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Non c’è rivoluzione senza critica

isogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri (…).
La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. (…)
Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura.
Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.
Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere.

*“Socialismo e cultura”, in Il Grido del popolo, 29 gennaio 1916. Pubblicato nel volume Antonio Gramsci, Il giornalista, il giornalismo, a cura di Gian Luca Corradi (Tessere, 2017).

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E ora Cantone smutanda il Governo

Corruzione, mafie e malaffare hanno bisogno di una tensione tenuta sempre alta per essere combattute. La storia ci insegna che ogni volta che lo Stato (ma non solo, c’entra anche la tensione della società civile) hanno allentato la presa, più o meno consapevolmente, i poteri criminali ne hanno approfittato per assestare colpi che poi abbiamo scontato per anni.

Persi tra le sceneggiate popolari e populiste di queste settimane “l’affare Cantone” (con la sciagurata seduta del Consiglio dei Ministri da cui l’ANAC è uscita depotenziata) è stato messo nel cassetto delle ripicche come se non fosse il grave segnale che invece è: che sia stato per uno sgambetto (di Renzi o a Renzi) o per altro si tratta comunque di un attacco frontale (e pubblico) all’efficienza anticorruttiva dell’azione di governo.

Ieri Cantone, ospite di Giovanni Minoli, sulla nuova legge per gli appalti all’inizio è stata fatta “una rivoluzione copernicana” solo che poi “si è fatta retromarcia su molte cose e non si è data la possibilità di attuare il codice. Credo – ha detto Raffaele Cantone – che fosse una buona riforma e il fatto di andare avanti e indietro è un classico del nostro Paese. E ci sono tante opere incompiute. Il problema vero è che qualcuno ha pensato che bisogna consentire di realizzare opere pubbliche per smuovere l’economia ma non perchè servano davvero. E non smuovono nulla”.

In un Paese normale e responsabile, capace di riconoscere e rispettare le priorità, una dichiarazione del genere provocherebbe un terremoto politico, una sollevazione popolare e un unanime coro dalle associazioni impegnate nell’azione antimafia.

E invece niente.

Buon lunedì.

Cade anche foglia di fico di Cantone

Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità per la Corruzione ad un convegno sull'abusivismo edilizio organizzato dalla Provincia di Napoli, 11 aprile 2014. ANSA / CIRO FUSCO

Dicono che per sbaglio, lo dicono i ministri di governo, hanno cancellato un comma che depotenzia l’azione di Raffaele Cantone e dell’ANAC nel controllo degli appalti. Per sbaglio, dicono loro, hanno “reciso” l’uomo che Reni ci aveva presentato come soluzione a tutti i mali, la faccia che avrebbe dovuto essere la garanzia di una seria lotta alla corruzione. Però dicono che rimedieranno l’errore quanto prima e l’Autorità Nazionale Anticorruzione potrà tornare in sella. Sembra una barzelletta, scritta così.

Raffaele Cantone è un magistrato che ha fatto moltissimo nella lotta alla camorra. Qualche anno fa, anche lui, ha ceduto alle lusinghe del corso renziano sempre in cerca di facce più che di sostanza accettando di presiedere l’ANAC convinto probabilmente di poter mettere al servizio della politica l’esperienza acquisita sul campo: non sapeva, Cantone, che la corruzione è più forte (troppo spesso) anche della propaganda.

Chi ha scavalcato il Parlamento cancellando quel comma fondamentale dalla nuova legge degli appalti durante il Consiglio dei Ministri? Si potrebbe fare come si fa con i bambini: se non viene fuori il colpevole allora fuori tutti, tutti in punizione.

È primavera ma cadono le foglie. Di fico.

Buon venerdì.

“Roma città aperta”, un film che ancora oggi ha tanto da dire

Screenshot di Roma città aperta, regia di Roberto Rossellini (1945), ispirato alla popolana uccisa dai nazisti . Questo è un fotogramma di una pellicola cinematografica girata in Italia (o in territorio italiano) ed è ora nel pubblico dominio poiché il copyright è scaduto. ANSA/ WIKIPEDIA EDITORIAL USE ONLY- NO SALES NO ARCHIVE

Il volto, e il corpo di Anna Magnani sono un fascio di nervi tesi quando dà lo schiaffo al soldato tedesco che tenta di bloccare lei ed altri abitanti nel cortile del palazzo di Via Montecuccoli. Di fronte alla retata dei nazisti, di fronte al suo uomo che sta per essere fatto salire nel camion, la sora Pina, scatta, si divincola e corre fuori del portone chiamandolo.  “Francesco, Francesco, Francesco”. Quell’urlo è ormai indelebile. Così come quel colpo di mitraglietta che ferma per sempre la corsa della donna.

Ogni volta che scorrono quei fotogrammi di Roma città aperta è impossibile non provare dei brividi. La guerra, il senso di ingiustizia, il dolore. Tutto affiora con una immediatezza e una potenza espressiva tali che fanno di quel film girato mentre ancora la guerra era in corso non solo un capolavoro del cinema ma anche un documento di memoria e umanità. La decisione di Roberto Rossellini di girare un film sulla Resistenza e sulla guerra a pochi mesi dalla fine dell’occupazione nazifascista della città fu davvero geniale. Una sorta di dovere etico, il suo, contribuire cioè con l’arte affinché la memoria rimanesse viva, perché non si potesse più cancellare quello che era accaduto in quei terribili mesi di occupazione nazista a Roma. E questo si respira nel film, nei volti delle comparse, uomini, donne e bambini che in qualche modo hanno recitato se stessi.

In attesa del 25 aprile, per la cui celebrazione si accendono di nuovo le polemiche – a Roma la comunità ebraica e il Pd romano non parteciperanno al corteo dell’Anpi – vale la pena quindi riprendere un po’ il filo della Storia e cercar di comprendere che cosa siano state la lotta di Liberazione e la violenza della guerra in Italia.

I personaggi principali, la Sora Pina (Anna Magnani) e il sacerdote (Aldo Fabrizi) si ispirano a persone realmente vissute, vittime della violenza nazifascista. A colpire i  romani era stata la fine di Teresa Gullace, una donna romana madre di cinque figli e incinta del sesto che voleva avvicinare il marito imprigionato nella caserma di Via Giulio Cesare. Lui era alla finestra, forse lei voleva solo parlargli o portargli del cibo, fatto sta che un soldato tedesco le sparò a bruciapelo, uccidendola. Era il 3 marzo 1944. All’assassinio assisterono alcune partigiane che erano davanti alla caserma come Laura Lombardo Radice e Carla Capponi. La stessa Laura Lombardo Radice e Pietro Ingrao scrissero un manifesto dopo l’accaduto. Teresa Gullace diventò ben presto un simbolo della Resistenza romana.

Ma torniamo al film. Si cominciò a girare a febbraio 1945 e venne ultimato a settembre dello stesso anno. Doveva essere all’inizio un documentario su don Morosini, il prete ucciso da nazisti nel 1944. Ma grazie agli sceneggiatori che affiancarono Rossellini, tra cui Federico Fellini e Sergio Amidei, il film sviluppò un racconto fluido in cui entrarono altre storie parallele che insieme restituiscono un quadro vivo della Roma sotto i nazisti. Così ci sono i popolani, gli eroi, i partigiani, ma ci sono anche le donne “perdute” conniventi con il regime. E c’è lei, la Sora Pina, una Anna Magnani vulcanica, passionale come non mai, che stava vivendo proprio durante le riprese del film, una travolgente storia d’amore con Roberto Rossellini. Interrotta tre anni più tardi per l’arrivo nella vita del regista di Ingrid Bergman, la quale, ironia della sorte, aveva scritto la famosa lettera a Rossellini – in cui aveva ammesso di conoscere in italiano solo le parole “ti amo” – , dopo aver visto Roma città aperta e Paisà, l’altro film manifesto del neorealismo uscito nel 1946.

Il film venne girato tra mille ostacoli. Le macerie ancora per le strade, la pellicola che scarseggiava, e poi anche i finanziamenti che vennero a mancare. Fu un commerciante di lana, Aldo Venturini, a dare una mano al regista e permettergli di realizzare quello che sarebbe stato considerato un capolavoro del cinema, vincitore nel 1946 del Grand Prix al festival di Cannes. Il titolo venne mutuato dalla quarta Convezione dell’Aja del 1907. Secondo quel regolamento “città aperta” significa città priva di obiettivi militari e di difesa in cui non sono ammessi attacchi e bombardamenti, né tantomeno la violenza bellica al suo interno. Regole che i nazisti e i repubblichini di Salò violarono a più riprese.

Domani 21 aprile il film di Roberto Rossellini nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna verrà proiettato al cinema l’Aquila (Via l’Aquila 66) nel quartiere Pigneto, a Roma. A promuovere l’evento (dalle ore 19) il centro di documentazione Maria Baccante, Archivio Viscosa e Scca, Spazio comune Cinema L’Aquila, in collaborazione con il Museo storico della Liberazione. Alla proiezione saranno presenti Renzo Rossellini, figlio del regista e uomo di cinema e grande produttore e Antonio Parisella, presidente del Museo storico della Resistenza.

Infine, una curiosità: Via Montecuccoli è a due passi dal cinema Aquila. Chi vuole può andare a vedere un luogo diventato famoso. Il portone da cui usciva correndo Anna Magnani è ancora lì, molto più curato naturalmente di quando venne girato il film. Allora l’intonaco dei muri era vecchio e sbrecciato, ma appena si nota perché l’attenzione è tutta su quei volti di uomini, donne e bambini dolenti, indimenticabili. È anche questa la Storia. Da non dimenticare.

È vero: questo Pd non c’entra nulla con l’Anpi

Matteo Renzi alla Convenzione Nazionale del Pd all'hotel Ergife di Roma, 9 aprile 2017. ANSA/ PRESIDENZA DEL CONSIGLIO - TIBERIO BARCHIELLI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Ma davvero qualcuno pensava che il Partito Democratico, questo Partito Democratico di bulletti che ballano sulle loro stesse macerie, avrebbe perdonato all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia il fatto di avere preso posizione nelle ultime vicende politiche italiane (referendum costituzionale in testa) piuttosto che dedicarsi agli unguenti e all’imbalsamatura?

Ma davvero serviva lo sbiadito Orfini per ricordarci che i punti fondativi dell’ANPI (Restituire al Paese una piena libertà e favorire un regime di democrazia per impedire in futuro il ritorno di qualsiasi forma di tirannia e assolutismo; valorizzare in campo nazionale e internazionale il contributo effettivo portato alla causa della libertà dall’azione dei partigiani; far valere e tutelare il diritto dei partigiani, acquisito, di partecipare in prima linea alla ricostruzione morale e materiale del Paese; promuovere la creazione di centri e organismi di produzione e di lavoro per contribuire a lenire la disoccupazione) non hanno nulla a che vedere con un partito che ha svenduto i diritti del lavoro (e dei lavoratori) in cambio di qualche lisciata di pelo (e qualche sacco di voti) dai capitalisti senza capitale?

Ma davvero si può pensare che questa truppa democratica abituata a credere che “parteggiare” sia sinonimo di “servire” possa sfilare al fianco di chi ha parteggiato perché sa da che parte stare piuttosto del “con chi”? Ma davvero si sarebbe potuto immaginare vedere sfilare a fianco dell’ANPI quegli stessi deputati che hanno sparato contro i partigiani durante la campagna referendaria dividendo i “partigiani veri” dai “partigiani falsi” per farsi notare dal capo mentre scodinzolavano?

Scriveva Italo Calvino: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere!»

Buon giovedì.

Vaccini e bugie, la parola ai medici contro le false credenze

Se oggi l’Italia è diventata un Paese di nuovo a rischio morbillo, tanto da essere segnalati per i viaggiatori che arrivano dall’estero, è anche merito di un irresponsabile filone anti scientifico che in Italia ha trovato sponda politica nel Movimento 5 Stelle di Grillo, fortissimo spacciatore di bufale, dalle scie chimiche, a «l’aids è una invenzione delle multinazionali» all’autismo che sarebbe causato dai vaccini.  Una falsità senza alcun fondamento scientifico, ma dura a morire, nonostante sia stato  dimostrato che il medico inglese Wakefield aveva lucidamente manipolato i dati per ordire una truffa a scopo di guadagno (ottenere risarcimenti dalle case farmaceutiche produttrici di vaccini). Non è bastato nemmeno che fosse radiato dall’ordine dei medici e che il suo studio fosse cancellato dagli archivi della rivista che l’aveva pubblicato. Una storia documentata, incontrovertibile, che abbiamo raccontato tante volte e tutte le volte che la rievochiamo compaiono frotte di troll che insultano e minacciano non avendo argomenti validi per contestare l’evidenza scientifica che non esiste alcun nesso vaccino trivalente e autismo.

Intanto la truffa di Wakefield «ha provocato danni enormi e continua a farlo» denuncia uno dei più grandi immunologi italiani Alberto Mantovani. «Ci fu una caduta delle vaccinazioni nel Regno Unito e l’onda lunga si è sentita un po’ in tutto il mondo». In Inghilterra dopo quella vicenda, la Bbc ha deciso di stilare una lista qualificata di esperti da consultare, come codice di auto regolamentazione. I media italiani ne avrebbero un gran bisogno, visto che non passa giorno in cui in tv come sui quotidiani questioni medico- scientifiche siano commentate da preti e da opinionisti senza una formazione appropriata rispetto all’argomento sul quale vengono chiamati ad esprimersi.

Quanto al Papilloma virus e al vaccino di cui si è occupata la trasmissione Report suscitando molte polemiche, forse è utile ricordare ciò che dice la letteratura scientifica, ovvero che si tratta di un  virus molto diffuso e resistente ed è una delle principali cause di tumore all’utero, specialmente nei  Paesi più poveri dove non sono diffusi a sufficienza gli strumenti di prevenzione. «Esiste in diverse forme, chiamate ceppi, ognuna identificata con un numero. Alcuni di questi ceppi sono praticamente inoffensivi per l’uomo, altri possono causare vari tipi di lesioni, altri ancora causano lesioni gravi fino al tumore», spiega il ginecologo e divulgatore scientifico Salvo Di Grazia, autore di Salute e bugie e del nuovo  Medicine e bugie. (Chiarelettere).  «Come per la maggioranza delle malattie virali non c’è una cura definitiva, si prova a distruggerle. Per esempio con il laser o con l’elettrobisturi o con un intervento chirurgico vero e proprio. Spesso sono necessari interventi ripetuti per distruggere completamente queste lesioni» spiega il medico siciliano, sul suo sito di informazione scientifica Medbunker. «Esiste un vaccino che permette di ridurre di moltissimo i danni dell’infezione. Altri mezzi, come il Pap-test, sono capaci di rilevare la presenza di lesioni (quindi il virus ha già esercitato la sua azione di danno) anche molto iniziali. Per controllare la progressione della malattia si ricorre ad esami di approfondimento, primo tra tutti uno che si chiama “colposcopia”, che consiste della visione ingrandita, tramite uno strumento apposito (colposcopio) del collo dell’utero.

Quanto al vaccino: «Contiene solo parte del virus (e quindi non può causare la malattia) che crea anticorpi per i ceppi più a rischio del virus, oggi è disponibile quello che previene il contagio di 9 ceppi del virus, la quali totalità delle lesioni possono quindi essere prevenute. Il vaccino è molto efficace e non ha mostrato particolari effetti collaterali. Possono vaccinarsi sia uomini che donne».

Riguardo ai presunti effetti avversi dice il presidente della Società italiana di virologia, Giorgio Palù  ribadisce: «Le evidenze scientifiche mostrano in maniera inoppugnabile come il vaccino anti-Hpv sia dotato di un ottimo profilo di sicurezza e di una straordinaria efficacia nel ridurre in maniera drammatica l’incidenza dell’infezione da Hpv e delle lesioni precancerose nei vaccinati. Queste condizioni sono entrambe necessarie per lo sviluppo del cancro del collo dell’utero e di altre neoplasie quali quelle dei distretti testa-collo, vulvovaginale e anale, come dimostrato da una serie di ricerche culminate con l’assegnazione del premio Nobel per la Medicina nel 2008».

Per concludere ci pare importante riportare ancora le parole di Salvo di Grazia, medico, ginecologo che lavora in ospedale, riguardo alla trasmissione Report e non solo: «Da ginecologo che cura proprio queste malattie, so cosa significa tumore del collo dell’utero (tema di una complessità enorme) e so che non si può liquidare un argomento con tanta leggerezza e nemmeno diffondere paure e dubbi perché una ragazza “si sente vuota” dopo la vaccinazione. Ha provato la giornalista a chiedere come “si senta vuota” una ragazza che ha avuto un tumore del collo dell’utero? Probabilmente no».

Premio Unesco per la pace alla sindaca Giusi Nicolini. E all’umanità di Lampedusa

Giusi Nicolini, Sindaco di Lampedusa, posa a margine della conferenza stampa di presentazione del progetto di Gianfranco Rosi, Leone d'Oro a Venezia per 'Sacro GRA', di un film-documentario girato nell'isola, prodotto da Rai Cinema, nella sede Rai di Viale Mazzini, Roma, 5 giugno 2014. ANSA/ FABIO CAMPANA

«Si è distinta per la sua grande umanità e il suo impegno costante nella gestione della crisi dei rifugiati». Con questa motivazione la giuria del Premio Houphouet-Boigny per la ricerca della pace dell’Unesco ha scelto la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, a pari merito con SOS Méditerranée, l’Ong francese che ogni giorno salva numerose vite in mare. «Da quando è stata eletta sindaco nel 2012, Nicolini si è distinta per la sua grande umanità e il suo impegno costante nella gestione della crisi dei rifugiati e della loro integrazione dopo l’arrivo di migliaia di rifugiati sulle coste di Lampedusa e altrove in Italia», si legge nelle motivazioni. Prima di lei, a ricevere il premio istituito nel 1989 in passato anche Nelson Mandela e Yasser Arafat.

«Questo premio è un grande onore per me, per Lampedusa e per i lampedusani», ha commentato la sindaca. «Ma soprattutto è un tributo alla memoria delle tante vittime della tratta di esseri umani nel Mediterraneo. In un momento in cui c’è chi chiude le frontiere e alza muri parlando di una invasione che non c’è essere premiati con questa motivazione ci fa sperare in una Europa solidale, dove l’umanità non è sparita. È su questi valori, su questi principi che si fonda l’Europa. Diversamente rischiamo di naufragare anche noi insieme a profughi e migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo».

Noi di Left facciamo le nostre congratulazioni a Nicolini e Lampedusa ripubblicando un monologo che la sindaca ha scritto per noi qualche tempo fa, insieme a Giulio a Cavalli e da lui recitato nel video qui sotto.

I migranti non rubano il lavoro. Lo creano

L’imprenditrice etipe, rifugiata in Trentino, Agitu Idea Gudeta. (Foto di Graziano Panfili, Fototeca Trentino Sviluppo)

Si tende a pensare che il mercato del lavoro sia un gioco a somma zero, in cui ci si contende un numero finito di impieghi possibili», scrive l’economista Kevin Shih, del Rensselaer Polytechnic Institute, università dello Stato di New York: «la realtà però è molto più complessa. Un migrante può concorrere per il posto di lavoro degli autoctoni, è vero: ma un singolo migrante con una buona idea, può creare centinaia di nuovi lavori che altrimenti non esiterebbero», continua il ricercatore che poi cita il noto caso dell’imprenditore sudafricano Elon Musk.

Eppure, non certo ignari di come funziona il mercato del lavoro, alcuni politici – da Salvini a Grillo, a Farage, Le Pen e Orban in Europa, fino a Trump negli Stati Uniti – si rincorrono a fare propaganda sui muri contro gli stranieri. Ma è l’Eurostat a dirci che in Italia, ad esempio, ci sono più di 550mila le aziende guidate da migranti, registrate dalla fine del 2015. Corrispondono al 9,1 per cento del totale e producono 96 miliardi di euro di valore aggiunto: il 6,7 per cento della ricchezza complessiva del Paese. In piena crisi economica, tra il 2011 e il 2015, sono peraltro aumentate di oltre il 21% (con 97mila attività in più), quando, nello stesso periodo, il numero delle imprese registrate da imprenditori italiani ha rilevato un calo complessivo dello 0,9 per cento. Serve però raccontarle, evidentemente. Ed ecco quattro storie di migranti imprenditori che non ci rubano il lavoro ma lo creano.

La prima storia inizia a Rosarno, nelle afose campagne calabresi. Dove i migranti vengono assunti dai caporali per lavorare nei campi per meno di 2 euro all’ora. Dopo avere partecipato alle rivolte del 2010, scoppiate dopo l’uccisione di un migrante a colpi di pistola, Suleiman Diara era stato costretto ad abbandonare la sua vita da raccoglitore di arance. Fuggito a Roma e poi a Casale di Martignano, a trenta chilometri dalla Capitale, aveva deciso di produrre yogurt con il metodo naturale imparato in Mali. Con 30 euro ricevuti da un volontario come capitale iniziale, Suleiman e l’amico senegalese Cheikh Diop hanno comprato 15 litri di latte e tentato la fortuna. Sei anni dopo, i due amici, insieme ad altri cinque migranti, producono yogurt biologico, che consegnano in bicicletta in barattoli di vetro, che poi vengono recuperati e riciclati. Nel 2017 hanno espanso l’attività con la coltivazione di ortaggi, la cura di un parco pubblico e assunto il loro primo lavoratore, un ragazzo italiano con la sindrome di asperger: «Per chi ha la sindrome di asperger a volte è difficile integrarsi nella società, è complicato riuscire a esprimersi e a comunicare. Esattamente come succede a noi migranti», dice Diara.

«Abbiamo chiamato la nostra cooperativa sociale Barikamà, che nella lingua del Mali significa “resistenza”: perché abbiamo dovuto attraversare così tante difficoltà per aprire questa azienda, ma non ci siamo mai arresi», racconta Diara, 32 anni, arrivato in Italia con un barcone dalla Libia, nel 2008. «Adesso i guadagni vanno alla nostra cooperativa e all’agriturismo che ci ospita. Non siamo più schiavi braccianti al servizio dei caporali nei campi per 2 euro l’ora». E arrivano anche i riconoscimenti. «Un’attività agricola, che è stata definita dagli esperti delle Nazioni Unite un esempio di agri-coltura per lo sviluppo sostenibile, che se replicato può aiutare a nutrire la crescente popola-zione mondiale», scrive la Thomson Reuters Foundation.

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#IostoconGabriele perché lo dobbiamo a noi, innanzitutto

Gabriele Del Grande non è un “trattenuto” di quelli che impietosiscono in un secondo tutti gli strati del pietismo ufficiale, quello sempre ben cotto per fiaccole istantanee. Gabriele è terribilmente libero, innanzitutto. Libero di raccontare la complessità senza tradirla Gabriele ci ha raccontato i limiti della democrazia (e le sue bugie narcotizzanti) nelle zone del mondo lì dove non è concesso il vizio della curiosità.

Eppure Gabriele Del Grande è anche il documentarista che con il suo “Io sto con la sposa” (che racconta la vera storia di cinque profughi palestinesi e siriani, sbarcati a Lampedusa, che per arrivare in Svezia mettono in scena un finto matrimonio) ha dovuto finanziarsi con un crowdfunding perché tutto ciò che non rassicura (su migranti e pessime democrazie, come quella turca) deve faticare il triplo per riuscire ad avere voce.

Per questo è normale che Gabriele sia stato fermato in Turchia al confine con la Siria: se c’è un orlo del mondo che vorremmo scoprire raccontato da lui è proprio quel confine degli orrori (con la complicità dell’Europa). Gabriele è l’occhio (e la voce) che in molti vorremmo proprio lì.

Ciò che non è normale invece è che uno Stato sempre più sultanato come la Turchia (ne scrivevo giusto nel mio buongiorno di ieri) possa permettersi di trattenere un cittadino italiano con i documenti in regola senza dargli la possibilità di comunicare con l’esterno o di avvalersi di un avvocato. Dice il ministro Alfano che spedirà presto (si è svegliato, alla buon’ora) l’ambasciatore per gestire il suo rilascio (da cosa o per cosa chissà se ce lo spiegheranno) come se Erdogan non fosse lo stesso Erdogan che tratta altri 150 giornalisti allo stesso modo da mesi.

Intanto sappiamo (finalmente) che è riuscito a mettersi in contatto con l’Italia e che ha cominciato uno sciopero della fame:

Ma a noi non basta Gabriele libero. Vogliamo Gabriele libero di raccontare, anche. E anche tutti gli altri.

Buon mercoledì.

#FreeGabriele! Il commento del direttore di Left

La Fotonews | Nuovi guai per Fox News

epa05913942 A woman holds a sign with Bill O'Reilly's face in front of Fox News Channels' studios during a protest calling on the network to fire O'Reilly for sexual harassment allegations against him in New York, New York, USA, 18 April 2017. O'Reilly's show has reportedly lost up to 30 advertisers and is under increasing public pressure due to recent reports that O'Reilly and Fox has settled five cases in the past 15 years for $13 million with women working with O'Reilly. EPA/JUSTIN LANE

È la faccia più nota e popolare di Fox News, la rete conservatrice per eccellenza, ma rischia di dover lasciare. Bill O’Reilly è accusato di molestie sessuali da parte di diverse donne. Il destino di uno degli anchor man più popolari d’America verrà deciso dai vertici del gruppo di proprietà della famiglia Murdoch. I problemi per O’Reilly, al quale l’emittente aveva appena rinnovato il contratto, sono esplosi questo martedì quando un’altra donna ha denunciato il presentatore. La preoccupazione di Fox News è dovuta, oltre che a una pessima ricaduta d’immagine sulla trasmissione, al fatto che, dopo la pubblicazione questo mese di un articolo sul New York Times che descriveva dettagliatamente le accuse di molestie contro O’Reilly, più di 50 aziende hanno ritirato la pubblicità dallo show del presentatore. Se O’Reilly fosse costretto ad andarsene sarebbe comunque un duro colpo per la rete di Murdoch, non solo perché il suo programma detiene il record di ascolti fra tutti i programmi all news delle emittenti concorrenti, ma anche perché sarebbe il terzo volto importante a dare l’addio a Fox nel giro di un anno dopo l’ideatore della rete Roger E. Ailes, a sua volta licenziato a causa di accuse di molestie e della giornalista Megyn Kelly, divenuta famosa nel mondo per essere stata insultata da Trump durante un dibattito Tv durante le primarie.