma anche quelle egiziane, per imparare qualcosa. Anziché tornare a fare le guerre fra Guelfi e Ghibellini sarebbe meglio verificare l’efficacia del lavoro svolto fin qui».

Continua su Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

«Ho visto migranti trattati come schiavi nelle mani delle milizie libiche»

Le foto di Narciso Contreras sono un atto d’accusa incontrovertibile. La Libia è ormai una prigione a cielo aperto dove i migranti vengono bloccati e sottoposti a ricatti e violenze inenarrabili. Il reportage  Lybia: A Human Marketplace racconta come la Libia – con cui l’Italia ha stipulato un’intesa per il controllo del fenomeno migratorio (v. il prossimo numero di Left) – «invece di essere un luogo di transito per i migranti nel loro cammino verso l’Europa sia diventata effettivamente un mercato del traffico dove le persone vengono comprate e vendute quotidianamente». A parlare è Emeric Glayse, direttore del Prix Carmignac. Il prestigioso premio di fotogiornalismo creato dalla omonima Fondazione nel 2009 con l’obiettivo di investigare le aree del mondo dove vengono violati i diritti umani, per la prima volta ha sostenuto il lavoro di un fotografo mentre si trovava all’opera, mettendo in collegamento gli operatori sul territorio, gli analisti e le Ong. Dopo sei mesi di lavoro ecco Lybia: A Human Marketplace la mostra itinerante che si conclude sabato 13 maggio a Palazzo Reale a Milano (dopo Parigi) e che in seguito toccherà Londra. Sulla situazione in Libia e sul suo modo di lavorare, abbiamo rivolto alcune domande a Narciso Contreras.

Quando ha pensato e si è accorto che la Libia non era solo un percorso per migranti verso destinazioni europee, ma l’area principale per il traffico di esseri umani? 
Non si tratta solo di quello che penso, ma di quello che ho visto e documentato. Ho iniziato un progetto in Libia in seguito all’ipotesi di una crisi di migranti umanitari nel bel mezzo di un conflitto tribale nel Paese nordafricano. Ma tutto quello che avevo ipotizzato  è stata superato da quello che ho visto durante i mesi di lavoro: un mercato umano gestito da milizie legate alle reti mafiose. Ce ne siamo accorti quando mi sono allontanato dai canali ufficiali imposti dall’ufficio stampa di Tripoli.  Ho visitato infatti centri di detenzione dove i migranti sono stati venduti tra le stesse milizie e ho raccolto testimonianze di schiavi nelle mani dei membri della milizia, uno di questi era il direttore di un centro di detenzione a Surman. Insomma, la Libia è diventata un mercato del traffico dove le persone vengono comprate e vendute quotidianamente. Un mercato del traffico di esseri umani e della schiavitù: ecco è questo oggi il vero volto della crisi migratoria in Libia.
È riuscito a parlare con i detenuti nei centri di detenzione?
Ho raccolto diverse testimonianze di detenuti nei centri di detenzione per i migranti lungo il percorso del traffico di esseri umani dal sud della Libia, nel deserto del Sahara, fino alla linea di costa nord-ovest. Come accennato sopra, ho intervistato due schiavi (entrambi nelle mani dei membri della milizia) e molti altri migranti in diversi centri di detenzione a Misrata, Garabuli, Tripoli, Surman e Zawyah.
Ho fatto intervistare contrabbandieri nel sud del Paese, “middle men” (quelli secondi in carica dopo i contrabbandieri) e anche migranti che vivono e lavorano in Libia che stavano raccogliendo denaro per pagare il riscatto chiesto dalle milizie per liberare i loro amici dai centri di detenzione. Tutte queste testimonianze e interviste hanno vita al libro che abbiamo pubblicato, Libya: A Human Marketplace.
È rimasto nel Paese per diversi mesi: può dirci qual è la situazione all’esterno dei centri di detenzione?
La Libia è un Paese che lotta per sopravvivere. L’economia è distrutta. Non c’è un governo unificato ed è per questo motivo che il Paese è frammentato e nelle mani di gruppi di miliziani, venuti su dalla caduta di Gheddafi. Non ci sono istituzioni governative che rappresentano la volontà della gente. Così, le milizie hanno acquisito abbastanza potere per gestire il Paese. Nel caos, sono diventati fiorenti tutti i mestieri illegali: il traffico di esseri umani, la schiavitù, il contrabbando illegale di petrolio, benzina, antiquariato, minerali, pietre preziose e armi.
I libici sono consapevoli delle condizioni all’interno dei centri di detenzione e se sì qual è la loro reazione?
Temo che la maggior parte del popolo libico non sappia esattamente cosa stia succedendo all’interno dei centri di detenzione. Ancora di più, non se ne preoccupano. Sono preoccupati soprattutto per il Paese che si sta deteriorando. Questa è una questione molto delicata. Per capire meglio ciò che la crisi dei migranti significa per il popolo libico dovremmo guardare indietro alla storia e contestualizzare la situazione in termini di relazioni tribali e etniche nel corso di decenni e secoli. Per la maggior parte degli Arabi libici, gli africani neri sono considerati persone di seconda classe. Gli africani neri sono il motore dell’economia del Paese: su 6 milioni di popolazione, ci sono 3 milioni di migranti (non riconosciuti ufficialmente) che entrano ed escono dalla Libia. Lavorano in edilizia, agricoltura, servizi, ma non si mescolano tra loro: gli africani neri vivono separati dagli Arabi libici. I migranti africani in Libia sono condannati a vivere in un ghetto (o all’interno di centri di detenzione). Sono sempre stati vulnerabili.
Nella sua biografia si trovano lavori in cui racconta l’alto costo nelle vite umane causato dalle guerre. Ed è un lavoro, il suo, che mette a rischio la professione del fotoreporter perché con le sue immagini documenta la realtà. Che tipo di problemi incontra e come riesce a risolverli?
I pericoli che affrontiamo sul campo sono proprio il rischio intrinseco alla nostra professione che non è sempre la benvenuta in certe aree del mondo. Ciascuno dei reportage ha un proprio livello di potenziali circostanze inattese. Allora quello che faccio è progettare sulla base di logistica e protocolli per minimizzare il più possibile i rischi potenziali durante il lavoro. Da qui capisco e poi cerco soluzioni giorno per giorno.
Cosa significa tornare alla routine e alla vita quotidiana ogni giorno?
La cosa essenziale è cercare di mantenere in equilibrio i diversi aspetti della vita. Non sono un fotoreporter 24 ore al giorno per sette giorni. Questo è solo uno tra i diversi interessi e impegni che ho nella mia vita. Sono padre di una bellissima bambina e faccio ricerche in campi diversi quando non sono concentrato su un progetto fotografico. Fotografia e fotogiornalismo pertanto sono un’occupazione temporanea che però mi permette di concretizzare progetti in cui sono impegnato.

Il reportage di Narciso Contreras è stato pubblicato sul numero di Left n.17 del 5 maggio

 

 

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Al Toum, Libya, marzo 2016. Miliziani Tebu pregano nel deserto al tramonto, ben al di là della frontiera che separa il sud della Libia e il Niger.

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Abrugrein, Libya, maggio 2016. Camion civile coperto di simboli dello Stato Islamico trivellato di colpi e abbandonato sulla strada di Abu Grein nell’ovest della Libia.

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Zawiyha, Libya, giugno 2016. Migranti e rifugiati subsahariani chiedono la loro liberazione nel centro di detenzione di Zawiya. Il direttore del centro (che non compare qui) si trova davanti alla cella e minaccia di colpirli con un bastone se non si calmano.

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Garabuli, Libya. Gasr Garabulli, marzo 2016. Migranti mendicano acqua, sigarette o cibo e la loro liberazione dal centro di detenzione di Gasr Garabulli.

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Tajoura, Libya. Tagiura, maggio 2016. Migrante subsahariana, sulla riva di Tagiura, dopo il suo arresto nel Mediterraneo da parte delle guardie costiere libiche.

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Surman detention camp in the west of Libya. Surman, Libya.
Sorman, giugno 2016 Clandestine che, dopo essere state vendute dale milizie che dirigono il campo di detenzione di Sorman all’ovest della Libia, fanno la coda nel cortile della prigione per prepararsi a essere trasferite in un altro centro di detenzione.

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Surman, Libya. Sorman, giugno 2016. Fotografie dei migranti subsahariani morti nel deserto affisse sul tabellone delle informazioni della polizia all’ingresso di un centro di detenzione per clandestini di Sorman. Altre fotografie mostrano migranti arenati lungola costa (ma che non compaiono qua). Lo scopo è terrorizzare i detenuti quando camminano nel corridoio.

© Narciso Contreras for the Fondation Carmignac – Surman, Libya. Sorman, giugno 2016. Una migrante subsahariana disabile mentale si spoglia nella sua cella d’isolamento nel centro di detenzione di Sorman per mostrare la cicatrice di un aborto sul ventre.

Divorzio e assegno al coniuge, ecco perché la sentenza della Cassazione è storica

Una veduta esterna della Corte di Cassazione in attesa della sentenza ''Stasi'', Roma 11 Dicembre 2015. ANSA/GIUSEPPE LAMI

La società è cambiata e anche in questo caso è la magistratura che se ne accorge prima della classe politica che dovrebbe adeguare le leggi ai tempi mutati. Non vale più il tenore di vita vissuto durante il matrimonio, per cui l’ex coniuge era obbligato ad assegni di mantenimento stratosferici, ma solo la garanzia dell’autosufficienza. La Cassazione si è pronunciata in questo senso in merito al contenzioso tra l’ex ministro Vittorio Grilli e la moglie. Prevarrebbe dunque l’elemento affettivo rispetto a quello economico. Su questo tema pubblichiamo  l’interpretazione dell’avvocato Simona Ghionzoli. 

 

È importante e segna una linea di discontinuità netta negli orientamenti giurisprudenziali inerenti al diritto di famiglia la sentenza della Cassazione n. 11504/2017.
Quella della Suprema Corte è una decisione  degna di nota per il coraggio interpretativo, che restituisce forza alla legge sul divorzio e alla reale portata innovativa, che ha avuto sulla società italiana. La legge sul divorzio 1° dicembre 1979 n. 898 (“Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”), fortemente voluta da larghi settori della società civile e osteggiata per motivi diversi dagli ambienti politici di destra e di sinistra, ha sancito il diritto al divorzio, ma di fatto si è vista negare per anni la piena e reale applicazione.

Ciò a causa della sistematica derubricazione del suo reale significato, sul piano culturale, a questione meramente economica, riservandone il terreno di applicazione e di accessibilità troppo spesso alle classi più colte ed agiate.
Certo, occorrerà sicuramente leggere la sentenza per esteso con le motivazioni per comprenderne pienamente la reale portata innovativa e i principi in essa affermati. Intanto però possiamo solo ragionevolmente augurarci che questa decisione non porterà benefici solo per i più facoltosi, come qualcuno dei frettolosi commentatori si è già sbilanciato nell’affermare, ma sia più illuminata di quanto si possa pensare.
L’assegno di mantenimento, infatti, va corrisposto al coniuge solo quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati (considerati tra gli altri anche quelli ricavabili da immobili in proprietà o di cui comunque ha la disponibilità aggiunge la Suprema Corte, richiamando con tale affermazione anche il diritto di abitazione spettante al coniuge assegnatario della casa coniugale), o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive, cioè a dire quando non può lavorare per ragioni a seguito di situazioni invalidanti sul piano fisico e psichico, regolarmente accertate quindi, o per le condizioni offerte dal mercato del lavoro.

Già con una Sentenza innovativa nei mesi scorsi la Corte di Cassazione aveva avuto modo di precisare cosa doveva intendersi per non autosufficienza e incapacità a svolgere attività lavorative fuori dall’ambito domestico.
Secondo un indirizzo affermatosi per anni, inoltre, la giurisprudenza aveva ritenuto, che l’adeguatezza dei mezzi doveva valutarsi non in assoluto cioè con riferimento ad uno standard medio di vita dignitosa, ma con riguardo al tenore di vita goduto mentre dura il matrimonio, in tal modo svuotando l’innovazione legislativa (secondo autorevoli pareri della dottrina).
Con la sentenza in esame e sul solco di un percorso già faticosamente tracciato negli ultimi mesi, la Suprema Corte non solo disconosce espressamente il principio sinora affermato, ma sembra voler dire che l’assegno corrisposto aiuterà certamente il coniuge più debole, come è ragionevole che sia, a vivere dignitosamente ed entro parametri di ragionevole benessere economico, ma soprattutto dovrà aiutarlo ad affrancarsi e a ricostruire un percorso di vita magari più autonomo e magari anche migliore di quello precedente.
Il diritto all’assegno insomma non può diventare strumento da utilizzare a fini vendicativi e vessatori anziché riparatori, o peggio di legittimazione di arricchimento senza causa, a voler essere generosi nel lessico.

Non possono sommariamente derubricarsi ad affari economici, situazioni personali e che interessano la sfera emotiva ed affettiva. Esse meritano un esame più approfondito e soprattutto un’assunzione di responsabilità sotto il piano personale, elemento, tra l’altro, quello della responsabilità oltre all’indipendenza e all’autosufficienza, che sembrerebbe stare al centro della motivazione della decisione in argomento.

L’assegno dovrà quindi corrispondere a un effettivo stato di bisogno, sul quale comunque andranno valutate caso per caso, le ragioni che lo hanno causato.

Se in linea di principio insomma è corretto riconoscere agli altri, soprattutto in un rapporto di coppia, il contributo dato all’altro per la realizzazione professionale e umana e che per tale motivo non è mai da considerarsi conquista del singolo, è anche vero che quando un rapporto finisce occorre la maturità e l’onestà di ammetterne ed esaminarne (magari fuori dalle aule del Tribunale) le ragioni, anche quelle più profonde e scomode, che hanno portato a sancirne la fine, recuperando il senso e il tenore del significato del termine “separazione”.

La Sentenza, pertanto, aprirebbe a scenari interpretativi assolutamente nuovi, che non toccano solo la materia economica, ma che sembrerebbero voler esplorare altri piani, come quelli di un contributo al recupero della sanità sul piano psichico, conseguente a una separazione, sino ad oggi trascurati e volutamente negati.

La società è cambiata (e di questo la Corte sembrerebbe prenderne atto).
Affermare il contrario significa negare le istanze di modernizzazione e la trasformazione possibile degli uomini e delle donne, che a volte passa anche attraverso una separazione fatta bene.

Yuri Guaiana e i gay torturati in Cecenia sotto lo sguardo connivente della Russia

Yuri Guaiana (in una foto tratto dal profilo facebook), attivista dell'associazione radicale 'Certi Diritti', è stato fermato dalla polizia a Mosca mentre si stava recando alla procura generale per consegnare le firme raccolte dalla petizione contro il trattamento dei gay in Cecenia. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Yuri Guaiana, membro del direttivo dell’associazione Radicale “ Certi Diritti”, è stato arrestato oggi a Mosca mentre cercava di consegnare per conto della Ong AllOut circa 2 milioni di firme raccolte in vari paesi europei contro i campi di concentramento per omosessuali in Cecenia.
La situazione di repressione per le persone LGBT in Cecenia era stata denunciata da Novaya Gazeta ad aprile. Uomini omosessuali vengono da mesi rapiti, detenuti illegalmente, torturati e in alcuni casi uccisi. Le persone che hanno subito negli ultimi 3 mesi questo trattamento sono più di 100. Le testimonianze che si trovano in rete sono agghiaccianti. Le posizioni ufficiali della vicenda sono altrettanto agghiaccianti.
Il premier ceceno Kadyrov ha dichiarato che nel suo Paese «i gay non esistono» e che quindi le rivelazioni di Novaya Gazeta sono false, inoltre aggiunge Kadirov: «se tali persone esistessero, le forze dell’ordine non dovrebbero preoccuparsi di loro dal momento che ci penserebbero gli stessi familiari a spedirli da dove non possono più tornare» alludendo al fatto che in Cecenia esiste il delitto d’onore per cui uccidere un famigliare omosessuale non è reato.
Altrettanto sconvolgenti sono le dichiarazioni della Russia chiamata in causa dalle organizzazioni internazionali visto l’influenza sul Paese (la Cecenia fa parte della federazione russa). Per il Cremlino: «Non ci sono prove delle torture». La Russia formalmente non ha il potere di agire a livello legislativo, quello spetta solo al presidente Kadyrov, ma più che altro non ha alcun interesse a fermare le torture. L’arresto di Yuri, che per ora sappiamo essere in stato di fermo ma in salute, si somma alle testimonianze di chi dalla Cecenia è riuscito a fuggire ed è una prova tangibile del clima di ostilità nei confronti delle persone LGBT.

La testimonianza di Yuri Guaiana da Mosca

 

Aggiornamento. Yuri è libero

«Siamo contenti che Yuri sia sano e salvo. Siamo contenti che questa azione abbia riportato al centro del dibattito gli orrori che si stanno consumando in Russia e in Cecenia. Vogliamo che quello che sta accadendo lì sia al centro dell’agenda. Ci appelleremo sempre più a osservatori e organizzazioni internazionali perché vengano rispettati anche lì i diritti umani. Il dibattito non può finire adesso, è il silenzio della comunità internazionale ad aver fatto sì che la violazione dei diritti umani diventasse nella Federazione Russa la normalità, purtroppo» hanno dichiarato dall’associazione Radicale Certi Diritti dando la notizia del rilascio di Guaiana.