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137 giorni. Zero legge elettorale. Producono veleno e lo chiamano populismo

Alla fine sono riusciti a svegliare anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, costretto a sgridare i presidenti di Camera e Senato urlandogli in faccia di sbrigarsi per non finire dietro alla lavagna con le orecchie d’asino: sono passati 137 giorni dall’insediamento di un governo che a detta di quasi tutti avrebbe dovuto fare in sciolta fretta una legge elettorale per poi correre al voto. Dico, ve lo ricordate? Tutti: Salvini, Grillo, Berlusconi e soprattutto Renzi. Tutti. Tranne ovviamente Angelino Alfano che è disposto a diventare sottosegretario alla cacio e pepe pur di fare una settimana di governo in più.

Sono passati 137 giorni. La legge elettorale che doveva essere più bella del mondo (sembra passato un secolo eppure lo dicevano quelli che oggi sono ancora lì) aveva il piccolo intoppo di essere incostituzionale, poi sembravano quasi tutti d’accordo sul Mattarellum, poi hanno voluto aspettare la Consulta e quando la Consulta li ha bocciati hanno detto che avrebbero voluto leggere le motivazioni, poi hanno letto le motivazioni e hanno promesso che se ne sarebbe parlato in Parlamento nei primi mesi di quest’anno (e intanto è quasi finita la scuola) e intanto hanno depositato qualcosa come una trentina di proposte. Epici.

E ora? Ora basta il sussulto di Mattarella perché tutti fingano di non riuscire a dormirci la notte. “Ha ragione il presidente della Repubblica sulle due priorità, non so per la politica ma certo per il Pd. Sin da oggi ci preoccuperemo in conferenza di capigruppo di calendarizzare entrambe le questioni, sulle quali peraltro la presidente Boldrini è sempre stata sensibile e attiva”, dice il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato; “Siamo stati i primi a dirlo già dal 4 dicembre, avendo presentato una proposta organica che fondamentalmente riprende la legge elettorale uscita dalla Corte Costituzionale. Si prenda quella, la si estenda al Senato e si vada a votare” dice Fico del M5S; “il capo dello Stato si rivolga al Partito democratico e al suo segretario in pectore, Matteo Renzi, che da mesi bloccano i lavori della commissione Affari costituzionali di Montecitorio in attesa che vengano celebrati prima il congresso e poi le primarie” dice Brunetta per Forza Italia.

E via con il balletto. Ancora. Pisciano veleno e poi lo chiamano populismo.

Buon giovedì.

Gramsci, un patrimonio che la sinistra non riesce a far suo

Portrait of Italian politician Antonio Gramsci (1891-1937). (Photo by Stefano Bianchetti/Corbis via Getty Images)

Era il 25 aprile 1937 e il giudice del tribunale di sorveglianza di Roma aveva comunicato a Antonio Gramsci, ricoverato nella clinica Quisisana, che era finalmente un uomo libero. Ma la sera stessa, dopo aver cenato, Gramsci venne colto da una emorragia cerebrale e all’alba del 27 aprile cessò di respirare. Aveva 46 anni e nonostante il carcere e la malattia, aveva realizzato una riflessione politica straordinaria.
Ottant’anni dopo, l’anniversario gramsciano dovrebbe essere l’occasione per riflettere sul pensiero, sulla filosofia della praxis, sul concetto di egemonia culturale dell’autore dei Quaderni. La sinistra dovrebbe attingere a piene mani a un patrimonio inestimabile, come ha accennato anche lo storico Angelo d’Orsi sulle pagine di Left adesso in edicola. D’Orsi, autore per Feltrinelli di una nuova biografia – cinquant’anni dopo quella di Giuseppe Fiori – afferma che è drammaticamente necessaria oggi una figura come quella di Gramsci che per tutta la sua vita ha avuto come stella polare «l’esigenza della liberazione dei ceti subalterni».

Ma oggi non esistono intellettuali come lui, capaci di analisi profonde e originali che nemmeno lo stesso partito comunista di allora riuscì a cogliere. E al tempo stesso, Gramsci, si presenta come un personaggio ingombrante, con cui è difficile identificarsi. Non è un “brand” qualsiasi. Ci ha provato Matteo Renzi con il suo consigliere Tommaso Nannicini a tirare in ballo il concetto di egemonia culturale al Lingotto di Torino. Ma la cosa è davvero poco credibile.

Un presidente del Consiglio che ha voluto una riforma come la Buona scuola cosa ha in comune con chi teorizzava il fatto che tutti gli uomini sono intellettuali e che la scuola è un cardine della lotta per lo sviluppo umano? Cosa c’entra davvero il Pd di oggi con il partito Principe di cui parlava Gramsci? I fatti, cioè le riforme renziane “centraliste”, vanno in direzione contraria rispetto ai concetti espressi nei Quaderni in cui le masse erano comunque sempre protagoniste nella lotta di emancipazione. E non si venga a dire che oggi non c’è bisogno di emancipazione, con i 4 milioni e mezzo di italiani in povertà assoluta, il quasi 40 per cento di disoccupazione giovanile e il record di abbandoni scolastici rispetto all’Europa.

Anche a sinistra del Pd, tuttavia, non si può dire che ci sia una corsa frenetica per prendere o comunque studiare l’opera di Gramsci.
Vedremo cosa uscirà oggi dal convegno Gramsci ottanta anni dopo a Roma (ore 9, Sala Gonzaga, Via della Consolazione 4), promosso da Sinistra italiana e organizzato dal professor Michele Prospero. Tra i partecipanti, Stefano Fassina, Luciana Castellina, Nicola Fratoianni, Claudio De Fiores, Piero Bevilacqua. (per la diretta qui)

Oggi Gramsci verrà commemorato anche alla Camera dei deputati dove, ricordiamo, venne eletto il 6 aprile 1924. Una carica che mantenne fino all’8 novembre 1926 quando venne arrestato. Per lui si sarebbe spalancato il portone di varie carceri italiane dove però con una forza incredibile, pur in condizioni di salute sempre più precarie fino a farsi gravi dal 1935, riuscì a scrivere la grande opera che Mario Lavia su L’unità definisce «una mole inevitabilmente di teoria “disorganica”». In realtà rappresenta una ricerca politica e culturale che non ha precedenti in Italia né prima e né dopo Gramsci. «Non c’è un argomento dello scibile umano di cui lui non si sia occupato», conferma Angelo d’Orsi.

Linguaggio, arte e letteratura, scuola, giornalismo, organizzazione politica, sono solo alcuni temi che si ritrovano nei Quaderni. I libriccini che cominciò a scrivere nel 1929 nel carcere di Turi saranno in mostra nella Sala della Lupa alla Camera fino al 7 giugno a cura della Fondazione Gramsci. Per la prima volta vengono esposti gli originali dei 33 quaderni e di cento volumi, tra libri e riviste, in possesso di Gramsci durante la detenzione. I manoscritti sono esposti accanto alla loro versione digitale e possono essere sfogliati integralmente.

Sempre oggi dalle 18 nella sede della Enciclopedia italiana il doppio evento Passato e presente, con One day exhibition, una installazione di Elisabetta Benassi e l’esecuzione dell’opera di Luigi Nono La fabbrica illuminata.
Quasi a sottolineare il legame con la cultura e l’arte che Gramsci aveva sempre avuto anche come giornalista e di cui si parla ampiamente anche nel numero in edicola di Left. Un’altra prova della grandezza della sua figura, in cui la politica va di pari passo con la cultura. Qualsiasi paragone con l’oggi è assolutamente improponibile.

Approfondimenti su Left in edicola

 

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Guernica 80 anni dopo, la forza inesauribile di un capolavoro

Picasso, Guernica

Era il 26 aprile 1937  quando la Legione Condor bombardò la cittadina basca Guernica. L’incursione aerea massacrò i civili, bambini, donne, vecchi.  Con l’aviazione legionaria fascista, la legione nazista  dichiarò che l’obiettivo dell’attacco era il ponte di Rentería, un passaggio di appena 19 metri di altezza e 9 metri di larghezza sul fiume Oca. Scopo: mettere in difficoltà i partigiani repubblicani. Evidente la dismisura dei mezzi impiegati.  Le bombe devastarono la città, quasi radendola al suolo. Solo per un fortunatissimo caso  si salvò l’Assemblea Basca.

«L’evento nel suo insieme fu impressionante – scrive Rudolf Arnheim in Guernica, genesi di un dipinto (Abscondita) -, non si trattava semplicemente di danni, ma della devastazione pressoché totale di una pacifica collettività. Si trattava della manifestazione della brutalità fascista nel senso più completo della parola. Guernica era una città di donne e bambini…».

A ricordare quell’agghiacciante azione italo-tedesca resta oggi nella cittadina basca nel nord della Spagna un suggestivo, ampio, giardino, con silenziose e potenti testimonianze di artisti, sculture primitive di Chillida e le forme classiche e solenni di una scultura di Moore. Ma è soprattutto l’omonimo, celebre quadro di Picasso, ad evocare  il dramma di quel disumano sterminio. L’artista spagnolo lo dipinse per l’Expo di Parigi del 1937. A patto che il quadro restasse depositato al MoMa fino alla caduta del dittatore Franco e al ritorno della democrazia. Così è stato: Guernica è rientrato a Madrid nel 1981, prima al Prado poi al Reina Sofía, di cui oggi è l’opera simbolo.

Per ricordare l’anniversario il Museo Reina Sofia, nel 2017, ha organizzato una grande mostra Pietà e terrore in Picasso: la strada a Guernica. Con 150 opere, oltre a Guernica,  per raccontare il percorso dell’artista spagnolo dagli anni Venti fino alla metà degli anni Quaranta. Oltre alle numerose opere di Picasso conservate in Spagna, figurano molti prestiti di musei internazionali: dal Musée Picasso e dal Centre Georges Pompidou di Parigi, dalla Tate Modern di Londra, dal MoMA e dal Metropolitan Museum di New York. 

Si racconta che un ufficiale tedesco sia andato a trovare Picasso e di fronte a Guernica abbia chiesto: «l’avete fatto voi, maestro?». «No, l’avete fatto voi. Con la Luftwaffe», fu la risposta secca dell’artista. Passione civile, consapevolezza del proprio talento e sapiente uso del proprio ruolo pubblico come artista di successo, brillano in queste sue poche parole. Anche su commissione, in un’occasione che poteva prestare il fianco alla retorica, Picasso si rivelò un grande innovatore. Invenzione, creazione di immagine e profonda conoscenza dell’arte del passato e delle fonti classiche si mescolano in questa potente rappresentazione in bianco, nero e una immensa scala di grigi. Un quadro che nelle sue forme scheggiate, impazzite di dolore, nel gesto disperato di una madre di fronte alla morte del figlio, fra distruzione e rovine evoca la tragedia greca antica, ma anche, nel pathos e nell’essenzialità del segno pittorico, capolavori come le fucilazioni del 3 maggio 1808 di Goya e L’esecuzione dell’imperatore Massimiliano di Manet. Qui si ritrova tutta la visionaria forza dei «desastres de la guerra».

Picasso, che fin da piccolo era dotatissimo nel disegno e sbalordiva tutti all’Accademia reale di San Fernando a Madrid, nel 1897,  del resto aveva  preso ben presto a saltare le lezioni per passare le giornate al Prado a copiare capolavori antichi: specialmente Velázquez, Goya e molti altri.  La memoria fantasia di quegli incontri con opere dà spessore a Guernica, capolavoro che qualche anno fa Carlo Ginzburg è tornato a rileggere in un denso saggio  sul potere delle immagini, dal titolo Paura, reverenza, terrore (Adelphi).  «Nel saggio su Guernica, lo scopo di ricostruire lo shock iniziale del quadro” è raggiunto con le armi della filologia, ripercorrendo la traiettoria del dipinto dai primissimi abbozzi, dell’etimologia (tracce di iconografia classica), dell’attualità politica, dell’inclinazione estetica», ha scritto Salvotore Settis. «Le urgenze dell’oggi ci spingono a leggere il passato come lievito vivente della collettività umana. Forse, verrebbe da dire, a leggerla bene tutta l’iconografia è politica».

Nell’addensata composizione di Guernica, per esempio Carlo Ginzburg, individua  un dettaglio interessante quanto eloquente: «la violenta giustapposizione di antico e contemporaneo operata da Picasso accostando una spada spezzata e una lampadina». E, in effetti, ossimorica appare a tutta prima la sua scelta di un linguaggio classicheggiante, con citazioni implicite di Pegaso e altri miti antichi, in mezzo a un tumulto di figure fatte a pezzi. Ma proprio l’antica spada spezzata potrebbe rivelare il messaggio nascosto di questo murale dipinto su commissione dall’artista spagnolo filo repubblicano e schierato contro l’oppressione di regime.  La presenza di un braccio con la spada evoca antiche statue d’accademia, una vetusta idea di patria e la figura del padre. Segnali non casuali secondo Ginzburg. «La spada rotta, il cui anacronismo è sottolineato dalla presenza della lampadina, suggerisce che di fronte all’aggressione fascista le armi della tradizione sono pateticamente inefficaci».

 

Stamina. Nuovo arresto di Vannoni

Arrestato questa mattina dai carabienieri del Nas Davide Vannoni, patron del metodo Stamina, privo di ogni fondamento scientifico. E’ accusato di aver continuato all’estero la pratica del metodo Stamina, condannato dalle autorità scientifiche e dai giudici.
L’esperto di comunicazione Davide Vannoni nel 2015  aveva patteggiato una condanna a un anno e 10 mesi, dopo una condanna per associazione per delinquere finalizzata alla truffa e somministrazione di farmaci difettosi per le circa 900 infusioni di staminali che tra Torino, Brescia, Trieste e San Marino che avevano coinvolto un centinaio di pazienti affetti da malattie neurodegenerative.

Gà nel luglio 2016  l’Ansa riportava che le infusioni di Stamina erano riprese al Mardaleishvili Medical Centre di Tbilisi, in Georgia, dove Davide Vannoni faceva da supervisore. Proprio in Paesi dell’Europa dell’Est erano partite le prime cosiddette sperimentazioni di Stamina che, di fatto, non avevano nulla di scientificamente sperimentale. L’agenzia di stampa aveva raccolto la testimonianza di  una signora italiana malata di Sla  che si era recata in Georgia per sottoporsi a quel trattamento che, speculando sulle speranze dei malati, fa loro sborsare ingenti somme, in cambio di nessuna cura. Anzi. Può capire che se ne esca molto peggio. In Italia l’autorità giudiziaria e due comitati scientifici hanno messo alla sbarra il metodo Stamina. Ma alcuni malati hanno deciso di andare all’estero per sottoporsi alla “terapia”. Fra loro, stando alla testimonianza del marito di una signora malata di Sla raccolta dall’Ansa, ci sarebbero anche i genitori del piccolo Federico e della piccola Celeste, che era stata sottoposta a infusioni in Italia, dopo che il ministro della salute Balduzzi aveva sciaguratamente avallato la sperimentazione  di Stamina in ospedali pubblici.

Nel 2013, infatti, il Senato votò il via libera al decreto sulle staminali che, convertito in legge, consentì a chi ha già iniziato le “terapie” con il metodo Stamina di continuarle e prevedeva una sperimentazione di 18 mesi per la quale furono stanziati 3 milioni di euro. E questo nonostante autorevoli scienziati, a cominciare da Elena Cattaneo, da tempo avessero denunciato la truffa di Stamina sulle più importanti riviste scientifiche internazionali, mobilitando su Nature e Science contro questo scandalo che mette a rischio la salute delle persone anche premi Nobel e un gran numero di medici e ricercatori. Ma evidentemente neanche l’inchiesta di Guariniello, finita con la condanna di Vannoni e del medico Andolina che lo aveva aiutato a mettere in atto il suo piano ai danni della salute pubblica, è bastata a sradicare le false speranze propalate da Stamina.

E purtroppo non si tratta di un caso isolato. In tutto il mondo cresce l’allarme per il “turismo” delle staminali. A denunciare il fiorire di cliniche private che promettono cure miracolose è il New England Journal of Medicine che mette in guardia dai loro metodi non validate e dalle promesse di guarigioni improbabili e di soluzioni miracolistiche, per malattie come l’Alzheimer, il Parkinson, le lesioni del midollo spinale, i danni da ictus. Sul New England Journal of Medicine questo inquietante scenario è raccontato attraverso storie drammatiche come quella di Jim Gass che si è sottoposto in Cina, in Messico e in altri Paesi a infusioni intratecali di staminali cioè a base di cellule mesenchimali, embrionali, fetali. Che gli hanno causato una paraplegia e incontinenza urinaria. Per poi scoprire che il midollo spinale a livello toracico risultava invaso da una massa, una “ganga cellulare rapidamente proliferante a differenziazione gliale”, con un Dna diverso da quelle del paziente. Una lesione, tecnicamente una ‘neoformazione’, era qualcosa di mai visto, apparentemente simile a quelle di un glioma maligno ma privo di altri tratti tipici dei tumori come le aberrazioni genetiche . Insomma un cancro inedito, mai descritto prima in clinica.
Il medico specialista Aaron Berkowitz e altri suoi colleghi del Brigham and Women’s Hospital di Boston che avevano segnalato il caso al New England sottolineano la potenzialità delle staminali di formare tumori se usate in questi tipi di infusioni: “le cellule staminali embrionali – scrivono – formano teratomi quando iniettate nei topi e le staminali neuronali murine possono trasformarsi in gliomi maligni”.
Senza una vera sperimentazione che prevede molti step e verifiche prima di intervenire sull’uomo e non considerando i rischi già accertati queste cliniche delle staminali che spuntano come funghi nelle zone del mondo dove minori sono i controlli procedono nel loro business senza tener conto delle “gravissime complicazioni legate all’introduzione di staminali ad elevata attività proliferativa nei pazienti”. I testimonial che si affacciano in rete per sostenerne i vantaggi sono moltissimi e in genere, come nel caso di Vannoni, non sono medici ma al più esperti di marketing, con forti interessi economici e del tutto spregiudicati nello speculare sulla sofferenza e disperazione di chi è affetto da malattie gravi, per le quali non c’è ancora una terapia efficace.

Noi siamo Puffi blu, puffiamo su per giù, due mele e poco più

Dovendo trovare un titolo per il 25 aprile di quest’anno, sfogliando le cronache della giornata di ieri sui principali quotidiani, verrebbe in mente qualcosa come “l’evoluzione della mimetizzazione”. Travolti dal solito profluvio di fascismi mascherati da sotterfugi (l’ANPI lasciato giù dal palco alla manifestazione di Finale Emilia, per fare un esempio, o la bieca provocazione di Forza Nuova a Milano a braccio teso durante la commemorazione al Cimitero Maggiore) ci siamo sorbiti anche i nonni di Salvini («un Paese è libero se SICURO. I nostri nonni persero la vita perché non passasse “lo straniero” #legittimadifesasempre», ha scritto in un bieco tweet il segretario della Lega) e altri schifezze in giro.

Ma ieri il colore dell’imbarazzo è stato il blu: al grido #tuttoblue hanno sfilato alcuni degli iscritti del Partito Democratico nelle piazze italiane. Una manifestazione che, dicono loro, sarebbe servita per rimettere al centro l’Europa dagli attacchi dei nazionalismi. Tutto bene, per carità, se non fosse risaputa l’idiosincrasia per il rosso da parte di Renzi e di molti dei suoi e se non avesse la faccia dell’ennesima ripicca verso l’ANPI e i partigiani. Diluire il rosso in blu è l’ultima invenzione di chi di fronte ai valori della Resistenza (e di fronte ai risultati delle proprie politiche recenti) riesce solo a balbettare qualche mesta sceneggiata.

Così abbiamo visto di tutto. Anziani con cartelli che sostituiscono “Bella Ciao” con i versi di canzoni di canzoni dance di improponibili band:

Improbabili kit (almeno Silvio li dava gratis):

E poi, ovviamente, qualcuno a cui scappa troppo entusiasmo:

Quelli combattevano sulle montagne e qui c’è qualcuno che arrossisce anche solo a pronunciare la parola “liberazione” e a indossarne i colori.

Bravi. Avanti così.

Buon mercoledì.

Tempo di primavera, il diario della partigiana Giovanna Zangrandi

Giovanna Zangrandi era insegnante di scienze naturali e diventò staffetta partigiana in pochi giorni. “Cresciuta nel bolognese ma fuggita giovanissima tra le Dolomiti altoatesine”, ma la sua vita, scrive Marina Zancan nella prefazione al libro Giovanna Zangrandi, I giorni veri , pubblicato da Isbn , “ha una svolta improvvisa l’8 settembre del ’43, quando i nazisti annettono le province di Bolzano e Trento al Terzo Reich. Colta dall’urgenza di partecipare in prima persona alla lotta di Liberazione, si unisce alla Brigata partigiana Calvi e diventa un tassello fondamentale nel trasporto di informazioni, armi e documenti falsi, vivendo per quasi un anno nascosta nei boschi e tra le rocce”. Quando uscì questo suo prezioso e poetico dario nel febbraio 2012, per gentile concessione dell’editore Isbn ne pubblicammo su Left un estratto, che  oggi, 25 aprile, vogliamo riproporre.

Tai, aprile 1945
Rombo di motori, quasi continuato, soprattutto di notte; per la via Statale vanno sempre più fitti carichi, verso il nord. È chiaro che la definitiva disfatta del Reich è incominciata, ma vanno ancora ordinati, armati e non bisogna sottovalutarli. Le nostre ora sono giornate dense, vissute sempre correndo per qualcosa, con tutti i sensi tesi. Ogni tanto, in qualche breve sosta, arriva come una zaffata, l’odore della terra bagnata, non più dura di gelo, l’odore dell’erba sottile e nuova. Nel brolo di Angela non solo il mandorlo lo soffia con i suoi tre fatidici fiori, ma pure i meli hanno certi spunzoni e Sergio ha detto: «Veh, mettono patrone di Mauser, anche loro».
Sono tuttavia cose ben da poco, che si vedono in fretta in questo tempo nebbioso e sciroccoso, strano, come se un tardivo inverno fosse malattia di anni che stenta a mollare la terra. Nelle notti si fa sagra con i chiodoni a tre punte, la cantina di Angela ne è tanto piena da poter ferire
a morte, in certe sere, quella specie di serpente fitto di mezzi ch’è la strada di Alemagna; e gli uomini sono in pochi, i comandanti mi hanno affidato questo notturno incarico: mi piace assai. Stasera ero stesa a fianco di Angela vestita. Nemmeno lei dormiva, inquieta e con ragione. Infatti stasera tutte le stradette alte della frazione sono piene di tedeschi, compagnie e carriaggi che si sono messe in retrovia tra frassini e sambuchi a prender fiato, a curare ferite e malattie: al Fadalto, tra Feltre e Belluno, combattono. I nostri li affrontano e disturbano o furiosamente li attaccano e combattono, soprattutto quando qualche comandante tedesco fanatico minaccia di distruggere impianti idroelettrici o industriali. Qui da noi c’è un’apparente quiete: mettono il campo alla sera, si aggrumano dove possono, qualcuno di loro vanta che faranno ancora una resistenza efficace al Brennero, di là sarà più facile «vincere».
Noi si tace e si guardano, come si fa con i lebbrosi: non toccarli, lascia che si allontanino e creperanno. Dal Brennero invece arrivano ormai i primi prigionieri nostri fuggiti all’inferno dei «lager», accennano vagamente a una Germania in débacle; ma è gente disfatta che ha poca forza per parlare, per loro si cerca disperatamente del latte, certuni pare non riescano a ingoiare altro. E hanno allucinati occhi, la magrezza, le zigomature, le orbite livide li fanno più pazzi e paurosi; certuni dicono che a sera andranno a uccider tedeschi, qualunque siano «dopo quello che gli hanno fatto». Allora si cerca di calmarli, a due più esaltati sono riuscita a sciogliere del «pandorm» nel vino e indurli a andare a dormire nel fienile, che non succedano complicazioni in questa santabarbara umana che è ora il villaggio, le case. Perché poi stasera io e Angela avevamo appena affondati nel fieno del rustico alcuni di costoro quando è arrivato Sergio e tutto il comando della Calvi, e altri, staffette delle vallate e personaggi mai visti: li abbiamo lasciati a lungo in cucina a fare piani e organizzazione per questi giorni definitivi. Ada, sacramentando, ha messo materassi per terra nella camera di Sergio al primo piano, in quei tre per quattro bisogna farci stendere una dozzina di persone e che dormano bene e siano riposati ed efficienti domani. Si sono ritirati verso l’una, io e Angela ci buttiamo vestite nell’altra camera sopra, al secondo piano e forse stavamo per dormire, nonostante tutto, quando un inferno di calci alla porta e vociare in tedesco squassa la casa. Angela è balzata a sedere e geme: «Ahi, stavolta è finita… è finita!». «No, perdio!» ho detto saltando su «Proviamo l’ultima, no! Sta calma.» Lei mi guarda incredula, mi affaccio alla finestra e dico a quelli lì là sotto: «Ick komme, ich komme; ein Moment». Sentir parlare in tedesco li ha calmati un po’. Mentre volo giù per la scala, dalla camera di Sergio affiora la canna bucata di un mitra, il viso glabro di Alberto e le sue, le altre mani piene di bombe. Soffio in fretta: «Zitti, dentro, chiudetevi; mettete quella roba sotto al culo; vado a contargli che la casa è piena di prigionieri scappati, matti». Gli occhi di Alberto si sgranano increduli come a
dire «se ci credono…». Ho aperta la porta, mi accorgo che sto parlando un certo tedesco assurdo, di origini letterarie, velocissimo, con desinenze che non mi importano più, ma i verbi rigorosamente in fondo e sto spiegando che tutta la casa è invasa, piena dai «Narren Gefangene aus Reich ausgeflogen, angekommen, schreklich, ganz narr sind sie». Piagnucolo che ci hanno quasi uccise; notte di pioggia e incerate lucide nel barlume di una pila, visi tirati, non sono rastrellatori, si vede, è una compagnia di Wehrmacht strinata e disfatta, fradicia; un vecchio pieno di odore strano si appoggia allo stipite e dice parole staccate, affannose: «Schlafen nass regnet». «Ja» ho detto. «Aber bleiben Sie ganz ruhig, mann muss leben ietz, Krieg beendet; die Gefangene sind nicht gut. Ruhig! Non svegliarli.» E certo loro sanno quel che gli hanno fatto nei «lager», mi credono e hanno paura. Questa afona sfinita voce qui nella corrusca notte: «Regnet, schlafen in dem Haus». «Ja, kommen Sie mit mir» dico prendendo una di quelle mani fradicie, un senso di schifo, ma forse solo per il bagnato.
«Kommen Sie.» Li ho infilati in cucina e nell’atrio a pianterreno, sono crollati a tappeto sotto al tavolo e dietro al fornello, si vede che quel vecchio ha la divisa bucata da pallottole, è ferito e puzza, abbiamo tirato un catino di acqua tiepida dalla vasca, si medica da solo un braccio e sospira: «Partisan in Pelluno… Ah, ietz… so spät: vielleicht Friede». Quando ha finito di fasciarsi quel braccio gli viene come una specie di sorriso, su quel visuccio da antico funzionario è una smorfia squallida e gli occhi che cercano dove dormire; gli altri russano ormai, non lo hanno nemmeno aiutato a medicarsi, russano egoisti o fiduciosi, da uno viene un rivolo di acqua rossastra, chissà dove è ferito, chissà nemmeno se lo sa. Ora il vecchio non ha più posto e nessuno gliene fa, nell’angolo dell’atrio sposto il cestone della tacchina, cerco di non far capire quanto è pesante, con le sipe sotto la cova; stendo un sacco e, mentre il vecchio si accomoda, sotto la tacchina si sente pio, pio. Sono nati, da poche ore certo, prima erano mancora uova, due pulcini sbucano dalle penne, giallini, li ho indicati al vecchio, ho pregato di non toccare; lui sorride, stavolta ci riesce meglio e dice: «Oh, sì, pampìni, mia figlia ha due piccoli così. Oh schöne! Vielleicht Friede…». Ha assicurato che non disturberanno il cestone e si arrotola e appesantisce il respiro fiducioso, là dietro la cova, la strana cova del nostro tempo di primavera…..

Buon 25 aprile. Alla faccia dei professionisti della desistenza.

Piero Calamandrei

Come accade tutti gli anni hanno già detto tutto loro. In questo caso Piero Calamandrei:

«Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo. […] Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli «scrittori della desistenza»: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie.
Sono questi i segni dell’antica malattia. E nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.
Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.»

Antonio Gramsci fan delle avanguardie

La caballería roja (La carga de la caballería roja) (circa 1930), de Kazimir Malévich Museo Estatal Ruso, San Petersburgo, Russia

Quella di Gramsci fu certamente una visione d’avanguardia. Nei contenuti e per il metodo di pensiero. Libero, laico, antidogmatico. Ma anche per quel suo legare strettamente politica e cultura nell’idea di egemonia, come capacità di reagire all’oppressione, ingaggiando una lotta senza armi, avendo il coraggio di schierarsi contro il nazifascismo. Dai suoi scritti traluce una idea alta di cultura, intesa come l’espressione più profonda della realtà umana. Va di pari passo con il suo interesse per l’arte come linguaggio universale e per la ricerca di forme innovative capaci di esprimere progetti rivoluzionari. Non stupisce dunque che l’avanguardia artistica l’abbia sempre attratto in tutte le sue manifestazioni. Fin dai tempi in cui era giovane critico teatrale de L’Avanti, come testimoniano le sue recensioni, pubblicate trent’anni fa da Einaudi e più di recente riproposte in un nuovo volume da Aragno con prefazione di Davico Bonino. Un libro prezioso perché riporta in primo piano il suo avventurarsi solitario fra le innumerevoli facce e i fermenti del teatro di allora, diviso tra intrattenimento e sperimentazione, tra Niccodemi e Pirandello o Rosso di San Secondo, tra vaudeville e futurismo, senza tuttavia trascurare, autori «sociali» oggi difficili di digerire come Andreev. Con piglio corrosivo Gramsci si scagliava contro la degenerazione trombonesca del “grande attore” e smascherava le «ditte» che per ragioni commerciali puntavano al ribasso qualitativo dell’offerta. Da socialista non perdeva mai di vista l’educazione e l’emancipazione delle classi lavoratrici ma era anche sensibile alle questioni estetiche che non giudicava fine a stesse. Così fu il primo a lanciare Luigi Pirandello riconoscendogli quella sua speciale capacità drammaturgica di far vivere i personaggi sotto i nostri occhi. Anche se poi ebbe a dire che Pensaci, Giacomino! era un testo appesantito da «abitudini retoriche» e Il giuoco delle parti da un «verbalismo pseudo filosofico».
L’ idea gramsciana di letteratura era lontana dall’idealismo astratto ed estetizzante di Croce, quanto dal realismo socialista. La rivoluzione doveva darsi modi nuovi anche di espressione artistica. In Machiavellismo e marxismo Gramsci scriveva, «lottiamo per la nuova cultura. In un certo senso quindi è anche critica artistica, perché dalla nuova cultura nascerà una nuova arte…». Dunque fu molto incuriosito, soprattutto nelle prime fasi, dal futurismo, che cercava vie diverse per raccontare le trasformazioni della modernità. Quando uscì il primo manifesto il 20 febbraio del 1909, l’avvento del fascismo era ancora lontano. Allora appariva come un movimento magmatico, in cui accanto a Filippo Tommaso Marinetti, che pericolosamente inneggiava alla «guerra sola igiene del mondo», si muovevano personalità le più diverse. Fortissima all’interno del movimento era l’ala anarco-sindacalista. Il futurismo anarcoide fu un torrente rivoluzionario negli anni Dieci, tanto che, ancora nel 1921, Gramsci definiva quel filone «nettamente rivoluzionario, assolutamente marxista». Ma quel gruppo non divenne mai egemone. A prevalere, come è noto, fu l’ala futurista che diventò organica al regime.
Con la morte di Umberto Boccioni che si era arruolato volontario, il futurismo perse il suo miglior talento. Da tempo non c’era più quella volontà totalizzante di “rifondare” il mondo: di «ricostruire l’universo» come predicava il Manifesto del 1915 di Balla e Depero, che si erano dati inizialmente l’obiettivo di creare un’arte nuova, in sintonia con il mondo moderno, ridisegnando ogni aspetto del vivere: dall’ambiente, delle case, agli abiti, passando dalla scrittura, alla musica, al teatro, dal cinema, alla fotografia. Il sipario si era squarciato e i futuristi – specie quelli della seconda ondata – divennero picchiatori fascisti. Già nel 1920 Antonio Gramsci li accusava di essere solo una manica di irresponsabili scappati da un collegio di gesuiti: «sono solo degli scolaretti che hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti dalla ferula sotto la guardia campestre». Molte cose erano cambiate da quando, nel 1913, ancora studente, era intervenuto sul Corriere Universitario di Torino in difesa dei futuristi attaccati dalla rivista bolognese San Giorgio, organo di gruppi cattolici integralisti e reazionari. Come ha scritto Umberto Carpi – autore di  Bolscevico immaginista (1981) e molti altri studi sul rapporto fra socialismo rivoluzionario e movimenti d’avanguardia – per Gramsci il fenomeno futurista andava letto nel quadro della rivoluzione formale operata in quegli anni dalle avanguardie artistiche europee. Non di bizzarrie si trattava, ma di un radicalismo formale ricercato e consapevole, che voleva rifondare il discorso artistico nell’ottica di una modernità vissuta come rivoluzionaria.

Giovanissimo e brillante intellettuale, Gramsci era impegnato in uno sforzo di comprensione di quella Torino operaia, città-fabbrica, simbolo della modernità e del macchinismo, tematizzato seppur in maniera ambigua dai futuristi. I pochi di sinistra, fra loro, facevano capo all’anarco-bolscevismo e al raggismo russo e a loro si rivolgeva cogliendone il rapporto con lo specifico della realtà industriale, come luogo del mutamento permanente, perché nella metropoli si realizzava il processo di distruzione del passato in un’ottica di incessante rinnovamento. Ed è lì che devono operare i rivoluzionari: su questa visione strategica ordinovisti e futuristi furono in assoluta sintonia. Ad Antonio Gramsci, poi, non sfuggiva l’importanza non secondaria della questione “culturale” nella battaglia per l’egemonia e la questione delle alleanze; per questo lavorava per indirizzare in senso progressista il ribellismo anti borghese delle frange intellettuali futuriste. Dall’osservatorio speciale di Torino capiva che non confrontarsi con i futuristi significava abbandonarli al richiamo forte dell’attivismo fascista. In questo contesto nasce nel 1921 l’Istituto di cultura proletaria (Proletkultur) con lo scopo dichiarato di rendere i “produttori” protagonisti anche della battaglia di rinnovamento rivoluzionario dell’arte e della cultura. Un progetto che trovò sponde nel gruppo dirigente dell’Internazionale comunista di cui era esponente Lunačarskij che era stato in Italia fra il 1905 e il 1912 e sapeva di Marinetti e del movimento da lui avviato. Un tentativo di dialogo che si tradusse in un episodio alquanto “singolare”: la partecipazione di una folta delegazione di operai ordinovisti alla esposizione futurista torinese del 1922, guidati dallo stesso Marinetti che raccontava una cronaca su L’Ordine nuovo, «si prodigò a spiegare il significato pittorico dei singoli quadri e il valore del futurismo in genere». Questo per dire quanto fosse confuso e complesso il quadro a pochi mesi dalla marcia su Roma del 28 ottobre del 1922. E la situazione ben presto precipitò, anche per Antonio Gramsci dal punto di vista personale. Nel giugno del 1922 giunse a Mosca la delegazione del Partito comunista d’Italia per partecipare all’esecutivo della Terza Internazionale. E nel novembre del 1923 il dirigente del Pcd’I Antonio Gramsci si trasferisce da Mosca a Vienna, nel maggio 1924 torna in Italia e l’8 novembre 1924  viene arrestato.

Ma torniamo ancora per un attimo al suo arrivo in Russia. Nel 1922 era noto a Mosca e apprezzato da Lenin come ideatore del movimento dei consigli di fabbrica e fondatore de L’Ordine nuovo e da tempo si interessava all’arte di avanguardia. Lo ricorda Noemi Ghetti in un denso paragrafo “Il comunismo e gli artisti” nel suo libro Gramsci nel cieco carcere degli eretici (L’Asino d’oro, 2014, l’autrice ne parla in un incontro con gli studenti a Latina il 28 aprile), ricostruendo le prime vicende del futurismo russo che aveva avuto un fulminante avvio con Schiaffo al gusto corrente di Chlebnikov e Majakovskij. La svolta di Kandinskij verso l’astrattismo era già iniziata nel 1905 come splendidamente racconta la mostra milanese Kandinskij, il cavaliere errante al Mudec (aperta fino al 9 luglio, vedi Left n.12).

Il gruppo cubo-futurista o Gileja conquistò presto la ribalta moscovita. «Sorta qualche anno dopo quella europea, l’avanguardia russa non conosce i confini che in Occidente dividono una corrente e una forma di espressione artistica dall’altra», annota Guido Carpi nella sua Storia della letteratura russa (Carocci, 2016). «Elementi desunti dal fauvismo e dal cubismo si fondono con elementi dell’espressionismo tedesco e del futurismo italiano. Il tutto in un contesto ancora ben memore del panteismo simbolista e delle concezioni teurgiche dell’arte nel 1910». Con la prima mostra del Fante di quadri la scena artistica russa fu scossa da una profondo terremoto anti-accademico. Dominava la scomposizione dei volumi, fiorivano forme e colori squillanti, immagini deformate segnate da violente linee nere, annota Guido Carpi, parlando dell’arte di Burljuk, Larionov, Gončarova, Ekster, Kandinskij, Lentulov, Koncalovskij, Tatlin. «Da questo gruppo ben presto si sarebbero separati Majakovskiij e Burljuk, i due più di sinistra», fa notare il professore di russo dell’ Università Orientale di Napoli.
Intanto Larionov aveva dato vita al raggismo (cosiddetto per i fasci di raggi irradiati), era «il primo esperimento di pittura non oggettuale in Russia. Un ideale condiviso di arte sintetica e dinamica portò alla collaborazione fra poeti e pittori. Il costruttivismo di Tatlin e il suprematismo di Malevič incontravano fortemente gli ideali della rivoluzione, alla quale Gramsci dedicò molti e approfonditi interventi (ora riproposti in Antonio Gramsci Come alla volontà piace, Castelvecchi).
In quel cruciale 1922, a Mosca, non frequentava solo il centralissimo Hotel Lux dove alloggiavano i dirigenti del Comintern e il sanatorio di Serebriani Bor, scrive Noemi Ghetti ne La cartolina di Gramsci (Donzelli, 2016). Ricordando che in quel periodo Gramsci incoraggiava Giulia a tradurre in italiano il romanzo politico-fantascientifico La stella rossa di Aleksandr Bogdanov, che nella Seconda Internazionale su ribattezzato la bestia nera di Lenin. Ancora una volta Gramsci si rivolgeva alla sperimentazione letteraria e cercava di tenere aperto il raggio dei rapporti per difendersi dal più rigido apparato.

Potremmo dire in conclusione che l’interesse per le forme sperimentali di arte non abbandonò mai Gramsci, nonostante le numerose delusioni? «Se il primo rapporto con il futurismo risale al 1913, si consolidò nel periodo de L’Ordine nuovo (1920-21). Si inseriva nel tentativo compiuto dal gruppo torinese di replicare in Italia quelle esperienze di originale “cultura proletaria” che in Russia avevano dato vita all’imponente movimento del Proletkul’t», risponde Guido Carpi, autore di Russia 1917, un anno rivoluzionario, appena uscito per Carocci. «Alle idee e alla pratica del proletkultismo, Gramsci era stato introdotto dal Commissario del popolo alla Cultura Anatolij Lunačarskij, da sempre convinto, sulle orme del filosofo marxista “eretico” Aleksandr Bogdanov, che la cultura sia esperienza collettiva organizzata e che debba mirare alla trasformazione del mondo e al superamento della cultura borghese, individualistica, passiva e sterilmente compensatoria». In questa prospettiva, conclude il docente dell’Orientale, «l’apporto fondamentale del futurismo era per Gramsci non certo il gusto per la provocazione fine a se stessa, ma il tentativo di elaborare l’alfabeto di un’arte legata indissolubilmente ai luoghi e ai ritmi della produzione industriale e della società di massa: esperimenti che in Russia portavano Majakovskij, Rodčenko e Šklovskij a fondare il movimento costruttivista, con la straordinaria “appendice” dei laboratori sperimentali Vchutemas. L’influenza di Bogdanov e Lunačarskij del resto, non si limitò a questo: l’idea che la classe operaia dovesse fungere da baricentro organizzativo per una trasformazione universale della cultura e, in prospettiva, della vita sociale, portò Gramsci a elaborare la concezione di “egemonia”».

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Abbiamo bisogno di Gramsci

Angelo D’Orsi, storico del pensiero politico all’Università di Torino, ha appena scritto una nuova biografia di Antonio Gramsci per Feltrinelli. Non solo, dirige anche la rivista Gramsciana (Mucchi editore), di cui è appena uscito il numero dal titolo “Egemonia e scienza”.
Professor D’Orsi, quanto è attuale il pensiero di Gramsci e cosa può interessare ai giovani?
Credo che il pensiero di Gramsci sia drammaticamente inattuale ma allo stesso tempo assolutamente necessario. Il mondo in cui viviamo è lontanissimo da Gramsci, sotto qualsiasi punto di vista. Ma ci sono degli elementi che lo rendono, ripeto, necessario. Sono la sua personalità, la sua serietà, il suo rigore, ma anche il suo appassionato sarcasmo così diverso dalla sguaiataggine che vediamo oggi. E poi la sua idea di un comunismo umanistico e anche anche la sua onnivora curiosità – non c’è ramo dello scibile che lo trovi estraneo. Insomma, noi oggi avremo davvero bisogno di figure come Gramsci.
E come dovrebbero essere?
Capaci di ragionare in termini complessivi, olistici, ma senza perdere di vista l’obiettivo di tutta la sua breve esistenza: l’esigenza della liberazione dei ceti subalterni. È stata la sua stella polare a cui non ha mai rinunciato. L’idea che Gramsci in carcere abbia cambiato idea, arrivando a una sorta di liberalismo, è assolutamente implausibile.
Le diseguaglianze adesso ci attanagliano, così come la sfiducia nei partiti alimenta i populismi di destra. Rileggere Gramsci potrebbe servire a capire il presente?
Ma non c’è dubbio. Più che rileggerlo, però, si tratterebbe di leggerlo e di studiarlo, perché è più citato che letto. Noi dovremo invece fare un lavoro diverso: dovremo contestualizzarlo. Perché è evidente che il Gramsci in carcere ha un orizzonte diverso da quello dei tempi giovanili torinesi ed è diverso dal Gramsci uomo di partito dal ’21 al ’26. Certo che bisognerebbe leggere Gramsci. A cominciare da quella sua frase: “la storia è maestra ma gli uomini sono cattivi allievi”. Basterebbe questo per capire quanto è importante per penetrare il tempo in cui viviamo. La sua riflessione in carcere è anche una critica sulla modernità, in cui si danno chiavi di lettura troppo avanti anche per il suo tempo. Quando infatti vengono pubblicate le sue note in Americanismo e fordismo non furono capite nel suo stesso partito e furono interpretate come un’apologia del capitalismo statunitense. Invece lui studiando gli Stati Uniti riesce a cogliere alcuni elementi dell’egemonia americana che ci illuminano sul presente. Gramsci pur rimanendo marxista non può essere rinchiuso nella gabbia marxista. La rompe e guarda fuori, allargando l’orizzonte.
E cos’è il capitalismo per Gramsci?
Non è più solo un modo di produzione, ma è una civiltà. Lui la analizza, cerca di capire come conforma le persone, su come come dobbiamo vivere, compreso il divertimento, i comportamenti sessuali. Tutto prestabilito, tutto organizzato. Sono testi che si avvicinano a quelli degli autori della scuola di Francoforte. (….) L’intervista continua su Left in edicola

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Siamo tutti intellettuali e possiamo cambiare il mondo

mostra a cura della Fondazione Gramsci - Torino xxix salone internazionale del libro 12-16 maggio 2016 - i quaderni di Gramsci, mostra dei manoscritti

Il 1° maggio 1919 a Torino esce il primo numero della rassegna settimanale di cultura socialista L’Ordine nuovo. Doveva rappresentare una svolta fondamentale per Antonio Gramsci che si accingeva a questa nuova avventura giornalistica dopo aver scritto su testate come l’Avanti, Il Grido del Popolo, La Città futura, L’Avanguardia. Con lui c’erano Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Angelo Tasca. E proprio con quest’ultimo Gramsci si scontrò duramente a proposito della linea editoriale da imprimere al nuovo settimanale. «Cosa intendeva il compagno Tasca per cultura, e dico, cosa intendeva concretamente e non astrattamente?», si chiede lo stesso Gramsci un anno dopo in due articoli usciti il 14 e 20 agosto e riportati da Lelio La Porta nella premessa del volume Gramsci chi? (Bordeaux edizioni, 2017).
Ebbene, il compagno Tasca per cultura, scrive polemico Gramsci, «intendeva ricordare, non intendeva pensare, e intendeva ricordare cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio». Il settimanale quindi nei primi numeri «non fu nient’altro che un’antologia, una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta», continuava implacabile Gramsci. Che con Togliatti, racconta, ordì un “colpo di stato redazionale”, nel senso che cambiò il rapporto con i Consigli di fabbrica a cui il settimanale si rivolgeva, instaurando così un legame continuo – anche con incontri e discussioni – tra giornale e lettori che così non vivevano più L’Ordine nuovo calato dall’alto, ma «sentivano gli articoli pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?».
Ecco come doveva essere un giornale per Antonio Gramsci: non “fredde architetture intellettuali” ma articoli che rappresentavano le aspirazioni reali dei lettori e che rientravano in una ricerca più vasta, culturale, senza steccati ideologici tra i giornalisti e i lettori. Il giornale, come svilupperà più avanti in modo articolato nei Quaderni del carcere, sarà per Gramsci, “la scuola degli adulti”, con una funzione importantissima per la formazione stessa dell’uomo e in particolare delle classi operaie e contadine che non a caso idealmente volle unire sotto la testata de l’Unità, il giornale da lui fondato nel 1924.
Gramsci conosceva benissimo il mondo del giornalismo, in tutti i suoi meccanismi interni oltre che negli aspetti culturali ed ideologici. Aveva cominciato a scrivere su L’Unione Sarda, a 19 anni, nel 1910, una corrispondenza da Aidomaggiore, paesino vicino a Ghilarza, dove viveva, ottenendo il tesserino da giornalista. Ma fu a Torino che esplose la sua passione giornalistica fusa a quella politica. Lasciò gli studi di linguistica, dopo anni passati a tribolare povertà e freddo. (…) l’articolo prosegue s left in edicola

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